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IL VALORE DEL "SAPER NARRARE"…

Lezione N.: 
22

Prof. Giuseppe Nibbi       Tra ‘700 e ‘800: il sorriso de La Gioconda 2005       6-7-8 aprile 2005

IL VALORE DEL "SAPER NARRARE"…

   Ci troviamo ancora a Pietroburgo in compagnia del famoso poeta Aleksàndr Sergeević Pùškin. La scorsa settimana abbiamo partecipato al matrimonio di Pùškin. Sappiamo che nel 1829 Pùškin incontra Natàl’ja Nikolaevna Gonćaròva, e per lui sarà un incontro fatale che condizionerà tutta la sua vita, e anche la sua morte. La sedicenne Natàl’ja è una fanciulla bellissima e la sua bellezza risulta inquietante e conturbante tanto agli occhi di Pùškin quanto agli occhi di tutti coloro che la incontrano. Lui, dopo averla frequentata per qualche settimana, le invia una poetica dichiarazione d’amore con la proposta di fidanzamento. Lei subito respinge questa proposta dichiarando che non ha ancora l’età per occuparsi di faccende amorose, poi però gli fa sapere che ci penserà e, al compimento del suo diciassettesimo anno, gli darà una risposta.

   È in questa occasione, in preda all’ansia, che Pùškin scrive quel famoso sonetto – che abbiamo già letto per ben tre volte – in cui cita anche Monna Lisa. È per merito di questo sonetto che Pùškin si trova a pieno titolo su questo sentiero intitolato il sorriso de La Gioconda. Ormai sappiamo quasi a memoria che questo sonetto è un vero e proprio manifesto del pensiero che attribuisce alla bellezza uno sguardo inquietante, conturbante, e Pùškin questa esperienza l’ha vissuta in prima persona con tutte le conseguenze che comporta. A questo punto se il poeta è convinto che la bellezza è legata al mistero e al turbamento, alla perdizione, alla dannazione, all’inquietudine. Perché, ci siamo già domandati la scorsa settimana, di fronte a questi presagi così sfavorevoli, di cui è consapevole non si è allontanato da questa fanciulla? Probabilmente Pùškin, proprio attraverso il suo stato d’animo "romantico" è attratto da ciò che turba, da ciò che inquieta.

   Pùškin è desideroso di sposare, nel febbraio del 1831, la bellissima Natàl’ja. La felicità del matrimonio è stata per Pùškin di breve durata: Natàl’ja è una persona superficiale e banale, ed è interessata solo – come la maggior parte delle ragazze della sua classe sociale – alla vita brillante di società. La giovane Natàl’ja non è in grado di aprirsi a una comunanza spirituale con il marito, ma anche Pùškin – che è troppo chiuso nel suo mondo poetico e letterario – trova difficoltà a comunicare con la moglie. Inizialmente Pùškin accetta di adeguarsi allo stile di vita della moglie ma poi comincia a sentirsi costretto ad accompagnarla di continuo a balli e ricevimenti dove erano messi alla prova, in pari misura, il suo orgoglio di poeta e la sua gelosia. Questa costrizione diventa una vera e propria repulsione quando Pùškin è costretto a subire una grave umiliazione. Deve difatti anche subire l’umiliazione di essere insignito da Nicola I – il quale non vedeva l’ora di infierire contro Pùškin per il suo passato "decabrista" – del titolo di gentiluomo di camera, un titolo di norma riservato ai lecca piedi dello zar. Nicola I, con questo conferimento, intendeva soprattutto agevolare l’ammissione a corte della bella Natàl’ja con la quale lui – in quanto primo gallo del pollaio imperiale – amava compiacersi di civettare soprattutto per umiliare e per far innervosire Pùškin che sapeva, come tutti sapevano, essere molto geloso.

   Pùškin comincia a vivere una vera e propria tragedia personale: non può né rinunciare al titolo che gli è stato conferito, in apparenza con tanta generosità, né può tanto meno fuggire. Quello che lo amareggia di più è poi il fatto che viene calando anche il favore del pubblico: soprattutto le giovani generazioni che avevano letto le liriche di un Pùškin volterriano, libertario e decabrista, cominciano a considerarlo ormai quasi un relitto del passato, accusandolo inoltre di esser divenuto un lecca piedi dello zar e un reazionario.

   Pùškin non sa bene come comportarsi – in lui si agitano orgoglio, gelosia, rabbia, rancore – poi decide di accettare l’incarico dello zar che gli apre gli archivi dello Stato affinché scriva la storia di Pietro il Grande. Pùškin accetta perché ha un’idea, e noi sappiamo che Pùškin non scriverà mai un’opera sulla vita di Pietro il Grande ma comporrà un poema, Il cavaliere di bronzo, di cui conosciamo forma, contenuto e interpretazione. Ne Il cavaliere di bronzo il poeta, colpito nell’orgoglio, nell’introduzione esalta Pietro, ma nella favola successiva denigra – per bocca di un povero impiegato impazzito – l’operato di uno zar di metallo in cui riconosciamo Nicola.

   Un po’ di consolazione Pùškin la trova nelle ricerche d’archivio che ha intrapreso, e queste ricerche se non lo conducono a comporre una storia su Pietro il Grande tuttavia non restano senza frutti collaterali. Pùškin attraverso i documenti d’archivio scopre la storia di un personaggio che lo attrae e gli dà modo di far luce su un altro periodo molto confuso della storia russa. Il personaggio in questione è Ivanović Pugaćev. Chi è Ivanović Pugaćev? Ivanović Pugaćev (1742 circa - 1775) è un famoso rivoluzionario russo il quale ha organizzato una serie di rivolte contadine in Ucraina e si è stabilito nel 1773 nella regione del Volga. Ivanović Pugaćev diventa un vero e proprio personaggio da romanzo – e anche per questo motivo interessa molto a Pùškin – quando comincia a spacciarsi per lo zar Pietro III che era stato ucciso in una congiura nel 1762 ma era ritenuto ancora vivo. Ivanović Pugaćev, impersonando Pietro III, guida la famosa rivolta dei cosacchi contro Caterina II che aveva deciso di abolire lo status di autonomia dei cosacchi del Volga. Nel 1774 l’esercito dei cosacchi comandato da Ivanović Pugaćev sconfigge ripetutamente le truppe dell’imperatrice conquistando Orenburg e Kazan’ aggregando un variegato movimento, unito nella rivendicazione dell’abolizione della servitù della gleba e nella richiesta del rispetto delle autonomie locali. A questo punto i cosacchi di Ivanović Pugaćev vengono affrontati da soverchianti truppe dell’esercito imperiale. Pugaćev si ritira a Saratov e la occupa ma il 21 agosto 1774 viene sconfitto in una terribile battaglia campale a Sarepta dove viene catturato: trasferito a Mosca viene processato e giustiziato il 10 gennaio 1775.

   Pùškin scrive a grandi linee la Storia della rivolta di Pugaćev e poi, preso da questo nuovo interesse decide di partire – anche per documentarsi meglio – per un lungo viaggio sui luoghi che – dalla valle del fiume Volga alla valle del fiume Ural – erano stati il teatro delle imprese di Ivanović Pugaćev. Pùškin visita Kazan’, Simbirsk, Orenburg, Saratov, Sarepta.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Con l’atlante e con l’enciclopedia o con l’aiuto della rete puoi seguire le orme di Pùškin, buon viaggio

Le notizie d’archivio raccolte e le impressioni di questo viaggio di ricognizione si fondono insieme nel romanzo storico La figlia del capitano (1836). Questo testo in prosa – a detta di tutti gli esperti – è di grande pregio e merita di essere letto…

   Le notizie d’archivio raccolte e le impressioni di questo viaggio di ricognizione si fondono insieme nel romanzo storico La figlia del capitano. Questo testo in prosa – a detta di tutti gli esperti – è di grande pregio. Il romanzo La figlia del capitano fu concluso da Pùškin nel 1836 dopo averlo rielaborato più volte. Lo stile della prosa di Pùškin è sobrio, diretto e familiare e, con questo stile, è capace di far emergere bene la vita interiore dei personaggi che animano il romanzo. Pùškin non si perde a descrivere minuziosamente i particolari, ma presenta quei luoghi come fosse un disegnatore che, viaggiando, compone schizzi svelti e suggestivi: lascia spazio al lettore perché possa completare il quadro attraverso il suo immaginario. Nello stesso modo presenta i personaggi, con pochi tratti significativi, come per esempio, l’immagine dell’imperatrice Caterina che appare, appena sbozzata, in una sola scena del romanzo: questa descrizione, di poche parole, costituisce un modello esemplare di ritratto letterario che si distingue non per quello che lo scrittore dice, ma per quello che non dice, che non vuole dire…contribuendo ad alzare il tasso di curiosità e a stimolare lo spirito di ricerca: questo gioco tra il dire e il non dire è una delle caratteristiche più significative dello stile di Pùškin e ne parleremo ancora perché è una delle caratteristiche fondamentali del genere letterario del "romanzo". Leggiamo il frammento in cui compare e non compare la grande Caterina soprattutto per renderci conto dello stile di Pùškin: semplice, immediato, spontaneo, dotato della stessa leggerezza che ha un disegnatore quando ferma in uno schizzo gli attimi fuggenti di una situazione.

 LEGERE MULTUM….

 Aleksàndr Sergeević Pùškin, La figlia del capitano (1836)

Mar’ja Ivanovna, rimasta a tu per tu con la mamma, le rivelò in parte le sue intenzioni.

La mamma l’abbracciò con le lacrime agli occhi e pregò Iddio per la buona riuscita del piano concertato. Mar’ja Ivanovna venne fornita del necessario, e qualche giorno dopo si mise in viaggio accompagnata dalla fedele Palaša e dal fedele Savelić, il quale, trovandosi forzatamente separato da me, si consolava almeno al pensiero di servire la mia promessa sposa.

Mar’ja Ivanovna giunse felicemente a Sofia (Villaggio nei dintorni di Carskoe Selo, dove era situata una residenza dell’imperatrice) e, avendo saputo alla stazione di posta che la corte si trovava in quei giorni a Carskoe Selo, risolse di fermarsi lì. Le assegnarono un angoletto dietro un tramezzo. La moglie del mastro di posta attaccò subito discorso con lei informandola di essere la nipote del fuochista del palazzo imperiale e iniziandola a tutti i segreti della vita di corte. Le raccontò a che ora l’imperatrice (Caterina II) si destava, a che ora prendeva il caffè e andava a passeggio; chi erano i dignitari che allora si trovavano da lei; che cosa si era degnata di dire a tavola il giorno prima la sovrana; chi aveva ricevuto la sera... insomma la conversazione di Anna Vlasevna voleva parecchie pagine di memorie storiche e sarebbe stata preziosa per i posteri. Mar’ja Ivanovna l’ascoltava con attenzione. Esse si recarono in giardino, dove Anna Vlasevna prese a raccontare la storia di ogni viale e di ogni ponticello, finché, finito di passeggiare fecero ritorno alla stazione di posta molto contente l’una dell’altra.

Il giorno seguente, al mattino presto, Mar’ja Ivanovna si destò si vestì e si recò zitta zitta in giardino. Era una splendida mattina e il sole illuminava le vette dei tigli che ormai ingiallivano al fresco soffio dell’autunno. L’ampio lago splendeva immobile. I cigni, destatisi, uscivano gravemente a nuoto di sotto i cespugli che ombreggiavano le rive. Mar’ja Ivanovna passò lungo il bellissimo prato dove soltanto poco tempo prima era stato innalzato il monumento in onore delle recenti vittorie del conte Petr Aleksandrović Rumiancev.

A un tratto un cagnolino bianco di razza inglese le corse incontro abbaiando.

   Ma per entrare in contatto con lo stile diretto, brioso, ironico e sottilmente comico della prosa di Pùškin è utile leggere almeno l’incipit, cioè l’inizio de La figlia del capitano. Il modo in cui lo scrittore presenta i personaggi – con tratti a volte taglienti come un pittore espressionista, a volte sfumati come un pittore impressionista – è molto accattivante: la prosa di Pùškin cattura il lettore. Pùškin inizia i capitoli titolandoli e corredandoli di citazioni: sono proverbi, sono brani poetici, e spesso sono testi di canzoni della tradizione popolare.

LEGERE MULTUM….

 Aleksàndr Sergeević Pùškin, La figlia del capitano (1836)

 Custodisci l’onore fin da giovane (Proverbio)

SERGENTE DELLA GUARDIA

 Domani stesso sarebbe capitano della guardia. Non fa nulla: che serva nell’esercito.

Ben detto! Che faccia un po’ la vita dura - Ma chi è suo padre? (Knjaznin)

Mio padre, Andrei Petrović Grinev, dopo aver servito in gioventù presso il conte Minich, andò a riposo nell’anno 17 con il grado di maggiore in prima. Da quel tempo egli visse in un villaggio di sua proprietà presso Simbirsk, e là prese anche moglie, sposando Avdot’ja Vasil’evna Ju figlia di un povero gentiluomo dei dintorni. Eravamo ben nove figli, ma tutti i miei fratelli e sorelle morirono in tenera età. Mia madre era ancora incinta di me che io ero già stato iscritto col grado di sergente nel reggimento Semenovskij, grazie alla protezione del principe B maggiore della guardia e nostro prossimo parente. Se poi, contro ogni aspettativa, mia madre avesse messo al mondo una figlia, allora mio padre avrebbe denunciato a chi di dovere la morte di questo sergente che non si era mai visto, e con ciò la faccenda sarebbe stata chiusa. Intanto venivo considerato in congedo fino al termine degli studi. A quei tempi non si veniva educati come oggigiorno. All’età di cinque anni venni affidato allo staffiere Savelić, nominato mio aio (educatore) per le sue sobrie abitudini. Sotto la sua guida, a dodici anni avevo imparato a leggere e a scrivere in russo ed ero anche perfettamente in grado di giudicare la qualità di un levriero.

A questo punto mio padre assunse per me un Francese, monsieur Beaupré, che venne fatto venire da Mosca insieme con l’annuale provvista di vino, e d’olio. L’arrivo del Francese dispiacque profondamente a Savelić.

– Com’è vero Iddio – borbottava questi tra sé – mi pare che il bambino sia stato lavato, pettinato e nutrito come si deve. Che bisogno c’era di andare a spendere inutilmente del denaro per assumere questo musié, come se non bastasse la gente di casa!

Beaupré in patria aveva fatto il parrucchiere, poi aveva servito come soldato in Prussia e infine era venuto in Russia pour étre préceptuer, senza per altro comprendere bene il significato di questa parola. Era un buon diavolo, ma terribilmente sventato e disordinato. La sua debolezza principale era la passione per il sesso gentile; capitava spesso che per la sua galanteria ricevesse delle busse che lo facevano gemere per giornate intere. Per giunta egli non era neppure (secondo il suo modo di esprimersi) «nemico della bottiglia», e cioè (per dirla in russo) gli piaceva alzare il gomito più del necessario. Ma giacché da noi il vino si serviva soltanto a pranzo, un solo bicchierino a testa, e per di più il precettore di solito veniva saltato, così il mio Beaupré dovette ben presto abituarsi all’acquavite russa, e anzi giunse addirittura ad anteporla ai vini del suo paese, come incomparabilmente più giovevole allo stomaco. Noi due ci mettemmo subito d’accordo, e sebbene ai termini del contratto egli fosse impegnato a insegnarmi «il francese, il tedesco e tutte le scienze», preferì invece imparare in fretta da me a parlucchiare alla meglio un po’ di russo, dopo di che ognuno dei due badò soltanto ai fatti propri. Il nostro accordo era perfetto e io non desideravo nessun altro mèntore. Ma ben presto il destino doveva dividerci, ed ecco in quale occasione.

La lavandaia Palaška, una ragazza grossa e butterata, e la guercia Akul’ka, che badava alle vacche, un bel giorno si misero d’accordo per gettarsi tutte e due insieme ai piedi della mamma accusandosi di colpevole debolezza e incolpare piangendo il musié di aver sedotto la loro inesperienza. Su queste cose alla mamma non piaceva scherzare, e riferì la cosa a mio padre. Quest’ultimo amministrava sommariamente la giustizia. Fece immediatamente chiamare quella canaglia di un Francese e gli venne riferito che musié mi stava impartendo la lezione. Il babbo allora venne in camera mia.

In quel momento Beaupré, allungato sul letto, dormiva il sonno dell’innocenza.

Io ero occupato. Bisogna sapere che era stata fatta venire per me da Mosca una carta geografica che pendeva completamente inutilizzata alla parete e già da tempo mi aveva tentato per la sua ampiezza e la buona qualità della carta. Avevo stabilito di farne un cervo volante e approfittando del sonno di Beaupré mi ero messo al lavoro. Il babbo entrò proprio nel momento in cui stavo attaccando una coda di stoppa al Capo di Buona Speranza. Vedendo come studiavo la geografia, mio padre mi afferrò per l’orecchio, ma poi corse verso Beaupré, lo svegliò in modo molto irriguardoso e cominciò a coprirlo d’insulti. Beaupré spaventato, voleva alzarsi, ma non ci riusciva: il povero Francese era ubriaco fradicio. Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Il babbo lo afferrò per il bavero, lo fece alzare dal letto, lo buttò fuori della stanza e quello stesso giorno lo cacciò di casa con indescrivibile gioia di Savelić.

E con ciò ebbe termine la mia educazione.

Trascorsi così gli anni dell’infanzia tirando sassate ai colombi e giocando a saltare alla cavallina con i monelli della servitù. Arrivai così ai sedici anni d’età e allora il mio destino mutò.

Un giorno d’autunno la mamma preparava in salotto della marmellata al miele, mentre io, leccandomi le labbra, contemplavo la spuma ribollente. Il babbo, seduto presso la finestra, leggeva l’Almanacco di corte che gli veniva mandato ogni anno. Quel libro esercitava sempre di più su di lui un forte influsso: non lo leggeva mai senza una profonda partecipazione, e quella lettura non mancava mai di rimescolargli straordinariamente la bile. La mamma, che conosceva a memoria tutti i suoi ghiribizzi e tutte le sue abitudini, non tralasciava di ficcare quel disgraziato libro nell’angolo più sperduto, cosicché capitava che l’Almanacco di corte non cadesse sotto gli occhi di mio padre per mesi interi. Ma in compenso, se per caso poi lo trovava, non se lo lasciava più sfuggir di mano per giornate intere. E così il babbo leggeva l’Almanacco di corte stringendosi di tanto in tanto nelle spalle e ripetendo a bassa voce: – Luogotenente generale! Ma se era sergente nella mia compagnia! Cavaliere di entrambi gli Ordini di Russia! Ma è un pezzo che noi

Alla fine il babbo scaraventò l’Almanacco sul divano e s’immerse in riflessioni che non facevano presagire nulla di buono.

Improvvisamente egli si rivolse alla mamma per domandarle: – Advot’ja Vasilevna, Petruša quanti anni ha?

– È entrato da poco nei diciassett’anni – rispose la mamma.

– Petruša è nato nell’anno stesso in cui la zietta Nastasia Gherasimovna perdette un occhio, e in cui anche

– Sta bene – l’interruppe il babbo – è tempo di mandarlo a servire. È ora che la smetta di correre per la stanza delle serve e di arrampicarsi sulla colombaia. L’idea della prossima separazione da me colpì così profondamente mia madre che il cucchiaio le cadde nella casseruola e le lacrime le bagnarono le guance. Quanto a me, invece, sarebbe stato difficile descrivere il mio entusiasmo. L’idea del servizio militare per me si fondeva con l’idea della libertà e dei piaceri della vita pietroburghese. M’immaginavo di essere già ufficiale della guardia, il che per me rappresentava il culmine dell’umana felicità. Al babbo non piaceva mutare le sue risoluzioni, né differirne l’esecuzione. Venne fissato il giorno della mia partenza.

Alla vigilia del giorno stabilito, il babbo dichiarò che voleva inviare una lettera per mezzo mio al mio futuro comandante e si fece portare carta e penna...

   Se il Pùškin poeta è stato molto studiato dagli esperti di letteratura, ebbene il Pùškin narratore è stato studiato ancora di più, non solo da chi si occupa di letteratura ma anche da chi si occupa di storia, di antropologia culturale, di tradizioni popolari e di storia del Pensiero Umano. Il Pùškin narratore viene spesso avvicinato a Walter Scott – un personaggio che non abbiamo ancora incontrato – viene anche accostato a Voltaire, a Byron o a Schiller. Ma gli influssi che troviamo nell’opera di Pùškin sottraggono poco alla sua grande e semplice arte di narratore veramente originale. Infatti, Pùškin come narratore tanto ne La figlia del capitano quanto in un altro romanzo storico rimasto incompiuto, intitolato Dubrovskij – una storia di briganti a sfondo sociale che ricorda i Masnadieri di Schiller – oppure in altre opere di ispirazione storica e di tessuto narrativo avventuroso, possiede un marchio di originalità. Il marchio di originalità di Pùškin consiste nel giusto equilibrio tra l’affabulazione immaginaria e la realtà dei fatti e nella sublime leggerezza della scrittura – definita dagli esperti di una levità mozartiana – e infine il marchio di originalità di Pùškin lo si trova nell’ironia che s’insinua tra le righe di tutti i suoi testi. Oggi come marchio di originalità non viene più considerata così importante la "russicità" di Pùškin narratore, anche se, per conoscere la "Russia profonda" la lettura di Pùškin risulta fondamentale e necessaria.

   Pùškin è interessato non solo al mondo russo del suo tempo ma, dalle sue opere drammatiche, emerge anche uno scrittore attento ad altri ambienti e ad altre epoche, per esempio racconta il medioevo nel Cavaliere avaro, racconta i tempi moderni in Mozart e Salieri; racconta l’Inghilterra nel Festino durante la peste, racconta la Spagna nel Convitato di pietra. Il suo orizzonte narrativo è molto più ampio e va ben oltre la "russicità".

   Noi sappiamo che Pùškin entra in contatto con la cultura e la tradizione russa, quando, nascosto a Michajlovskoe nel 1825-1826, rimane a lungo solo in compagnia della sua vecchia balia: Arina Rodionovna. Sappiamo che la convivenza con questa persona è fondamentale nel completamento della formazione culturale di Pùškin. Arina possiede – come tutte le vecchie contadine – una formidabile cultura orale e i suoi racconti quotidiani – ne conosce, per tradizione, a centinaia – contribuiscono a destare nel poeta l’amore per la lingua del popolo russo e per il folklore contadino. Arina trasmette a Pùškin i valori tradizionali che costituiscono il patrimonio di un popolo, tra questi valori umani il più importante è quello della "narrazione", del "saper narrare" e certamente molti ricordano, in prima persona, le "veglie" della cultura contadina e nella memoria affiorano sicuramente molti racconti. È necessario raccomandare che, queste memorie, andrebbero, al ritmo di quattro righe al giorno, scritte. E, dopo aver incontrato Pùškin c’è una ragione in più per farlo.

   È in questa occasione che Pùškin comincia a scrivere in prosa e inizia anche a pensare che non sia solo il "poeta" a fornire la conoscenza del mondo e a dare un’interpretazione della realtà, ma comincia a riflettere sul fatto che anche il "narratore" abbia questa capacità e questa possibilità. L’idea che attraverso la poesia si possa conoscere e interpretare la realtà è tipica del romanticismo titanico, mentre l’idea che attraverso il racconto si possa conoscere e interpretare la realtà è tipica del romanticismo galante: anche in Pùškin queste due idee si fondono insieme. Sappiamo già che la fusione tra l’azione dell’esprimere attraverso la poesia e l’azione del narrare attraverso il racconto produce uno straordinario genere letterario: il romanzo dell’800. Pùškin viene considerato uno dei più significativi sperimentatori di questo genere letterario.

   A Michajlovskoe, nei mesi di esilio, Pùškin si cimenta per la prima volta nella prosa e scrive la Storia del villaggio di Gorjuchino (rimasta poi incompiuta, come tante cose puškiniane) e poi scrive Racconti di Belkin o per essere più precisi Racconti del defunto Ivan Petrović Belkin. Sui Racconti di Belkin dobbiamo fermare la nostra attenzione perché sono un’opera significativa nella produzione letteraria di quest’epoca. Questi cinque racconti, noti come Racconti di Belkin, sono stati scritti da Pùškin nell’autunno del 1830. Questi racconti vengono scherzosamente attribuiti dall’autore ad un immaginario personaggio: "il defunto Ivan Petrović Belkin, persona umile e modesta". Perché si tratta di un’opera significativa? Perché quest’opera rafforza in noi la comprensione di un’idea di cui siamo ormai consapevoli. La fusione tra romanticismo titanico (sentimento, natura e poesia) e romanticismo galante (fascino, artificio e narrazione) produce quella particolare combinazione tra l’affabulazione fantastica e le vicende reali che dà origine al genere letterario che chiamiamo: il "romanzo contemporaneo". Pùškin tiene insieme i cinque racconti di Belkin inserendoli dentro ad una cornice fantastica. Questa cornice è posta all’inizio dell’opera e s’intitola Avvertenza dell’editore e risulta essere come una prefazione. In questa finta prefazione Pùškin immagina che l’editore scriva a un rispettabile signore che è stato un caro amico del defunto Ivan Petrović Belkin, per avere notizie e informazioni su di lui. Pùškin immagina anche che il caro amico del defunto risponda all’editore con una lettera per metterlo al corrente sulla figura, sul carattere e sull’opera di Ivan Petrović Belkin. L’importanza della "corrispondenza" nella nascita del "romanzo" è fondamentale. In questa lettera gli elementi dell’affabulazione fantastica e gli avvenimenti della realtà sono tanto ben intessuti che Ivan Petrović Belkin potrebbe essere davvero un personaggio reale. Però l’uso dell’ironia – tipica del carattere e dello stile di Pùškin – ci fa capire che questo personaggio è sospeso, è tenuto in bilico dallo scrittore tra la realtà e l’immaginario, tra la storia e la narrazione, tra il dato di fatto e la tradizione.

   Pùškin rimette in gioco la consapevolezza di un’idea che periodicamente riemerge nella storia della cultura e che avrà un’ulteriore sviluppo nella Storia del Pensiero. L’essere umano è destinato a esser sospeso tra la realtà e l’immaginario, tra la storia e la narrazione, tra il dato di fatto e la tradizione. Si delinea ulteriormente, in età romantica, l’idea che la realtà e l’immaginario siano strettamente amalgamati tra loro tanto da caratterizzare la condizione umana: l’individuo non è quello che è, ma è quello che racconta di sé e la sua esistenza è determinata da ciò che si racconta di lui. La condizione di normalità per l’essere umano è quindi quella di vivere sospeso tra l’affabulazione fantastica e le vicende reali. Per Pùškin e per i narratori del romanticismo: la vita è un racconto, la vita si identifica con "il romanzo" che si va formando nella memoria di chi sta vivendo…e la scrittura diventa l’atto creativo e fecondo per eccellenza, diventa il gesto che dà vita alla vita: chi scrive diventa "demiurgo di se stesso" (tanto per citare Platone). Non è uno scherzo, quindi, quando la Scuola invita a scrivere, invita a raccontarsi.

   L’esistenza delle cose e degli avvenimenti ci sfugge inesorabilmente: l’Esistere lo percepiamo come un Non-essere, mentre l’Essere ci si presenta nel momento in cui la vita si fa racconto. Ecco che, e qui entriamo nella speculazione filosofica: scrivere il romanzo – il romanzo dell’800 o anche "quattro righe in proposito" per raccontarsi – diventa un momento in cui lo scrivano attua la transizione tra il Non-essere e l’Essere, e leggere il romanzo, leggere il testo significa partecipare a quest’atto di trasformazione, di metamorfosi dall’esistenza all’essenza, dal mondo della cose al mondo delle idee, in modo da poter maturare la competenza necessaria per trasformare il mondo delle cose investendo in intelligenza. Senza "alfabeto" non c’è trasformazione.

   Nei Racconti del defunto Ivan Petrović Belkin di Pùškin emergono quattro parole-chiave che fanno riferimento all’esistenza: il tempo, lo spazio, l’azione, l’illusione. Di conseguenza la lettura dei Racconti del defunto Ivan Petrović Belkin è un utile esercizio di riflessione sui significati da dare all’Esistenza.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Per te, oggi, nell’ Esistenza è più importante il tempo, lo spazio, l’ azione, l’ illusione?

Metti in ordine d’ importanza queste parole e scrivi quattro righe in proposito…

   E ora leggiamo la celeberrima Avvertenza dell’editore che funge da cornice per i Racconti del defunto Ivan Petrović Belkin. Sappiamo che, nella narrativa di Pùškin non manca mai una citazione iniziale tratta dai proverbi, dalle opere della tradizione folckloristica, dai testi delle canzoni popolari.

 LEGERE MULTUM….

 Aleksàndr Sergeević Pùškin, Racconti del defunto Ivan Petrović Belkin (1830)

LA SIGNORA PROSTAKOVA:

Le storie poi, babbino, gli piacciono fin da quando era piccolo.

SKOTININ:

Mitrofan ha preso da me. (Il minorenne)

AVVERTENZA DELL'EDITORE

Poiché ci siamo assunti l’incarico di preparare l’edizione dei Racconti di I. P. Belkin, che vengono ora presentati al pubblico, desideravamo premettervi una sia pur breve biografia del defunto autore, per soddisfare in tal modo, almeno in parte, la legittima curiosità dei cultori delle patrie lettere.

Ci siamo pertanto rivolti a Mar’ja Alekseevna Trafilina, la più vicina parente e l’erede di Ivan Petrović Belkin; ma disgraziatamente le è stato impossibile fornirci qualche notizia su di lui perché ella non conosceva affatto il defunto. La signora Trafilina ci ha consigliato tuttavia, per avere notizie in proposito, di rivolgerci a un rispettabile signore che era stato amico di Ivan Petrović.

Noi abbiamo seguito il suo consiglio, e alla nostra lettera abbiamo ricevuto la desiderata risposta, riportata qui sotto. La pubblichiamo senza apportarvi nessuna modificazione né aggiungervi nessun commento, come prezioso documento di nobile sentire e di commovente amicizia, e allo stesso tempo come una notizia biografica assolutamente sufficiente:

Stimatissimo signor***!

Il ventitré del corrente mese ho avuto l’onore di ricevere la vostra pregiatissima lettera del giorno quindici di questo stesso mese, nella quale mi esprimete il vostro desiderio di ricevere delle notizie particolareggiate relativamente alla data di nascita e di morte, alla carriera alle circostanze familiari e anche alle occupazioni e all’indole del defunto Ivan Petrović Belkin che già fu mio sincero amico e mio vicino, dato che le nostre proprietà erano contigue. Quindi con mio grande piacere, pregiatissimo signore, le comunico tutto ciò di cui posso ricordarmi, sia che l’abbia tratto dalle conversazioni con il defunto, sia da mie personali osservazioni.

Ivan Petrović Belkin nacque nell’anno 1798, da onesti e nobili genitori, nel villaggio di Gorjuchino. Il suo defunto padre, maggiore in seconda Petr Ivanović Belkin, aveva sposato la signorina Pelageja Gavrilovna, della famiglia Trafilin. Era un uomo non ricco, ma frugale e molto abile nell’amministrazione domestica. Il figlio loro ricevette la prima educazione dal sagrestano del villaggio. Sembra che proprio a questa rispettabile persona egli sia debitore dell’amore per la lettura e dei suoi interessi per la letteratura russa. Nel 1815 egli entrò in servizio in un reggimento di fanteria cacciatori (non ricordo il numero), dove rimase fino al 1823. La morte dei suoi genitori, che scomparvero quasi contemporaneamente, lo obbligò a dare le dimissioni e a trasferirsi nella proprietà di Gorjuchino, ricevuta in eredità.

Assunta l’amministrazione della proprietà, Ivan Petrović, a causa della sua inesperienza e bontà di cuore, cominciò ben presto a trascurare la proprietà e ad allentare l’ordine rigoroso istituitovi dal padre suo. Destituendo un fattore sveglio e diligente, di cui i contadini (secondo la loro abitudine) erano scontenti, egli affidò l’amministrazione del villaggio alla sua vecchia governante che si era cattivata la sua fiducia con l’arte del raccontar storie. Quella stupida vecchia non imparò mai a distinguere un assegnato di venticinque rubli da uno di cinquanta; ella era la comare di tutti i contadini, che pertanto non la temevano affatto; il nuovo fattore, scelto dai contadini, si mise a favorirli in tal modo, e a ordire, di concerto con loro, tali imbrogli, che Ivan Petrović fu obbligato ad abolire la servitù e a istituire un canone annuale molto modesto. Ma anche allora i contadini, approfittando della sua debolezza, per il primo anno chiesero e ottennero una notevole facilitazione; e anche negli anni seguenti pagavano più di due terzi del canone con noci, mirtilli e roba simile; e anche allora c’erano degli arretrati. Essendo amico del defunto genitore di Ivan Petrović, io consideravo mio dovere aiutare anche il figlio con i miei consigli, e più di una volta mi offrii di ristabilire l’ordine di prima, da lui abbandonato. Per questa ragione, recatemi un giorno a trovarlo, mi feci portare i libri dei conti, feci chiamare il fattore imbroglione e in presenza di Ivan Petrović mi accinsi a esaminarli. Dapprincipio il giovane padrone mi seguiva con la massima attenzione e diligenza; ma quando, a conti fatti, venne fuori che negli ultimi due anni il numero dei contadini era aumentato, mentre il numero dei volatili e degli animali da cortile era notevolmente diminuito, allora Ivan Petrović si accontentò di questo primo accertamento e non stette più a sentirmi; anzi proprio nel momento in cui, dopo prolungate indagini e un interrogatorio stringente, ero riuscito a mettere in un’estrema confusione il fattore imbroglione e a ridurlo al più completo silenzio, con grande stizza sentii che Ivan Petrović russava sonoramente sulla sua sedia. Da quel momento smisi d’impicciarmi del riordinamento del suo patrimonio e affidai le sue faccende (come del resto faceva egli stesso) alle cure dell’Altissimo. Tuttavia ciò non turbò minimamente i nostri amichevoli rapporti; giacché io, pur dolendomi della sua debolezza e funesta inettitudine, caratteristica generale dei nostri giovani della nobiltà, amavo sinceramente Ivan Petrović. E del resto sarebbe stato impossibile non amare un giovane così mite e onesto. Per parte sua, Ivan Petrović mi dimostrava il rispetto dovuto ai miei anni e mi era sinceramente devoto.

Fino al termine della sua vita continuammo a vederci quasi ogni giorno, ed egli apprezzava il mio semplice conversare, sebbene d’altronde non ci somigliassimo quasi affatto né per le abitudini, né per il modo di pensare, né per i costumi.

Ivan Petrović conduceva una vita esemplarmente moderata, evitando eccessi di qualsiasi genere; non mi accadde mai di vederlo un po’ alticcio (il che, dalle nostre parti, va considerato come un miracolo inaudito). Per il sesso debole provava una grande inclinazione, ma c’era in lui anche una verecondia veramente femminile (Segue un aneddoto che non abbiamo riportato, giudicandolo inutile; assicuriamo d’altronde il lettore che tale aneddoto non contiene nulla che possa nuocere alla memoria di Ivan Petrović Belkin [N.d.A.]).

Oltre alle novelle, che vi degnate di menzionare nella vostra lettera, Ivan Petrović lasciò una quantità di manoscritti, i quali in parte si trovano a casa mia e in parte vennero usati dalla sua governante per svariati usi domestici. E cosi l’inverno scorso su tutte le finestre dell’ala della casa dov’egli abitava vennero incollati i fogli contenenti la prima parte di un romanzo che egli non portò a compimento. Le novelle sopra ricordate furono, a quanto sembra, il suo primo tentativo. Esse, come mi disse più volte Ivan Petrović, sono in gran parte fatti veri che gli vennero raccontati da varie persone (Effettivamente, nel manoscritto del signor Belkin, all’inizio di ogni racconto, troviamo scritto di pugno dell’autore: «sentito da me dal tal personaggio, grado o titolo e iniziali del nome e del cognome». Riportiamo questi nomi per curiosità del lettore: "Il mastro di posta" gli venne raccontato dal consigliere titolare A. G. N.; "Il colpo di pistola" dal tenente colonnello I. L. P.; "Il fabbricante di bare" dall’intendente B. V.; "La tormenta" e "La signorina-contadina" dalla signorina K. I. T. [N.d.A.]). Tuttavia i nomi che s’incontrano nei racconti sono stati quasi tutti inventati dall’autore stesso, e anche le denominazioni dei villaggi e delle borgate sono prese a prestito dai nostri dintorni, e infatti anche il mio villaggio è citato in qualche luogo. Ciò è stato fatto senza cattiva intenzione, ed è da attribuirsi unicamente a un difetto d’immaginazione.

Nell’autunno dell’anno 1828, Ivan Petrović fu colpito da una febbriciattola da raffreddore che diventò ben presto un febbrone e lo portò alla tomba nonostante le cure assidue del nostro medico di distretto, uomo esperto in sommo grado specialmente nella cura di malattie profondamente radicate, come calli e simili.

Egli morì tra le mie braccia, nel trentesimo anno d’età, e fu seppellito nella chiesa del villaggio di Gorjuchino, vicino ai suoi defunti genitori.

Ivan Petrović era di media statura, aveva gli occhi grigi, i capelli castani, il naso diritto; il suo viso era pallido e asciutto.

Ecco, pregiatissimo signore, tutto ciò che sono riuscito a ricordare relativamente al genere di vita, alle occupazioni, all’indole e all’aspetto esteriore del mio defunto vicino e amico. Nel caso poi che stimiate opportuno fare un uso qualsiasi di questa mia lettera, vi prego con la massima umiltà di non fare assolutamente il mio nome; giacché, sebbene io ami e ammiri profondamente gli scrittori, considero ormai inutile e disdicevole alla mia età avanzata entrare nel loro numero.

Con la più sincera stima, ecc.

Anno 1830, 16 di novembre. Nel villaggio di Nenaradovo.

Considerando un dovere rispettare la volontà dello stimato amico del nostro autore, gli esprimiamo i sensi della nostra più profonda riconoscenza per le notizie che egli ci ha fornito e confidiamo che il pubblico saprà apprezzarne la sincerità e la cordialità.

   Pùškin, nel genere drammatico – quello dei poemi in versi – guarda al modello dei classici e si pone il problema di mettere in primo piano la passione intesa come dolore, sofferenza, pena, tormento, tribolazione, esaltazione, follia, slancio, impeto; nelle opere in prosa assume un altro atteggiamento: affronta ancora il tema della passione ma nel senso del sentimento, della partecipazione, del trasporto, del desiderio, del piacere, della predilezione, dell’interesse, dell’attaccamento, della devozione.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Pùškin...si pone il problema di mettere in primo piano la passione intesa come dolore, sofferenza, pena, tormento, tribolazione, esaltazione, follia, slancio, impeto… Nelle opere in prosa assume un altro atteggiamento: affronta ancora il tema della passione ma nel senso del sentimento, della partecipazione, del trasporto, del desiderio, del piacere, della predilezione, dell’interesse, dell’attaccamento, della devozione…

Quali (due o tre) di queste parole accosteresti alla parola "passione"?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Teniamo presente che le opere in prosa di Pùškin vengono pubblicate tutte dopo il 1830, cioè durante il breve periodo della sua maturità quando tralascia i versi e si sente piuttosto attratto da interessi storici e considera con maggiore attenzione la realtà russa contemporanea. Uno dei Racconti di Belkin, che s’intitola Il mastro di posta, viene considerato dagli esperti (a cominciare da Leone Tolstòj) un vero modello di narrativa: il genere letterario del romanzo, nei suoi aspetti realistici, fantastici e psicologici, si muove anche sulla traccia segnata da questo racconto di cui si consiglia la lettura. Per giunta ogni Racconto di Belkin è un testo (è un brevissimo romanzo) di una decina di pagine, quindi anche questa caratteristica della scrittura pùškiniana non scoraggia il lettore. È necessario sapere che tutte le opere di narrativa di Pùškin, di solito sono raccolte nello stesso libro proprio perché si tratta di racconti e romanzi brevi. E adesso puntiamo la nostra attenzione sul racconto Il mastro di posta, leggendo insieme le prime due pagine.

LEGERE MULTUM….

 Aleksàndr Sergeević Pùškin, Racconti del defunto Ivan Petrović Belkin (1830)

 IL MASTRO DI POSTA

 Il registratore di collegio (Il registratore di collegio è

l'ultimo grado, precisamente il quattordicesimo, della

burocrazia zarista), dittatore della stazione di posta.

 PRINCIPE VJAZEMSKIJ

Chi non ha maledetto i mastri di posta, chi non ha litigato con loro? Chi, in un momento d’ira, non si è fatto portare il libro fatale e non ha scritto il suo inutile reclamo per cattivo trattamento, scortesia e negligenza? Chi non li considera mostri aberranti del genere umano, simili agli scribi d’un tempo o per lo meno ai briganti di Murom (briganti di proverbiale crudeltà che scorazzavano nei boschi della regione di Murom)? Tuttavia saremo giusti con loro, ci sforzeremo di metterci nei loro panni e forse li giudicheremo in modo molto più indulgente. Che cos’è il mastro di posta? Un vero martire di grado quattordicesimo, che la sua carica protegge soltanto dalle busse, e anche non sempre (mi rimetto alla coscienza dei miei lettori). Qual è il compito di questo dittatore, come lo chiama scherzosamente il principe Vjazemskij (Petr Andreević Vjazemskij, 1792-1878, amico di Pùškin, statista, critico letterario e giornalista, poeta della cosiddetta "pleiade puškiniana")? Non è forse una vera galera? Non ha pace né di giorno né di notte. Il viaggiatore riversa sul mastro di posta tutta la bile accumulata durante un viaggio noioso. Il tempo è insopportabile, la strada è cattiva, il postiglione è testardo, i cavalli non camminano, e il mastro di posta è colpevole di tutto. Entrando nella sua povera abitazione il viaggiatore lo guarda come un nemico; tutto va bene se gli riesce di sbarazzarsi presto dell’ospite indesiderato; ma se non ci sono cavalli? Signore Iddio! Quali insulti, quali minacce si riversano sul suo capo! Sotto la pioggia e nel fango egli è costretto a correre per il cortile; durante la tempesta, nel gelo dei primi di gennaio, se ne va in anticamera per riposarsi un momento solo dalle grida e dagli urtoni del suo inquilino irritato. Arriva un generale; il mastro di posta, tremando, gli dà le due ultime troiche, compresa quella riservata ai corrieri. Il generale se ne va senza dirgli grazie. Cinque minuti dopo un sonaglio! e un corriere di stato gli getta sulla tavola il suo foglio di viaggio! Consideriamo per benino tutto ciò, e invece che di sdegno il nostro cuore si riempirà di sincera compassione. Ancora qualche parola: per vent’anni di fila io ho attraversato la Russia in tutte le direzioni; conosco quasi tutte le strade postali; conosco bene varie generazioni di postiglioni; pochi sono i mastri di posta che non conosco di vista, pochi quelli con i quali non ho avuto a che fare; spero di pubblicare in un tempo non lontano l’interessante raccolta di osservazioni che ho fatto durante i miei viaggi; per ora dirò soltanto che la categoria dei mastri di posta viene presentata alla pubblica opinione sotto la luce più falsa. Questi mastri di posta così calunniati sono in genere gente pacifica, servizievole per natura, incline alla socievolezza, modesta nel pretendere il rispetto e non troppo interessata. Dai loro discorsi (a cui i signori viaggiatori fanno male a non prestare attenzione), si possono venire a sapere molte cose curiose e istruttive. Per quanto mi riguarda, confesso di preferire la loro conversazione ai discorsi di un qualche impiegato di grado sesto che viaggia per mansioni d’ufficio. Sarà facile indovinare che io ho degli amici nell’onorata categoria dei mastri di posta. Effettivamente il ricordo di uno di essi mi è molto caro. Un tempo le circostanze ci fecero incontrare, ed è appunto di lui che adesso vorrei discorrere con i miei cortesi lettori. Nel mese di maggio 1816 mi capitò di attraversare il governatorato di *** passando per una strada postale oggi soppressa. Avevo un grado modesto, viaggiavo con cavalli postali e pagavo per due cavalli. Pertanto i mastri di posta con me non facevano cerimonie, e spesso mi prendevo con la forza quel che secondo me mi spettava di diritto. Essendo giovane e irascibile mi sdegnavo contro la bassezza e la meschinità del mastro di posta quando quest’ultimo attaccava alla carrozza di un signore altolocato la trojka preparata per me. Allo stesso modo, per lungo tempo non potei abituarmi all’idea che uno sdegnoso lacchè mi saltasse nel servire una portata a un pranzo dal governatore. Ora tutto ciò mi sembra nell’ordine normale delle cose. Infatti che cosa sarebbe di noi se invece della regola generalmente praticata: «Il grado rispetti il grado», se ne introducesse un’altra, per esempio: «L’ingegno rispetti l’ingegno»? Quante discussioni sorgerebbero! E da chi comincerebbero i camerieri a servire le vivande? Ma torniamo al racconto.

Era una giornata calda. A tre verste dalla stazione di posta di *** cominciò a piovigginare, e un minuto dopo prese a cadere una pioggia dirotta che mi infradiciò fino alle ossa. Appena arrivato alla stazione di posta, il mio primo pensiero fu quello di cambiarmi subito, e il secondo quello di chiedere il tè.

– Ehi, Dunja! – chiamò il mastro di posta, – prepara il samovar e va’ a prendere la panna.

A queste parole una ragazza sui quattordici anni sbucò di dietro il tramezzo e corse nell’andito. Rimasi colpito dalla sua bellezza.

– È tua figlia? – domandai al mastro di posta.

– Mia figlia, – mi rispose, con aria contenta e orgogliosa.

– È così assennata, così svelta, tutta la sua povera mamma.

Quindi egli si mise a esaminare il mio foglio di viaggio, mentre io guardavo i quadri che adornavano la sua dimora, modesta ma pulita. Essi raffiguravano la storia del Figliuol prodigo.

   In relazione a questo racconto, e in generale in relazione ai Racconti del defunto Ivan Petrović Belkin, dobbiamo fare tre considerazioni importanti che funzionano anche da indicatori per la direzione da prendere nei prossimi itinerari.

   La prima considerazione riguarda la forma dei racconti di Pùškin in rapporto all’alternarsi tra ciò che lo scrittore dice e non dice: che cosa significa? Significa che Pùškin volutamente lascia ampi spazi a disposizione dell’immaginario del lettore: non racconta tutto ma la riflessione su certe situazioni, la cronaca di certi avvenimenti, la descrizione di certi particolari, la rappresentazione parziale di certi oggetti crea nel testo come dei "frammenti narrativi", e, noi sappiamo che il frammento invita a pensare e a ricostruire l’oggetto intero di cui rappresenta una parte, di cui riproduce una frazione. Se in un racconto, per esempio, mette in scena un quadro definendolo solo con alcuni particolari e poi non dice chi e che cosa rappresenta questo quadro, è chiaro che, con questa tecnica, stimola inevitabilmente il lettore a farsi delle domande, a formulare delle ipotesi, a rapportarsi con l’enigma e con il mistero e a colmare il vuoto della narrazione utilizzando l’immaginario. Pùškin in particolare lascia spesso sospesa l’esposizione dei finali e interrompe ad arte la narrazione lasciando zone d’ombra che il lettore è invitato ad illuminare con la sua creatività. Pùškin costruisce un’opera che possiamo definire "aperta" in modo che chi legge possa esercitarsi a stare in equilibrio tra la realtà e l’affabulazione fantastica, tra i problemi posti dall’Esistere e i temi suggeriti dall’Essere. A proposito: chissà in quale racconto di Pùškin si trova il "quadro" che abbiamo citato come esempio di frammento narrativo? Noi tutti ormai di fronte alla parola "quadro" subiamo un condizionamento, si manifesta in noi quasi come un riflesso condizionato, ebbene, se "il quadro" a cui stiamo pensando in questo momento è proprio quello che dà il titolo al nostro Percorso, è probabile che il prossimo itinerario passi nei pressi di questo "frammento narrativo".

   La seconda considerazione consiste nel fatto che i Racconti del defunto Ivan Petrović Belkin ci offrono un significativo spaccato della sonnolenta vita della provincia russa. Questo spaccato è entrato in tutta la narrativa successiva e, all’interno di questo scenario, prendono forma una serie di straordinari personaggi da romanzo che esaltano il sonno, il dormiveglia, il letargo, la pigrizia, l’indolenza, la lentezza, l’apatia, l’abulia, l’imbambolamento; il più famoso di questi personaggi letterari si chiama Oblomov, un personaggio significativo che non possiamo fare a meno di incontrare prossimamente sul nostro cammino.

   La terza considerazione che dobbiamo fare è che nei racconti puškiniani – come per esempio ne Il mastro di posta – troviamo, tra gli altri, un personaggio particolare: la gente qualunque. Pùškin si propone di raccontare la vita della gente semplice e oscura, con le sue gioie modeste e i suoi umili dolori, per questo motivo possiamo considerare Pùškin uno scrittore che, come Stendhal, conduce il romanticismo verso il realismo. Ma la gente qualunque di Pùškin è formata soprattutto da coloro i quali appartengono ai gradi più bassi della gerarchia burocratica. La burocrazia russa al tempo degli zar è una macchina infernale. Sappiamo che, sotto il regno di Nicola I, prende forma un complesso sistema burocratico fondato su una gerarchia molto rigida. I variegati personaggi di questo apparato burocratico irrompono nella letteratura, entrano soprattutto nei racconti, nei romanzi, nei testi teatrali. Pùškin apre un varco e, da questo varco, passa subito uno scrittore che traccia una via, uno scrittore misterioso e ambiguo: Nikolaj Vasìl’ević Gògol’. Anche Gògol’ si trova sul nostro cammino e prossimamente lo incontreremo.

   Oltre ai Racconti del defunto Ivan Petrović Belkin un altro capolavoro narrativo di Pùškin è il romanzo breve La dama di picche (1833). Anche ne La dama di picche troviamo la trama di un’azione perfettamente realistica però attraversata dall’elemento fantastico sotto forma di una visione, di un delirio: questo procedimento narrativo verrà ripreso da Gògol’ e raggiungerà in Dostoevskij il suo pieno sviluppo. La dama di picche narra la storia di un ufficiale giovane e povero di origine tedesca, Herrmann, che viene a conoscere, dal fantasma di una vecchia contessa, il segreto di tre carte sicuramente vincenti al gioco del faraone. Ma Hermann, al momento di giocare le tre carte, si confonde e perde tutti i suoi risparmi: questo fatto lo sconvolge. A fianco del protagonista, si delineano le figure di Lìza, giovane dama di compagnia della contessa e innamorata di Herrmann, e la figura della contessa stessa, ottuagenaria ed insopportabile, che vive nel ricordo della passata bellezza. C’interessa citare questo racconto di Pùškin perché, ancora una volta, ha fornito l’ispirazione per una composizione musicale: La dama di picche di Pëtr Ilic Ćajkovskij, il quale, assieme al fratello, il librettista Modést, ha reso più drammatica la trama facendo morire tutti i protagonisti, mentre in Pùškin muore solo la vecchia contessa. La dama di picche di Ćajkovskij è un’opera in tre atti di gradevole ascolto e la prima rappresentazione è avvenuta a Pietroburgo nel 1890: l’avete mai ascoltata? Questo romanzo breve di Pùškin pone un altro tema importante che verrà sviluppato dalla letteratura successiva: quello dell’assillo del gioco. Infine dobbiamo ricordare che questo racconto è entrato anche nella storia del cinema, del cinema delle origini, per opera del famoso regista russo Jachov Protazanov che, nel 1916, ha realizzato un film dal titolo La dama di picche che sarebbe interessante vedere.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Qual è il gioco a carte che preferisci?

Scrivi quattro righe in proposito…

   E ora, per concludere, leggiamo anche due pagine da:

LEGERE MULTUM….

 Aleksàndr Sergeević Pùškin, La dama di picche (1833)

 La dama di picche significa segreta ostilità.

DAL NOVISSIMO LIBRO DEI SOGNI

 CAPITOLO I

 E nei giorni piovosi spesso essi si riunivano;

piegavano gli angoli (puntavano su quelle carte)

che Iddio li perdoni! – Da cinquanta a cento,

e vincevano e segnavano col gesso

Così, nei giorni piovosi, essi occupavano il tempo

Una sera si giocava a carte in casa di Narùmov, guardia a cavallo. La lunga notte invernale passò inavvertita; dopo le quattro del mattino si andò a cena. Quelli che erano rimasti in vincita mangiarono con grande appetito; gli altri invece sedevano con aria distratta davanti ai piatti vuoti. Ma lo champagne fece la sua apparizione, la conversazione si ravvivò e tutti vi parteciparono.

– E tu che hai fatto, Surin? – domandò il padrone di casa.

– Ho perduto, come al solito. Bisogna riconoscere che sono proprio sfortunato: giuoco senza aumentare la posta, non mi riscaldo mai, non c’è nulla che mi faccia perder la testa, eppure perdo sempre!

– E non ti sei lasciato tentare neppure una volta? Neppure una volta hai aggiunto la tua puntata a quella del vincitore? La tua fermezza è straordinaria.

– Ma che tipo, Herrmann! – disse uno degli ospiti indicando un giovane ufficiale del genio, – in vita sua non ha mai preso in mano le carte, in vita sua non ha mai raddoppiato la posta, ed è capace di starsene seduto accanto a noi fino alle cinque a vederci giocare!

– Il giuoco m’interessa molto, – rispose Herrmann, – ma io non sono in grado di sacrificare il necessario nella speranza di vincere il superfluo.

– Herrmann è tedesco e come tale è parsimonioso, ecco tutto! – osservò Tomskij. – Ma se c’è qualcuno che mi riesce incomprensibile questa è mia nonna, la contessa Anna Fedotovna.

– Come? Perché? – gridarono gli ospiti.

– Non riesco a capire, – continuò a dire Tomskij, – perché mai mia nonna non giuochi!

– Ma che c’è di straordinario nel fatto che una vecchia di ottant’anni non giuochi? – replicò Narumov.

– Come! Voi non sapete nulla di lei?

– No, nulla davvero!

– Be’, allora statemi a sentire: bisogna sapere che mia nonna sessant'anni or sono, soleva recarsi a Parigi dov’era ammiratissima. Le gente le correva dietro per vedere la Vénus moscovite; Richelieu le faceva la corte, e la nonna assicura che poco mancò ch’egli si tirasse una pistolettata per la crudeltà di lei. A quel tempo le signore giocavano al faraone. Un giorno, a corte, la nonna perse sulla parola col duca d’Orléans una cifra molto ragguardevole. Giunta a casa, la nonna, mentre si staccava i finti nei dal viso e si liberava della crinolina, comunicò al nonno la sua perdita e gli ordinò di pagare. Il povero nonno, per quanto mi ricordo, era una specie di maggiordomo della nonna e aveva paura di lei come del fuoco; tuttavia questa volta, sentendo che si trattava di una perdita così grave, andò fuori di sé, le portò i conti e le dimostrò che in mezzo anno avevano speso mezzo milione, che lì a Parigi non disponevano delle tenute che avevano nei dintorni di Mosca o di Saratov, e rifiutò recisamente di pagare. La nonna gli dette uno schiaffo e si coricò sola, per testimoniargli che lo considerava in disgrazia. Il giorno seguente mandò a chiamare il marito nella speranza che quella punizione familiare avesse sortito il suo effetto, ma invece lo trovò irremovibile. Per la prima volta in vita sua si mise a discutere e a spiegarsi con lui; credeva infatti di persuaderlo dimostrandogli con aria di condiscendenza che c’è differenza fra debito e debito e fra un principe e un carrettiere. Niente! il nonno si ribellava. No, e basta. La nonna non sapeva più che cosa fare.

Da poco tempo aveva fatto la conoscenza di un uomo molto notevole.

Avrete sentito parlare del conte di Saint-Germain, sul conto del quale si narrano tante meraviglie. Sapete che si spacciava per l’Ebreo errante, diceva di aver inventato l’elisir di lunga vita, la pietra filosofale, ecc. Si rideva di lui come di un ciarlatano qualsiasi, e anche Casanova, nelle sue Memorie, dice che era uno spione; d’altronde Saint-Germain, nonostante tutti i suoi segreti, aveva un aspetto esteriore molto rispettabile ed era persona molto amabile in società. Ancora oggi la nonna va in visibilio per lui, e si arrabbia se qualcuno parla di lui con poco rispetto. La nonna sapeva che Saint-Germain aveva a disposizione grandi somme di denaro. Si risolse quindi a ricorrere a lui e gli scrisse un biglietto pregandolo di venire subito da lei.

Il vecchio originale venne subito e la trovò terribilmente afflitta. La nonna gli descrisse con le tinte più nere la crudeltà del marito, e alla fine gli disse che riponeva tutte le sue speranze nella sua amicizia e cortesia.

Saint-Germain si fece pensieroso: «Io potrei farvi avere questa somma, – disse poi, – ma so che non vi sentireste tranquilla finché non me l’avreste restituita, e io non vorrei procurarvi nuovi fastidi. C’è un altro modo: potete riguadagnare al giuoco ciò che avete perduto».

«Ma, caro conte, – replicò la nonna, – vi ho pur detto che non abbiamo neanche un soldo».

«Per questo non c’è bisogno di soldi, – ribatté Saint-Germain, – siate così gentile da ascoltarmi».

E allora le rivelò un segreto che ognuno di noi chissà quanto pagherebbe per sapere

I giovani ascoltatori raddoppiarono la loro attenzione. Tomskij accese la pipa, aspirò una boccata e riprese: – Quella stessa sera la nonna si recò a Versailles, au jeu de la Reine. Il duca di Orléans teneva banco; la nonna si scusò disinvoltamente di non avergli portato la somma dovuta, inventò una piccola storia per giustificarsi e si mise subito a puntare contro di lui. Scelse tre carte e le dispose l’una sopra all’altra: tutte e tre le carte fecero saltare il banco e la nonna riguadagnò tutta la somma che aveva perduto.

– È un caso! – disse uno degli ospiti.

– È una favola! – corresse Herrmann.

– Non può darsi che le carte fossero truccate? – suggerì un terzo.

– Non credo, – rispose Tomskij con aria d’importanza.

– Come! – esclamò Narumov, – tu hai una nonna che indovina tre carte di seguito e ancora non ti sei fatto insegnare da lei l’arte della cabala?

– Sì! per tutti i diavoli! – replicò Tomskij. – La nonna ha avuto quattro figli, tra cui anche mio padre, e tutti e quattro giocatori arrabbiati; eppure lei non ha rivelato a nessuno il suo segreto, per quanto a loro avrebbe fatto molto comodo, come anche a me. Ma ecco quel che mi ha raccontato mio zio, il conte Ivan Il’ić, e me l’ha confermato con la sua parola d’onore: il povero ***, quello stesso che è morto in miseria dopo aver sperperato milioni, una volta quand’era giovane, perdette al giuoco, se ben mi ricordo con Zorić circa trentamila rubli. Il poveretto era disperato. La nonna, che era stata sempre severa nel condannare le scappatelle dei giovani, chissà perché s’impietosì. Gli dette tre carte da mettere l’una sull’altra e si fece dare da lui la parola d’onore che da allora in poi non avrebbe mai più giocato. Lui si presentò al suo creditore e sedettero al tavolino da giuoco. Lui puntò cinquantamila rubli sulla prima carta e fece saltare il banco; poi raddoppiò la posta, la raddoppiò ancora una volta e così guadagnò la perdita e rimase anche in vincita Ma è ora di andare a letto: sono già le sei meno un quarto. Effettivamente albeggiava; i giovanotti vuotarono i bicchierini e si separarono.

   Così finisce il primo capitolo (sono sei capitoli e una conclusione) de La dama di picche e io mi sono incuriosito, credo che andrò avanti a leggere: immagino che qualcuno di questi nottambuli giovanotti, il giorno dopo, andrà a trovare la vecchia contessa: ho intenzione di andarci anch’io attraverso il testo. Se anche voi vi siete incuriositi andate a trovare la vecchia contessa: andate avanti nella lettura. La dama di picche è un racconto a cui gli esperti hanno attribuito il nome di "romanzo": forse il termine "romanzo" è improprio per un testo di sole venti pagine ma gli studiosi sostengono che, in questa ventina di pagine, ci sono tutte le componenti tipiche del romanzo, vale a dire? Vale a dire tutte le componenti titaniche (sentimento, natura e poesia) e le componenti galanti (fascino, artificio e narrazione) fuse insieme.

   Nel 1836 Pùškin ottiene il permesso dalla censura di fondare una rivista, il Sovremennik, Il contemporaneo, che ha scarso successo immediato (avrà successo dopo la morte di Pùškin) perché viene avversata e boicottata dai giornalisti reazionari e conservatori istigati tacitamente anche dallo zar. Deluso da tutto questo, sentendosi sempre più soffocare dalla vita di società e dalle mene di corte in cui lo coinvolge, suo malgrado, la moglie Natàlja, Pùškin vorrebbe lasciare Pietroburgo e ritirarsi in campagna. Ma proprio a questo punto avviene l’episodio fatale. Che cosa succede? Succede qualcosa che deve essere narrato in tutta la sua drammatica complessità.

   Per conoscere e per capire che cosa è successo a Pùškin è necessario imbastire una narrazione come se fosse Pùškin stesso a raccontare. La prossima settimana cercheremo anche di cominciare a narrare, per filo e per segno, con tutte le sue luci e le sue ombre, quell’avvenimento, ormai considerato mitico, che, nella storia della cultura, viene chiamato la "fine di Pùškin. È una situazione reale (purtroppo) molto coinvolgente come se si trattasse di un avvincente racconto di Pùškin: paradossalmente, alla fine, è come se Pùškin fosse riuscito a diventare un personaggio di Pùškin.

   E allora, per conoscere e per capire anche questi avvincenti avvenimenti accorrete…

   La Scuola è qui…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 8, 2005