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L’ASPIRAZIONE ROMANTICA ALL’ISOLAMENTO…

Lezione N.: 
28

Prof. Giuseppe Nibbi         Tra ‘700 e ‘800: il sorriso de La Gioconda 2005         18-19-20 maggio 2005

 L’ASPIRAZIONE ROMANTICA ALL’ISOLAMENTO…

   Uno dei dibattiti più importanti che si sviluppano nel territorio del romanticismo –tanto nella versione titanica quanto nella versione galante – è il dibattito sul tema della bellezza: il tema della bellezza propone molti interrogativi, uno dei quali –quello che riguarda più da vicino la didattica della lettura e della scrittura – affronta il problema del contatto con la "bellezza": quali conseguenze genera il contatto con la "bellezza"? Intorno a questo interrogativo – l’abbiamo imparato viaggiando in questo Percorso – nascono due correnti di pensiero:

- la prima corrente sostiene che il contatto con la bellezza indirizza sempre verso il bene; il contatto con la "bellezza" dona chiarezza, calma e serenità; la "bellezza" possiede uno sguardo benevolo.

- la seconda corrente di pensiero sostiene invece che il contatto con la bellezza non genera un impulso benevolo, ma bensì procura turbamento e inquietudine: l’animo di ogni essere umano – in particolare l’animo dell’artista – è predisposto a turbarsi e ad inquietarsi davanti alla "bellezza" perché è un valore appartenente ad uno stato di grazia originario che è stato irrimediabilmente perduto dall’Umanità.

   Tra gli scrittori e i poeti, che, nel territorio del romanticismo, tanto titanico quanto galante, hanno coltivato l’idea che la bellezza possegga uno "sguardo inquietante", noi ne abbiamo incontrati due: Byron qualche settimana fa e Pùškin in queste ultime settimane; sappiamo che, questa sera, ne dobbiamo incontrare un terzo.

   Per incontrare questo terzo personaggio è necessario ancora fare riferimento a Pùškin, perché questo scrittore, questo poeta, è uno dei numerosi intellettuali – verrà chiamata la pleiade (la schiera) pùškiniana – che cresce all’ombra del genio di Pùškin. Questo scrittore si chiama Michail Lermontov e la scorsa settimana abbiamo già letto un frammento tratto dal suo Epistolario. La lettura di questo brevissimo brano – già la scora settimana – è stata sufficiente a farci capire perché questo scrittore si trova sul sentiero che stiamo percorrendo.

   Rileggiamo questo frammento.

 LEGERE MULTUM….

 Michail Lermontov, Epistolario. Lettera di accompagnamento alla poesia

"La morte del poeta" in memoria di Aleksandr Pùškin (1837)

La bellezza in Monna Lisa si concentra nel suo sorriso e possiamo immaginare che la potenza enigmatica di questo sorriso riveli un’inquietudine derivante da un rifiuto e da un distacco. Possiamo pensare, infatti, che questa signora, nonostante sia attratta dal fascino del pittore che la ritrae, rendendola immortale, rifiuta di cedere alla sua corte, preferisce la fedeltà ai doveri, preferisce la comune mortalità. La bellezza esteriore è destinata a generare rifiuto e distacco, qualità che generano inquietudine.

Il sorriso misterioso di Monna Lisa ci trasmette l’inquietudine tanto della modella quanto del pittore La bellezza genera turbamento, ed è questo il tema affrontato dal grande Aleksandr Pùškin – di cui con questi versi celebriamo la morte – nel suo perfetto romanzo Evgenij Onegin. Lo straordinario personaggio di Tatjana Larina, la vera protagonista del poema, è una specie di Monna Lisa che sorride enigmatica e irraggiungibile al suo seduttore respinto e lo fa precipitare nell’inferno della trepidazione.

   È evidente che Michail Lermontov considera la bellezza un fenomeno che ispira turbamento e inquietudine e sulla scia di Pùškin utilizza l’immagine de La Gioconda e del suo sorriso per sostenere questa idea. Inoltre è significativo il fatto che Lermontov consideri il personaggio di Tatjana Larina simile a Monna Lisa. Michail Lermontov per molti versi assomiglia a Pùškin di cui è uno degli eredi culturali. Le sue prime esperienze poetiche si compiono all’ombra del genio di Pùškin, ma, al contrario di Pùškin, egli non è inserito nella sua generazione letteraria a causa del suo carattere ribelle. Lermontov – ancora più di Pùškin – incarna, nella sua breve esistenza, il mito del poeta romantico, solitario e ribelle, isolato, nemico delle convenzioni.

   Michail Lermontov nasce nel 1814 a Mosca. Nel 1817 muore sua madre, Marija Michajlovna Arsen’eva, la quale ha appena ventuno anni. Il padre – che è da subito intenzionato a rifarsi una famiglia – finisce per trascurare questo bambino e quindi Michail, dopo una breve contesa, viene affidato alla benestante nonna materna. Quindi Lermontov viene sottratto al padre, con il quale avrà rapporti molto saltuari, e viene allevato ed educato dalla nonna materna Elizaveta Alekseevna Arsen’eva-Stolypina. Dal 1818 al 1826 Lermontov, periodicamente (tra i quattro e gli undici anni di età), insieme alla nonna, che è dotata di un forte carattere, compie lunghi viaggi nel Caucaso: sono viaggi terapeutici perché lì c’è un’aria più pura, un’aria di montagna, che dovrebbe servire da ricostituente per un bambino, considerato dai medici, debole di bronchi e sofferente di rachitismo. Lermontov, infatti, conserverà per tutta la vita "una sgraziata figura" (ci ricorda Leopardi o Gramsci) e questo suo aspetto fisico non lo ha certamente favorito nella vita e ha influenzato il suo carattere malinconico che lo spinge all’isolamento. Nel 1827 si iscrive alla Pensione Universitaria Nobiliare di Mosca, un istituto dove hanno studiato molti noti scrittori e poeti, tra questi noi ricordiamo Vasilij Žukovskij, l’amico paterno di Pùškin. Nel 1829 Lermontov quindicenne ha già composto una quarantina di poesie e quattro poemi, tra cui: I circassi, Il prigioniero del Caucaso, Il corsaro, Oleg e il dramma Gli Spagnoli. La Pensione Universitaria Nobiliare di Mosca è un istituto che, per tradizione, viene auto-gestito dagli studenti. Questi anni sono molto effervescenti per la gioventù nobiliare russa dal punto di vista politico: le idee dei Decabristi – che contestano l’assolutismo e rivendicano la Costituzione – non sono morte con l’insurrezione del 1825, anzi si sono radicate e vengono coltivate nella clandestinità. Nella primavera del 1830 lo zar compie una visita a sorpresa nella Pensione Universitaria e scopre che vi regna un’atmosfera un po’ anarchica da comune libertaria. La gestione, non più gerarchica secondo la tradizione militare, viene attuata facendo funzionare strumenti di tipo democratico con l’elezione dei membri del comitato di gestione. Lo zar Nicola I (dotato di una straordinaria ottusità), invece di cogliere gli elementi positivi di questo esperimento e di governare questa situazione, ordina immediatamente la chiusura dell’istituto e fa porre sotto controllo questi studenti. Lermontov trascorre le vacanze estive nella proprietà di uno zio, nei pressi di Mosca, dove s’innamora di un’amica della cugina, la bellissima Ekaterina Suškova, di due anni maggiore di lui. Lermontov cerca di usare la poesia per dichiararsi, ma lei, bellissima diciottenne, con numerosi corteggiatori più belli e più maturi, non lo considera neppure.

   Lermontov inizia a sperimentare quello che chiama: il senso del rifiuto legato alla bellezza: chi possiede la bellezza – sostiene Lermontov – possiede anche il potere d’interdizione, possiede l’arma del rifiuto che causa inquietudine e turbamento. Questa situazione, la quale, in funzione della didattica della lettura e della scrittura non può sfuggirci, la troviamo abbondantemente descritta nei romanzi. Il "rifiuto" spesso genera anche: supponenza, alterigia, altezzosità, arroganza, presunzione, tracotanza, boria, sussiego.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura

Capita, a volte, di subire un rifiuto che lascia l’amaro in bocca: a te è capitato? Dove, quando, come, perché hai subìto un rifiuto ?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Nell’autunno 1830 Lermontov s’iscrive all’Università di Mosca insieme a molti altri giovani che, in seguito, sarebbero diventati celebri scrittori e pensatori, ma Lermontov non li frequenta: lui tende ad isolarsi. Dal 1831 vive un periodo di intenso impegno poetico: scrive circa duecento poesie, dieci poemi e tre drammi. Nasce in lui anche l’amore per Natalija Fëdorovna Ivanova, figlia del famoso drammaturgo Ivanov, ma anche questo corteggiamento si conclude con un rifiuto da parte della giovane. Il tema dell’amore tradito e dell’amore non corrisposto compare di frequente nelle opere di Lermontov il quale, subito dopo, s’innamora di nuovo e, la realizzazione di questo amore, corrisposto, è ancora più complicata perché si tratta di una delle sue cugine, Varvara Lopuchina: sappiamo che l’amore tra cugini è severamente vietato e quindi Varvara è costretta a sposare un altro. Lermontov, particolarmente afflitto, dedica a Varvara il suo poema più noto: Il demone, un’opera importante nella storia della composizione poesia. Il soggetto di questo poema ricorda Cielo e terra di Byron ma il carattere dei personaggi e l’atmosfera sono stati profondamente trasformati da Lermontov. La trama de Il demone è inquietante e sembra voler esaltare la perfidia. Ma non è tanto la trama che influisce: in quest’opera vale soprattutto l’appassionata descrizione dell’ambiente e conta l’esaltazione della natura resa splendida e selvaggia dai bellissimi versi musicali, di impronta pùškiniana, che Lermontov compone con grande capacità. L’eroina di questo poema è Tamara, una principessa georgiana, che si presenta, nella storia della letteratura, come un personaggio veramente originale. Il poema narra di un dèmone, che s’aggira intorno alla terra, fiero della sua solitudine e della sua potenza ma triste perché, in quanto dèmone, a lui non è concessa la possibilità di amare. Nel suo vagare intorno al mondo scorge in un palazzo principesco i preparativi per una cerimonia di nozze: la bellissima Tamara attende che arrivi da regioni lontane il suo fidanzato. Il dèmone osserva la principessa ed entra in contatto con le sue sensazioni, capta i sentimenti che si sprigionano dal suo cuore ardente in funzione dell’attesa. E il miracolo si compie: il dèmone s’innamora, ma, questo innamoramento non tende al bene, non ha uno sguardo benevolo. Il dèmone non riesce a manifestare, per raggiungere il suo obiettivo, se non pensieri e comportamenti perversi. Difatti fa sì che il fidanzato – in viaggio verso il palazzo di Tamara – venga ucciso dai predoni delle montagne, e poi, invisibile, seduce Tamara a poco a poco con la bellezza delle sue parole. Ella si sente conquistare (sensualmente, eroticamente) però percepisce anche che quella voce, quelle stupefacenti parole d’amore, non vengono da un cuore sincero, intuisce l’esistenza della malvagità e allora, per difendersi, si rifugia in un monastero. Il dèmone, desideroso di conquistarla, bacia Tamara, ma il bacio di un dèmone è un bacio di morte e la vita fugge da lei e gli angeli accolgono l’anima innocente della fanciulla e la portano tra le braccia di Dio dove anche l’anima del suo fidanzato, ingiustamente ucciso, ha già trovato la gioia. Chi non trova la gioia e la serenità è il dèmone che rimane solo come prima, fiero ma triste e senza amore: ai dèmoni l’amore è negato per sempre. Il dèmone maledice il fatto di conoscere l’infinito, maledice il fatto di possedere la vita eterna: a che giova possedere la vita eterna se vale di più un momento d’amore?

   La bellezza del poema di Lermontov sta soprattutto nella calda e romantica sensualità che si sprigiona dalle descrizioni della natura caucasica e nell’ardore delle parole con cui viene descritto il sentimento dell’attesa di Tamara prima delle nozze. La lingua di Lermontov, nel poema Il dèmone – anche se un po’ meno elegante di quella di Pùškin – raggiunge spesso una musicalità ricca di risonanze emotive, e – come nel caso delle opere di Pùškin – un musicista si è interessato a questo testo. Dal poema di Lermontov, infatti, deriva il soggetto dell’opera lirica in tre atti Il dèmone, rappresentata, con successo, per la prima volta a Pietroburgo nel 1875. composta da Anton Rubinstein (1829-1894), grande pianista e fondatore del Conservatorio di Pietroburgo. In quest’opera la musica ha un colore orientale, giustificato dal testo: il Caucaso, la Georgia, l’Armenia sono terre d’Oriente, soprattutto viste da Pietroburgo. Anton Rubinstein compone molte parti sullo stile dei canti georgiani e armeni e queste pagine sono – ci suggeriscono gli esperti – le più attraenti dell’opera e le più popolari. È famoso, per esempio, il "canto georgiano delle amiche di Tamara" nel primo atto, e poi è famosa la cosiddetta "melodia orientale" del secondo atto e soprattutto le "danze delle donne" e la "marcia della carovana" nel terzo atto. La musica di Anton Rubinstein è stata definita con il temine di etnografismo-pittoresco, un procedimento che ha avuto successo ed è stato imitato da molti autori.

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Sarebbe interessante ascoltare quest’opera o alcune sue parti: buona ricerca e buon ascolto…

   Nel 1832 Lermontov, insieme alla nonna, si trasferisce a Pietroburgo con l’intenzione di continuare gli studi all’università della capitale, ma non gli vengono riconosciuti i due anni di studi a Mosca, e gli viene negato l’accesso all’istituto per aver partecipato alle manifestazioni non autorizzate in ricordo dell’insurrezione decabrista, e allora decide di iscriversi alla Scuola dei Tenenti della Guardia. Nei due anni della scuola collabora alla rivista degli ussari, L’aurora scolastica, pubblicando poemi dal contenuto prevalentemente erotico come L’ospedale, Il festino a Petergof e Mongò: queste opere ottengono un grande successo ma, come scrittore, non lo soddisfano molto. In questo periodo comincia a dedicarsi alla prosa sulla scia di Pùškin e scrive un vasto frammento (e rimarrà un frammento…) del romanzo storico Vadim.

   Lermontov dimostra la sua capacità di scrivere in prosa rivelandosi come un degno erede di Pùškin. Da Pùškin riprende soprattutto il sarcasmo verso se stesso, verso i suoi sentimenti romantici, ma mentre ironizza – e la stessa cosa succede a Pùškin – sul proprio sentimentalismo per cercare di esorcizzarlo e di staccarsene ecco che, inavvertitamente, crea l’esaltazione del sentimentalismo stesso e la riaffermazione del "romanticismo" in tutte le sue forme e i suoi contenuti. In Vadim uno dei personaggi principali si chiama Jurij il quale si abbandona ai ricordi del suo passato, intessuto di sogni di gloria e d’amore, e si scopre facilmente che è lo stesso Lermontov a narrare di sé. Jurij racconta la storia di Vadim che è una persona deforme, un gobbo, un povero servo che deve vendicare un’ingiustizia subìta dalla sorella Olga. La figura sgraziata di questo personaggio ricorda la figura stessa dello scrittore e nella sua narrazione – anche se l’intento di Lermontov è "realistico" – prevalgono i temi caratteristici del romanticismo.

   Nel 1835, terminata la Scuola dei Tenenti della Guardia, Lermontov pubblica altre opere in poesia e presenta all’ufficio della censura teatrale la redazione del dramma Il ballo in maschera che risulta la sua più importante opera teatrale. Il ballo in maschera viene bocciato dalla censura (troppo erotismo, troppa perfidia, troppa ironia disfattista) perché Lermontov denuncia le ipocrisie della società aristocratica e alto borghese che organizza la "rappresaglia del chiacchiericcio" e impone di nascondere i sentimenti e le passioni dietro una maschera. Ci fanno sapere gli addetti ai lavori che il protagonista di questo dramma, che si chiama Arbenin, è un personaggio ben costruito psicologicamente. Arbenin è il classico superuomo orgoglioso e "demoniaco" che critica acutamente, aspramente e senza pietà i comportamenti ipocriti dei suoi simili che lo circondano, ritenendosi superiore. Ma, durante un ballo, una nobildonna, in complicità con altri buontemponi, gli gioca uno brutto scherzo, facendolo sospettare della fedeltà della sua bellissima moglie Nina. Lui – nonostante si consideri "superiore" e immune da sentimentalismi – cade nella più sfrenata gelosia come l’Otello shakespeariano e – complice un bracciale perduto da Nina (che sostituisce il fazzoletto di Desdemona) e che si ritrova misteriosamente nella tasca della giacca di un principe "galante" – Arbenin si convince, erroneamente, della colpevolezza della moglie e la sua reazione è tragica.

   Nel 1836 Lermontov si sforza di uscire dal suo isolamento e si avvicina ai circoli letterari pietroburghesi, e inizia a scrivere il romanzo La principessa Ligovskaja. In questo testo incompiuto (una cinquantina di pagine) ma esaustivo, troviamo uno dei temi più trattati da Lermontov: quello dell’amore tradito e infelice, un tema importante in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Emerge soprattutto, dentro al tema dell’amore tradito, un aspetto, che è diventato tipico nell’intreccio dei "romanzi dell’800": quello del tramare la vendetta da parte di chi ha subito il torto senza però riuscire ad attuarla perché alla fine, nell’animo di chi si vuole vendicare, prevale la pietà sull’odio. La maggiore gratificazione psicologica è quella di superare l’odio derivante da un torto ricevuto, trasformando la vendetta in un atto di pietà in cui la vittima dimostra tutta la sua superiorità umana di fronte a chi lo ha fatto e lo fa soffrire. La persona che sostituisce la vendetta con la pietà non perde l’infelicità ma il risarcimento psicologico che acquisisce la rende eroica, forte, capace di significativi gesti di misericordia, di solidarietà, di perdono. Lermontov presenta – ne La principessa Ligovskaja – questo aspetto narrativo in modo appena abbozzato, e saranno gli scrittori successivi a sviluppare questo tema – dello "stemperamento della vendetta" – con risultati eccellenti a vantaggio della struttura del genere letterario del romanzo.

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Ti è capitato di "stemperare la volontà di vendetta"?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Il 1837 – lo sappiamo bene – è un anno fatale per Pietroburgo: tra il 27 e il 29 gennaio muore Pùškin. Questo avvenimento incide fortemente sulla vita della città: gli interrogativi legati a questo "affare" si moltiplicano, si mormora soprattutto sul perché il duello – che è costato la vita al più grande poeta nazionale – non sia stato evitato. È mai possibile che uno Stato burocratico e gendarme come quello zarista con una polizia ed una rete di servizi segreti efficientissimi non sia stato in grado di evitare lo scontro, annunciato, tra Pùškin e d’Anthès? Chi ha voluto la fine di Pùškin?

   Queste cose le pensano in molti, e qualcuno, sotto voce, le dice, Lermontov le scrive, e le scrive in versi, secondo lo stile di Pùškin, per renderle più efficaci. Alla morte in duello di Pùškin, Lermontov reagisce scrivendo una poesia, in cui allude alle responsabilità del potere e dello zar, e inoltre si scaglia, con violenza, contro la società aristocratica e alto borghese che lui considera la vera responsabile della morte di Pùškin e con questi versi termina la poesia…

 LEGERE MULTUM…

Aristocratici e alto borghesi eredi insolenti di padri

famosi soltanto per la loro volgarità

carnefici del Genio, della Gloria e della Libertà".

    Questa poesia è intitolata La morte del poeta, e – anche se, per lo stile e per eleganza, non sta al pari delle opere di Pùškin – segna il riconoscimento generale di Lermontov come poeta erede di Pùškin . Quest’ode in morte di Pùškin viene letta da centinaia di persone, si diffonde con una rapidità enorme e – anche se la maggioranza assoluta della popolazione non sa leggere – l’ascoltano migliaia e migliaia di cittadini russi. Ma questa poesia determina anche l’immediato arresto di Lermontov, un processo per direttissima e la condanna all’esilio nel Caucaso.

   In aprile Lermontov raggiunge la regione del Caucaso e vive un’esperienza straordinaria: in quei posti ha viaggiato da bambino (1818-1826) con la nonna a scopo terapeutico per guarire da una malattia infantile che ha comunque lasciato il segno nel suo fisico. Lermontov riscopre i luoghi cari dell’infanzia di cui conservava un ricordo vago e remoto di impronta fiabesca, e le sensazioni che prova si traducono in fonte d’ispirazione. Gli imponenti paesaggi naturali, che riscopre, appaiono ai suoi occhi più maturi come partecipi al dramma umano. Le enormi montagne, le folte foreste, la steppa deserta, gli avvallamenti con gli insidiosi acquitrini, i limpidi laghi formano un ambiente selvaggio e sublime che corrisponde allo stato d’animo del poeta e dei suoi personaggi.

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Hai vissuto l’esperienza di "riscoprire i luoghi cari dell’infanzia"?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Dopo qualche tempo Lermontov ottiene un congedo per malattia che trascorre a Pjatigorsk, una località termale del Caucaso, dove fa amicizia con il poeta decabrista Odoevskij, e con il critico letterario Grigor’evic Belinskij.

   Nel gennaio 1838, grazie all’intervento della nonna presso il capo della polizia, il conte Benkendorff, ottiene il perdono dello zar e la reintegrazione nel reggimento degli Ussari della Guardia, e, ritornato a Pietroburgo, viene accolto dal circolo degli amici di Pùškin (la pleiade pùškiniana). Conosce Vasilij Žukovskij, l’amico paterno di Pùškin, conosce il principe Vjazemskij, e tutti i membri della famiglia Karamzin. Sono gli anni della sua maggiore fama letteraria, in cui pubblica molte opere importanti come il poema storico Canto dello zar Ivan Vasil’evic, del giovane arciere della guardia e del prode mercante Kalašnikov. Poi pubblica il poema realistico La tesoriera di Tambov.

   Nel 1839 Lermontov termina il poema intitolato Il novizio, un’opera che aveva iniziato a scrivere nel Caucaso, animato dalla forte ispirazione per aver ritrovato i luoghi cari dell’infanzia, e questo poema viene considerato – dagli studiosi – uno dei capolavori del romanticismo europeo. Lermontov – ne Il novizio – racconta la storia di un orfano, un bambino di sei anni, di etnia circassa, che, raccolto gravemente ammalato da un generale russo, viene curato dai monaci di un convento del Caucaso alla confluenza dei fiumi Aragva e Kura. Questo convento è esistito davvero e al tempo in cui Lermontov scrive (1837-1838) è ormai distrutto e abbandonato. In questo monastero la natura selvaggia del bambino si addolcisce gradatamente. Fa amicizia di buon grado con i giovani compagni, che sono lì come novizi del convento, impara il russo (parlava il georgiano), e poi chiede di entrare nell’ordine monastico.

   Ma ecco che all’improvviso, dopo qualche anno, riaffiora dentro di lui la nostalgia della sua terra e soprattutto il desiderio della libertà e della vita eroica della sua gente. Durante l’infuriare di un terribile temporale, mentre i monaci sono raccolti in preghiera, il ragazzo fugge inoltrandosi in una foresta. I monaci, preoccupati, lo cercano e dopo tre giorni lo trovano gravemente ferito e privo di conoscenza. Lo riportano al monastero dove cercano di curarlo, anche se sono consapevoli di non poterlo salvare. Il ragazzo, però, riprende conoscenza e vedendo che si sono radunati tutti intorno a lui comincia a raccontare la sua storia anche perché si rende conto che sta per morire. Il giovane novizio interpreta il dramma della sua vita: il rimpianto dei genitori che non ha potuto conoscere, la nostalgia della patria lontana, dei luoghi cari della sua infanzia, un vago ricordo della sua casa. Sono stati sufficienti quei tre giorni di fuga per fargli assaporare il gusto della libertà, la bellezza della natura selvaggia del Caucaso. Soprattutto due episodi lo hanno colpito: l’incontro con una fanciulla georgiana, che attingendo l’acqua a un torrente l’ha affascinato col suo canto e gli ha fatto intuire la dolcezza sconosciuta del sentimento amoroso, e poi la lotta che ha sostenuto con un animale selvaggio, in quella lotta lui ha vinto ma è rimasto mortalmente ferito. Ora sa di essere troppo debole per affrontare una vita in piena libertà, ma non rimpiange di aver compiuto quel tentativo, anche se non è riuscito a riconquistare la sua patria terrena: è felice di aver ritrovato piuttosto la sua patria spirituale, la vita dell’anima, e con queste parole si spegne in pace con Dio e con gli uomini.

   Questo poema, ricco di descrizioni naturalistiche e di vibranti intuizioni psicologiche, è considerato un capolavoro della letteratura "romantica" e in italiano Il novizio è stato tradotto da Tommaso Landolfi (1940) e da Ettore Lo Gatto (1942).

   Nel marzo del 1840 Lermontov viene sfidato a duello dal figlio dell’ambasciatore francese, offesosi per una serie di considerazioni satiriche con le quali Lermontov lo aveva fatto cadere nel ridicolo. Per fortuna non muore nessuno, ma Lermontov viene arrestato subito dopo il duello, e viene trasferito di nuovo nel Caucaso dove, nel frattempo, è scoppiata la guerra: una delle tante rivolte indipendentiste contro l’impero russo che – nel suo processo espansionistico verso sud – aveva invaso quelle terre calpestando i diritti delle popolazioni che vi abitavano. Spesso, quindi, le genti caucasiche: i Georgiani, i Circassi, gli Osseti, gli Armeni e soprattutto i Ceceni si ribellano contro i Russi che sono e si comportano come degli occupanti. Ecco perché il Caucaso è una regione ad alta tensione, pericolosa, dove nessun militare sarebbe voluto andare.

   L’11 luglio 1840 Lermontov partecipa alla sanguinosa battaglia sul fiume Valerik e, per il suo coraggio, viene proposto per l’ordine di San Stanislao. Poi partecipa a una spedizione contro i ribelli ceceni, distinguendosi per il coraggio e, come premio, ottiene una licenza di due mesi da trascorrere a Pietroburgo.

   Nella primavera del 1841 ritorna nel Caucaso e nel mese di maggio si trova nella stazione termale di Pjatigorsk, per curarsi. Qui incontra un suo vecchio conoscente, il maggiore Nikolaj Martynov che era stato suo compagno di corso, sei anni prima, alla scuola dei Tenenti della Guardia, a Pietroburgo. Lermontov e Martynov cominciano a frequentarsi e diventano amici.

   Nel 1840 Lermontov aveva fatto pubblicare ancora un romanzo. Sebbene questo scrittore sia considerato tra i maggiori poeti lirici di ogni tempo, tuttavia viene ricordato in maniera particolare – ed è entrato nella Storia del Pensiero – per quest’opera in prosa, per il romanzo che s’intitola: Un eroe del nostro tempo. Questo romanzo – scritto con la forma delle opere in prosa di Pùškin – si compone di cinque racconti che narrano cinque episodi della vita di un ufficiale dell’esercito distaccato nel Caucaso. Questo ufficiale si chiama Peciòrin ed assomiglia molto all’autore, non tanto fisicamente quanto psicologicamente. Un eroe del nostro tempo, proprio per questo aspetto "psicologico", viene considerato un capolavoro letterario, e, più che un romanzo, è stato definito come una specie di trattato autobiografico, come un testo di autobiografia analitica, infatti i cinque racconti vogliono illustrare ciascuno un aspetto diverso del complicato carattere di Peciòrin, e ognuno di questi aspetti è un segno reale della tormentosa vicenda interiore, del drammatico itinerario spirituale dell’autore stesso.

   Una parte dei racconti che formano il testo di Un eroe del nostro tempo sono narrati da un conoscente del protagonista, un personaggio molto caratteristico: Maksìm Maksìmovic. Un’altra parte di racconti, l’autore, dice – finge – di averli trascritti dal diario di Peciòrin stesso: come dire dal diario di Lermontov in prima persona. Il protagonista, l’ufficiale Peciòrin, è una persona irrequieta ed annoiata, che si tiene alla larga dai suoi commilitoni perché soffre di un irriducibile complesso di superiorità: si sente l’influsso dei personaggi di Byron e di Pùškin.

   Attenzione, però: è necessaria una riflessione sulla originalità di Lermontov rispetto a Byron e a Pùškin. Fin dal principio, la critica ha accostato Peciòrin a Evgénij Onégin, protagonista dell’omonimo romanzo in versi pùškiniano ma – a parte le evidenti somiglianze –l’atteggiamento di Lermontov nei confronti del suo personaggio è meno ironico. Pùškin nell’Onégin, e in tutte le sue opere, fa uso di continue digressioni per mantenere il distacco dai personaggi, in modo da costruire delle figure letterarie che siano "simbolicamente" romantiche, nelle quali, poi, rispecchiarsi. Lermontov, invece, è direttamente, "realisticamente", coinvolto con il suo personaggio: la sua autobiografia e la sua psiche – anche e soprattutto nelle peggiori manifestazioni – si rispecchia nel suo personaggio. Pùškin "recita" la parte di Onégin e anche la parte degli altri suoi personaggi: porta sul palcoscenico della realtà le figure "romantiche" che ha creato: viaggia dall’immaginario alla realtà. Lermontov non recita la parte di Peciòrin perché, questo personaggio, è "realisticamente" lui stesso: viaggia dalla realtà alla letteratura.

   I personaggi di Pùškin, i personaggi dell’Evgénij Onégin sono, prima di tutto, il frutto dell’immaginario del poeta – per questo l’eleganza con cui vengono resi poeticamente è straordinaria – e lui stesso (lo abbiamo constatato in occasione della sua "fine") s’incarica d’interpretarli nella realtà. Lermontov, prima di tutto, porta dentro la letteratura le caratteristiche proprie e i tratti reali di una generazione che si è definita "romantica" e che constata i limiti, le contraddizioni e le amare sconfitte di quasi tutte le scelte che sono state fatte. Peciòrin, l’eroe del nostro tempo, è la realtà psicologica di Lermontov, ed è soprattutto l’autobiografia di una generazione che, senza infingimenti, senza atteggiamenti opportunisticamente falsificati, diventa letteratura.

   A questo punto – dopo circa otto mesi di cammino – dobbiamo renderci conto del fatto che, in questo spazio intellettuale, dove ci ha condotto il sentiero intitolato Il sorriso de La Gioconda, s’intravedono ormai i confini tra il territorio del "romanticismo" e il territorio del "realismo". Nel romanzo Un eroe del nostro tempo l’autore, all’intento artistico, associa anche un contenuto sociale che riassume nell’introduzione: "È un ritratto – scrive Lermontov – ma non di un solo uomo: è un ritratto composto con i vizi di tutta la nostra generazione, nel loro pieno sviluppo".

   Dagli anni Quaranta in poi (dell’800) tutti i romanzieri s’ispirano a questa presa di posizione "realistica" di Lermontov per affermare che il romanzo è un genere letterario che tende a tenere in equilibrio la realtà e l’immaginario, e, per questo motivo, – ci tengono ad affermare – si tratta di un genere letterario "realistico", un genere letterario che riesce a dipingere un quadro della realtà.

   Perché il romanzo – che nasce e si sviluppa (come sappiamo) dall’incontro tra le caratteristiche del romanticismo titanico con quelle del romanticismo galante – viene definito un genere "realistico" se la maggior parte delle storie e dei personaggi sono inventati? Perché la "realtà" stessa – e questa è un’idea (da conoscere, da capire e da applicare) che prende ulteriore forma all’interno della cultura romantica – può essere definita solo in questo senso: come un intreccio, un amalgama, una mescolanza, un miscuglio, un impasto di dati di fatto, di situazioni, di avvenimenti "realmente" accaduti e di visioni, di sogni, di pensieri "realmente" immaginati. La "realtà" – secondo i romanzieri dell’800 – è un intreccio indissolubile tra dati di fatto e pensieri che si sovrappongono incessantemente. Il romanzo dell’800 descrive, narra, racconta questa "realtà". Ecco perché il romanzo dell’800 viene definito un genere letterario "realistico" e Un eroe del nostro tempo di Lermontov – secondo i romanzieri dell’800 – viene considerato utile per definire il romanzo come un genere letterario di tipo "realistico".

   Il romanzo Un eroe del nostro tempo di Lermontov – insieme alle opere di Stendhal, che abbiamo incontrato in questo stesso Percorso e che è morto nel 1841, lo stesso anno di Lermontov – viene giudicato come uno dei varchi di passaggio tra il "romanticismo" e il "realismo".

   L’Introduzione con cui ha inizio il romanzo Un eroe del nostro tempo è considerata una specie di manifesto che testimonia una svolta – siamo nel 1840 – nella grande stagione del "romanticismo": dopo la fusione tra il titanismo e la galanteria, il "romanticismo" assume caratteristiche meno collegate alla fantasia ma più unite alla Storia (con la "S maiuscola": ecco un parola chiave che avrà un avvenire, e noi la cavalcheremo in autunno:le parole galoppano). Il risultato di questa fruttuosa stagione, chiamata del "romanzo dell’800" – è una morale? è un’ideologia? è un divertimento? Lermontov (come Stendhal) non lo vede, e non saprà mai che ne verrà fuori – soprattutto per la didattica della lettura e della scrittura – uno straordinario e variegato paesaggio intellettuale.

   Leggiamo l’Introduzione al romanzo Un eroe del nostro tempo dove – tra le altre affermazioni – spicca quella in cui lo scrittore lamenta "l’impreparazione culturale e intellettuale" del pubblico dei lettori. Chissà che cosa direbbe oggi Lermontov se sapesse che, "nella terra della grande letteratura del Rinascimento, nella culla di tutte le Arti" – così era vista l’Italia, dagli intellettuali europei, durante l’età romantica – il 77% dei cittadini adulti non legge mai e l’86% non scrive mai? E allora leggiamo.

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 Michail Lermontov, Un eroe del nostro tempo (1840)

 PREFAZIONE DELL'AUTORE

In ogni libro, la prefazione è la prima e, insieme, l’ultima cosa: serve o a chiarire lo scopo del libro, o a giustificarsi e a rispondere alle critiche. Ma, di solito, i lettori non si interessano del fine morale o degli attacchi della stampa, e perciò non la leggono mai. Peccato che sia così, soprattutto da noi. Il nostro pubblico è così giovane e ingenuo da non capire le favole se in fondo non vi trova una morale; non si diverte agli scherzi, non sente l’ironia: in una parola, è educato male. Non sa ancora che in una società come si deve, e in un libro come si deve, non c’è posto per l’ingiuria manifesta; che la cultura ha escogitato un’arma molto tagliente, pressoché invisibile e tuttavia mortale: sotto l’apparenza della lusinga, essa inferisce colpi ineluttabili e sicuri. Il nostro pubblico assomiglia a un provinciale che, ascoltando la conversazione di due diplomatici appartenenti a Corti nemiche, si faccia la convinzione che ciascuno di loro inganna il proprio governo a vantaggio di una reciproca tenerissima amicizia.

Questo libro, ancora recentemente, ha sofferto per la malaugurata fiducia che parecchi lettori e persino i critici hanno riposto nel significato letterale delle parole. Alcuni si offesero moltissimo, e non per burla, che fosse elevato ad esempio d’uomo un personaggio tanto immorale come l’eroe del nostro tempo. Altri osservarono molto sottilmente che l’autore aveva ritratto se stesso e tutti i suoi conoscenti Vecchia e pietosa facezia! Ma, evidentemente, la Russia è così fatta che tutto vi si rinnova, tranne simili assurdità.

Presso di noi, la più magica delle favole a stento sfugge al rimprovero di oltraggio alla persona umana.

Un eroe del nostro tempo, egregi signori, è davvero un ritratto; ma non di una persona sola: è il ritratto dei vizi di tutta la nostra generazione nel suo pieno rigoglio. Mi direte ancora che l’uomo non può essere tanto malvagio. Io vi risponderò: se avete potuto credere che siano esistiti gli scellerati tragici e romantici, perché non credereste alla realtà di Peciòrin? Se avete tratto diletto da finzioni assai più terribili e mostruose, perché questo carattere, anche se inventato, non trova grazia presso di voi? Forse contiene più verità di quanto non desiderereste?

Mi direte che la morale non ci guadagna nulla. Permettete! Per un pezzo gli uomini si sono nutriti di dolciumi, e perciò si sono ammalati di stomaco: urgono amare medicine, verità scottanti. Non crediate, tuttavia, da ciò che ho detto, che l’autore di questo libro abbia avuto mai l’orgogliosa intenzione di correggere i vizi umani. Che Dio lo preservi da simile presunzione! Si è semplicemente divertito a ritrarre un uomo contemporaneo così com’egli lo ha visto e come troppo spesso lo ha incontrato, per disgrazia sua e vostra. Basti, per ora, individuare il male. In quanto a curarlo lo sa Iddio!

   Naturalmente uno dei temi "malvagi e immorali" de Un eroe del nostro tempo è il rituale cruento del duello. C’è, nel romanzo, un episodio molto significativo in cui Peciòrin sta per combattere un duello alla pistola pur sapendo che, il suo avversario, Grusnizki, ha fatto in modo –complici i suoi padrini – che lui abbia un’arma caricata a salve. Peciòrin, sdegnosamente, rifiuta di denunciare l’inganno e accetta di battersi con la pistola scarica per umiliare il rivale con questo gesto di supremo disprezzo. In questo episodio emerge un misto di coraggio, di orgoglio, di snobistica noncuranza nei confronti della propria vita, di freddezza, di ostentazione, di presunta superiorità.

   Lermontov possiede uno stile originale di scrittura rispetto a Byron e rispetto a Pùškin e propone il suo "eroe" con una prosa nervosa ed elegante di grande contemporaneità. Questa caratteristica della prosa di Lermontov lo allontana, quindi, dai modi solenni della tradizione. Questo modo di scrivere impressiona profondamente i lettori, soprattutto i giovani, che hanno fatto diventare anche Lermontov, come Pùškin, uno scrittore mitico e il suo romanzo un libro di culto: leggiamo questo brano.

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Michail Lermontov, Un eroe del nostro tempo (1840)

Il piazzale sul quale dovevamo batterci formava quasi un triangolo perfetto. Dall’angolo più esterno misurammo sei passi e decidemmo che quegli cui sarebbe toccato per primo sottostare al fuoco dell’avversario si sarebbe collocato proprio nell’angolo, volgendo le spalle al precipizio; se non fosse stato ucciso, allora gli avversari avrebbero scambiati i posti. Io decisi di offrire tutti i vantaggi a Grusnizki; volevo metterlo alla prova; nella sua anima poteva ridestarsi un po’ di magnanimità, e allora tutto si sarebbe accomodato per il meglio; ma l’amor proprio e la debolezza del suo carattere dovevano avere il sopravvento... Volevo darmi la possibilità di essere in pieno diritto di non risparmiarlo se il destino mi avesse risparmiato a sua volta. Chi non ha contratto simili patti con la propria coscienza?

"Gettate la moneta, dottore!", disse il capitano.

Il dottore trasse di tasca una moneta d’argento.

"Croce!" gridò Grusnizki in fretta, come un uomo svegliato da uno scossone.

"Testa!" dissi a mia volta.

La moneta volò in aria e ricadde tintinnando; tutti vi si precipitarono sopra.

"Siete fortunato, – dissi a Grusnizki, – tocca a voi sparare per primo! Ma ricordate che se non mi ucciderete io non fallirò il colpo, ve ne do la mia parola d’onore".

Egli arrossí; si vergognava di uccidere un uomo disarmato; lo fissavo intensamente; per un attimo mi parve che si sarebbe gettato ai miei piedi chiedendomi perdono; ma come ammettere di aver avuto sì bassi propositi?... Gli restava un’unica possibilità: sparare in aria; ero certo che avrebbe sparato in aria! L’unica cosa che avrebbe potuto distoglierlo era il pensiero che in tal caso avrei chiesto un altro scontro con lui.

"È ora! – mi sussurrò il dottore tirandomi per la manica, – se voi ora non dite che noi conosciamo le loro intenzioni, tutto è perduto. Guardate; stanno già caricando le pistole... se non direte nulla, io stesso...".

"Per nulla al mondo, dottore! – gli risposi trattenendolo per un braccio; – guastereste tutto; m’avete dato la parola di non intromettervi... Non è affar vostro... Forse voglio essere ucciso...".

Egli mi guardò con stupore.

"Oh! questo è un altro bel discorso!... però all’altro mondo, poi, non lagnatevi di me...".

Il capitano caricò intanto le pistole, una la diede a Grusnizki, con un sorriso bisbigliandogli qualche cosa; l’altra la diede a me.

Mi misi all’angolo del piazzale, puntando saldamente il piede sulla roccia e chinandomi leggermente in avanti affinché, pel caso che fossi ferito leggermente, non cadessi all’indietro.

Grusnizki mi si mise di fronte, e appena il segnale fu dato, cominciò ad alzare la pistola. Le sue ginocchia tremavano. Egli mirava alla mia fronte. Un incredibile furore divampò nel mio petto.

Improvvisamente egli abbassò la pistola, e, pallido come un cencio, si volse al suo padrino.

"Non posso", disse con voce afona.

"Vile!" rispose il capitano.

Il colpo partì. La pallottola mi graffiò un ginocchio. Istintivamente feci qualche passo in avanti, per allontanarmi più presto dall’orlo del precipizio.

"Eh, caro Grusnizki, peccato, hai fallito il colpo! – disse il capitano, – ora è il tuo turno! Abbracciami prima; poiché non ci vedremo più!". Essi si abbracciarono; il capitano tratteneva a stento il riso. "Non temere, – aggiunse, guardando maliziosamente Grusnizki, – a questo mondo tutto è sciocchezza. Stupida è la Natura, sciocco è il Destino, e la Vita non vale un centesimo!" (Siamo al capolinea del "romanticismo", sulla via di una orgogliosa auto-distruzione?…N.d.P.). Dopo aver detto, con la serietà richiesta dalle circostanze, questa tragica frase, egli tornò al suo posto; Ivàn Ignatievic abbracciò con le lagrime agli occhi Grusnizki, ed ecco che questi restò solo di fronte a me. Ancora mi sto chiedendo quali fossero i sentimenti che in quel momento provavo: era l’ira dell’amor proprio offeso, era disprezzo, era odio suscitato dal pensiero che quell’uomo, che ora mi guardava con tanta baldanza e arroganza, un minuto prima, senza alcun rischio per sé, aveva voluto uccidermi come un cane, poiché, se fossi stato ferito alla gamba un po’ più gravemente, sarei certamente caduto nel precipizio.

Per qualche minuto lo fissai in viso, cercando di scorgervi anche solo un piccolo segno di pentimento. Ma mi parve che cercasse di nascondere un sorriso.

"Vi consiglio di pregar Dio prima di morire", gli dissi allora.

"Non preoccupatevi della mia anima più che della vostra. Una cosa vi chiedo: fate presto a sparare".

"E non ritrattate le vostre calunnie? non mi chiedete perdono? Pensateci un po’ su: non vi dice niente la vostra coscienza?".

"Signor Peciòrin! – gridò il capitano dei dragoni, – lei non è qui per far delle prediche, permetta che glielo faccia notare Sbrighiamoci, tra poco passerà qualcuno nel vallone, e ci vedranno".

"Bene. Dottore venite un po’ qua".

Il dottore mi si avvicinò. Povero dottore! Egli era più pallido di quanto lo fosse stato Grusnizki dieci minuti prima.

Poi dissi, a chiara ed alta voce, come si legge una sentenza di morte:

"Dottore, questi signori, nella fretta, devono aver scordato di mettere una pallottola nella mia pistola: la prego di ricaricarla, e bene!".

"È impossibile! – gridò il capitano, – è impossibile! Io stesso ho caricato ambedue le pistole; forse dalla vostra è caduta la pallottola Non è colpa mia! E voi non avete nessun diritto di ricaricarla nessun diritto è assolutamente contro ogni regola; e io non lo permetterò".

"Bene! – dissi al capitano, – se è così, noi due ci sfideremo alle medesime condizioni".

Egli esitò.

Grusnizki stava con la testa china sul petto, confuso e torvo.

"Lasciali stare! – disse infine al capitano, che voleva strappare la mia pistola dalle mani del dottore – Sai bene che hanno ragione".

   Naturalmente il duello verrà ripetuto e Peciòrin ucciderà Grusnizki.

   Non a caso abbiamo puntato, ancora una volta, la nostra attenzione sul tema del duello: perché? Perché come è accaduto a Pùškin, accade anche a Michail Lermontov di morire in un duello "romantico" e insensato. La morte in duello unisce i due poeti come li unisce la tematica poetica.

   Sappiamo che nella primavera del 1841 Lermontov ritorna nel Caucaso dopo un breve soggiorno a Pietroburgo e nel mese di maggio si trova nella stazione termale di Pjatigorsk, per curarsi. Qui incontra il maggiore Nikolaj Martynov che era stato suo compagno di corso, sei anni prima, alla scuola dei Tenenti della Guardia, a Pietroburgo. Lermontov e Martynov cominciano a frequentarsi e diventano amici. Martynov ha una ragazza: questa bella ragazza piace anche a Lermontov che però, sgraziato com’è, non ha nessuna possibilità di successo: se mai l’unica possibilità che ha è quella di cadere nel ridicolo. Per gioco o per posa Lermontov comincia a provocare l’amico e l’amico risponde, ma dalle parole scherzose, i due, passano alle offese, alle ingiurie, agli oltraggi, e infine alla sfida cruenta. E così, presso la stazione termale di Pjatigorsk, nella piena estate russa, il 15 luglio 1841, al margine di un bosco di betulle, Michail Lermontov solleva la pistola da duello contro il maggiore Nikolaj Martynov. Ma prima che possa premere il grilletto, viene fulminato dalla pallottola sparata, con precisione, dal suo avversario. Questo avviene pochi attimi prima dell’inizio di un violentissimo temporale, e tutti i presenti scappano a ripararsi.

   Il corpo di Lermontov rimane per alcune ore sotto il terribile bagliore dei lampi, sotto le roboanti esplosioni dei tuoni, sotto le ululanti raffiche del vento e in balia dello scroscio torrenziale della pioggia. Di fronte a questa evidente, sublime, manifestazione "romantica" non ha potuto non correre la voce – tra i presenti – che tra i turbini roboanti ed ululanti si poteva – a ben guardare – scorgere l’anima del poeta finalmente libera, svincolata, affrancata dalla prigione di un corpo, indegno per un simile spirito, un po’ angelico e un po’ demoniaco.

   Così si creano le leggende, si formano i repertori e si sviluppano le trame: così nascono i romanzi in modo che i lettori e gli scrivani possano usufruire del sottile piacere del testo. Lermontov non aveva ancora compiuto 27 anni e la sua morte è, in un certo senso, una morte coerente, che andava cercando da tempo. Lermontov è stufo di sperimentare quello che chiama: il senso del rifiuto legato alla bellezza. Chi possiede la bellezza – ha sempre sostenuto Lermontov – possiede anche il potere d’interdizione, possiede l’arma del rifiuto che causa inquietudine e turbamento. E l’inquietudine e il turbamento conducono verso l’auto-distruzione.

   L’ultimo brano che leggiamo – tratto da Un eroe del nostro tempo – è un passo dotato di vitalità e di leggerezza e, inoltre, è un frammento ricco di riferimenti culturali romantici: di citazioni titaniche e galanti.

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Michail Lermontov, Un eroe del nostro tempo (1840)

D’un tratto, qualcosa che assomigliava a un canto mi colpì l’orecchio. Era proprio un canto: una fresca voce femminile ma da dove veniva? Mi misi ad ascoltare. Era un canto melodioso ora triste, ora svelto e vivace Guardai in giro; non c’era nessuno. Ascoltai ancora attentamente: era come se i suoni cadessero dal cielo. Alzai gli occhi: sul tetto della capanna stava una ragazza con un vestito a strisce e le trecce sciolte; una vera ondina (un personaggio fiabesco paragonabile alle sirene della mitologia classica). Facendosi schermo agli occhi con la mano, per ripararsi dai raggi del sole, spingeva lo sguardo lontano, ora ridendo e ragionando tra sé, ora cantando la sua canzone. Me la ricordo parola per parola:

 In piena libertà sul verde mare vanno tutte le navi dalle vele bianche.

Fra quelle navi c’è la mia barchetta, a due remi, senza cordami.

Se la tempesta infuria, le vecchie navi, nel mare si disperdono, sollevano le ali,

Io m’inchino profondamente al mare. Non toccare, rabbioso mare, la mia barchetta:

la mia barchetta porta cose preziose, e la governa nella notte tenebrosa

una persona energica, decisa, coraggiosa.

Mi si affacciò spontaneo il pensiero che avevo già udito quella notte la stessa voce.

Ci pensai su un momento. Quando di nuovo guardai sul tetto, la fanciulla era sparita. Improvvisamente mi passò davanti cantando un’altra canzone, e facendo schioccare le dita corse dalla vecchia, con la quale cominciò a litigare. La vecchia si arrabbiava e lei rideva forte.

Ed ecco, vedo la mia ondina correre di nuovo verso di me saltellando. Quando mi fu davanti, si fermò a guardarmi fissamente negli occhi come sorpresa della mia presenza; poi, con aria di nulla, si voltò, e a passi lenti si avviò verso il porto. Ma la cosa non finì lì. Per tutto il giorno continuò ad aggirarsi intorno alle mie camere. Il canto e i salti non si interruppero neppure per un istante.

Che strana creatura! Sul suo viso non c’erano i segni dello squilibrio ma, al contrario, i suoi occhi indugiavano su di me con vivace penetrazione; occhi che sembravano dotati di non so quale potere magnetico, come se ogni volta si aspettassero una domanda.

Ma appena cominciavo a parlare, scappava via ridendo con malizia. Decisamente, non avevo mai visto una ragazza simile. Era tutt’altro che bella, ma anche in fatto di bellezza ho i miei pregiudizi. In lei c’era della qualità, in Francia direbbero della razza. Nelle donne, come nei cavalli, la razza ha molta importanza; questa scoperta appartiene alla giovane Francia. Essa, cioè la razza (non la giovane Francia), per lo più si rivela nell’andatura; nelle mani e nei piedi; e il naso specialmente vuol dir molto. In Russia un naso dritto è più raro di un piede piccolo. La mia cantatrice dimostrava non più di diciotto anni. L’incredibile snellezza del suo corpo, un certo modo caratteristico che aveva di piegare la testa, i lunghi capelli biondo-scuri, una specie di aurea iridescenza della pelle lievemente abbronzata sul collo e sulle spalle, e soprattutto il naso dritto, erano tutte cose che m’incantavano.

Benché nei suoi sguardi obliqui leggessi un certo che di selvaggio e di sospetto, benché nel suo sorriso ci fosse qualcosa d’indefinibile, è così potente la forza del pregiudizio, che il suo naso dritto mi fece uscir di senno. M’immaginavo di aver trovato la Mignon, la deliziosa creatura nata dalla fantasia di Goethe.

Infatti, tra di loro c’erano molte affinità: gli stessi rapidi passaggi da un’irrequietezza eccessiva a una calma immota, gli stessi discorsi enigmatici, gli stessi salti, le stesse strane canzoni

Sul far della sera, essendo riuscito a fermarla sulla porta, si svolse fra di noi questo dialogo: «Dimmi, bella,» le dissi, «che stavi facendo oggi sul tetto?».

«Guardavo da che parte tira il vento.»

«Che te ne importa?»

«Dalla parte del vento viene anche la felicità.»

«Ebbene? Con la tua canzone volevi forse chiamare la felicità?»

«Quando si canta si è felici.»

«E se per caso il tuo canto ti portasse disgrazia?»

«Che importa? Quando non si sta meglio si sta peggio, e dal male al bene la distanza è poca.»

«Chi ti ha insegnato quella canzone?»

«Nessuno. Canto quando mi salta in mente; chi deve sentire sente, e chi non deve sentire non può capire.»

«E come ti chiami, mia bella canterina?»

«Chi mi ha battezzato, lo sa.»

«E chi ti ha battezzato?»

«Come faccio a saperlo!»

«Quanti misteri! Io invece so qualcosa di te» (non cambiò d’espressione, né mosse le labbra, come se non si trattasse di lei). «Ho saputo che ieri notte sei andata alla spiaggia.»

Riferii, molto gravemente, tutto quello che avevo visto, pensando di confonderla. Macché! Scoppiò a ridere a piena gola.

«Avete visto molto, ma sapete poco; e quello che sapete, tenetevelo nella bocca.»

«E se avessi intenzione di riferirlo al comandante?»

Qui presi un’aria molto seria, perfino severa.

Improvvisamente fece un salto, e sparì mettendosi a cantare, come un uccellino spaventato s’invola da un cespuglio.

Le mie ultime parole erano del tutto fuor di posto. In quel momento, non ne sospettavo l’importanza. Ma in seguito ebbi modo di pentirmene.

All’imbrunire, ordinai al cosacco di scaldare per bene la teiera. Accesi la candela e mi sedetti a tavola. Fumavo la mia pipa da viaggio e stavo finendo il secondo bicchiere di tè, quando la porta scricchiolò e udii alle mie spalle un breve fruscio di vesti e di passi. Sussultai e mi volsi. Era lei, la mia ondina. Sedette di fronte a me, tranquilla e silenziosa, fissandomi con uno sguardo che, non so perché, mi sembrò meravigliosamente tenero. Mi ricordava altri sguardi; quelli che, in tempi lontani, si erano così dispoticamente trastullati con la mia vita.

Sembrava che aspettasse una domanda. Io tacevo, preso da un inesplicabile imbarazzo.

   Che domanda farà l’ondina all’eroe del nostro tempo? Per saperlo non resta che proseguire la lettura…

   Noi, per concludere, dobbiamo invece rispondere a un’altra domanda: qual è la parola-chiave più importante che troviamo nel romanzo Un eroe del nostro tempo? La parola-chiave, a cui corrisponde una significativa idea romantica, che emerge dal testo del romanzo di Lermontov, e che avrà – come tutte le parole che abbiamo finora catalogato – un notevole sviluppo nei romanzi dell’800: è la parola "isolamento". L’aspetto più significativo del carattere di Peciòrin – l’eroe di questo romanzo – è l’isolamento: proprio perché l’autore, Lermontov, è un "isolato" tanto come uomo quanto come scrittore, con tutto ciò che, di bene e di male, comporta questa condizione. E la parola "isolamento" muove una schiera di ulteriori parole significative: il distacco, la separazione, la solitudine, la prigionia, la segregazione, l’esclusione, l’emarginazione, la quarantena, la clausura, l’eremitaggio…

   La parola "isolamento" viene coltivata principalmente dalla cultura titanica del romanticismo, ma anche la cultura galante coltiva la parola e l’idea di "isolamento", e questo atteggiamento – dove la galanteria è soprattutto compagnia – sembra una contraddizione, difatti è un’aporia cioè una contraddizione necessaria nella logica per cui un concetto viene esaltato dal suo opposto: non c’è percezione della compagnia senza l’isolamento, e viceversa. La cultura romantica in generale considera positivo tanto il concetto della compagnia quanto quello dell’isolamento, con un’affermazione esemplare: la compagnia è bella, l’isolamento è sublime. In sintesi possiamo dire che la parola e l’idea di "isolamento" si sviluppa nei romanzi soprattutto in duplice veste: come un’esigenza di carattere religioso in cui "isolarsi" serve per dare spazio alla fede piuttosto che alla religione, ma anche come un’aspirazione laica in cui "l’isolarsi" serve per far posto ad una riflessione sui valori dell’esistenza.

   Facciamo due esempi in proposito (se ne potrebbero fare molti). Il tema dell’isolamento in quanto esigenza di carattere religioso lo troviamo sviluppato nel breve romanzo di Leone Tolstoj che s’intitola Padre Sergio (1890-1898): di cui si consiglia la lettura o la rilettura. Il secondo esempio significativo riguarda ancora un romanzo di Leone Tolstòj che s’intitola Vojna i mir (dubito che lo abbiate mai sentito nominare), traduco: Guerra e pace, di cui si consiglia la lettura. Possiamo dire che tutti i principali personaggi del romanzo Guerra e pace – tanto quelli immaginati quanto quelli storici – sentono, prima o poi, almeno una volta nella loro vita (narrata dallo scrittore) l’aspirazione all’isolamento.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura

Si può subire l’isolamento, desiderare l’isolamento, aspirare all’isolamento… Che cosa ti ricorda la parola "isolamento"? Ha un posto nella tua autobiografia questa parola?

Scrivi quattro righe in proposito…

   La prossima settimana ci aspetta l’ultimo itinerario di questo Percorso 2004-2005 (il ventesimo di questa esperienza didattica): ci rimangono da fare quattro passi per concludere. Questi quattro passi li facciamo anche in compagnia del personaggio che ci ha accompagnato – in questi ultimi mesi, silenziosamente – per tutto il Percorso: il signor Vivant Denon, ve lo ricordate? Inoltre, uno di questi ultimi quattro passi lo facciamo ancora in compagnia di Friedrich Schiller. Che cosa ha ancora da raccontarci Vivant Denon del presente? Che cosa ha ancora da raccontarci Friedrich Schiller per l’avvenire?

   Per gli ultimi quattro passi di questo ventesimo anno di Percorsi di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettera e della scrittura ci diamo appuntamento per la prossima settimana non solo per concludere ma anche per programmare la prossima partenza.

   Accorrete, la Scuola è qui…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 20, 2005