Autorizzazione all'uso dei cookies

ZONE D’OMBRA NEL TERRITORIO DEL ROMANTICISMO…

Lezione N.: 
16

Prof. Giuseppe Nibbi        Tra ‘700 e ‘800: il sorriso de La Gioconda 2005      16-17-18 febbraio 2005

ZONE D’OMBRA NEL TERRITORIO DEL ROMANTICISMO…

   La scorsa settimana, con il Faust di Goethe (1808), abbiamo incontrato un diavolo di prima categoria: Mefistofele. Un diavolo con tutte le caratteristiche della tradizione medioevale: mantello rosso, piedi caprini, coda biforcuta, battute oscene e soprattutto un serio oppositore di Dio a caccia di anime.

   Ebbene, in questo stesso periodo (1814), nella Storia della Letteratura e del Pensiero Umano compare anche un altro tipo di diavolo: un povero diavolo – ce lo dice lui stesso – al quale non è rimasto nulla della tradizione medioevale: né mantello rosso, né piedi caprini, né coda biforcuta, né battute oscene. Questo diavolo è molto dimesso, è allampanato, vestito fuori moda, è anzianotto: cosa inaudita per uno che è capace di promettere anche l’eterna giovinezza. A questo diavolo manca persino il nome. È un personaggio grigio, servizievole, un po’ stucchevole nel suo servilismo, è abituato anche a essere trattato male ed è capace addirittura di arrossire. Insomma è un diavolo ordinario, scadente, andante, mediocre, non è un diavolo eccezionale ma è un diavolo per tutti i giorni il cui inferno si è ridotto ad una tasca stretta dalla quale escono molti beni materiali. Abbiamo deciso – la scorsa settimana – di invitarlo…ed eccolo qui questa sera!

   Naturalmente questo diavolo non è venuto da solo ma è accompagnato da altri due personaggi.

   Il primo personaggio da cui è accompagnato è l’insidiato: questo personaggio – insidiato dal diavolo – si chiama Peter Schlemihl. E Peter Schlemihl compare nel titolo di un famoso romanzo: Storia straordinaria di Peter Schlemihl (1814), e il secondo personaggio che, questa sera, accompagna il povero diavolo è l’autore di questo romanzo: lo scrittore Adelbert von Chamisso.

   Chi è Adelbert von Chamisso? Adelbert von Chamisso è un personaggio significativo nella storia della cultura europea e vale la pena fare una rapida escursione nella biografia di questo scrittore perché possiamo trarne degli utili elementi di riflessione. Chamisso discende da una nobile famiglia francese originaria della Lorena, difatti si fregia del titolo di visconte. Nasce nel gennaio del 1781 nel castello di Boncourt nella regione della Champagne. Nel 1790, insieme alla sua famiglia, è costretto, dagli avvenimenti della Rivoluzione a lasciare la Francia e a fuggire in Olanda. Successivamente, nel 1793, i Chamisso si spostano in Germania e vivono in diverse città della Germania, finché, nel 1796 si stabiliscono a Berlino dove cominciano a frequentare la corte prussiana (il re Federico Guglielmo II e la regina Federica Luisa). A Berlino, nel 1796, Adelbert von Chamisso s’iscrive al ginnasio francese e frequenta l’Accademia militare, e comincia anche a scrivere le sue prime poesie in francese. Nel 1798 entra nell’esercito prussiano con il grado di alfiere in un reggimento di stanza a Berlino: per fortuna questo è un momento di scarso impegno per l’esercito prussiano e Adelbert si dedica intensamente allo studio e alla lettura delle opere dell’illuminismo francese, di Diderot, D’Alembert, Voltaire, Rousseau e delle opere degli intellettuali tedeschi suoi contemporanei, in particolare legge con grande interesse I dolori del giovane Werther di Goethe e i drammi di Schiller. Nel 1801 viene nominato sottotenente e decide di rimanere nel suo reggimento a Berlino, mentre la sua famiglia rientra in Francia usufruendo del decreto di Napoleone primo console che concedeva ai nobili, non troppo coinvolti con l’Antico Regime, di tornare in patria.

   Adelbert von Chamisso scrive in francese una raccolta di versi dal titolo: Racconti in versi di un giovane esiliato, ma lui non si sente in esilio. Nel 1802 si dedica con passione allo studio della letteratura e della filosofia e poi compie un lungo viaggio in Francia. Nel 1803 torna a Berlino e scrive in tedesco un dramma intitolato: Faust. Partecipa con impegno alla vita intellettuale tedesca: siamo in pieno movimento "romantico" e Adelbert von Chamisso dà vita, con altri giovani scrittori, ad una associazione culturale, l’Associazione della stella polare (Nord stern bund). Questa associazione s’ispira al misticismo, al sentimentalismo, a elementi di natura titanica, ma s’ispira anche al tema della galanteria divulgando nella società, in modo "poetico", le competenze galanti, e cercando un giusto equilibrio tra ciò che vi è di naturale e di artificiale nella galanteria.

   Avete capito che Adelbert von Chamisso – e anche per questo ci occupiamo di lui – possiede uno spirito da "pendolare" della cultura: va avanti e indietro tra la Francia, (la sua terra d’origine), e la Germania (che considera la sua terra d’adozione). E a lui viene spontaneo unire le caratteristiche del movimento titanico tedesco con quelle del movimento galante francese; a lui, viene spontaneo mescolare insieme le idee illuministe di Diderot e di Voltaire con quelle romantiche di Goethe e di Schiller. Adelbert von Chamisso, attraverso l’Associazione della stella polare, stampa (a sue spese) l’Almanacco delle muse (Musenalmanach) per l’anno 1804 che raccoglie anche la produzione poetica di molti giovani scrittori. Intreccia una relazione amorosa con una giovane vedova parigina Cérès Duvernay e questo fatto lo stimola a muoversi ancor più spesso tra Parigi e Berlino. L’Almanacco delle muse trova un editore e attira persino l’attenzione di Fichte, ed esce quindi anche per l’anno 1805 e per l’anno 1806. Ma, nel 1806, nubi fosche si affacciano all’orizzonte dell’Europa. In ottobre il reggimento di Chamisso lascia Berlino e si trasferisce in Assia, e dopo poco scoppia la guerra contro Napoleone che, da liberatore, è ormai diventato aggressore. Questo è un momento terribile per Adelbert von Chamisso. L’idea che la Francia e la Prussia (che sono le sue due patrie) debbano farsi la guerra lo turba fortemente e chiede il congedo: non se la sente di combattere contro i suoi compatrioti, ma il congedo non gli viene concesso. I prussiani vengono sconfitti dai francesi nella battaglia di Jena e Chamisso, che comunque combatte valorosamente, viene fatto prigioniero e condotto in Francia, dove, poi, con l’armistizio, viene rilasciato. Tornato libero compie un altro viaggio in giro per la Francia e scrive una favola, Favola di Adelberto e, subito dopo, scrive il racconto Il borsellino e il berretto magico di Fortunato. Nel 1807 ritorna a Berlino per dimettersi dall’esercito: la guerra non fa per lui. Poi riparte per la Francia, ma alla fine di settembre rientra di nuovo a Berlino e nel 1808 – ottenuto il congedo – si dedica intensamente allo studio del greco e della tragedia sulla scia del clima culturale creato dal Romanticismo. Nel 1809 viene processato dal tribunale militare per il suo strano comportamento nella guerra franco-prussiana ma viene assolto perché può dimostrare di essersi comportato con lealtà. Nel 1810 torna in Francia e ottiene, per un anno, una cattedra come professore di greco in un liceo della Vandea; alla fine dell’anno scolastico si sposta a Parigi dove conosce Madame de Staël – che abbiamo conosciuto anche noi – e ne diventa grande amico. Lei lo invita – per l’anno 1811, nel suo castello di Coppet, sul lago di Ginevra dove Madame de Staël vive in esilio: il castello di Coppet è, in questi anni, un punto d’incontro di molti intellettuali europei. Nel maggio del 1812 Chamisso torna a Berlino e decide di dedicarsi agli studi scientifici, e s’iscrive all’Università seguendo i corsi di botanica, di zoologia e di anatomia: in questo ambiente – lo sappiamo – si coltiva anche un certo interesse per la magia e per la cultura del diabolico e sappiamo che quest’interesse ha un significativo risvolto letterario. Nel 1813 Adelbert von Chamisso passa un brutto periodo di crisi, di confusione e di inquietudine: c’è di nuovo la guerra franco-prussiana che lui non tollera. E allora viene invitato a trasferirsi a casa di un suo amico Julius Eduard Hitzig, giurista, editore e scrittore. In questo ambiente familiare si trova a suo agio e, per far divertire i figli di Hitzig, scrive un racconto: Storia straordinaria di Peter Schlemihl ispirandosi forse a un’antica leggenda iberica. Ebbene, tutti gli studiosi sono d’accordo nel dire che, questo racconto, è uno dei più bizzarri e significativi racconti del romanticismo in generale. Lo stesso anno, dopo la battaglia di Lipsia e la sconfitta di Napoleone, Chamisso, rinfrancato, riprende gli studi scientifici. L’anno dopo, 1814, visto che il racconto Storia straordinaria di Peter Schlemihl è stato così apprezzato dai ragazzi di casa Hitzig – soprattutto da Antonie, la tredicenne figlia adottiva dei coniugi Hitzig – decide di pubblicarlo e con questo libro ottiene subito un grande successo e una grande popolarità. L’anno successivo, 1815, comincia a scrivere un romanzo, dal titolo Romanzo del barone von Vieren, ma questo testo resterà frammentario e incompiuto. Nel mese di marzo del 1815 legge su un giornale la notizia che una missione esplorativa russa sta per partire, sulla nave Rurik, per fare il giro del mondo e per visitare e studiare zone poco conosciute dai mari del sud all’Oceano Artico. Chamisso fa subito domanda e viene aggregato alla spedizione che, nell’aprile 1815, parte, sulla Rurik, dal porto di Amburgo verso l’America del sud attraversando l’oceano Atlantico, doppiando capo Horn e risalendo l’oceano Pacifico; raggiunge lo stretto di Bering, e di qui, navigando verso sud, fa scalo a Manila; poi, attraversando l’oceano Indiano, raggiunge l’Africa e, doppiando il capo di Buona Speranza, rientra nell’oceano Atlantico; fa sosta all’isola di Sant’Elena e infine raggiunge Londra, concludendo il viaggio a Pietroburgo nell’agosto del 1818.

   Il 31 agosto 1818 Adelbert von Chamisso ritorna a Berlino dopo tre anni, e l’anno successivo, proprio in ragione di questo suo viaggio scientifico, riceve la laurea honoris causa in scienze naturali e viene nominato vice-direttore dell’Orto Botanico di Berlino e custode dell’erbario regio. Nel settembre del 1819 si sposa con Antonie, la figlia adottiva di Hitzig, che nel frattempo è diventata una bella signorina diciottenne. Adelbert von Chamisso, da questo momento, si dedica a scrivere soprattutto opere di carattere scientifico; compie anche dei viaggi di studio in diverse regioni della Germania e scrive un importante trattato di botanica sulle piante spontanee e coltivate dell’Europa settentrionale. Scrive però anche un gran numero di poesie, molte dedicate a sua moglie che darà alla luce cinque figli; scrive alcuni poemetti, e uno di questi, Amore e vita di donna (1830), viene musicato da Robert Schumann; scrive anche una serie di opere teatrali e, infine, nel 1836 pubblica il Viaggio intorno al mondo. Nel 1837 muore sua moglie Antonie e lui la segue l’anno dopo, il 21 agosto 1838.

   Ma Adelbert von Chamisso, nonostante tutte queste cose, sarebbe stato dimenticato se non avesse scritto il racconto Storia straordinaria di Peter Schlemihl, che lui ha avuto la soddisfazione di veder tradurre in molte lingue (francese, inglese, russo…) e ottenere dappertutto un grande successo.

   Abbiamo detto che Adelbert von Chamisso ha scritto anche un dramma in un atto intitolato Faust, sulla scia di Goethe che – come ben sappiamo – qualche anno prima aveva cominciato a cimentarsi col tema del diabolico. Ma Chamisso non sarebbe mai stato ricordato come autore di un Faust. Peter Schlemihl, invece, lo ha reso, se non immortale, almeno indimenticato.

   Chi è Peter Schlemihl? Peter Schlemihl è l’uomo insidiato da quel povero diavolo che abbiamo incontrato prima, all’inizio. Il diavolo di questo racconto è appunto un povero diavolo, ma l’insidiato, Peter Schlemihl, non è da meno, non è un granché, tanto che viene a noia anche al diavolo stesso: è un uomo banale, comune, è un perdente, è un pasticcione jellato. Il cognome Schlemihl è imparentato con un termine yiddisch – l’antica lingua degli ebrei mitteleuropei – e significa appunto: pasticcione "sfigato". Peter Schlemihl ci appare come un povero diavolo in cerca di lavoro, il quale si presenta al ricco signor Thomas John con una lettera di raccomandazione. Nel parco della villa del signor Thomas John incontra un individuo dall’aria umile il quale soddisfa miracolosamente qualsiasi desiderio del signor Thomas e dei suoi amici. La cosa strana – da cui Peter Schlemihl rimane colpito – è che tutti trattano con grande indifferenza questo pover’uomo che tira fuori da una tasca stretta del suo abito antiquato una serie di beni materiali da mettere a disposizione del signor Thomas e dei suoi amici. Il fatto è che, questo signore, è proprio il diavolo a cui il signor Thomas ha già ceduto l’anima. Questo diavolo propone a Peter di vendergli la sua ombra in cambio della borsa di Fortunatus, una borsa magica dalla quale si può attingere continuamente denaro, monete d’oro. Peter è povero in canna, e, quindi, senza soldi è consapevole di essere un "signor nessuno", senza soldi capisce di essere "un’ombra d’uomo". Peter, senza esitazione, stipula il contratto.

   Leggiamo alcune pagine della Storia straordinaria di Peter Schlemihl, che si trovano all’inizio del racconto ma, attenzione: il romanzo comincia con cinque strofe in versi dedicate dall’autore a Peter Schlemihl e con tre brevi lettere. Questo breve epistolario non va considerato come un’aggiunta artificiosa e superflua. Le lettere d’inizio non sono un ornamento, ma sono parte integrante dell’intreccio.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Andate a leggere queste tre brevi lettere e le note che le accompagnano, andate a constatare chi sono gli interlocutori di questo epistolario … li abbiamo anche incontrati raccontando la biografia di Adelbert von Chamisso…

   Le notizie, i riferimenti, le allusioni che troviamo in queste tre lettere si rifanno a fatti realmente accaduti e sono elementi che concorrono in modo efficace e affascinante a inserire una persona fittizia (Peter Schlemihl) e un personaggio immaginario (il povero diavolo) in un contesto che non ha proprio nulla di fittizio. Queste lettere iniziali creano una rete così ben tessuta tra l’affabulazione fantastica e la vicenda reale che riesce difficile afferrare esattamente dove inizia e dove termina la finzione narrativa. Ebbene, la letteratura del romanticismo, quando ha saputo mettere insieme le caratteristiche titaniche con le caratteristiche galanti, è stata maestra nel creare incroci tra l’affabulazione fantastica e le vicende reali. Il romanzo breve Storia straordinaria di Peter Schlemihl rappresenta uno degli esempi più significativi di fusione tra le caratteristiche titaniche e galanti.

   Ora leggiamo dicendo ancora che è Peter Schlemihl che racconta in prima persona la sua storia all’autore.

LEGERE MULTUM….

 Adelbert von Chamisso, Storia straordinaria di Peter Schlemihl (1814)

Dopo una traversata felice, ma per me comunque assai penosa, raggiungemmo finalmente il porto. Non appena toccai terra con la nave, mi caricai dei miei pochi averi e, facendomi largo a fatica in mezzo a una folla brulicante, entrai nella più vicina e modesta casa davanti alla quale vidi pendere un’insegna. Chiesi una stanza, il garzone mi squadrò con una sola occhiata e mi condusse nella soffitta. Mi feci portare dell’acqua fresca e indicare con precisione dove potessi trovare il signor Thomas John: «Davanti alla porta a nord, la prima casa di campagna a man destra, una grande villa nuova, di marmo bianco e rosso, con molte colonne». Bene. Era ancora troppo presto, e io sciolsi il mio fagotto, ne trassi fuori la giubba nera appena rivoltata, m’infilai ben lindo e pulito nei miei vestiti migliori, mi misi in tasca la lettera di raccomandazione, e mi avviai di buona lena verso la casa di colui nel quale erano riposte tutte le mie modeste speranze. Dopo aver percorso quant’era lunga la strada a settentrione, e aver raggiunto la porta, scorsi immediatamente le colonne che risplendevano nel verde. «È qui, dunque» pensai. Mi spolverai le scarpe con il fazzoletto, mi aggiustai il fiocco e tirai il campanello, non senza essermi raccomandato l’anima a Dio. La porta si spalancò. All’ingresso dovetti subire un vero e proprio interrogatorio, ma infine il portiere mi fece annunciare, e io ebbi l’onore di essere convocato nel parco, dove il signor John s’intratteneva con una piccola compagnia. Riconobbi immediatamente l’uomo dal lustro della sua pingue aria di sufficienza. Egli mi ricevette molto bene, proprio come fa un ricco con un povero diavolo, si voltò persino verso di me, senza peraltro distogliersi dai suoi amici, e mi prese di mano la lettera che gli porgevo. «Ah, ecco! Di mio fratelloè da tanto che non ho sue notizie. È in buona salute? Laggiù» continuò rivolto alla compagnia, senza neppure aspettare la risposta, «là farò costruire il nuovo edificio». Ruppe il sigillo senza interrompere il discorso, che aveva per oggetto la ricchezza. «Chi non è padrone di almeno un milione» buttò lì, «è, mi si perdoni la parola, un mascalzone!». «Oh, com’è vero!» esclamai con piena e traboccante partecipazione. Questo dovette piacergli, perché mi sorrise dicendo: «Resti qui, caro amico, e forse dopo avrò il tempo di dirle che cosa ne penso» e indicò la lettera, che subito si mise in tasca, rivolgendosi poi nuovamente alla compagnia. Offrì il braccio a una giovane signora, altri signori si fecero attorno alle altre belle dame, ciascuno trovò chi faceva al suo caso, e ci s’incamminò verso la collina fiorita di rose. Io mi misi dietro a loro, senza riuscire importuno ad alcuno, visto che più anima viva si curava di me. La compagnia era molto allegra, si amoreggiava e si scherzava, di tanto in tanto si parlava di cose leggere con gravità, più spesso però con leggerezza di cose gravi, e con tutta tranquillità ci si prendeva gioco di amici assenti e dei loro affari. Ma io ero troppo estraneo per capir molto di tutto ciò, troppo preoccupato e chiuso in me stesso per cogliere il senso di certi sottintesi. Avevamo ormai raggiunto il roseto. La bella Fanny, evidentemente la regina della giornata, ebbe il capriccio di spezzare da sé un ramo fiorito, si ferì con una spina, e, quasi sgorgando dalle scure rose, la porpora del sangue le inondò la mano delicata. Questo evento mise in agitazione l’intera compagnia. Ci si affannò a cercare del cerotto inglese.

Un uomo attempato, silenzioso, smilzo, scavato e lungo lungo, che ci camminava accanto, ma che non avevo ancora notato, s’infilò all’istante la mano nella stretta tasca dell’antiquata redingote di taffettà grigio, ne estrasse una piccola borsa, la aprì, e con un inchino ossequioso porse alla dama quanto richiesto. Ella lo prese senza fare attenzione al donatore e senza ringraziarlo, la ferita venne fasciata, e si proseguì alla volta del colle, dalla cui cima si poteva godere l’ampia vista sul verde labirinto del parco, fino allo sconfinato oceano. La visuale era davvero sterminata e grandiosa.

Un punto luminoso apparve all’orizzonte tra i cupi flutti e l’azzurro del cielo. «A me un cannocchiale!» ordinò il signor John, e prima ancora che si mettesse in moto la servitù, apparsa alla chiamata, l’uomo in grigio, con un inchino discreto, si era già infilato la mano in tasca, ne aveva tratto un bel Dollond e lo aveva consegnato al signor John. Questi, portandoselo subito all’occhio, informò la compagnia che si trattava della nave salpata il giorno precedente, che i venti contrari avevano mantenuto in vista del porto. Il cannocchiale passò di mano in mano e non tornò in quella del proprietario; ma io guardai l’uomo con meraviglia, senza riuscire a capire come quel grosso strumento fosse potuto uscire dalla minuscola tasca; nessuno però sembrava aver notato il fatto, né ci si curava dell’uomo in grigio più che di me. Vennero offerti i rinfreschi, la frutta più rara proveniente da ogni regione, posta nei vassoi più preziosi. Il signor John, facendo gli onori di casa con leggero distacco, mi rivolse per la seconda volta la parola: «Mangi dunque; in mare, questo non l’ha certo avuto». Io mi inchinai, ma lui non se ne accorse, parlava già con qualcun altro. Ci si sarebbe volentieri accampati sull’erba, sul pendìo del colle, di fronte all’aperto e ampio paesaggio, non fosse stato per l’umidità del terreno. Sarebbe stata davvero una cosa divina, commentò qualcuno della compagnia, poter avere a disposizione dei tappeti persiani da stendere lì. Il desiderio non era ancora stato espresso, che l’uomo dall’abito grigio infilò la mano in tasca e, con gesti discreti e umili, si adoperò per estrarne un ricco tappeto persiano ricamato in oro. I servitori lo presero in consegna, quasi fosse cosa del tutto naturale, e lo distesero nel luogo scelto. Tutta la compagnia vi prese posto senza tante cerimonie; e io, sbalordito, guardai nuovamente l’uomo, la tasca, il tappeto, il quale misurava più di venti passi di lunghezza e dieci di larghezza, e mi stropicciai gli occhi, senza sapere che cosa dovessi pensare, soprattutto perché nessuno ci trovava niente di straordinario. Mi sarebbe piaciuto sapere qualcosa di lui, e avrei chiesto volentieri chi fosse, soltanto non sapevo a chi potessi rivolgermi, poiché ero quasi più in soggezione con i signori servitori che con i signori serviti. Finalmente mi feci animo e mi avvicinai a un giovane signore, che mi sembrava di aspetto più modesto degli altri, e che spesso era rimasto da solo. A bassa voce lo pregai di dirmi chi fosse quell’uomo servizievole con l’abito grigio. «Quello che sembra la cima di un filo sfuggito all’ago di un sarto?». «Sì, quello che sta da solo». «Non lo conosco» mi disse per tutta risposta e, evidentemente per evitare una più lunga conversazione con me, s’allontanò mettendosi poi a parlare di cose del tutto indifferenti con un altro. Il sole cominciava ora a essere più forte, facendosi fastidioso per le dame; la bella Fanny si girò con noncuranza verso il signore in grigio al quale, per quanto ne sapevo io, ancora nessuno aveva rivolto la parola, chiedendogli con leggerezza se per caso non avesse con sé anche una tenda. Egli le rispose con un profondo inchino, quasi gli fosse capitato un immeritato onore, e subito mise mano alla tasca, dalla quale vidi saltar fuori stoffa, pioli, corde, ferri, in breve tutto l’occorrente per un magnifico padiglione. I signori più giovani aiutarono a distenderlo, ed esso ricoprì l’intera superficie del tappetoe tuttavia nessuno ci trovava ancora niente di straordinarioIo mi sentivo già da tempo a disagio, e anzi in preda a orribili sensazioni, quand’ecco che, appena espresso il successivo desiderio, vidi saltar fuori dalla sua tasca tre cavalli, tre morelli splendidi, grandi, ti dico, con tanto di sella e finimenti. Ma pensaci un po’, Dio santo! Ancora tre cavalli sellati da quella stessa tasca, dalla quale erano usciti fuori una borsa, un cannocchiale, un tappeto intessuto lungo venti passi e largo dieci e un padiglione di pari grandezza, completo di tutti i suoi ferri e pioli! Se non ti assicurassi di aver visto tutto questo con i miei propri occhi, tu certo non potresti credermi. Per quanto impacciato e modesto mi apparisse quell’uomo, e per quanto ben poca attenzione egli ricevesse dagli altri, tuttavia la sua pallida figura, da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo, mi divenne così inquietante da non poterla sopportare più a lungo. Decisi dunque di sottrarmi alla compagnia, cosa che, visto il ruolo insignificante che vi occupavo, mi apparve assai facile. Volevo ritornarmene in città, e ritentare la mattina seguente la fortuna presso il signor John e, qualora ne avessi trovato il coraggio, chiedergli notizie del bizzarro signore in grigio. Ah, se mi fosse riuscito di svignarmela davvero così! Mi ero già felicemente spinto oltre il roseto giù per la collina, e mi trovavo in mezzo a una radura erbosa, quando, temendo di essere sorpreso a camminare sul prato e non sul sentiero, mi gettai attorno uno sguardo furtivo. E quale non fu il mio spavento quando mi vidi alle spalle, diretto verso di me, l’uomo dalla giubba grigia. Raggiuntomi, si tolse immediatamente il cappello con un inchino profondissimo, quale nessuno mi aveva mai rivolto prima di allora. Non c’erano dubbi che volesse parlarmi, e io non potevo certo impedirlo senza mostrarmi villano. Mi tolsi anch’io il cappello, m’inchinai a mia volta, e restai là sotto il sole a capo scoperto, come abbarbicato al suolo. Lo fissavo terrorizzato, come un uccello immobilizzato da un serpente. Ma anch’egli appariva imbarazzato; non alzando mai lo sguardo, s’inchinò ancora ripetutamente, mi venne più vicino e mi rivolse infine la parola con voce bassa e incerta, quasi nel tono di chi chiede un’elemosina. «Il signore voglia perdonare la mia indiscrezione, se oso presentarmi a lei pur senza conoscerla ma ho una preghiera. Se mi facesse la grazia di consentire». «Ma per l’amor di Dio, signore!» lo interruppi impaurito. «Che cosa potrei mai fare per un uomo che» e qui ci arrestammo entrambi, facendoci, così almeno mi pare, rossi in volto. Dopo un attimo di silenzio egli prese nuovamente la parola: «Durante il breve tempo nel quale ho goduto della fortuna di trovarmi accanto a lei, ho avuto modo, mi permetta di dirlo, di osservare diverse volte con inesprimibile ammirazione la bella, bella ombra che lei, con una certa qual nobile noncuranza e senza quasi farci caso, proietta di sé al sole, quella straordinaria ombra lì ai suoi piedi. Mi perdoni la richiesta, che è certo sfacciata; ma non sarebbe per caso disposto a cedermi questa sua ombra?» Tacque, e a me parve avere in testa la ruota di un mulino. Che dovevo dire dell’incredibile proposta di comprare la mia ombra? Deve essere pazzo, pensai, e allora, con tono mutato e più adatto all’umiltà del suo, replicai: «Ma domando e dico, mio buon amico, la vostra stessa ombra non è forse già abbastanza? Questo è quello che io chiamo un commercio davvero fuori del comune» Ma egli replicò subito: «In tasca però io ho qualcosa che al signore potrebbe apparire non del tutto privo di valore; per questa inestimabile ombra non c’è davvero prezzo che tenga» A ricordarmi di quella tasca, mi vennero di nuovo i brividi nella schiena, e non seppi più come avessi potuto chiamarlo mio buon amico. Presi di nuovo a parlare, cercando con infinita cortesia di fare il possibile per accattivarmelo. «Ma, signor mio, perdoni il suo umilissimo servo. Soltanto non capisco troppo bene cosa lei intenda fare, e come potrei mai cedere la mia ombra». Egli mi interruppe: «Io la prego solo di consentire che io prelevi immediatamente da terra questa nobile ombra, e che me la prenda; come, è affar mio. Per contro, come segno della mia riconoscenza per il signore, le lascio la scelta fra tutti i tesori che mi porto in tasca: dell’autentica radice di solano, della mandragora, e poi monetine magiche, un tallero ladro, la tovaglia del garzone di Orlando, un diavolo in bottiglia a buon prezzo; ma no, tutto questo non fa davvero per lei; molto meglio sarebbe il berretto dei desideri di Fortunatus, rimesso completamente a nuovo; oppure una borsa dei desideri, proprio com’era la sua». «La borsa di Fortunatus» lo interruppi, e, nonostante la mia paura, con quella semplice parola egli mi aveva catturato l’anima. Fui colto da un capogiro, e davanti agli occhi mi balenò uno sfavillìo di ducati d’oro «Il signore voglia degnarsi di ispezionare e sperimentare questa borsa». Si infilò la mano in tasca e ne trasse, tirandolo per due bei cordoncini di pelle, un borsellino di media grandezza in robusto cuoio di Cordova saldamente cucito, e me lo consegnò. Vi introdussi la mano, e ne estrassi dieci monete d’oro, e altre dieci, quindi ancora dieci, e poi di nuovo altre dieci. Gli tesi subito la mano: «D’accordo! Affare fatto, per il borsellino vi cedo la mia ombra». L’altro annuì, si inginocchiò senza indugio ai miei piedi, e io lo vidi staccare piano piano da terra con mirabile perizia la mia ombra quant’era lunga, sollevarla, arrotolarla e piegarla, e infine mettersela in tasca. Quindi si alzò, mi si inchinò ancora una volta, e scomparve dietro i cespugli di rose. E là mi sembra di averlo sentito ridacchiare tra sé e sé. Ma io tenevo la borsa ben stretta per i cordoncini, tutt’intorno la terra era illuminata dal sole, e in me ancora non c’era coscienza dell’accaduto.

   Dalla borsa di Fortunatus Peter può attingere continuamente denaro, e, con i soldi, con le monete d’oro, tutti lo troveranno spiritoso e intelligente, le donne perfino attraente. Ma Peter Schlemihl, divenuto ricchissimo, si accorge che le persone danno una grande importanza a quell’ombra, che lui – in quanto oggetto apparentemente immateriale –ha creduto di nessun valore; e tutti – quando si accorgono che non la possiede – lo sfuggono sdegnati e sdegnosi. Dovrà rinunziare anche alla sua amata Mina, perché i genitori di lei non vogliono darla in sposa a un essere "senza ombra", ma preferiscono darla in sposa al suo servitore, Rascal, che si è arricchito rubando il denaro di Peter, e che soprattutto possiede una bella ombra sotto il sole. Peter Schlemihl, allora, angosciato, vuole annullare il contratto: rivuole la sua ombra.

 LEGERE MULTUM….

 Adelbert von Chamisso, Storia straordinaria di Peter Schlemihl (1814)

Infine tornai in me, e mi affrettai ad abbandonare quel luogo, dove speravo di non avere più nulla da fare. Per prima cosa mi riempii le tasche d’oro, poi mi legai le cordicelle della borsa ben strette attorno al collo, nascondendomela sul petto. Uscii dal parco senza che nessuno si accorgesse di me, raggiunsi la strada maestra, e presi la direzione della città. Ma quando, immerso nei miei pensieri, mi avvicinai alla porta, sentii gridare dietro di me: «Signore! Ehi! Giovine! Stia a sentire!». Mi guardai intorno, e vidi che a chiamarmi era una vecchia: «Badi, signore, che ha perduto la sua ombra». «Grazie, nonnina». Le gettai una moneta d’oro per il benevolo ammonimento, e mi addentrai fra gli alberi. Ma, giunto che fui alla porta, mi toccò di udire la sentinella che diceva: «E quel signore, la sua ombra dove l’ha lasciata?»; e subito dopo, alcune donne: «Gesù Maria! Quel poveretto non ha l’ombra!». La cosa cominciava a infastidirmi, ed evitai allora con molta cura di espormi al sole. Ma questo non era ovunque possibile, per esempio sull’ampia strada che dovetti attraversare, per colmo di sfortuna, proprio nel momento in cui i ragazzi uscivano da scuola. E un maledetto monello gobbo, me lo vedo ancora davanti, si accorse al volo che mi mancava l’ombra. Con grande schiamazzo mi denunciò immediatamente a tutta la gioventù letterata del quartiere, la quale cominciò subito a sfottermi e a farmi bersaglio di lanci di fango. «La gente normale fa in modo di portarsi dietro l’ombra, quando cammina al sole». Per levarmeli di torno, gettai ai loro piedi intere manciate d’oro, e saltai su una carrozza a nolo, a raggiungere la quale mi aiutarono alcune anime misericordiose. Non appena mi trovai solo nella vettura scoppiai a piangere amaramente. Allora forse nacque in me il sospetto che, se sulla terra l’oro vale più della virtù e del merito, l’ombra però possiede un valore più alto dell’oro stesso; e io, che prima avevo sempre sacrificato la ricchezza alla mia coscienza, mi trovavo ora ad aver dato via la mia ombra per il vile denaro. Che cosa sarebbe ancora potuto accadermi in questo mondo! Ero ancora sconvolto, quando la carrozza si arrestò dinanzi alla mia vecchia locanda; rabbrividii alla sola idea di rimettere piede in quella squallida soffitta. Feci ritirare le mie cose, raccolsi con noncuranza il mio povero fagottello, gettai lì alcune monete d’oro, e ordinai di condurmi davanti al miglior albergo. L’edificio era situato a nord, cosicché non avevo da temere il sole. Licenziai il cocchiere con qualche moneta d’oro, mi feci assegnare le migliori stanze sul davanti, e mi ci rinchiusi dentro non appena potei. Che cosa credi tu che io abbia fatto allora? Mio carissimo Chamisso, il confessartelo mi fa arrossire. Tirai fuori dal mio petto quella sciagurata borsa, e con una sorta di rabbia, che, simile a un fiammeggiante incendio, si accresceva in me alimentandosi in se stessa, ne trassi fuori oro, e oro, e oro, sempre più oro, che sparpagliai sul pavimento, calpestai e feci tintinnare, pascendo il mio povero cuore al suo sfavillìo e al suo suono, e gettando sempre più metallo sul metallo, finché sfinito non caddi io stesso sul ricco tappeto e, al colmo della delizia, mi ci rotolai e voltolai sopra. Così passò il giorno, e poi la sera, senza che aprissi affatto la porta, e la notte mi sorprese sdraiato sull’oro, dove infine mi colse il sonno. Allora sognai di te, ed era come se stessi dietro la porta a vetri del tuo piccolo studio, e da lì ti vedessi seduto al tuo tavolo da lavoro, tra uno scheletro e un fascio di piante essiccate, aperti davanti a te stavano Haller (medico, botanico e poeta), Humboldt (geografo e naturalista) e Linneo (naturalista e botanico), sul tuo divano c’era un volume di Goethe e poi c’era L’anello magico (fiaba di Friedrich Fouqué in cui si racconta la storia di Fortunatus e della sua borsa magica), io guardavo lungamente te ed ogni cosa nella stanza, poi di nuovo te, ma tu non ti muovevi, non trattenevi neanche il fiato, eri morto. Mi svegliai. Doveva essere ancora molto presto. Il mio orologio era fermo. Mi sentivo le membra spezzate, e avevo fame e sete; dalla mattina precedente non avevo mangiato nulla. Con fastidio e disgusto allontanai da me quell’oro, col quale poco tempo prima avevo saziato il mio folle cuore; ero infastidito e non sapevo più che farne. Certo non poteva restare lì in terra, e la borsa non voleva saperne di inghiottirlo di nuovo. Nessuna delle mie finestre si apriva verso il mare. Dovetti risolvermi a trasportarlo, con grande fatica e sudore, fin dentro un grande armadio, che si trovava in un ripostiglio attiguo, e a stiparvelo dentro. Ne lasciai a terra solo qualche manciata. Dopo aver ultimato il lavoro, mi accasciai sfinito su una poltrona e attesi che qualcuno in casa desse segno di vita. Non appena fu possibile, mi feci portare da mangiare, e feci chiamare l’albergatore. Con costui discussi della futura sistemazione del mio appartamento. Per il mio servizio personale egli mi consigliò un certo Bendel, la cui aria assennata e leale mi conquistò immediatamente. Ed è lui la persona che da quel momento mi fu di conforto con la sua devozione e mi accompagnò attraverso le miserie della vita, aiutandomi a sopportare il mio cupo destino. Trascorsi l’intera giornata nelle mie stanze con servitori in cerca di padrone, calzolai, sarti e commercianti, mi rifornii per bene, acquistai soprattutto moltissimi gioielli e pietre preziose, per liberarmi almeno in parte del molto oro accumulato; ma non mi sembrava affatto che il mucchio riuscisse a scemare. Frattanto ero sospeso tra i più angosciosi dubbi circa la mia situazione. Non osavo mettere piede fuori della porta e la sera feci accendere nel salone quaranta candele di cera prima di uscire dall’oscurità. Ricordavo infatti con raccapriccio la spaventosa scena con gli scolari. Decisi infine, per quanto mi ci volesse molto coraggio a farlo, di saggiare ancora una volta la pubblica opinione. Le notti, in quella fase, erano di luna piena. A tarda sera mi gettai addosso un ampio mantello, mi calai il cappello fin sugli occhi e, tremando come un criminale, scivolai fuori dall’albergo. Soltanto quando fui in un luogo deserto uscii dall’ombra delle case che mi avevano protetto fino a quel punto, e avanzai nella piena luce lunare; pronto a conoscere il mio destino dalla bocca dei passanti. Risparmiami, caro amico, la dolorosa ripetizione di tutto ciò che dovetti patire. Le donne manifestavano spesso la profonda compassione che provavano per me; manifestazioni che mi trafiggevano il cuore non meno del dileggio della gioventù e dell’altezzoso disprezzo degli uomini, soprattutto di quelli grassi e corpulenti, che gettavano una larga ombra. Una bella e leggiadra fanciulla che, a quanto pareva, accompagnava i genitori, mentre essi circospetti non guardavano al di là dei loro piedi, gettò il suo luminoso sguardo su di me; ma, notando l’assenza della mia ombra, ne fu visibilmente spaventata, si coprì col velo il bel volto, abbassò il capo, e passò oltre senza proferire parola. Di più non potei sopportare. Fiotti salati sgorgarono dai miei occhi, e con il cuore spezzato mi ritrassi vacillando nell’oscurità. Dovetti appoggiarmi alle case per sostenere i miei passi, e giunsi alla mia abitazione che era già tardi. Trascorsi la nottata insonne. Il giorno seguente la mia prima preoccupazione fu quella di far cercare dappertutto l’uomo dall’abito grigio. Forse sarei riuscito a ritrovarlo, e allora quale felicità se anche lui, come me, si fosse intanto pentito del folle affare. Feci venire da me Bendel, che sembrava dotato di destrezza e abilità; gli descrissi con esattezza l’uomo che aveva in suo possesso un tesoro senza il quale la mia vita non sarebbe stata ormai che tormento. Gli dissi il giorno, il luogo in cui lo avevo incontrato; gli descrissi tutti i presenti, e aggiunsi anche che doveva informarsi di un cannocchiale Dollond, di un tappeto persiano in tessuto d’oro, di un padiglione e infine dei neri purosangue, la cui storia, gli dissi, senza peraltro specificare in quale modo, era legata all’enigmatico personaggio che era apparso a tutti insignificante, ma la cui apparizione aveva distrutto la pace e la felicità della mia vita. Finito che ebbi il discorso, presi dell’oro, tutto il carico che riuscii a trasportare, e vi aggiunsi pietre preziose e gioielli per un grande valore. «Bendel» dissi, «questo appiana molte strade e rende facile persino ciò che prima appariva impossibile; non esserne avaro, come non lo sono io. Ora va’, e rallegra il tuo signore con le notizie nelle quali è riposta la sua unica speranza». Egli partì. Tornò tardi e sconsolato. Nessuno dei servitori del signor John, nessuno dei suoi ospiti, ed egli aveva parlato con tutti, riusciva a ricordare nemmeno lontanamente l’uomo dalla giacca grigia. Il nuovo telescopio stava là, ma nessuno sapeva da dove fosse arrivato; il tappeto, il padiglione, erano ancora aperti e dispiegati sullo stesso colle, i servi decantavano la ricchezza del loro padrone, ma nessuno era a conoscenza dell’origine di queste nuove cose preziose. Egli stesso ne era compiaciuto, e non gli importava di ignorare da dove gli fossero giunte; i cavalli li tenevano nelle loro stalle i giovani signori che li avevano montati, i quali lodavano la generosità del signor John, che quel giorno gliene aveva fatto dono. Tutto ciò emerse dall’esauriente racconto di Bendel, il cui fervido zelo e l’intelligente condotta meritavano le mie lodi, anche se il risultato era stato infruttuoso. Malinconicamente gli feci cenno di lasciarmi solo. «Fin qui» riprese però egli, «ho presentato al mio padrone il resoconto delle situazioni che più gli premevano. Mi resta ora da assolvere un incarico che mi è stato dato stamattina da una persona che ho incontrato davanti alla porta, mentre uscivo per avviarmi a quest’affare, nel quale sono stato tanto poco fortunato. Le parole esatte dell’uomo furono: "Dite al signor Peter Schlemihl che non mi vedrà più da queste parti perché me ne vado oltremare, e anzi un vento propizio mi spinge ad affrettarmi al porto. Ma tra un anno e un giorno avrò l’onore di venire io stesso a fargli visita e di proporgli un altro affare, che forse gli riuscirà accettabile. Porgetegli i miei devoti ossequi, e assicuratelo della mia riconoscenza". Gli ho chiesto chi fosse, ma egli mi ha risposto che lei lo conosce già». «Che aspetto aveva quest’uomo?» chiesi io, carico di presentimenti. E Bendel mi descrisse fedelmente, tratto per tratto, parola per parola, l’uomo dall’abito grigio, proprio come nel suo racconto precedente aveva menzionato colui del quale era andato in cerca. «Sciagurato!» gridai allora io torcendomi le mani, «era proprio lui!» e fu come se gli cadesse la benda dagli occhi. «Sì, era lui, era lui per davvero!» gridò in preda all’agitazione e al terrore, «e io, cieco e stupido, non l’ho riconosciuto e ho tradito il mio padrone!» Allora, piangendo a calde lacrime, proruppe nei più amari rimproveri contro se stesso, e la disperazione in cui era sprofondato ispirò persino a me compassione. Lo consolai, lo rassicurai ripetutamente del fatto che non nutrivo il benché minimo dubbio circa la sua fedeltà, e lo spedii immediatamente al porto per seguire, per quanto possibile, le tracce del bizzarro uomo. Ma quella stessa mattina erano salpate molte navi, che erano state trattenute nel porto da venti contrari, tutte in direzione degli angoli e delle coste più diversi del mondo, e l’uomo in grigio era scomparso senza lasciar tracce, proprio come un’ombra.

A che potrebbero mai servire le ali a colui che è inchiodato a salde catene di ferro? Esse non farebbero che arrecargli una ancor più terribile disperazione. Io languivo, come Faffner (il nome del drago che custodisce il tesoro dei Nibelunghi) davanti al tesoro, lontano da ogni umano conforto, accanto a quell’oro che il mio cuore non amava, e che anzi rifuggiva, e a causa del quale mi vedevo ormai escluso dalla vera vita.

Conservando per me solo il mio oscuro segreto, avevo paura anche dell’ultimo dei miei servi, che tuttavia invidiavo giacché possedeva un’ombra, e poteva farsi vedere alla luce del sole. Nella solitudine della mia stanza trascorrevo come in lutto i giorni e le notti, e l’angoscia mi consumava l’anima.

   Il diavolo, quando tornerà, dopo un anno e un giorno, consentirà a restituire l’ombra a Peter, però ad una sola condizione: in cambio della sua anima. Che cosa fa Peter Schlemihl a questo punto? A questo punto dobbiamo interrompere il racconto: la Scuola deve invitare i cittadini-studenti a proseguire la lettura perché questo racconto merita di essere letto.

   Possiamo ancora rispondere, però, a una domanda: come si comporta Peter di fronte alla nuova proposta del diavolo: l’anima in cambio dell’ombra? Ebbene, Peter si ribella, rifiuta il nuovo patto e, angosciato, getta via la borsa magica. E decide di ricominciare tutto da capo e di intraprendere un viaggio di riparazione, di riscatto, di purificazione, di redenzione. Da un fanciullo acquista – con gli ultimi soldi suoi che gli erano rimasti – due vecchi stivali (che si riveleranno essere gli stivali delle Sette Leghe), e si mette in cammino. Questo viaggio costituisce il nucleo centrale del racconto e – in mezzo a tante avventure – Chamisso vuole tracciare il percorso di un itinerario di formazione intellettuale che possa servire per imparare a rispondere alle tentazioni: c’è, in questa idea narrativa, anche un retaggio "neoplatonico" molto interessante. Il "favoloso" Peter Schlemihl è, forse, la personificazione reale di chi ha ceduto e cede alle tentazioni e deve poi passare una vita intera a darsi da fare per riguadagnare l’integrità, per riacquistare l’equilibrio spezzato. E dovrà attraversare peripezie, sarà costretto all’isolamento, e a pesanti rinunce. L’isolamento e la rinuncia sono due temi classici del romanticismo titanico. Il "favoloso" Peter Schlemihl, attraverso la rinuncia ai beni materiali superflui, ottiene molta sapienza e anche un po’ di saggezza.

   Il finale del racconto non è del tutto rassicurante: Peter Schlemihl – l’uomo che ha venduto l’ombra – alla fine diventa un botanico, diventa uno scienziato (come Chamisso), conosce meglio di chiunque altro la Terra e le latitudini, si valorizza senz’altro come persona, ma nessuna forma di conoscenza è in grado di restituirgli ciò che ha perduto: l’ombra l’ha persa per sempre. Chamisso c’invita a riflettere sul fatto che non c’è riconciliazione, non c’è salvezza per chi è stato tentato e non ha saputo resistere! Il "favoloso" Peter Schlemihl conquista una lungimirante ma amara saggezza, mediante la quale non può far altro che constatare e rimpiangere tutto quello che ha perduto per aver ceduto alla sete di ricchezza.

   Gli esegeti, gli esperti di letteratura e di filosofia, hanno studiato a lungo questo racconto, e allora leggiamolo anche noi da bravi studenti, Gli studiosi hanno da sempre cercato di individuare ciò che Chamisso ha voluto nascondere dietro al simbolo dell’ombra venduta. Chamisso, in età romantica, sintetizza nel tema de l’ombra il complesso tema del diabolico. Il tema dell’ombra fa perdere al tema del diabolico gli elementi esoterici, e le componenti magiche. Il tema dell’ombra contiene un significato esistenziale a beneficio della riflessione. Il fatto è che, in questo racconto, "l’ombra" viene ad assumere, di volta in volta, valori e significati diversi. C’è come un invito al lettore a dare lui stesso dei significati a "l’ombra". C’è come un invito a riflettere su che cosa sia l’ombra per chi legge; e anche noi a questo punto, siamo chiamati in causa.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La parola "ombra" ha un’ampia gamma di significati : semioscurità, buio, tenebre, parte non illuminata, zona buia, parte scura, luogo non soleggiato, fresco, frescura, sagoma scura, spettro, fantasma, spirito, simulacro, segreto, mistero, immagine vaga, figura indistinta, apparenza, velo, difesa, protezione, riparo…

Quale di questi significati metteresti per primo in questa lista ?

La parola "ombra" – nell’ampia gamma dei suoi significati – è una delle parole-chiave del romanticismo nel suo complesso… Come entra questa parola nella tua autobiografia ?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Chamisso nel suo racconto non dà un significato preciso a "l’ombra", e questo fatto non solo non nuoce al libro ma lo valorizza come opera di poesia inserita nella Storia del Pensiero Umano. Proprio in questa impossibilità di ridurre l’ombra a un suo preciso e oggettivo significato, il racconto trova la sua maggior forza vitale. Soltanto così l’ombra conserva il suo valore, restando sempre veramente "ombra", senza mai prendere corpo, difatti, se l’ombra "prende corpo" perde la sua natura. La Storia straordinaria di Peter Schlemihl è un piccolo capolavoro perché crea molto spazio per l’immaginazione ma anche una profonda riflessione sulla realtà. Il personaggio di Peter Schlemihl conserverà sempre una sorta di misteriosa, inquietante, perenne ambiguità: si lascia dietro tracce di esistenza e, insieme dichiarazioni di inesistenza.

   Sapete che cosa ha scritto più di uno studioso? Un certo numero di studiosi – tra i quali Benedetto Croce e poi Italo Calvino (che hanno molto amato questo racconto) – hanno scritto che Peter Schlemihl con la sua misteriosa, inquietante, perenne ambiguità assomiglia proprio a La Gioconda di Leonardo: non è casuale il fatto che, seguendo il sorriso de La Gioconda, ci siamo imbattuti in Peter Schlemihl.

   Per concludere: ricordate il finale del monologo di apertura del Faust di Goethe?

 LEGERE MULTUM….

 Spiriti, accanto a me, ora, aleggiar vi sento.

Rispondete, Spiriti, se mi udite: che cosa devo chiedere a voi, potere, ricchezza, fama?

Oppure la giovinezza, oppure la bellezza?

Sì, Spiriti, sì la giovinezza!

La giovinezza e la bellezza chiedo, o Spiriti, la giovinezza e la bellezza chiedo

   Faust e Peter Schlemihl sono contemporanei. Faust piuttosto che potere, ricchezza e fama, chiede agli Spiriti la giovinezza e la bellezza! Peter Schlemihl è realisticamente molto più umano: è stato tentato dalla ricchezza, credendo che, con la ricchezza, potesse comprare anche la bellezza e la giovinezza. Che cosa chiederebbe, Peter Schlemihl, dopo essere rimasto bruciato una volta? Probabilmente Peter Schlemihl chiederebbe agli Spiriti di riavere la sua ombra. Di riavere il suo spazio di freschezza, di silenzio, di riparo, di mistero. È l’ombra – si domanda Peter Schlemihl (e noi ci domandiamo con lui) – che dà la bellezza? "Peter Schlemihl possedeva un’ombra, e poteva farsi vedere alla luce del sole". Allora non è solo in virtù della luce che possediamo un’ombra, è anche attraverso l’ombra che possiamo metterci in luce.

   Questa riflessione ci riporta al tema della bellezza, un tema che abbiamo lasciato ancora in sospeso tre settimane fa. Il tema della bellezza è uno dei temi fondamentali del romanticismo titanico e del romanticismo galante. E, il tema della bellezza contiene molte luci ma contiene anche molte ombre. Che cosa significa questa affermazione? Sapete quante e quali ombre aleggiano intorno al tema della bellezza? E, la bellezza, possiede una propria ombra? Sapete che natura ha l’ombra della bellezza?

   E infine: controlliamo un po’ se ce l’abbiamo ancora l’ombra, e teniamocela stretta! Ora sappiamo che non conviene venderla. E allora insieme alla nostra fedele ombra la prossima settimana, sempre in sintonia con il tema della bellezza, sul sentiero che s’intitola Il sorriso de La Gioconda incontreremo una sublime parola-chiave, la parola patria, accompagnata da un’importante idea-significativa, l’idea di nazionalità. Questa parola e questa idea ci portano momentaneamente in Italia. Chi incontreremo sulla scia di questa parola-chiave e di questa idea-significativa? Incontreremo tre scrittori italiani e una straordinaria figura femminile, un mirabile personaggio da romanzo.

   Per incontrare questi scrittori e questa straordinaria figura femminile accorrete, la Scuola è qui (con le sue luci e le sue "ombre")!…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 18, 2005