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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE C’È IL “DE MEDICINA ANIMAE” E C’È RAFFAELLO ...

Lezione N.: 
6

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele  2008    12-13-14  novembre 2008

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE

C’È IL “DE MEDICINA ANIMAE” E C’È RAFFAELLO ...

     Le figure di Socrate, di Platone e di Aristotele caratterizzano il Percorso di studio che abbiamo intrapreso partendo, sei settimane fa, da quella che è stata chiamata la via del rispetto della legge e che abbiamo individuato sull’Areopago di Atene. Socrate (vissuto fino al 399 a.C.), Platone (vissuto fino al 347 a.C.) e Aristotele (vissuto fino al 322 a.C.) sono tre significativi indicatori culturali che, all’inizio del XVI secolo,  si trovano al centro del Pensiero intellettuale della cristianità (dell’identità culturale che ci è più prossima) e la centralità culturale di queste figure si manifesta soprattutto nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene che Raffaello comincia a dipingere – su mandato di papa Giulio II – nel 1508. Per questo motivo, come sappiamo, il nostro Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura avanza su due corsie: la corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia (antica) che attraversa il territorio orfico dell’Ellade.

     Questa sera stiamo ancora procedendo sulla corsia (moderna) che attraversa lo spazio rinascimentale dell’affresco intitolato La Scuola di Atene. Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo intuito quale sia l’intenzione del committente, abbiamo percepito il senso della lotta solitaria che papa Giulio II sostiene con i membri del Collegio cardinalizio per imporre la decisione di far affrescare secondo il suo punto di vista la sala, che poi diventa la Stanza della Segnatura dove (ancora oggi) il papa firma i Documenti ufficiali della Chiesa. Sappiamo che per raggiungere il suo obiettivo deve inventarsi tutta una serie di espedienti che abbiamo messo in evidenza la scorsa settimana.

     Giulio II, l’intellettuale Giuliano Della Rovere, ha ben compreso la cultura del suo tempo ed è perfettamente consapevole che la Chiesa deve fare da ago della bilancia nella disputa in corso tra le correnti dei Platonici e le sette degli Aristotelici (di cui la scorsa settimana abbiamo studiato gli elementi fondamentali). L’intellettuale Giuliano Della Rovere, nelle veste di papa Giulio II, capisce perfettamente che questa è una partita importantissima per l’acquisizione del potere culturale in Occidente alla quale il papa deve partecipare riuscendo a svolgere, preferibilmente, se ci riesce e senza proporsi ufficialmente come tale, il ruolo dell’arbitro. In questo modo la Chiesa avrebbe potuto assorbire in seno a se stessa tutta la rendita dell’investimento in intelligenza che la disputa tra Platonici e Aristotelici ha suscitato, accogliendo tutte le tendenze e disponendole sullo stesso piano sotto l’ala potente e misericordiosa del Santissimo Sacramento che sta sul gradino più alto e che riassume in sé tutta la Verità.

      Giulio II ha capito perfettamente il valore della proposizione che il medico aristotelico Pietro Pomponazzi ha messo in circolo estraendola dal famoso Commento al “De Anima” di Aristotele di Alessandro di Afrodisia (che abbiamo studiato, a grandi linee, la scorsa settimana). Questa proposizione (l’avete mandata a mente?) dice: «È leggendo l’opera dell’intelletto che si scrive il tema dell’Anima». Come abbiamo affermato, questa proposizione descrive perfettamente l’essenza dell’affresco intitolato La Scuola di Atene: infatti, per realizzarlo, bisogna saper leggere l’opera dell’intelletto; e qual è – pensa Giulio II – l’opera più efficace che l’intelletto umano abbia realizzato se non quella data dalla sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele? Giulio II pensa che la Chiesa debba fare propria la sapienza orfico-ellenistica perché è con questa sapienza, frutto dell’intelletto, che si può dare forma ultima (con la scrittura o con la dipintura) all’Anima cristiana.

     Giulio II, se avesse potuto, avrebbe fatto scrivere a Raffaello questa proposizione unificante sul frontone della basilica che fa da scenografia all’affresco che abbiamo cominciato ad osservare, ma lui non può, non deve e non vuole comunque schierarsi: non è conveniente fare delle esplicite affermazioni (e poi, abbiamo detto, lui in quanto papa, ufficialmente, non avrebbe dovuto simpatizzare proprio con Pietro Pomponazzi che è una persona rispettosa ma fermamente laica);  quindi Giulio II sa che, in certi momenti, la Chiesa deve tacere perché è preferibile che si esprima attraverso le immagini ben composte dagli artisti i quali sanno dare voce alle allusioni, e le allusioni (come ci ha insegnato Erodoto) lasciano un segno nei secoli dei secoli (possiamo negare – ci siamo domandati – questa lungimiranza?).

     La stessa cultura di cui è in possesso Giulio II appartiene anche a tutti i personaggi che ruotano intorno a lui, a cominciare dagli artisti come Raffaello e Michelangelo, tanto per fare due nomi. Nelle opere di questi personaggi traspare la grande disputa in corso tra le correnti dei Platonici e le sette degli Aristotelici, e questo clima culturale è un valore aggiunto, un valore in più, il valore della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     Perché Giulio II sceglie Raffaello per far affrescare quella che poi (lui si era inventato che potesse essere la sua camera da letto, tanto per imporre la sua scelta) che poi invece è diventata la Stanza della Segnatura? Chi è e che cosa rappresenta sul piano intellettuale e culturale di questo periodo Raffaello Sanzio e chi sono le personalità che gravitano intorno a lui? Questa sera incontreremo Raffaello che intanto – sebbene con qualche riserva – ha accettato l’incarico.

     Ma prima, come abbiamo già anticipato la scorsa settimana, dobbiamo incontrare un altro personaggio un po’ più antico. Quando, con Fedra Inghirami, siamo andati in ricognizione nell’ufficio del papa, per osservare a quali letture si stava dedicando, abbiamo visto, aperti sul suo tavolo, la Teologia platonica di Marsilio Ficino, l’Orazione sulla dignità della Persona di Giovanni Pico della Mirandola e il Commento al Commento al “De Anima” di Aristotele di Alessandro di Afrodisia di Pietro Pomponazzi, e noi sappiamo che i testi di queste opere, fondamentali per la Storia del Pensiero Umano, hanno qualcosa in comune che interessa anche al papa: esse propongono una cura per l’Anima (studium et cura). Il fatto è che la proposta di curarsi l’anima viene da personaggi che appartengono a strutture culturali come l’Accademia Platonica Fiorentina e le sette Aristoteliche che diffondono una mentalità improntata piuttosto verso la laicità che verso la religione. Giulio II – come abbiamo potuto capire e come confermano le studiose e gli studiosi – ha una mentalità profondamente laica ma non può esporsi più di tanto perché quegli ipocriti (e questo è già un complimento, abbiamo detto la scorsa settimana) dei re di Francia e di Spagna (e dovremmo aggiungere i principi di Germania) non aspettano altro che poter denunciare il papa di scarsa religiosità per poter fomentare i loro cardinali contro di lui e imporre la loro egemonia sullo Stato della Chiesa.

     Sul tavolo del papa – quando di soppiatto siamo entrati nel suo ufficio sotto l’occhio vigile del bibliotecario Fedra Inghirami – abbiamo visto, sul suo tavolo, oltre a quelli di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola e di Pietro Pomponazzi, anche un altro libro, chiuso, perché probabilmente è già stato letto, intitolato De medicina animae cioè (è facile tradurre dal latino) La medicina dell’anima. Questo è un trattato scritto da un certo Hugone de Folieto, e sulla copertina di questo testo (sulla copertina di cuoio) abbiamo letto anche una data: anno 1140.

     Che cosa sta facendo Giulio II, perché va così indietro nel tempo (di circa tre secoli e mezzo) con le sue letture? Lo sappiamo già – lo abbiamo già capito – che, per giustificare il suo operato, Giulio II vuole dimostrare che le idee (orfico-alessandrine) che sta coltivando da intellettuale platonico che apprezza l’Aristotelismo, sono già penetrate da tempo nella tradizione della Chiesa e quindi può ben dare, senza alcuna remora, l’incarico a Raffaello di affrescare La Scuola di Atene nella stanza del papa. Il testo del trattato De medicina animae, La medicina dell’anima, che Giulio II cita mentre presiede il Collegio dei cardinali, offre chiara dimostrazione che, da tempo, nella tradizione della Chiesa – e ben prima dei Platonici e degli Aristotelici Rinascimentali – si è coltivata l’idea di curare l’Anima soprattutto nei laboratori culturali degli Ordini monastici pauperisti: la salvezza o la dannazione dell’Anima dipende dalla cura a cui viene sottoposta, lo studio avvicina all’idea del Bene e alla realizzazione del bene. Sappiamo che Giulio II, il quale è un francescano, ha dalla sua il favore degli Ordini monastici pauperisti e sa che, se li saprà coinvolgere, lo sosterranno in questa sua azione.

     Chi è il monaco – prima agostiniano e poi benedettino – autore del trattato De medicina animae? Chi è Hugone de Folieto? Questa domanda ci permette – usando il tempo in modo diacronico – di fare una temporanea immersione nella storia e nella cultura del Medioevo, nel XII secolo.

     Il trattato De medicina animae non è andato perduto perché le due copie manoscritte esistenti sono state conservate presso la celebre abbazia di San Vittore dove è stato abate il famoso Ugo di San Vittore (1100 circa-1141) autore di molte opere importanti tra cui il Didascalicon (un trattato di pedagogia su come imparare a studiare le Arti, ad approfondire la Teologia e a fare l’esegesi della Sacra Scrittura). L’abbazia di San Vittore è stata fondata nel 1108 (quindi questa sera cogliamo anche l’occasione per celebrare un importante compleanno: quello dell’abbazia di San Vittore), è stata fondata 900 anni fa da una comunità di monaci di tendenza agostiniana, fuori Parigi, in un’ansa della Senna. Nel XII secolo l’abbazia di San Vittore è stata la sede di un’importante Scuola teologica, la Scuola di San Vittore (siamo già stati ospiti di questo posto un po’ di anni fa), che ha cercato di operare una sintesi (grandiosa) tra il misticismo di Bernardo di Clervaux, il pensiero dialettico di Abelardo e il naturalismo della Scuola di Chartres: ora, di questa sintesi non possiamo dire altro perché ci mancano le competenze specifiche, ma quando torneremo, ancora, in modo sistematico a viaggiare nel Medioevo saremo necessariamente ospiti di San Vittore. A San Vittore lo stile di vita è molto spartano: si coltiva un severo misticismo contemplativo impostato su una solida cultura materiale. Ecco perché, nella biblioteca di San Vittore, è stato conservato con cura un trattato come il De medicina animae.

     Le studiose e gli studiosi si sono domandati se questo trattato sia stato anche scritto a San Vittore, ma non sembra possibile; inoltre, è probabile che la data 1140, che è impressa sulla copertina del libro conservato nella biblioteca vaticana e che sta sul tavolo dell’ufficio di Giulio II, non sia la data di composizione; forse potrebbe essere la data di trascrizione ma – a detta delle esperte e degli esperti di filologia medioevale – ci sono una serie di indizi che fanno presumere che il De medicina animae sia stato composto, e anche trascritto a San Vittore, prima del 1140; e allora: a che cosa corrisponde questa data che Giulio II vuole mettere in mostra?

     Procediamo con ordine: Hugone de Folieto può essere definito uno scienziato, ed è contemporaneo – e probabilmente ne sente l’influenza – di Ildegarda di Bingen (1098-1179), un’altra straordinaria figura di monaca, scienziata e mistica, che abbiamo incontrato a suo tempo e che incontreremo ancora, perché certi personaggi hanno lasciato il segno nella Storia del Pensiero Umano e hanno sempre qualcosa da dire alla nostra intelligenza.

     Hugone de Folieto è nato nella regione della Piccardia (conoscete la regione francese della Picardia?), è stato monaco agostiniano a Corbie, poi è passato all’ordine benedettino e diventa priore dell’abbazia di Amiens.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Hai mai visitato la città di Amiens? Amiens si trova a 150 chilometri a nord di Parigi, sul fiume Somme, e in questa città si trova la famosa cattedrale di Notre-Dame, che è il più completo esempio di architettura gotica del XIII secolo e che risulta essere la più grande cattedrale di Francia, una delle più grandi d’Europa

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     Hugone de Folieto è stato priore dell’importante abbazia di Amiens, ma la sua carriera ecclesiastica non si ferma: è diventato anche cardinale. Ma Ugone de Folieto ci teneva davvero a diventare cardinale? Non ci teneva affatto. Ma come si poteva diventare cardinali proprio malgrado, visto che Hugone de Folieto era lontano da Roma tanto materialmente quanto spiritualmente e considerava una punizione piuttosto che un privilegio entrare a far parte della gerarchia dello Stato pontificio?

     Giulio II utilizza l’opera di Ugone de Folieto per imporre la sua linea ideologica moderna: Giulio II (come afferma l’odierna indagine storica che rivaluta molti aspetti del suo pontificato): porta la Chiesa nella modernità e utilizza la tradizione e la storia del Medioevo per superare il Medioevo stesso, recuperando e conservando ciò che ritiene culturalmente valido (soprattutto la tradizione della filosofia Scolastica evolutasi sulla scia di Socrate, di Platone e di Aristotele) e cercando di rimuovere una serie di vizi (come il feroce scontro tra cardinali di nazionalità diverse asserviti agli interessi dei loro re e dei loro principi piuttosto che fedeli al papa), un malcostume che metteva a repentaglio l’unità della Chiesa, indebolendone il prestigio sul piano internazionale e sul piano culturale. Purtroppo (come pensano le storiche e gli storici contemporanei) l’esempio di Giulio II non viene seguito e l’incapacità nella gestione della crisi conseguente alle Novantacinque tesi di Wittemberg (1517) di Martin Lutero porta ad una spaccatura insanabile nella Chiesa e nell’Europa perché i papi (successori di Giulio II) reagiscono in modo non autorevole ma autoritario senza la capacità di mediare e di assorbire le giuste istanze della Riforma di cui la Chiesa aveva bisogno. Quindi, per capire la situazione, e soprattutto per capire il piano d’azione di Giulio II, dobbiamo addentarci, per brevissimo tratto, in pieno Medioevo, all’epoca di Hugone de Folieto.

     In quali circostanze Hugone de Folieto diventa (suo malgrado) cardinale? Voi sapete che quando i protagonisti della narrazione storica sono i papi di solito comincia lo spasso: non sto facendo un’affermazione blasfema! Il fatto è – e lo abbiamo ripetuto molte volte – che, quando sono coinvolti i papi, lo studio della storia (ma lo studio in genere) diventa spesso molto divertente, ricco di colpi di scena e, a volte, di situazioni che rasentano la comicità.

     Dobbiamo sapere che il 13 febbraio del 1130 (una giornata davvero particolare) muore il papa Onorio II,di buon ora, alle cinque del mattino. Alle dieci del mattino in San Gregorio al Celio si riuniscono i cardinali e prima di mezzogiorno hanno già eletto il nuovo papa: è Gregorio dei Papareschi (appartenente ad una delle famiglie romane dominanti, la più potente, in questo momento, insieme a quella dei Pierleoni: tra queste due famiglie esiste una esplicita conflittualità che sfocia spesso in atti di violenza), prendendo il nome di Innocenzo II. Gregorio dei Papareschi è una persona in gamba, è un politico competente, è un esperto diplomatico ed è stato legato pontificio in Francia e in Germania. In questa veste ha partecipato, nel 1122, alla stipula del Concordato di Worms tra il papa e l’imperatore (al quale bisognava tenere testa) che conclude una fase della cosiddetta Lotta per le investiture quando, in pieno feudalesimo, l’imperatore (forte della sua potenza militare) pretendeva che il papa (investisse) consacrasse vescovi i suoi vassalli, in modo che i feudatari potessero esercitare il potere civile e il potere religioso anche se, naturalmente, i vassalli dell’imperatore non possedevano i requisiti che la missione di vescovo comporta: il Concordato di Worms prevede che sia il papa a scegliere per primo i vescovi e poi l’imperatore li nomina anche vassalli (i vescovi-conti). Insomma, dal rapido conclave del 13 febbraio del 1130 sembra uscita la persona adatta per fare il papa. In realtà le cose, nelle ore successive (questa è davvero una giornata particolare) si complicano: perché, per quale motivo? Per il motivo che al Celio, a eleggere papa Innocenzo II, c’erano solo quindici cardinali su trentanove elettori: e gli altri ventiquattro dove sono, quale altro invito allettante (gettone di presenza o minaccia) hanno ricevuto? Gli altri ventiquattro si riuniscono alle ore quindici dello stesso giorno (è una giornata particolare il 13 febbraio del 1130!), nella basilica di San Marco e, prima delle diciassette, eleggono papa il cardinale Pietro Pierleoni, e, come sappiamo, la famiglia Pierleoni è nemica acerrima dei Papareschi: il cardinale Pietro Pierleoni assunse il nome di Anacleto II (è proprio vero che un papa tira l’altro!). Il Pierleoni, papa Anacleto II (il papa delle ore 15), appoggiato dal re normanno Ruggero di Sicilia (con il quale era già d’accordo) s’impadronisce di Roma entro le ore diciotto. A questo punto il Papareschi, papa Innocenzo II (il papa di mezzogiorno), prende una rapida decisione e al galoppo, in sella a un veloce destriero, giunge al porto di Ostia dove s’imbarca sul vascello delle ore diciannove e, con il vento in favore, prima della mezzanotte è già a Pisa: che giornata storica memorabile quella del 13 febbraio del 1130! Innocenzo II Papareschi (il papa di mezzogiorno) non si arrende, e il giorno successivo parte dal porto di Pisa e naviga fino in Francia e si trasferisce a Etampes dove lavora (è un buon diplomatico) per convocare il Concilio Ecumenico in modo da emarginare Anacleto II Pierleoni (il papa delle ore 15), che se ne sta asserragliato a Roma, protetto dall’esercito del re Normanno di Sicilia. Il Concilio si riunisce a Etampes, e lo studio fa venire voglia di viaggiare: siete mai state, siete mai stati a Etampes?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La cittadina di Etampes si trova nell’Ile de France, a 50 chilometri a sud di Parigi, a metà strada tra Chartres e Fontainebleau, è situata nella valle della Chalouette e dalla Juine, e ci sono molti monumenti interessanti

Con l’enciclopedia, con la guida della Francia o sulla rete, fai una visita a Etampes, buon viaggio

     Ebbene, a Etampes, nel settembre del 1130, si tiene il Concilio e sono presenti tutti i rappresentanti dei grandi Ordini monastici. Per tutte le congregazioni monastiche (che hanno trovato un accordo), per la Chiesa delle abbazie parla Bernardo di Clervaux, il quale, nel nome dell’autorità del Concilio dichiara Innocenzo II, Gregorio dei Papareschi, papa legittimo e denuncia Anacleto II, Pietro dei Pierleoni, come antipapa e lo dichiara privo di legittimità. Come possiamo constatare siamo in pieno scisma, uno dei tanti: questo è quello che agita profondamente la Chiesa dal 1130 al 1139. Ma il dettato del Concilio di Etampes viene accolto da quasi tutta la Cristianità e si forma una coalizione che vede la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, Lotario re di Germania e d’Italia schierati contro il normanno Ruggero di Sicilia. Questa coalizione vuole riportare Innocenzo II a Roma come papa legittimo, cosa che avviene nel 1131. Ma l’antipapa Anacleto II non si dimette e continua a regnare barricato in San Pietro, e questo fino al 1138 quando Anacleto II muore. La famiglia Pierleoni, però, sempre sotto la protezione dei Normanni, elegge subito un nuovo antipapa, il cardinale Gregorio dei Conti, che prende il nome di Vittore IV. È necessario, quindi, ancora un Concilio Lateranense e soprattutto la forza degli Ordini monastici (la Chiesa delle abbazie) con il loro portavoce Bernardo di Clervaux, per far dimettere Vittore IV e far finire lo scisma nel 1139.

     Nel 1140 (ed ecco l’anno fatidico a cui volevamo arrivare) Innocenzo II, tornato ad essere l’unico papa legittimo, ritiene opportuno fare cardinali un certo numero di abati dei grandi monasteri che lo avevano sostenuto e avevano scongiurato lo scisma. È in questa occasione – a ridosso delle circostanze che abbiamo narrato – che Hugone de Folieto viene nominato cardinale: è l’anno 1140.

     Il 1140 è la data incisa sulla copertina della copia del De medicina animae che ora è sul tavolo dell’ufficio di papa Giulio II e sappiamo che non è l’anno in cui questo trattato è stato scritto, né l’anno in cui è stato ricopiato, e allora? L’ipotesi più attendibile è che sia stato papa Giulio II a far incidere sul frontespizio del De medicina animae, conservato nella Biblioteca vaticana, questa data in modo da ribadire che Ugone de Folieto non era solo un monaco qualunque ma bensì un cardinale e quindi la sua opera è assai autorevole! Inoltre come cardinale ha operato per dare unità e autorevolezza alla Chiesa: Giulio II mette in circolazione oggetti culturali per mandare messaggi al suo Collegio cardinalizio nel quale molti prelati continuano a coltivare antichi vizi, mentre farebbero bene a curarsi l’Anima.

     Come abbiamo detto, Ugone de Folieto non è per nulla entusiasta della promozione, accetta per ubbidienza per non incrinare minimamente l’unità della Chiesa, però dà tacitamente un segno di disapprovazione verso la curia romana perché non si è mai mosso dalle sue abbazie, che considera lo zoccolo duro della Chiesa, e non ha mai partecipato ad alcun conclave: sono stati ben cinque i conclavi che ha disertato, anche per il terrore che ha di essere eletto papa e nessuno gli ha mai detto nulla perché avrebbe potuto essere un pericoloso concorrente.

     Hugone de Folieto è cardinale ma, ancora per più di trent’anni, continua a vivere come un monaco e come uno scienziato (lavora, prega e studia, secondo la Regola benedettina), muore intorno al 1174: non conosciamo neppure la data precisa della sua morte, ma è solo un dettaglio, di fronte all’eternità avrebbe risposto Hugone in coerenza con il suo stile di vita, lo stile di tutte coloro e di tutti coloro che si riconoscono in prima istanza nella Chiesa delle abbazie, e poi nella Chiesa di Roma.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Le abbazie, le badie, i monasteri, i conventi sono situati spesso in luoghi molto suggestivi: quali ricordi sono legati alla visita ad una di queste strutture?

Scrivi quattro righe in proposito

     Ma ora occupiamoci dell’opera di Hugone de Folieto: cosa contiene il trattato intitolato De medicina animae? Giulio II utilizza questo testo – insieme ad altri testi, tre in particolare, che abbiamo già preso in considerazione negli itinerari precedenti – per dimostrare che le forme e i contenuti derivanti dalla sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele (questi sono i protagonisti principali del nostro Percorso ai quali, con gradualità, ci stiamo avvicinando) determinano un importante filo conduttore sul quale si è sviluppata la tradizione della Chiesa e l’affresco (di cui la maggioranza assoluta del Collegio cardinalizio disapprova la commissione) intitolato La Scuola di Atene non è un oggetto fine a se stesso, non è un prodotto di mecenatismo, ma un’icona che deve spiegare questo concetto (che deve dare visibilità a questo filo conduttore): esso è quindi un mezzo che porta la Ragione (il Logos), il Mondo (il Kosmos) e l’Anima (la Psiché) non a sostenere le opinioni di questa o di quella corrente Platonica o setta Aristotelica, bensì deve condurre tutto un Pensiero sotto l’ala salvifica del Santissimo Sacramento che sta sul gradino più alto della scala dei valori eterni che la Chiesa proclama. Giulio II (come sostiene la storiografia contemporanea) non è stato un grande mecenate ma è stato un esperto ideologo.

     Giulio II capisce che nel trattato intitolato De medicina animae, La medicina dell’anima (frutto del lavoro di un monaco-cardinale che opera per dare unità e autorevolezza alla Chiesa) c’è già in incubazione l’età moderna. Questa constatazione permette a Giulio II di sostenere la tesi che le idee (per dirla con Platone) dell’età moderna stanno da secoli, in potenza (per dirla con Aristotele), nella tradizione della Chiesa e, di conseguenza, visto che i tempi sono maturi, bisogna portare alla luce (far partorire, per dirla con Socrate) questi principi, utili per dare autorevolezza intellettuale e prestigio culturale alla Cristianità.

     Hugone de Folieto, nel suo trattato De medicina animae, La medicina dell’anima, definisce l’Essere umano come un microcosmo (ed è la stessa definizione che usano, più di tre secoli dopo in pieno Rinascimento, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Pietro Pomponazzi, e di costoro noi conosciamo le opere che sono aperte sul tavolo nell’ufficio di papa Giulio II). Il definire l’Essere umano come un microcosmo significa che ogni persona è un mondo intero, che è un impasto di materia naturale e di materia spirituale, un amalgama di corpo e di anima. Queste idee che Hugone sintetizza nel suo trattato penetrano e si sviluppano in molti campi di azione tipici del XII secolo: uno di questi campi d’azione è l’Architettura.

     Queste idee servono anche per concepire la realizzazione di quell’organismo che è la Cattedrale gotica, e che risulta essere un impasto di materia naturale e di materia spirituale. Ed è per questo motivo che, se entriamo in una Cattedrale gotica, proviamo delle sensazioni e delle emozioni che ci fanno percepire (se possediamo le competenze intellettuali necessarie) il concetto di microcosmo e l’idea di amalgama tra il corpo e l’anima. La Cattedrale – progettata e costruita razionalmente (mediante la Ragione, il logos) – con le sue altezze e con i suoi giochi di luci e di ombre è una macchina psicologica che ci fa sentire piccole, piccoli (micron) ma la sua ampia superficie è un Mondo (un kosmos) che si lascia conquistare perché questo vasto spazio è un luogo dell’Anima (psiche) e coincide con la nostra interiorità. Avete notato come i tre elementi fondamentali – l’Anima, l’Ordine del Mondo e la Ragione – che caratterizzano la disputa tra le correnti Platoniche e Aristoteliche in età moderna diano già forma alla tradizione cristiana medioevale che è andata elaborando i concetti-cardine della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     Hugone de Folieto, nel suo trattato De medicina animae, puntualizza in termini scientifici che cosa comporta per la persona essere un microcosmo. La persona – scrive Hugone –, essendo un microcosmo (avendo tutto il mondo, materiale e spirituale, in se stessa), è un laboratorio, così come è un laboratorio l’abbazia. Anche l’abbazia (come la Cattedrale, e ancora di più della Cattedrale) è un organismo dove si amalgamano la materia naturale e la materia spirituale, dove il corpo e l’anima trovano il loro luogo d’incontro, e dove l’esteriorità e l’interiorità scoprono un loro possibile equilibrio: sarà forse per questo che, spesso, quando visitiamo un’abbazia proviamo un senso di quiete, una sensazione di tranquillità, una tendenza all’equilibrio e un’aspirazione all’armonia.

     Hugone de Folieto, nel suo trattato De medicina animae, puntualizza in termini medici (e questa è la parte della sua opera che ha avuto più eco nel mondo della cultura) che cosa comporta per la persona essere un microcosmo, che cosa implica avere tutto il mondo in se stessa. Il corpo umano – afferma Hugone, secondo una tradizione che parte nel V secolo a.C. dall’isola di Cos con Ippocrate –  funziona in virtù del sistema dei quattro umori. La parola umore in greco corrisponde al termine chymosquindi il sistema dei quattro umori si chiama Tetra-chymia (c’è qualcosa di pitagorico in questo termine: la  Tetraktys è il triangolo pitagorico che contiene la decade, che corrisponde alla totalità, alla pienezza, e Pitagora sta sulla nostra strada e prossimamente lo incontreremo).

     Come è congegnato li sistema della Tetra-chymia, codificato da Hugone de Folieto? Quali sono, sul piano naturale e sul piano dei corpi, le corrispondenze umorali? Nel corpo ci sono quattro umori: il Sangue, la Bile rossa, la Bile nera e la Flemma.

     Questi umori sono legati al ciclo delle quattro stagioni: la Primavera è il tempo del Sangue, l’Estate è il tempo della Bile rossa, l’Autunno è il tempo della Bile nera e l’Inverno è il tempo della Flemma.

     Gli umori poi sono legati alle quattro età della vita: l’Infanzia è l’età del Sangue, la Giovinezza è l’età della Bile rossa, la Maturità è l’età della Bile nera e la Vecchiaia è l’età della Flemma.

     Gli umori sono legati anche al clima: il Caldo-umido è associato al Sangue, il Caldo- secco è associato alla Bile rossa, il Freddo-secco è associato alla Bile nera e il   Freddo-umido è associato alla Flemma.

     Sul piano dei temperamenti dell’anima, quali sono le corrispondenze umorali? C’è l’umore Sanguigno, c’è l’umore Collerico, c’è l’umore Melanconico e c’è l’umore Flemmatico.

     Gli umori, a loro volta, corrispondono agli elementi del Cosmo: l’umore Sanguigno è in relazione al Fuoco, l’umore Collerico è in relazione all’Aria, l’umore Melanconico è in relazione all’Acqua e l’umore Flemmatico è in relazione alla Terra.

     Gli umori corrispondono anche agli elementi dell’anima intellettiva: l’umore Sanguigno è in simmetria con l’Intelletto, l’umore Collerico è in simmetria con la Mente, l’umore Melanconico è in simmetria con l’Ingegno e l’umore Flemmatico è in simmetria con la Ragione.

     Naturalmente gli umori influenzano le capacità applicative dell’anima intellettiva: l’umore Sanguigno influisce sulla Conoscenza, l’umore Collerico sulla Comprensione, l’umore Melanconico sull’Inventiva e l’umore Flemmatico sulla Valutazione-

     Gli umori corrispondono anche alle capacità psicologiche dell’anima intellettiva: l’umore Sanguigno ispira la Sottigliezza, l’umore Collerico sprona alla Purezza, l’umore Melanconico favorisce la Mobilità e l’umore Flemmatico asseconda la Stabilità.

     Hugone de Folieto pensa inoltre che nella lettura del Mondo e della Sacra Scrittura ci siano quattro sensi: il letterale, l’allegorico, il morale e l’anagogico (il termine anagogia anagogia in greco significa elevazione e fa riferimento all’elevazione dell’anima nella contemplazione delle cose divine, e anche all’interpretazione in senso spirituale di un testo). I quattro sensi della lettura del Mondo e della Sacra Scrittura a che cosa corrispondono? Il senso letterale corrisponde al corpo, il senso allegorico all’anima, il senso morale alla terra e il senso anagogico (l’elevazione) al cielo.

     Come si fa a non rimanere affascinati da questo sistema che porta in sé anche gli elementi fondamentali della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele? Hugone de Folieto afferma che è necessario cercare un equilibrio tra tutte le componenti del sistema della Tetra-chymia in modo da produrre ordine interiore ed esteriore per poter aspirare ad entrare nell’Ordine cosmico.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale umore prevale in voi solitamente: sanguigno, collerico, melanconico o flemmatico      ?… 

Basta una parola per rispondere, scrivila

     Il De medicina animae è un testo pedagogico scritto per l’abbazia, a edificazione dei monaci, difatti si presenta sotto forma di lettera. Per favorire il buon funzionamento degli umori – l’essere umano li sperimenta tutti e quattro – sono previsti dei rimedi che vengono assegnati per creare l’equilibrio del sistema. I rimedi vengono assegnati con un criterio allopatico (contraria contrariis curantur, i contrari sono curati dai contrari), per cui caldo-secco cura freddo e umido e via dicendo: è il sistema su cui si basa l’omeopatia.

     Il testo del De medicina animae che possediamo è formato da 22 capitoli, mancano i capitoli sui rimedi. Ora leggiamo due pagine del De medicina animae:

LEGERE MULTUM….

Hugone de Folieto, De medicina animae (prima del 1140)

Fratello carissimo, mi preghi di trasmetterti quanto sulla medicina dell’anima cominciai a scrivere, conformemente al medico Giovanni, poiché lo credi utile a molti. Se lo si considererà con attenzione, esso potrà conservare l’anima incolume e ad un tempo garantire la salute del corpo, insegnando in breve quanto giovi o nuoccia sia alla prima che al secondo.

Gli antichi chiamavano l’Essere umano microcosmo, cioè piccolo mondo, per la somiglianza della sua figura al mondo maggiore. Inoltre sia la composizione del corpo umano sia la costituzione del mondo possiedono grande armonia, cosicché il cielo si assimila alla testa, l’aria al petto, il mare al ventre e la terra alle estremità del corpo. Dio risiede in cielo e la mente umana tiene principato nel capo; in Dio sono tre Persone, Padre Figlio e Spirito Santo, e nella testa risiedono tre potenze: intelletto, ragione e memoria.

Nel cielo stanno pure due grandi luminari, il sole e la luna, così nella testa due occhi illuminano il firmamento del volto. Il sole e la luna, illuminando il dì e la notte, assicurano alle persone col loro chiarore il lume cognitivo delle cose; similmente, gli occhi assumono in sé con la loro acutezza le immagini delle cose e in tal modo, annunciandole alla ragione tramite l’intelletto, ci rendono certi di ciò che vediamo.

E come nell’aria volano le nubi, così avviene dei pensieri nel petto, che talvolta ci portano il chiarore della letizia, talaltra l’oscurità della tristezza; o vi insorgono i venti delle tentazioni, che turbano l’animo: così nell’aere squarciato balena il lampo dell’ira, seguito dal fuoco dell’odio, una combustione dell’animo che tanto si estende dall’alto, tanto danneggia tutto ciò che trova sotto di sé. Ma come a volte le piogge, le nevi o la grandine trattengono queste tempeste, così un sermone di santa esortazione, un blando lenimento consolatorio o un aspro rimprovero placano quelle dell’animo. E come l’acqua si raccoglie nel mare, così fanno nel ventre gli umori.

Quattro sono gli elementi del cosmo: fuoco, aria, terra e acqua. Quattro umori ha il corpo umano: sangue, collera rossa, collera nera e flemma. Quattro anche i tempi dell’anno: primavera, estate, autunno e inverno. Il fuoco è di natura calda e secca, l’aria calda e umida, la terra fredda e secca, l’acqua fredda e umida.  Così il sangue è caldo e umido, la collera rossa è calda e secca, la collera nera è fredda e secca, il flemma freddo e umido.

La primavera pure è calda e umida, l’estate calda e secca, l’autunno freddo e secco, l’inverno freddo e umido. Gli elementi dunque corrispondono agli umori, e gli umori alle stagioni. Ma si può ugualmente dire per similitudine, che l’anima ha i suoi elementi: si può paragonare al fuoco la sottigliezza dell’intelletto, all’aria la purezza della mente, alla terra la stabilità della ragione, all’acqua la mobilità dell’ingegno.

In modo simile l’animo si serve dei quattro umori: col sangue mostra la dolcezza, con la collera rossa l’amarezza, con la collera nera la tristezza e con la flemma la compostezza della mente. Dicono infatti i medici che i sanguigni sono dolci, i collerici amari, i melanconici tristi e i flemmatici composti negli atteggiamenti.

Similmente vi è dolcezza nella contemplazione, amarezza nel ricordo dei peccati, tristezza nel commetterli, compostezza nel purgarsene.

Si deve inoltre badare che la dolcezza spirituale non sia turbata dall’amarezza temporale, o l’amarezza ottenuta dal pensiero dei peccati non sia corrotta dalla dolcezza carnale; che l’utile tristezza non sia turbata dall’ozio o dall’inerzia e l’armonia della mente sconvolta da cose illecite.

Anche l’anima si dice abbia le sue stagioni: la carità sta per il calore dell’estate, il torpore della tentazione per il freddo invernale, la temperanza e la moderazione per l’autunno e la primavera.

Sii dunque temperato nel cuore e moderato nell’azione, poiché l’anima che custodisce il proprio equilibrio vive in salute.

     Questo brano è molto significativo e si capisce perché la forma e il contenuto del trattato De medicina animae – magari dimenticandosi dell’autore – ha avuto un grande successo nel Rinascimento. La fortuna del sistema degli umori, della Tetra-chymia di Hugone de Folieto, è dipesa dal fatto che tanto le correnti Platoniche (Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Bramante, Raffaello) quanto le sette Aristoteliche (Pietro Pomponazzi) se ne sono servite per riflettere sui temi dell’Anima, dell’Ordine del Mondo e della Ragione. Il successo del trattato De medicina animae è stato poi amplificato anche dalla sponsorizzazione che ne ha fatto Giulio II: qual è lo spunto che Giulio II ha preso da quest’opera? Giulio II non è interessato dal carattere scientifico e medico di questo trattato ma dalla sua struttura ideologica: il De medicina animae è una cattedrale del pensiero perché Hugone de Folieto cristianizza le virtù codificate dal movimento della sapienza poetica orfica e le utilizza come solidissime fondamenta sulle quali costruire lo stile di vita delle abbazie. L’abbazia è il luogo dell’Anima (Psiché), dove l’anima che custodisce il proprio equilibrio vive in salute, è lo spazio dove si realizza l’Ordine del Mondo (il Kosmos) ed è il laboratorio dove la Ragione (il Logos) si misura con i propri limiti. Giulio II sente la nostalgia della stagione delle grandi abbazie, è convinto che abbiano salvato l’Europa dalla sfacelo della crisi economica, culturale e morale e vorrebbe che anche la Chiesa potesse diventare, nell’ottica dell’età moderna, una struttura di questo genere.

     Se leggiamo il De medicina animae con l’occhio di Giulio II (non è difficile) ci rendiamo conto che questo trattato è davvero una cattedrale del pensiero, un grande affresco che raccoglie le parole-chiave e le idee-cardine di tutto il movimento della cultura orfica, dove non solo emergono i concetti della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele, e di Epicuro e degli Stoici ma anche i presupposti intellettuali da cui hanno attinto: troviamo nella prosa di Hugone (e le due pagine che abbiamo letto sono già esemplificative) molti frammenti Orfici, i concetti della Scuola fisica di Mileto, l’umanesimo di Esiodo, le idee matematiche di Pitagora, il concetto degli opposti di Eraclito, la metafisica dell’Essere della Scuola di Elea di Parmenide, le quattro radici di Empedocle, il concetto dell’Intelletto di Anassagora, il materialismo di Democrito. Se leggiamo il De medicina animae con l’occhio di Giulio II ci rendiamo conto che questo trattato è una summa del pensiero orfico-ellenistico dal quale il Cristianesimo ha tratto le sue basi ideologiche. Le ultime righe del De medicina animae che abbiamo letto sono esemplari: Sii dunque temperato nel cuore e moderato nell’azione, poiché l’anima che custodisce il proprio equilibrio vive in salute. Ebbene, la temperanza, la moderazione, l’equilibrio sono le virtù basilari esaltate dall’Etica di Aristotele: Hugone de Folieto le propone come cura per la salute dell’Anima cristiana.

     Il De medicina animae di Hugone de Folieto diventa un modello sul quale elaborare il progetto per la realizzazione de La Scuola di Atene. Difatti La Scuola di Atene è una cattedrale del Pensiero orfico-ellenistico che si presenta con ben altro impatto visivo e spettacolare rispetto al grigiore di un manoscritto medioevale, e La Scuola di Atene (ed è questo che Giulio II chiede a Raffaello) mette in evidenza quanto colore e quanta varietà di forme ci sia nei grigi trattati medioevali.

     Quando papa Giulio II convoca Raffaello per proporgli il lavoro che ha in mente di fargli fare (non è un incontro molto cordiale, Giulio II è piuttosto burbero) gli propone la lettura dei testi che sono sul suo tavolo. Raffaello fa una bella figura (lasciando trasparire un certo autocompiacimento, essendo piuttosto vanitoso) dichiarando che aveva già letto le opere di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola e di Pietro Pomponazzi e poi fa capire al papa che lui non era molto intenzionato a perder tempo nella lettura di un trattato di un monaco medioevale: che cosa avrebbe avuto da imparare di nuovo? Giulio II capisce la situazione, e non gradisce la mielosa arroganza del giovanissimo e già famoso e costoso pittore, e allora fa entrare Fedra Inghirami, il bibliotecario vaticano (che era già in attesa fuori dalla porta dell’ufficio), e gli ordina di mettersi a disposizione di Raffaello il quale ha manifestato un vivo interesse per la lettura del De medicina animae di Hugone de Folieto, ma temendo di trovarsi in difficoltà nell’interpretazione di un testo così antico aveva chiesto umilmente aiuto: sarai tu Fedra a leggerglielo – dice bonariamente Giulio II – e a farglielo comprendere, potete cominciare anche subito. Raffaello capisce che con Giulio II non si scherza e, siccome è una persona intelligente, sa che deve rigare diritto perché questa commissione rappresenta una grande occasione non solo per guadagnare ma soprattutto per passare alla storia: per sfruttare questa opportunità che gli si presenta, decide di potersi anche sottoporre alla noia dell’ascolto della prosa di un trattato medioevale. Ma Raffaello si sbaglia (e di qui comincia il suo apprezzamento per Giulio II, per l’intellettuale Giuliano della Rovere) perché il trattato di Hugone, letto e commentato da Fedra che di Letteratura medioevale se ne intende, gli si presenta come una miniera di temi, di concetti, di parole utili: Raffaello si trova subito a suo agio in questo sistema degli umori, capisce a che cosa si riferisce Giulio II quando parla di cattedrale del Pensieroe trova, nella Tetra-chymia, la radice culturale di alcune parole come dolcezza e malinconia di cui riesce a tradurre in immagini e con i colori la loro essenza umorale.

     E così, sul nostro itinerario, è entrato in scena Raffaello. Studiare la vita e l’opera di Raffaello comporterebbe un Percorso intero, noi ci limitiamo a catalogare alcuni dati utili in funzione del nostro viaggio. E poi di fascicoli su Raffaello sono piene le biblioteche quindi non abbiamo difficoltà ad avvicinarci alle opere di questo famosissimo artista.

     Raffaello nasce ad Urbino – una città, non lontana da qui, che vale la pena visitare –, nasce il 6 aprile 1483 da Magia Ciarla e Giovanni Santi che è un poeta, un pittore, un uomo di cultura impiegato alla corte dei Montefeltro. Quindi è in famiglia che Raffaello riceve il primo importante stimolo alla cultura. Nel 1494 Raffaello rimane orfano dei genitori e viene affidato allo zio paterno, Bartolomeo Santi, che è un prete e che si occupa del suo mantenimento e della sua formazione; ma ancora di più, della formazione di Raffaello si occupa lo zio materno, Simone Ciarla. Bartolomeo Santi (lo zio paterno) e Simone Ciarla (lo zio materno) sono due tipi molto diversi tra loro ma proprio per questo risultano complementari nel processo di formazione di Raffaello: dallo zio prete impara come ci si comporta nei confronti delle autorità ecclesiastiche e dallo zio laico impara a comportarsi nella società civile.

     Raffaello fin da piccolo sicuramente frequenta una Scuola d’arte, ma non abbiamo notizie precise in proposito. Nel maggio del 1500 Raffaello parte per Perugia dove entra, come apprendista, nella bottega di Pietro Vannucci, detto il Perugino. Comincia presto a distinguersi dagli altri apprendisti, a diventare l’aiutante del maestro, e anche a lavorare in proprio, a contratto, specialmente con Evangelista di Pian di Meleto, un pittore-imprenditore di Urbino che vince spesso delle gare d’appalto. I documenti che possediamo attestano che nei contratti, dal 1502, Raffaello viene chiamato maestro, sebbene abbia 19 anni soltanto.

     Anche Perugia diventa piccola per lui e nell’autunno del 1504 si trasferisce a Firenze, che è un ambiente molto stimolante dove in questo momento stanno lavorando due tipi: (un certo) Michelangelo Buonarroti (1475-1564), giovane scultore piuttosto collerico (abbiamo parlato di umori fino adesso) e un certo Leonardo da Vinci (1452-1519), più vecchio di ventitré anni e altrettanto collerico che si ostina a voler fare il pittore. Questi due tipi si sfidano in continuazione pubblicamente (sulle piazze fiorentine) sul tema del contrasto tra la scultura e la pittura: è uno spasso starli a sentire perché le loro litigate sono delle vere e proprie lezioni e c’è molto da imparare e tutto questo è molto stimolante per Raffaello, il quale impara. Le studiose e gli studiosi di Storia dell’Arte ci dicono che Raffaello, in pittura, rappresenta una sintesi delle caratteristiche migliori di questi due personaggi: Leonardo e Michelangelo.

     A Firenze Raffaello lavora sul soggetto delle Madonne col bambino, un oggetto molto richiesto dal mercato, ed esegue anche molti ritratti. Il 1508 è un anno-chiave nella vita di Raffaello, gli giunge da Roma – come abbiamo già comunicato prima – la richiesta di lavorare per il papa (un’ambizione che tutti i pittori hanno), ci sono da affrescare le Stanze del Palazzo vaticano. Giulio II non vuole abitare dove abitava il suo predecessore e suo peggior nemico, Alessandro VI, il Borgia (lo abbiamo già incontrato qualche settimana fa), che aveva fatto arredare per sé e la sua famiglia un appartamento principesco: Giulio II lo fa smantellare. Il papa si è già assicurato l’opera di un gruppo di artisti che vanno per la maggiore: il pittore e architetto milanese Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, il senese Gian Antonio Bazzi detto il Sodoma e Pietro Vannucci detto il maestro Perugino, dal quale Raffaello, come sappiamo, è stato a bottega.

     I lavori sono a buon punto, quando Giulio II, da un giorno all’altro, licenzia tutti e, anche con il consiglio del Bramante, il sovrintendente ai lavori (il quale deve assumersi la responsabilità di questa decisione, così se la prendono con lui e non con il papa), affida al giovane Raffaello la direzione dei lavori con facoltà di cancellare tutto quello che gli altri hanno già dipinto e di ricominciare tutto da capo. Questo fatto ha costituito e costituisce un interessante tema di studio che contiene una serie di interrogativi, intanto: perché si è verificato questo avvicendamento? La risposta sta tutta nel così detto temperamento focoso (nell’umore collerico) di Giulio II? Anche questo è un motivo, però è chiaro che ci sono certamente altre ragioni ben precise. Prima di tutto Raffaello è, in questo momento, il pittore più preparato tecnicamente e intellettualmente, quindi rappresenta una risorsa che va utilizzata, e poi Raffaello – e questo fatto è emerso dopo il primo incontro con il papa, di cui abbiamo fatto il resoconto – è una persona che sa ascoltare, e Giulio II vuole essere ascoltato, vuole partecipare attivamente a la frescatura di quelle pareti, non come pittore (sembra non abbia il verso), ma come progettista, con le parole e con le idee, e vuole che in quelle icone si riconosca una tradizione intellettuale sulla quale, nei secoli, si è evoluta la dottrina della Chiesa. Giulio II non dà solo degli ordini ma imbastisce una conversazione (conosce la sapienza maieutica di Socrate, al quale ci stiamo avvicinando e la conosceremo meglio anche noi), perché pensa che il pittore non sia solo un decoratore ma debba essere un intellettuale che dà forma a concetti con le immagini.

     Raffaello, contrariamente agli altri pittori che entrano in antipatia e in contrasto con il papa, dà sempre prova di grande diplomazia sia perché è diplomatico e conosce le regole del comportamento (del perfetto Cortigiano) sia perché è anche in sintonia intellettuale con Giulio II e anche con Fedra Inghirami (e sappiamo come entrano in contatto) e anche con il Bramante (fra un po’ incontriamo questo importante personaggio): Raffaello entra in sintonia di letture, di studi, di interessi culturali con questi personaggi ed è capace di dare visibilità al Pensiero che loro coltivano. Le conversazioni tra Giulio II, Bramante, Fedra Inghirami, Raffaello, Michelangelo sono un misterioso oggetto culturale, non ne possediamo le registrazioni ma siamo al corrente di tutta una serie di indizi, di dettagli, di intuizioni che hanno prodotto nei secoli una feconda tradizione letteraria. Senza dubbio è da questo rapporto tra Raffaello e Giulio II che sono scaturiti affreschi di una bellezza straordinaria che vengono annoverati tra le creazioni più significative della storia della pittura.

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A proposito, hai visitato i Musei Vaticani, hai attraversato la Stanza della Segnatura?Peccato che c’è sempre una grande confusione (una moltitudine di pubblico) in questa Stanza

Fai un rapido resoconto: bastano quattro righe

     Raffaello lavora dal 1508 al 1511 agli affreschi della prima Stanza, quella della Segnatura (che avrebbe dovuto essere la camera da letto del papa: una menzogna a fin di bene raccontata da Giulio II per tacitare il Collegio cardinalizio che preferiva papi dediti al lusso, quindi imitabili volentieri, piuttosto che papi-monaci dediti alla cultura da guardare con diffidenza perché capaci di pretendere la povertà, la castità, l’umiltà) ma poi questa Stanza sarà adibita alla firma dei documenti ufficiali della Chiesa.

     Abbiamo detto che Raffaello è un tipo molto diplomatico e difatti, quando dà inizio alla sua opera in questa Stanza, non tocca il lavoro eseguito dal Perugino sulla volta (il Vannucci è stato il suo maestro ed è molto geloso del successo dell’allievo, meglio quindi non farlo arrabbiare ma tenerlo in considerazione), e utilizza invece l’aiuto del Sodoma, Giovanni Antonio Bazzi, che pensa e dichiara (senza crucci) che Raffaello è il pittore più bravo che ci sia e dice (con sincerità) di avere molte cose da imparare da lui e quindi assume ben volentieri il ruolo di aiutante del giovane maestro di Urbino.

     L’opera preparatoria de La Scuola di Atene – come sempre, quando si tratta di un affresco – viene eseguita da Raffaello su cartoni e le studiose e gli studiosi si sono esercitati molto su questi cartoni. Pensate che Raffaello, alla fine dell’affrescatura della Stanza si è accordato con l’incisore bolognese Marcantonio Raimondi per la realizzazione di alcune stampe tratte da questi cartoni preparatori: infatti pensa che queste sue opere sarebbero rimaste sconosciute a tutti meno a quelli che frequentavano la ristretta cerchia della corte pontificia, Raffaello non pensa – e non lo pensa nessuno nel 1511 – che questo Palazzo sarebbe diventato un museo sempre molto affollato. E allora ha promosso la diffusione delle sue opere inventando le cartoline...

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Da quale luogo, da quale posto, da quale città o paese ti stava particolarmente a cuore spedire una cartolina, e a chi?

Scrivi quattro righe in proposito, come si usa sulle cartoline

     Terminato il lavoro nella Stanza della Segnatura, nel 1511 Raffaello realizza la prima di una serie di grandi commissioni, molto redditizie, per il ricco banchiere senese Agostino Chigi che era amico e consigliere di Giulio II. Agostino Chigi è un personaggio potente, noto a tutti per il suntuoso tenore di vita e per le sue avventure galanti. Nel 1511 erano finiti i grandiosi lavori di una villa, la Farnesina, che il Chigi si era fatta costruire alle porte di Roma da Baldassarre Peruzzi (oggi è la sede del Ministero degli Esteri); qui Raffaello dipinge il famoso affresco del Trionfo di Galatea, perché la mitologia classica è molto ricercata, e per Raffaello è un vero trionfo che gli procura una grande richiesta di commissioni e così amplia l’impresa e comincia ad avvalersi di un gruppo di aiutanti: per questo motivo ricevette molte critiche (le più dure da Leonardo Sellaio). Tra gli aiuti più famosi di Raffaello ci sono i pittori Giulio Romano e Gianfrancesco Penni. Nel 1512 riprende il lavoro nelle Stanze vaticane ma Giulio II non le vede terminate perché nel febbraio del 1513 muore. Il successore Giovanni de’ Medici, papa Leone X, lo invita a continuare il lavoro nelle Stanze.

     Nel 1514 – è l’anno in cui dipinge anche la famosa Madonna della seggiola – Raffaello raggiunge l’apice della carriera perché viene nominato architetto pontificio, sostituendo il Bramante che va in pensione.

     Chi è il Bramante? Intanto Bramante è il soprannome (d’impronta platonica: ricorda l’Eros di Platone) di Donato di Pascuccio d’Antonio. Il Bramante è uno dei più grandi architetti del Rinascimento, ed è considerato un grande innovatore per aver associato strutture architettoniche reali con illusionistici giochi prospettici virtuali: probabilmente è lui che ha suggerito a Raffaello la scenografia su cui sono disposti i personaggi de La Scuola di Atene.

     Bramante è nato nel 1444 a Monte Asdruvaldo, un paese vicino a Urbino (provate a cercarlo sullo stradario, e su una guida delle Marche), si è formato e ha cominciato a lavorare presso la corte dei Montefeltro, poi si è trasferito nell’Italia settentrionale, in Lombardia, ha lavorato a Bergamo e a Milano e nel 1499 viene chiamato a Roma per essere nominato architetto pontificio. Bramante ha costruito il cortile del Belvedere in Vaticano che diventa il deposito-museo delle scoperte archeologiche fatte a Roma, ed è stata l’aula di studio più importante per tutti gli artisti più famosi che vanno lì ad esercitarsi a ricopiare i resti delle opere del passato. Bramante è stato un intellettuale che ha aderito alle correnti Platoniche e ha dato il suo contributo di pensiero nella disputa rinascimentale. Nel 1506 dà l’avvio ai grandi lavori di ristrutturazione della Basilica di San Pietro che continueranno anche dopo il suo pensionamento.

     Quindi, quando il Bramante, a settant’anni, nel gennaio del 1514 va in pensione, è Raffaello che prende il suo posto. Raffaello sostituisce un personaggio che ammira, e anche il Bramante – che ha sempre proposto Raffaello per tutti gli incarichi di responsabilità – è soddisfatto  di lasciare la sovrintendenza a lui nel quale ha piena fiducia. Chissà se questa situazione in cui Bramante sente di essere pienamente realizzato, come se avesse portato a compimento una missione, determina anche la sua morte avvenuta lo stesso anno, l’11 marzo 1514.

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Sull’enciclopedia, in biblioteca o sulla rete puoi prendere visione delle opere di Bramante: anche l’occhio vuole la sua parte

     Il 1514 è anche l’anno di un episodio che è entrato nelle cronache del tempo: Raffaello riceve una proposta di matrimonio: questa proposta gliela porta un cardinale (non è lui che si propone). Il cardinale in questione si chiama Bernardo Dovizi detto il Bibbiena perché la sua famiglia dominava su tutto il Casentino e lui è nato a Bibbiena (ci sarete state, ci sarete stati qualche volta) nel 1470: fate una visita a Bibbiena merita di essere visitata.

     Bernardo Dovizi detto il Bibbiena è un cardinale letterato, un diplomatico, un uomo di mondo che, oltre ad un ricco e interessantissimo Epistolario (che ci dà molte notizie sull’epoca rinascimentale) ha scritto La Calandria (1513), una commedia di stile ellenistico di forte contenuto erotico (proprio come solo i cardinali che hanno letto Aristofane, sanno scrivere): conoscete il complicato intreccio di questa commedia? Informatevi in biblioteca e sulla rete.

     Il cardinale Dovizi, nel 1514, fa da mediatore per una proposta di nozze rivolta a Raffaello, per conto di sua nipote: la bella, colta e affascinante Maria Dovizi. È una proposta lusinghiera (la fanciulla è subissata dalle richieste), ma Raffaello non ha nessuna intenzione di sposarsi; contemporaneamente però (sappiamo quanto fosse diplomatico Raffaello!) non vuole offendere i potenti Dovizi e soprattutto il cardinal Bibbiena, con il quale ha un buon rapporto di amicizia. E allora acconsente al fidanzamento ma fa di tutto per rimandare le nozze: prima dice di essere in lutto perché gli è morto il papa che gli faceva da padre, poi perché gli è morto il Bramante che gli faceva da madre. Insomma, la tira per le lunghe finché, per sua fortuna (si fa per dire), la povera Maria muore (chi vuole può cercare qualche notizia in più su Maria Dovizi).

     Perché Raffaello è restio ad acconsentire alle nozze? Le interpretazioni si sprecano. C’è un’altra donna segreta nella vita di Raffaello? Pare di sì e c’è un’abbondante pubblicistica in proposito che ruota intorno ad un famoso ritratto di Raffaello che si intitola La Fornarina e penso che tutte voi e tutti voi lo abbiate visto: lo si trova facilmente in biblioteca in un fascicolo dedicato a Raffaello. La Fornarina era davvero la donna segreta di Raffaello?  E chi lo sa. Noi adesso ci dobbiamo occupare d’altro.

     Nel 1515 Raffaello viene nominato conservatore delle antichità romane e si dedica ad una notevole opera archeologica: divide tutta la città in settori in modo da compiere un lavoro sistematico di catalogazione dei ruderi e dei ritrovamenti. Basandosi sulle sue ricerche, Andrea Fulvio pubblica nel 1527 il trattato Antiquitates Urbis che è il più importante studio topografico sulla Roma antica.

     Nel 1517 Raffaello comincia a lavorare alla Trasfigurazione di Gesù, l’opera che viene considerata il suo testamento e il suo grande capolavoro, ma la lascia incompiuta (altri la terminarono) perché il 6 aprile del 1520, il giorno del suo trentasettesimo compleanno, Raffaello muore. Per via dello straordinario talento, della grande affabilità, della raffinata cortesia, per il suo modo di fare, brillante e mondano, per essere stato sempre attorniato da ammiratori e da seguaci, Raffaello – secondo il Vasarinon visse da pittore, ma visse da principe.

     Raffaello è un assiduo frequentatore dei salotti romani del Rinascimento gestiti da nobili e intelligenti signore: se Raffaello fosse vissuto a Parigi nel XVII secolo questa sera lo potremmo trovare in rue de Vaugirard (nel quartiere di St. Germain des Près a ridosso del Palazzo del Luxembourg) nel salotto di una signora che ha lasciato un’impronta nella storia della cultura europea: Mme de Lafayette. Perché, a questo punto, salta fuori Mme de Lafayette? E chi è questa signora? Mme de Lafayette ha scritto nella sua Correspondance: Ho avuto il privilegio di sentirmi come una dama rinascimentale e ho avuto la fortuna, rispetto alle signore del 1500, di veder pubblicate  le mie opere e di venir ricordata.

     Chi è Mme de Lafayette? Intanto La Fayette (scritto staccato come segno di nobiltà) è il nome del marito, lei si chiama Marie-Madeleine Pioche de La Vergne ed è nata a Parigi nel 1634, ha ricevuto una salda educazione sia letteraria che mondana. Nel salon dell’Hôtel de Rambouillet incontra il conte di La Fayette, molto più anziano di lei, e lo sposa nel 1655 seguendolo nei suoi vasti possedimenti in Alvernia. Nel 1659 torna a Parigi per dedicarsi all’educazione dei due figli, alla letteratura e alla vita di relazione. Nel suo salotto di rue de Vaugirard si riunisce l’élite parigina e Mme de Lafayette (lei il cognome lo preferisce tutto attaccato, come segno di minore nobiltà) diventa confidente e amica di Enrichetta d’Inghilterra (la cognata del re) della quale scrive una biografia. È amica del Cardinale di Retz, di Mme de Sévigné, ma soprattutto si lega a François de La Rochefoucauld del quale consola la vecchiaia malinconica, e si dice, con ironia, che Mme de Lafayette istituisca un nuovo ruolo: quello della consolatrice.

     Mme de Lafayette però un posto nella storia della cultura se lo è meritato non per le sue conoscenze o per la sua capacità di consolare ma perché ha scritto con impegno e con competenza: comincia componendo delle novelle e poi scrive due romanzi molto significativi Zaïde (1670) e poi il suo capolavoro, iniziato molti anni prima, intitolato La principessa di Clèves (1678). Si dedica anche al genere delle memorie e compone un epistolario (che ci dà molte notizie sull’epoca dei salotti parigini) intitolato Correspondance e pubblicato postumo. Mme de Lafayette muore nel 1725.

     Perché questa sera, per concludere, leggiamo due pagine da La principessa di Clèves? Prima di tutto perché, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, non si può ignorare questo romanzo, in secondo luogo c’è, in questo testo, una chiave di lettura che riguarda il nostro Percorso.

     L’azione del romanzo La principessa di Clèves si sviluppa nell’ambiente della corte di Enrico II, nel 1559 (nel tardo Rinascimento), e ciò consente alla scrittrice di rievocare liberamente i costumi dell’alta società del suo tempo proiettati nell’atmosfera galante del passato. La protagonista, madamigella di Chartres, nobile ma povera e orfana di padre, molto corteggiata per la sua bellezza, accetta di sposare l’anziano principe di Clèves, senza amarlo veramente, attratta dalla sua bontà e nobiltà d’animo. Durante un ballo conosce il leggiadro duca di Nemours e se ne innamora con un grande senso di colpa. Per contrastare la passione, si allontana dalla vita di corte e va a vivere in campagna. Infine però per liberarsi da questo cruccio decide di confessare al marito il suo segreto chiedendogli aiuto. Il principe rimane colpito dalla nobiltà spirituale della moglie e nel suo intimo si addolora di essere d’inciampo alla realizzazione della sua felicità, però nello stesso tempo si sente ferito, sente di non avere più un ruolo tanto che si ammala e muore in una specie di eutanasia sentimentale. La principessa di Clèves, con la morte del marito, è esteriormente una donna libera ma interiormente non è libera dai rimorsi, è una persona libera nel corpo ma non nell’Anima e, dopo aver rivelato al duca di Nemours la propria passione, prende una decisione secondo il primato della Ragione: così come, in precedenza, secondo il primato della Ragione (e anche della convenienza), aveva deciso di sposare il principe di Clèves, così ora decide razionalmente di mettere Ordine nel suo Mondo ritirandosi in convento, nel luogo della pace interiore (dell’Anima, della Psiché), nel posto della sublimazione dei sentimenti (della Ragione, del Logos), nello spazio delle regole certe (dell’Ordine del Mondo, del Kosmos).

     Può sembrare anacronistico proporre oggi la lettura di un romanzo come questo, ma se la lettrice e il lettore hanno la pazienza di seguire non solo la trama (che è comunque un elemento significativo) possono cogliere e ammirare in questo testo la grande finezza dell’analisi psicologica (la Psiché), la lucida indagine razionale (il Logos) e la riflessione ironica sull’Ordine delle cose (sul Kosmos), sulle regole. La scrittrice, alludendo, si domanda se con le regole matrimoniali, conventuali e di corteggiamento in atto sia possibile esprimersi con sincerità, o se domini l’ipocrisia che rende la società non buona, non bella, non giusta. Nel trattare questi tre elementi (l’Anima, la Ragione e il Mondo) Madame de Lafayette è spesso insuperabile e, per questo, sta sul nostro Percorso sulla scia della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     Leggiamo due pagine da La principessa di Clèves:

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Madame de La Fayette, La principessa di Clèves (1678)

Il principe di Clèves non ebbe a notare che madamigella di Chartres mutasse nei suoi sentimenti col mutar di nome. La sua qualità di marito gli consentì maggiori privilegi; ma non migliorò il suo posto nel cuore di sua moglie. Ciò fece anche sì che egli non cessasse, per esserle marito, di essere anche suo adoratore, poiché gli rimaneva sempre da desiderare qualche cosa oltre il suo possesso, e sebbene vivessero in perfetta armonia, egli non poteva essere interamente felice. Gli durava verso di lei una passione violenta ed inquieta che gli turbava la gioia: la gelosia non vi aveva parte; mai altro marito era stato così lontano dal concepirne, o altra donna dal darne motivo. Eppure ella era esposta ai pericoli, in mezzo alla corte. Tutti i giorni ella si recava dalla regina e da Madama. Uomini giovani e galanti, quanti ve n’erano a corte, tutti avevano occasione di incontrarla, in casa di lei e in casa del duca di Nevers, suo cognato, la cui porta era aperta a tutti; ma il contegno di lei ispirava tale rispetto ed era talmente lontano da ogni galanteria, che lo stesso maresciallo di Sant’Andrea, sebbene audace e forte del favore del re, non osava mostrare quanto fosse colpito dalla sua bellezza se non con atti di premura e di rispetto. Molti altri si trovavano in ugual situazione; e la principessa di Chartres aggiungeva alla naturale virtù di sua figlia una condotta così perfetta sotto tutti gli aspetti della convenienza, che contribuiva a far di lei una persona alla quale non era possibile arrivare.

La duchessa di Lorena, mentre lavorava per la pace, aveva anche lavorato per il matrimonio del duca di Lorena, suo figlio; matrimonio che era stato combinato con Claudia di Francia, seconda figlia del re. Le nozze furono fissate per il mese di febbraio. Intanto il duca di Nemours era rimasto a Bruxelles, interamente preso dai suoi progetti sull’Inghilterra, da dove continuamente riceveva corrieri, o ne inviava. Le sue speranze ogni dì crescevano: infine Lignerolles gli fece sapere che era tempo di recarsi in Inghilterra per portare a termine con la sua presenza ciò che era stato così ben preparato. Egli accolse tale notizia con tutta la gioia che può averne un uomo ambizioso il quale si veda condotto al trono da nient’altro che dalla sua fama. Si era andato poco alla volta abituando all’idea di una così grande fortuna e, mentre al principio l’aveva scartata come una cosa irraggiungibile, ora invece non concepiva più che vi potessero esser difficoltà od ostacoli. Inviò sollecitamente suoi incaricati a Parigi, a dare le disposizioni necessarie per preparare un equipaggio sfarzoso, sì da fare il suo ingresso in Inghilterra con uno splendore proporzionato al disegno che ve lo conduceva: indi lui stesso si affrettò a tornare alla corte per assistere al matrimonio del duca di Lorena. Vi giunse alla vigilia degli sponsali. La sera stessa del suo arrivo si recò a render conto al re del punto a cui era il suo disegno, ed a riceverne gli ordini e i consigli per quanto restava da fare. Si recò poi dalle regine. La principessa di Clèves non v’era, di modo che ella non lo vide e nemmeno seppe del suo arrivo. Essa aveva udito parlare da tutti del duca di Nemours come della persona più bella e più seducente della corte; e soprattutto la delfina glielo aveva dipinto in tal modo, quante volte gliene aveva parlato, che l’aveva resa curiosa e perfino impaziente di vederlo. Durante l’intero giorno degli sponsali ella rimase in casa ad acconciarsi per il ballo e il banchetto reale che si tenevano la sera stessa al Louvre. Quando vi giunse, tutti ammirarono la sua bellezza e la sua acconciatura: il ballo incominciò; e, mentre ella danzava col duca di Guisa, si fece un certo rumorìo alla porta della sala, come entrasse qualcuno, cui venisse fatto posto. La principessa di Clèves terminò quella danza; e mentre con gli occhi cercava qualcuno con cui voleva ballare, il re le gridò di prendere colui che sopraggiungeva. Ella si volse, e l’uomo che vide, subito pensò non poter essere altri che il duca di Nemours. Era lui, infatti, che scavalcava delle sedie per giungere ove si ballava. Questo principe era siffatto che non era possibile evitar la sorpresa al primo vederlo, chi non l’avesse mai veduto prima, e soprattutto quella sera che la cura messa nell’abbigliarsi accresceva lo splendore della sua persona; ma era altrettanto difficile vedere per la prima volta la principessa senza averne meraviglia. Il duca di Nemours fu a tal punto sorpreso di quella beltà che, quando fu giunto accanto a lei ed ella gli fece la riverenza, non poté impedirsi di darne segno. Quando incominciarono a danzare un mormorio di lodi si levò nella sala. Il re e le regine, rammentandosi che essi non si erano mai veduti, trovarono qualcosa di singolare in quel loro danzare insieme senza conoscersi. Tosto che la danza cessò, li chiamarono senza dar loro modo di parlar con alcuno, e domandaron loro se non desideravano di conoscere a vicenda chi fossero, e se non lo sospettavano. Per parte mia, signora, disse il duca di Nemours, non ho dubbio alcuno; ma poiché la principessa di Clèves non ha, per indovinar ch’io sia, le medesime buone ragioni che soccorrono me per riconoscerla, sarei contento se Vostra Maestà volesse dirle il mio nome. Io credo, disse la delfina, che alla principessa sia noto l’esser vostro come a voi il suo. Vi assicuro, Madama, rispose la principessa, che appariva un po’ imbarazzata, che non mi è così facile indovinare come voi credete. Voi indovinate benissimo, ribatté la regina delfina; e vi è perfino qualcosa di lusinghiero per il duca di Nemours in questo vostro non voler confessare che lo avete riconosciuto pur non avendolo mai veduto.    La regina li interruppe per far continuare il ballo; il duca di Nemours ballò con la regina delfina, principessa di meravigliosa bellezza. Tale almeno era questa sembrata al duca di Nemours, prima che si recasse in Fiandra; ma, quella sera, egli non sapeva ammirare altra donna che la principessa di Clèves.

Il cavaliere di Guisa, che l’adorava sempre, era ai suoi piedi, e ciò che era accaduto poc’anzi gli aveva dato un acuto dolore; gli parve che, quasi per un presagio, la sorte destinasse il duca di Nemours ad amare la principessa di Clèves; e, sia che un qualche turbamento fosse veramente apparso su quel volto, sia che la gelosia gli facesse veder più del vero, gli sembrò che ella fosse rimasta turbata da quell’incontro, e non poté impedirsi di dirle che il duca di Nemours era un uomo ben felice, se veniva conosciuto da lei in circostanze che avevano qualcosa di galante e di straordinario. La principessa di Clèves rincasò, l’animo pieno a tal segno di quanto era accaduto al ballo, che malgrado l’ora già tarda, si recò nella camera di sua madre per dargliene conto; e lodò il duca di Nemours in un certo qual tono che diede alla principessa di Chartres il medesimo dubbio che aveva avuto il cavaliere di Guisa. L’indomani ebbe luogo la cerimonia delle nozze; la principessa di Clèves vi rivide il duca di Nemours, e questi aveva un aspetto e una grazia tali che le rinnovarono la sorpresa.

I giorni che seguirono, essa lo incontrò dalla regina delfina, lo vide col re al giuoco della pallacorda, lo vide correre all’anello, lo udì parlare; ma lo vide anche esser tanto superiore a tutti, ed esser tanto padrone della conversazione ovunque si trovasse, per la nobiltà della persona e per la grazia del suo spirito, che, in breve tempo, egli le si impresse nel cuore.

     Ecco che la narrazione sembra andare verso una banale conclusione e invece la scrittrice fa scattare una provocatoria riflessione sul ruolo delle donne: questo romanzo merita di essere letto al ritmo di quattro pagine al giorno.

     E ora, per concludere, torniamo sulla corsia del nostro itinerario. Dopo aver predisposto lo scenario: quale cartone preparatorio de La Scuola di Atene Raffaello disegna per primo? Raffaello disegna per primo un cartone che è intitolato: La colonna orfica, difatti sappiamo che senza Orfeo la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele non sarebbe concepibile: perché? Sappiamo che senza Orfeo neppure il Cristianesimo avrebbe potuto costruire la sua via di salvezza, e come è avvenuto ciò? Le risposte a queste domande sono complesse e cominceremo a darle la prossima settimana.

     Il viaggio continua e la Scuola è qui affinché – come dice Hugone de Folieto – non si perda il buon umoree lo spirito sia lieto...

     In realtà chi lavora e chi anima la Scuola degli Adulti è di pessimo umore e nel mio spirito c’è poco posto per la letizia. Sì la Scuola è qui ma questa offerta formativa – grazie (si fa per dire) alla legge 133 – non è più di natura istituzionale. Questo va a scapito dei diritti e soprattutto dei doveri (perché studiare è un dovere) delle cittadine e dei cittadini di questo paese.

     Per legge non si permette, nella Scuola pubblica, lo sviluppo dell’Educazione Permanente finalizzata allo studio e alla cura: che senso ha tutto ciò? Nel regno dell’ignoranza le stupide carinerie (parola che non appartiene neppure al dizionario ed è un indizio significativo di degrado) sostituiscono le doverose riflessioni e nel regno dell’ignoranza non può che trionfare l’ignoranza...

     Coloro i quali danno valore e hanno dato valore in questi anni allo studium et cura hanno perso, e la barchetta che ha navigato, dal 1997 al 2008, su una rotta istituzionale comincia ad affondare...

     Naturalmente è mio dovere rimanere sul ponte anche se non sono un capitano coraggioso, ed è mio dovere far scendere una scialuppa di salvataggio e dire a tutti voi: salvatevi, continuate a pensare che lo studio e la cura del vostro intelletto siano un valore da preservare!

     La barchetta diventa scialuppa e il viaggio, più faticosamente di prima, continua...

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 14, 2008