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L’EVOLUZIONE DEI TEMI DEL ROMANTICISMO VERSO IL REALISMO…

Lezione N.: 
10

Prof. Giuseppe Nibbi    Tra ‘700 e ‘800: il sorriso della Gioconda 2004 16-17-22 (Redi) dicembre 2004

Stendhal (Marie-Henri Beyle)

L’EVOLUZIONE DEI TEMI DEL ROMANTICISMO VERSO IL REALISMO…

   Questa sera, sempre in compagnia di Vivant Denon, che continua a viaggiare insieme a noi su questo percorso, c’incamminiamo sull’ultimo itinerario di quest’anno 2004. La scorsa settimana abbiamo concluso il nostro itinerario raccontando una storia che sta a metà strada tra la tragedia e la commedia: una storia in tre atti. Ne abbiamo raccontato due e, la narrazione del terzo atto, è stata rimandata a questa sera, ma è chiaro che, per raccontare il terzo atto di questa vicenda, dobbiamo ancora richiamare alla memoria i primi due atti: ve li ricordate?

   Primo atto… Quando Napoleone, dopo il colpo di Stato militare del 18 brumaio (il 9 novembre) del 1799, viene a trovarsi al vertice del potere (membro del triunvirato insieme a Sieyès e Ducos con in mano il potere legislativo e il potere esecutivo), fa una bella passeggiata al museo del Louvre. Mentre attraversa la Galleria il suo sguardo è attratto da un quadro, si ferma, stacca il quadro dalla parete, se lo mette sotto il braccio e afferma: "Birichino il sorriso di questa Madonna, me lo metto in camera da letto, a Giuseppina piacerà senz’altro…". Questa Madonna dal "sorriso birichino", a detta di Napoleone era La Gioconda! E, il quadro de La Gioconda, nel 1799, finisce nella camera da letto di Napoleone triunviro e di sua moglie Joséphine de Beauharnais. Altri alti papaveri del regime lo imitano, e, una serie di opere importanti, dal Louvre si spostarono in case private.

   Secondo atto… Quando il 28 brumaio (il 19 novembre) del 1802 – tre anni dopo – il cittadino Vivant Denon viene nominato, da Napoleone, direttore generale del Museo del Louvre, sa che molte opere importanti che erano conservate nel museo, vengono ora esibite nelle case degli uomini di potere del Direttorio, e quindi: due ore dopo la sua nomina, emette e fa pubblicare un breve, lapidario e sarcastico comunicato. In questo telegrafico comunicato pubblico, tutti coloro i quali, hanno "preso in prestito" (così scrive ironicamente Vivant Denon) opere dal museo – opere di proprietà della Nazione – per abbellire le proprie case, sono improrogabilmente invitati a riconsegnarle nel giro di tre giorni. Vivant Denon dovrebbe essere riconoscente a Napoleone (e a sua moglie Giuseppina) per l’incarico ricevuto ma, di fronte al patrimonio comune che l’Arte rappresenta, non ci sono né compromessi da fare né raccomandazioni da omaggiare: Vivant Denon, ancora una volta, in nome dell’Arte, coraggiosamente, rischia e affronta il potere. Napoleone, che ora è primo console a vita con poteri dittatoriali, per difendere la sua reputazione, non può far altro che dare l’esempio, ed è perciò il primo a riconsegnare La Gioconda, che ritorna a sorridere al suo posto, al Louvre. E tutti quelli che hanno "preso in prestito" qualcosa, seguono a ruota l’esempio del capo, del primo console!

   Terzo atto… Di fronte al comunicato, alla circolare di Vivant Denon, Napoleone ubbidisce tacitamente senza dare adito a nessuna questione, a nessuna polemica, a nessun contrasto, a nessun dissidio, a nessuna contesa: restituisce il quadro della "Madonna dal sorriso birichino", così chiama questo dipinto, e restituisce altri oggetti che aveva prelevato, senza proferire parola. Così si comportano tutti gli altri che avevano approfittato del loro potere per "prelevare" qualcosa da quello che, le Carte della Rivoluzione, dal 1789 al 1792, avevano definito come patrimonio pubblico, come patrimonio della Nazione. Nella sua condizione, e nella sua posizione al vertice del potere, a Napoleone non conviene sollevare alcuna obiezione: sa bene che ne sarebbe potuto nascere uno scandalo e qualcuno dei suoi nemici ne avrebbe potuto approfittare. Ma nessuno ha il coraggio di parlare, tutto tace! Il fatto è che, in questo momento, i suoi nemici potenti – o presunti tali – Napoleone li ha tutti sistemati in posti di privilegio e ne ha comprato la complicità (in seguito poi si fiderà solo, ma non sempre, dei parenti…).

   Questo avvenimento (l’emissione del breve comunicato di Vivant Denon, che intima l’immediata restituzione dei beni pubblici prelevati dal museo di Stato) è un gesto molto significativo. E noi capiamo, ora, che, tra Vivant Denon e Napoleone, dal 1802, comincia una sommessa polemica, un tacito braccio di ferro: capiamo perché Vivant Denon abbia cercato, nel 1810, di impedire che il secondo matrimonio di Napoleone si celebrasse al Louvre, e capiamo come Napoleone si sia voluto imporre sebbene non mancassero a Parigi e dintorni i posti adatti per officiare la cerimonia. Capiamo perché Napoleone abbia voluto dare il suo nome a quel museo!

   Nel pensiero di Vivant Denon il museo è un luogo "pubblico", è di proprietà della Nazione, quindi tutti i cittadini avrebbero potuto pretendere di sposarsi al Louvre! Ebbene, questo avvenimento (l’emissione del breve comunicato di Vivant Denon che ìntima l’immediata restituzione dei beni pubblici prelevati dal museo di Stato) è passato sotto silenzio ed è quasi sconosciuto, e sembra un fatterello di poca importanza: in realtà è un gesto rivoluzionario! Il fatto è che, Vivant Denon, appare sempre sulla scena come un fedele servitore di Napoleone e, a questo proposito, gli studiosi si sono posti un interrogativo: Vivant Denon – sotto le apparenze del funzionario fedele – va considerato, invece, una sorta di oppositore in pectore, una specie di antagonista nel segreto del suo intimo? È difficile – a detta degli esperti – dare una risposta: in fondo Vivant Denon è fatto così e l’ambiguità, intesa come la dote di coltivare il dubbio, fa parte del suo carattere.

   E noi ci domandiamo: Vivant Denon pretende che i papaveri del Direttorio restituiscano le opere che hanno prelevato al Louvre per abbellire le loro dimore, e poi è il protagonista della vergognosa requisizione di opere d’Arte dalle città conquistate dall’armata francese, e quando, queste opere, devono essere restituite, tergiversa, tratta, mercanteggia e fa di tutto perché restino al Louvre? C’è una logica – dicono gli studiosi – in questa contraddizione: Vivant Denon pensa, è convinto, che l’unico moderno museo, l’unico spazio che rende le opere d’Arte senza un padrone, ma di patrimonio comune a disposizione dell’Umanità, sia il Louvre, e, con questo pensiero era coerente: in realtà, non può sopportare l’idea – poi fa buon viso, per opportunità – che il museo a Parigi sia di Napoleone, come non sopporta l’idea che a Berlino sia dell’imperatore, a San Pietroburgo sia dello zar, a Roma sia del papa e a Firenze sia del granduca. Vivant Denon vorrebbe raccogliere tutte le opere d’Arte al Louvre dove si realizza l’idea del nuovo moderno museo. Il museo, e le opere che contiene, è un bene pubblico, serve per contenere la bellezza e la sua funzione è didattica: chi visita il museo – attrezzato, munito, equipaggiato di catalogo – investe in intelligenza. Dopo questa riflessione: torniamo ai fatti di cui stiamo parlando.

   Ebbene, l’avvenimento di cui stiamo parlando (l’emissione del breve comunicato di Vivant Denon che intima l’immediata restituzione dei beni pubblici prelevati dal museo di Stato) è passato sotto silenzio ed è quasi sconosciuto, e sembra un fatterello di poca importanza: in realtà è un gesto rivoluzionario! E Napoleone se ne accorge subito e corre ai ripari. Perché questo gesto è pericoloso per il potere? Se, dall’interno dell’amministrazione, un qualunque funzionario dello Stato utilizza la sua autonomia e la sua, seppur limitata, autorità, e adopera la sua intelligenza, il suo zelo, la sua correttezza morale e segue la sua convinzione di essere dalla parte della ragione e della legge, può permettersi – anche con un breve comunicato di servizio – di mettere in crisi il potere esecutivo, di mettere in difficoltà il governo e costituisce un grave pericolo! E allora Napoleone riesuma il comitato di salute pubblica di Robespierre, naturalmente cambiandogli il nome e la forma. Nasce l’ufficio per la sicurezza della Nazione con il compito di svolgere un’attività di controllo e di censura sugli organi d’informazione pubblici e privati. Il più alto funzionario di quest’ufficio è il primo console, è Napoleone stesso! Si sa che, la censura crea sempre problemi a chi la subisce, ma ne crea sempre anche a chi la esercita. Dopo la caduta di Napoleone, con il regime della Restaurazione, l’unico istituto che non perderà le sue prerogative sarà l’ufficio per la sicurezza della Nazione e l’attività censoria si accentuerà ancora.

   Nel maggio del 1821, appena dall’isola di Sant’Elena arriva a Parigi la notizia della morte di Napoleone, Vivant Denon scrive sul suo Diario una serie di pensieri sui meriti e sui limiti dell’imperatore: non a caso fa anche un riferimento, molto interessante, sul tema della censura e sul tema del conformismo dei giornali. Vivant Denon ricorda come un grosso limite di Napoleone sia stato quello di istituire una pesante censura (lui l’aveva provocata questa istituzione) e un ferreo controllo sull’informazione creando un rapporto viziato tra la stampa e il regime. E, questo rapporto vizioso si sarebbe perpetuato e acutizzato con il successivo regime della restaurazione. Ma leggiamo un gustoso frammento dal Diario di Vivant Denon, che è significativo ancora oggi.

LEGERE MULTUM…

 Vivant Denon, Diario (maggio 1821)

La censura è un istituto ridicolo e controproducente, educa la maggioranza al conformismo e i più a non avere un proprio pensiero, allontana le menti produttive utili alla costruzione della Cultura della Nazione e crea, senza dubbio, un rapporto viziato tra la stampa e il regime, e questo è un fatto molto negativo per la vita dello Stato. A questo proposito mi basta ricordare quando l’imperatore – che riposi in pace dopo tanta guerra – abbandonò l’isola d’Elba nel marzo 1815 e marciò alla volta di Parigi per dare vita ai Cento giorni: ricordo benissimo l’evoluzione dei titoli dei giornali in quel momento, essi fanno capire i rapporti che si erano instaurati tra la stampa e il regime.

Il quotidiano Le Moniteur, per esempio, aggiornava i suoi lettori sui movimenti di Napoleone, fuggito dall’Elba:

9 marzo – Il mostro è fuggito dal luogo dell’esilio.

10 marzo – L’orco della Corsica è sbarcato nel golfo di Jouan, sulla spiaggia di Cannes.

11 marzo – La tigre feroce si è fatta vedere a Gap. Le truppe stanno avanzando da tutti i lati per impedire i suoi progressi. Egli chiuderà la sua miserabile avventura vagando per le boscaglie come un vagabondo.

13 marzo – Il tiranno è ora a Lione. Al suo apparire il timore ha invaso tutti.

18 marzo – L’usurpatore avanza a marce forzate, ma è da escludersi che possa raggiungere Parigi.

20 marzo – Napoleone arriverà domani alle porte di Parigi.

22 marzo – Ieri sera Sua Maestà l’Imperatore ha fatto il suo solenne ingresso alle Tuileries.

Oggi arriva la notizia che la salma del tiranno è stata composta nella prigione d’oltremare, c’è da aspettarsi che, a breve, arrivi la notizia che la bara di Sua Maestà l’Imperatore ha fatto il suo ingresso solenne alle Tuileries…

    Leggerezza, ironia, analisi tagliente e anche preveggenza sono le caratteristiche della scrittura di Vivant Denon. Preveggenza perché? Perché l’anno dopo, nel 1822, vengono pubblicati i ricordi di Napoleone. Napoleone a Sant’Elena detta le sue memorie a un ufficiale, Emmanuel Dieudonné conte di Las Cases. Queste memorie vengono pubblicate col titolo di Memoriale di Sant’Elena. Questo Memoriale ha un enorme successo, e suscita un’emozione fortissima, anche sull’onda della profonda commozione suscitata dalla morte di Napoleone avvenuta l’anno prima. E, come aveva previsto Vivant Denon, il Memoriale trasforma il tiranno in un eroe popolare, e poi addirittura nell’immagine di un martire, un’immagine spesso utilizzata dai regimi successivi. Lo straordinario successo del Memoriale di Sant’Elena contribuisce a costruire la leggenda imperiale, ed è attraverso la leggenda che, la Francia, ha metabolizzato la figura di Napoleone. La figura di Napoleone, nel bene e nel male, entra anche nei romanzi. E dobbiamo ricordare che, il Memoriale di Sant’Elena, è la lettura preferita di Julien Sorel, protagonista de Il Rosso e il Nero uno dei più famosi romanzi di Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle (1783-1842).

   Nel genere letterario del romanzo della prima metà dell’800, il personaggio di Napoleone – prima liberatore, poi tiranno – diventa il pretesto perché una generazione – che è anche la generazione di Vivant Denon – faccia autocritica. Fare autocritica significa dedicarsi con impegno all’introspezione, all’analisi interiore, all’esame di coscienza, alla meditazione, alla riflessione. I temi di questa letteratura – che si esprime attraverso il romanzo nella prima metà dell’800 – sono i temi del romanticismo: l’esaltazione della natura, la critica al progresso, l’avversione per l’industrializzazione, la repulsione per l’educazione conformista ricevuta, la passione per lo spirito indipendente e anticonformista, l’ostilità per l’assolutismo e per le teocrazie, il gusto per le belle arti e per la cultura, l’attrazione per la vita attiva, pienamente vissuta nell’intensità dei sentimenti affettivi, con slancio generoso ed eroico. Questi temi, tipici del romanticismo – proprio attraverso il genere letterario del romanzo – subiscono una significativa evoluzione verso il realismo, verso l’esistenzialismo, e, in questo momento, in sintonia con i temi trattati, anche le forme del romanzo si evolvono in modo originale.

   Stendhal è uno dei protagonisti di questa stagione culturale e di questa evoluzione! Abbiamo già incontrato Stendhal a maggio, nella tarda primavera di quest’anno, e abbiamo letto alcune pagine tratte da La certosa di Parma, in cui, il protagonista, Fabrizio del Dongo, entusiasta di Napoleone, si ritrova, quasi inconsapevolmente, nel bel mezzo della battaglia di Waterloo. Abbiamo detto, in quell’occasione, che avremmo incontrato ancora Stendhal in autunno, e lo avremmo conosciuto meglio, difatti eccolo qui: la storia della vita di Stendhal è una storia esemplare.

   Stendhal è lo pseudonimo di Henri Beyle, nasce a Grenoble nel 1783 da una famiglia agiata, da giovanissimo s’infervora di Napoleone e sogna di guadagnarsi la gloria seguendo il suo esempio. Nel 1800 Stendhal viene per la prima volta in Italia, come giovane ufficiale dei dragoni nell’esercito napoleonico, e combatte per la prima volta nelle pianure lombarde e venete. Si ferma due anni a Milano, "due anni – scrive – di sospiri, di lacrime d’amore e di malinconia", frequenta la Scala e s’inebria della musica di Cimarosa e di Mozart. Entra poi nell’Intendenza dell’esercito francese e segue Napoleone in Germania nella campagna contro la Prussia (1806): assiste alla battaglia di Jena e all’ingresso trionfale dell’imperatore a Berlino. Ma ovunque, in Germania, in Austria o in Ungheria, Stendhal continua a pensare a Milano, al Lago di Como, all’Italia. Nel 1812 raggiunge a Mosca la grande armata che ha invaso la Russia, nel momento in cui inizia la famosa e disastrosa ritirata, e vive questa terribile avventura di cui affronta le fatiche e i rischi. Con la campagna del 1813 e la bruciante sconfitta di Lipsia, Stendhal comincia ad avere qualche dubbio sull’infallibilità del Napoleone condottiero e decide di chiudere il periodo avventuroso ed "eroico" della sua vita. Napoleone è sconfitto e la Francia viene invasa dagli eserciti alleati, ma Stendhal ha un solo pensiero e un solo desiderio: tornare in Italia. Si trasferisce a Milano e vi soggiorna per sette anni: è stato – ha scritto più volte – il periodo più felice della sua vita: frequenta assiduamente i circoli romantici e liberali, e diventa anche sospetto alla polizia austriaca, ed è costretto a passare le Alpi e a tornare in Francia nel 1821. Fino al 1830 vive a Parigi collaborando a giornali e riviste e lavorando intorno ad alcuni saggi pubblicati negli anni successivi. Nel 1830, dopo la cosiddetta rivoluzione di luglio – in cui diventa re di Francia Luigi Filippo d’Orléans, con un programma di impronta liberale – Stendhal viene nominato console di Francia a Trieste, ma non ottiene  il gradimento (l’exequatur) dal governo austriaco. Si rassegna, dunque, ad accettare l’oscuro consolato di Francia a Civitavecchia, nello Stato pontificio, con il vantaggio però di essere abbastanza vicino a Roma che diventa meta abituale delle sue escursioni. Nel 1830 compare il suo primo grande romanzo: Il rosso e il nero, a cui abbiamo accennato prima, e nel 1839 esce La Certosa di Parma. Questi due romanzi vengono accolti con entusiasmo da Honoré de Balzac, che li definisce – in un famoso articolo – i due più significativi romanzi del secolo. Le lodi di Balzac danno grande soddisfazione a Stendhal ma non riesce, purtroppo, ad assaporare il successo: la morte, improvvisa, lo coglie a Parigi nel 1842. Stendhal è sepolto a Parigi, e se si va a far visita alla sua tomba, si scopre che l’epitaffio, scritto sulla sua lapide e composto da lui stesso, è in lingua italiana: "(Qui riposa) Arrigo Beyle Milanese – Visse, scrisse, amò – Quest’anima adorava Cimarosa, Mozart, Shakespeare".

   Stendhal dimostra l’amore per l’Italia attraverso le sue opere, ricordiamo: Roma, Napoli e Firenze (1817), Vita di Rossini (1824), Passeggiate romane (1829) e inoltre Memorie d’un turista (1838), altre opere di Stendhal dedicate all’Italia ci capiterà di incontrarle in nuove occasioni. Queste opere sono più che mai valide per affinare il gusto del viaggio culturale! L’opera di Stendhal è importante perché apre al romanticismo le porte del realismo. Che cosa significa? Significa che, nello scrivere, Stendhal diffida dell’eloquenza, preferisce il "parlare comune", diffida dell’eccessivo lirismo poetico, preferisce la prosa che esprime l’effettiva tenerezza affettiva, diffida dei voli dell’immaginazione, preferisce la descrizione reale di ciò che succede attorno a chi guarda. Stendhal afferma, in una celebre battuta, di aver voluto prendere a modello, nello scrivere, il Codice civile, riducendo le descrizioni ai limiti indispensabili, praticando l’osservazione diretta, il metodo "sperimentale", e sottoponendo i personaggi a una penetrante analisi psicologica. Difatti, Stendhal, è stato compreso appieno soltanto vent’anni dopo la sua scomparsa,e il fascino del suo tono diretto, e del suo stile semplice e disadorno comincia a imporsi solo alla fine dell’800! Dalla fine del secolo, la fama e l’influsso di Stendhal, sono andati crescendo, come lui aveva previsto: "Mi leggeranno verso il 1880; mi leggeranno verso il 1900; mi leggeranno verso il 1935". Alla fine del secolo, alla fine dell’800, la parola "beylismo" ha cominciato a significare culto dell’Io, fascino dell’introspezione, ammirazione per la lucidità di pensiero e per la tenerezza appassionata.

   E ora leggiamo Stendhal (dieci minutial giorno...) appunto dal romanzo Il Rosso e il Nero. Non è possibile raccontare la trama di questo romanzo, ed è bene non raccontarla, anche per non togliere, a chi non ha mai letto questo libro, il gusto di scoprirne l’intreccio. Siamo partiti dicendo che, il Memoriale di Sant’Elena, è la lettura preferita di Julien Sorel. E allora c’è solo da dire che Julien Sorel, il protagonista di questo famoso romanzo – che contrappone, nel titolo, il Rosso delle battaglie napoleoniche con il Nero dell’età bigotta della Restaurazione – è uno dei personaggi-chiave della storia della Letteratura.

LEGERE MULTUM…

Stendhal, Il Rosso e il Nero (1830)

Avvicinandosi all’officina, il vecchio Sorel chiamò Julien con la sua voce stentorea: nessuno rispose. Vide solo i suoi figli maggiori, specie di giganti che, armati di grosse scuri, squadravano i tronchi di pino. Tutti intenti a seguire esattamente la linea nera tracciata sui pezzi di legno, da cui ogni colpo d’ascia staccava grossi trucioli, essi non udirono la voce del padre. Questi si diresse verso la baracca: entrandovi, cercò invano Julien dove avrebbe dovuto trovarsi. Lo scorse cinque o sei piedi più in alto, a cavalcioni su una delle travi del tetto. Invece di sorvegliare attentamente il meccanismo della macchina che segava i tronchi, Julien leggeva. Nulla riusciva più insopportabile al vecchio Sorel: avrebbe anche potuto perdonare a Julien la sua taglia sottile, così poco adatta ai lavori di forza e così diversa da quella dei fratelli maggiori: ma la mania della lettura, a lui, che non sapeva leggere, era odiosa. Invano Sorel chiamò Julien due o tre volte. L’attenzione che il giovane prestava al suo libro, molto più che il rumore della macchina, gli impedì di udire la voce del padre. Questi, alla fine, nonostante gli anni saltò agilmente su un tronco e di là sulla trave trasversale che sosteneva il tetto. Un colpo violento fece volare nel ruscello il libro di Julien, e un secondo colpo altrettanto violento, che gli si abbattè sulla testa, gli fece perdere l’equilibrio. Il giovane stava per cadere dodici o quindici piedi più in basso, in mezzo agli ingranaggi della macchina che l’avrebbero stritolato, ma suo padre lo trattenne al volo con la mano sinistra: «Scansafatiche! Sino a quando continuerai a leggere i tuoi maledetti libri mentre sei di guardia alla macchina? Leggili di sera, almeno, quando vai a perder tempo dal curato». Julien, benché stordito dalla forza del colpo e tutto insanguinato ritornò al suo posto di lavoro. Aveva le lacrime agli occhi, più per aver perduto il suo adorato libro che per il dolore fisico. «Vieni giù animale, che voglio parlarti». Il rumore della macchina impedì ancora a Julien di udire l’ordine. Il padre che era sceso, non volendo darsi la briga di risalire, andò a prendere una lunga pertica per buttar giù le noci e la batté su una spalla del figlio. Non appena quest’ultimo mise piede a terra, il vecchio lo spinse rudemente davanti a sé, verso casa. «Solo Dio sa che cosa mi farà!» pensò il giovane. Passando guardò tristemente il torrente dove era caduto il libro che prediligeva fra tutti, il Memoriale di Sant'Elena. Aveva le guance in fiamme e gli occhi bassi. Era un ragazzo sui diciannove anni, di gracile apparenza, con tratti irregolari ma delicati e il naso aquilino. I grandi occhi neri, che nei momenti di tranquillità denunciavano un temperamento riflessivo e focoso, in quel momento erano pieni di un odio feroce. I capelli castano scuri, dall’attaccatura molto bassa gli rimpicciolivano la fronte e, quando era in collera, gli conferivano un’espressione cattiva. Tra le innumerevoli varietà della fisionomia umana forse non ne esiste alcuna così caratteristica. La figura ben fatta di Julien rivelava più agilità che vigore. Fin dalla più tenera infanzia l’espressione pensosa e il suo intenso pallore avevano fatto pensare al padre che non sarebbe sopravvissuto, o che sarebbe stato in ogni caso un peso per la famiglia. Oggetto del disprezzo generale in casa, Julien odiava il padre e i fratelli. Nei giochi domenicali sulla piazza del paese era sempre sconfitto. Non era trascorso un anno da quando il suo viso gradevole aveva cominciato a suscitare qualche simpatia tra le ragazze. Disprezzato da tutti per la sua gracilità, Julien aveva adorato il vecchio maggiore medico, che un giorno aveva osato parlare al sindaco a proposito dei platani. A volte il maggiore pagava a Sorel la giornata del figlio e insegnava a questi il latino e la storia, o meglio ciò che conosceva della storia: la campagna d’Italia del 1796. Morendo, gli aveva lasciato la croce della Legion d’onore, gli arretrati della sua pensione e trenta o quaranta volumi, il più prezioso dei quali era appena finito nel torrente

   I romanzi – nella prima metà dell’800 – non sono alla portata di tutti, sono alla portata di pochi e poi, le riflessioni contenute nei romanzi, non sono per nulla accondiscendenti con la figura dell’imperatore. I grandi momenti della leggenda imperiale di Napoleone, dettati da lui stesso nel Memoriale di Sant’Elena, vengono divulgati a tappeto attraverso un nuovo genere, più immediato, più diretto, più accessibile: le stampe popolari. Le stampe popolari di soggetto napoleonico sono riproduzioni colorate di disegni originali riprodotti su carta o cartoncino o stoffa, che raccontano – sullo stile degli ex-voto (laici) o delle raffigurazioni dei carretti siciliani o dei cartelloni dei cantastorie – i fatti dell’epopea napoleonica. Queste stampe di soggetto napoleonico che riproducevano i ricordi del Memoriale di Sant’Elena, nella prima metà dell’800 hanno, in Francia, un successo straordinario! Le stampe popolari più famose sono le cosiddette images d’Épinal.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Épinal è una cittadina della Lorena sulle rive della Mosella ai piedi dei Vosgi, nella quale si può visitare la chiesa romanico-gotica di St. Maurice e il Museo dei Vosgi nel quale la sezione più interessante è senza dubbio quella dedicata alle stampe popolari (2500 circa) e alla stamperia Pellerin attiva alla fine del ‘700.

Con l’atlante e la guida della Francia fai una visita ad Épinal, buon viaggio…

Ti piacciono le stampe, ne possiedi qualcuna?

Scrivi quattro righe in proposito…

   A creare il mito di Napoleone contribuiscono anche i vecchi soldati della sua armata che si riconoscono nel Memoriale di Sant’Elena, e nasce una nuova professione: quella del reduce napoleonico che va in giro come un pellegrino, come un viandante e racconta, con emozione, le sue esperienze, facendo leva sulla gloria delle battaglie e sulla semplicità del carattere dell’imperatore. Questa ‘‘commedia umana" non sfugge a un altro grande scrittore – che, ora, non abbiamo il tempo di presentare ma che rincontreremo senz’altro – Honoré de Balzac (1799-1850).

   Honoré de Balzac ha scritto una settantina di opere importanti, una ventina di suoi romanzi sono considerati dei capolavori, e, uno di questi romanzi, intitolato Il medico di campagna (1833), ci fa capire bene questa situazione culturale. Il protagonista del romanzo è il dottor Benassis, il quale, dopo una vita dissipata e due amori sventurati si ritira nei dintorni di Grenoble e diventa lo spirito benefico di un povero villaggio di campagna che progredisce con la sua presenza. L’episodio più significativo di questo romanzo è quando, durante una veglia di contadini, un vecchio soldato dell’armata imperiale narra, come se fosse un moderno aedo, l’epopea napoleonica, nella forma di una straordinaria visione popolare e leggendaria. Una forma – soprattutto permeata da una sottile ironia – che Balzac è capace a dare alla sua scrittura. Sono pagine molto significative in cui Balzac ci riporta il carattere messianico, da uomo della provvidenza, da figlio di Dio, da essere dotato d’immortalità che la figura di Napoleone ha assunto, non solo per i suoi soldati, per il popolo, ma anche per una generazione di giovani intellettuali. Si consiglia quindi la lettura di queste pagine:  può essere un inizio per leggere tutto intero questo romanzo di Balzac.

LEGERE MULTUM…

 Honoré de Balzac, Il medico di campagna (1833)

«Parlateci dell'Imperatore!», gridarono in molti, tutti insieme. «Se proprio volete» Allora il veterano si alzò dal suo mucchio di fieno e girò sull’assemblea quello sguardo cupo, carico di tristezza e di dolorosi ricordi che contraddistingue i veterani. Prese la giacca per le falde, le rialzò come si trattasse di mettersi in spalla lo zaino dove una volta stavano i suoi stracci, le scarpe, tutto quel che aveva, appoggiò il peso del corpo sulla gamba sinistra, portò avanti la destra e cedette di buon grado alle richieste dell’assemblea. Buttò indietro i capelli grigi scoprendo la fronte e drizzò il capo come per mettersi all’altezza della storia meravigliosa che stava per raccontare. «Dovete sapere, amici miei, che Napoleone è nato in Corsica, la quale è un’isola francese riscaldata dal sole d’Italia, dove tutto è caldo come in una fornace e dove ci si uccide l’un l’altro, di padre in figlio, per cose da nulla: è un’idea loro. Per cominciare, sua madre, che era la più bella donna di quel tempo e per di più una gran furbacchiona, ebbe l’idea di consacrarlo a Dio per liberarlo da tutti i pericoli dell’infanzia e della vita, poiché aveva sognato, il giorno della sua nascita, che il mondo aveva preso fuoco. Era una profezia! Ella chiese dunque a Dio che lo proteggesse e Napoleone, in cambio, avrebbe rimesso in piedi la sua santa religione, che allora era a terra. Questo si pattuì, e questo è accaduto. E adesso statemi bene attenti e ditemi se quel che sentirete vi sembra cosa naturale! È sicuro e certo che soltanto un uomo che avesse concluso un tal patto segreto potesse passare incolume attraverso le linee dei nemici, in mezzo alle cannonate e alle scariche di mitraglia che ci facevano cascare come mosche risparmiando solo la sua testa. Ho avuto io la prova di tutto ciò, proprio io, a Eylau. Lo vedo ancora mentre sale su un’altura, prende il cannocchiale, guarda il campo di battaglia e dice: "Bene!". Uno di quegli intriganti col pennacchio che lo infastidivano continuamente e lo seguivano dappertutto, anche quando mangiava (e noi lo sapevamo bene!) vuol fare il furbo e prende il posto dell’Imperatore quando questi se n’è andato. Ahimè, liquidato! Addio pennacchio! Capite bene che Napoleone s’era impegnato a tenere il suo segreto per sé. Ecco perché tutti quelli che l’accompagnavano, anche i suoi migliori amici, cadevano come pere mature: Duroc, Bessières, Lannes, tutti uomini forti come l’acciaio, e lui li piegava come voleva. E poi, la miglior prova che egli era il figlio di Dio, nato per essere il padre dei soldati, è che nessuno l’ha mai visto tenente né capitano. Sì, comandante in capo subito! Non dimostrava più di ventitré anni ed era già da parecchio tempo generale, e questo dopo la presa di Tolone quando cominciò a far vedere agli altri che di cannoni non capivano proprio un bel niente. Subito dopo, eccolo, piccolo e mingherlino, generale in capo dell’esercito mandato in Italia, un esercito senza pane, senza munizioni, senza scarpe, senza divise, un povero esercito nudo come un verme. "Amici", disse, "eccoci qui insieme. Ficcatevi bene nella zucca che fra quindici giorni sarete vittoriosi. Avrete vestiti e cappotti nuovi, buone ghette e scarpe eccellenti; ma, ragazzi, bisogna camminare per andarli a prendere a Milano, dove ce n’è in abbondanza". E abbiamo camminato. Il soldato francese schiacciato, appiattito come una cimice, si drizza. Eravamo trentamila disgraziati contro ottantamila spacconi di tedeschi, pezzi d’uomini messi bene, che mi pare ancora di vederli. Napoleone, che per allora era solo Bonaparte, ci soffia non so che cosa in corpo. E si cammina la notte, si cammina il giorno, li pestiamo a Montenotte, gliele diamo di santa ragione a Rivoli, Lodi, Arcole, Millesimo, e non li molliamo. Il soldato prende il gusto della vittoria. Napoleone imbottiglia quei generali tedeschi che non sanno più dove cacciarsi per salvare la pelle, li bastona ben bene, gli frega talvolta con un colpo solo diecimila uomini, accerchiandoli con millecinquecento francesi, che moltiplica a piacer suo. Insomma, gli porta via cannoni, viveri, denaro, munizioni, tutto quello che si può prendere, li getta in acqua, li batte sulle montagne, li azzanna in cielo e li divora in terra, li insegue dappertutto. Ecco un esercito che si rimpannuccia; perché, vedete, l’Imperatore, che era anche un uomo di spirito, si fa accogliere bene dagli abitanti, ai quali dice che è venuto per liberarli. I borghesi allora ci dan da dormire e ci trattano bene, e anche le donne, che erano donne piuttosto giudiziose. Per farla breve, nel ventoso del ’96, che era allora il nostro mese di marzo, noi eravamo in un cantuccio ignorato del paese delle marmotte, ma dopo la campagna eccoci padroni d’Italia, come lui aveva predetto. Nel marzo seguente, dopo un solo anno e due campagne, ci mette in vista di Vienna. Avevamo spazzato via tutto. Avevamo liquidato l’uno dopo l’altro tre eserciti e fatto fuori quattro generali austriaci, tra i quali un vecchio coi capelli bianchi che a Mantova fu arrostito come un topo dentro al pagliericcio. I re domandavano pietà in ginocchio. La pace era stata conquistata. Come avrebbe potuto un semplice uomo far tutto questo? No, era Dio che l’aiutava; non c’è dubbio. Egli si moltiplicava come i cinque pani del Vangelo, di giorno comandava la battaglia, di notte la preparava e le sentinelle lo vedevano andar su e giù continuamente, non dormiva né mangiava. Visti questi prodigi, i soldati lo adottano come padre. Andiamo avanti. A Parigi, vedendo queste cose, cominciarono a dire: "Ecco un tipo che sembra prendere ordini dal cielo, sarebbe capace di metter mano sulla Francia. Meglio spedirlo in Asia o in America, là forse se ne starà buono". Questo era stato scritto per lui come per Gesù Cristo. Fatto si è che dà l’ordine di puntare sull’Egitto. Ecco la somiglianza col figlio di Dio! Ma non basta. Chiama a raccolta i suoi migliori segugi, i più scatenati, e dice così: "Amici, per il momento ci si offre l’Egitto da masticare. Lo manderemo giù in quattro e quattr’otto come abbiamo fatto per l’Italia. I soldati semplici diventeranno principi e saranno proprietari di terreni. Avanti!". "Avanti, ragazzi", dicono i sergenti. Arriviamo a Tolone per imbarcarci. Gli inglesi avevano tutte le navi in mare, ma Napoleone dice: "Non ci vedranno, ed è bene sappiate fin da adesso che il vostro generale ha una stella in cielo che ci guida e ci protegge". Detto fatto. Di passaggio prendiamo Malta, come fosse stata un’arancia per calmar la sua sete di vittoria, poiché lui era un uomo che non poteva stare senza far niente. Eccoci in Egitto. Bene. E qua un’altra consegna. Gli egiziani, vedete, sono uomini i quali, da che mondo è mondo, hanno sempre avuto sovrani che erano dei giganti ed eserciti numerosi come formicai; il loro è un paese pieno di spiriti e di coccodrilli, dove si sono fatte piramidi grosse come montagne e hanno avuto il ghiribizzo di mettervi sotto i loro re per tenerli al fresco, cosa a cui tengono molto. Dunque, sbarcando, il nostro caporaluzzo dice: "Ragazzi, il paese che ora conquisterete ha un mucchio di dèi che bisogna rispettare, perché la Francia dev’esser amica di tutti e vincere i popoli senza offender nessuno. Mettetevi bene nella zucca di non toccar niente per ora; perché dopo avremo tutto! Via!". Così va bene. Ma quelli là che già avevano sentito parlare di Napoleone e che lo chiamavano Kébir-Bonaberdis, che nella loro lingua vuol dire sultano incendiario, ne hanno una gran paura come se fosse un demonio. Allora il Gran Turco, l’Asia e l’Africa ricorrono alla magia e ci mandano un demonio chiamato Mody, che si diceva fosse disceso dal cielo sopra un cavallo bianco insensibile come il suo padrone alle cannonate; tutti e due vivevano d’aria. Ci fu qualcuno che lo vide, io non posso dirlo con certezza. Le potenze d’Arabia e i Mamelucchi volevano far credere ai loro soldati che il Mody poteva renderli invulnerabili in battaglia, poiché era un angelo mandato per combattere Napoleone e riprendergli il sigillo di Salomone, uno dei loro amuleti, che dicevano fosse stato rubato dal nostro generale. Voi capite che naturalmente noi gliela abbiamo fatta passar brutta lo stesso. Ma ditemi, da chi avevano saputo del patto di Napoleone? Poteva essere una cosa naturale? Avevano fissa in mente l’idea che comandasse agli spiriti e si spostasse in un batter d’occhio da un luogo all’altro, come un uccello. Il fatto era che egli si trovava dappertutto. Dicevano pure che veniva a prendersi una regina bella come la luce del sole per la quale aveva offerto tutti i suoi tesori, diamanti grossi come uova di piccione; questa era la favorita del mamelucco, che sebbene ne avesse altre, non voleva saperne di cederla. Stando così le cose, la faccenda non si poteva risolvere che con molte battaglie. E non ne mancarono certo, ce ne furono per tutti. Dunque, ci mettiamo in fila ad Alessandria, a Giseh e davanti alle piramidi. Bisognò marciare sotto il sole in mezzo alla sabbia, dove chi aveva le traveggole vedeva acqua che non poteva bere e ombra che ci faceva sudare. Come al solito, ci soffiamo i Mamelucchi; tutto obbedisce alla voce di Napoleone, che s’impadronisce dell’alto e basso Egitto, dell’Arabia giù fino alle capitali di regni che non esistono più e dove c’erano statue a migliaia e tutte le diavolerie della Natura e poi, cosa stranissima, una infinità di lucertole, un boia di paese dove ognuno poteva prendersi il pezzo di terra che voleva, sol che gli facesse piacere. Mentre fa questo all’interno, dove aveva in mente progetti grandiosi, gli inglesi incendiano la sua flotta nella battaglia di Abukir, perché quelli non sapevano cosa inventare per darci contro. Ma Napoleone, che aveva la stima dell’Oriente e dell’Occidente, che il papa chiamava figlio, e il cugino di Maometto padre, vuol vendicarsi dell’Inghilterra e per rifarsi della flotta, vuol prendere le Indie. Ci avrebbe portato in Asia attraverso il Mar Rosso nei paesi dove i soldati si pagano con oro e diamanti, e si bivacca nei palazzi, quando il Mody fa un patto con la peste e la manda da noi per metter fine alle nostre vittorie. Alt! Tutti sfilano in quella parata da cui non si torna con le proprie gambe. I soldati morenti non possono riprendere San Giovanni d’Acri, dove tre volte erano entrati con eroica e generosa ostinazione. Ma la peste era più forte. C’era un bel dire: "Amico mio!", niente da fare, tutti erano gravemente malati. Solo Napoleone era fresco come una rosa, tutti l’hanno veduto che respirava il fetore della peste senza che gli succedesse niente. E voi credete che tutto questo sia naturale? I Mamelucchi, sapendo che eravamo tutti in infermeria, vogliono sbarrarci la strada; ma con Napoleone lo scherzo non attacca. Dice allora ai suoi scagnozzi, a quelli che avevano la pelle più dura degli altri: "Andate a spazzarmi la strada". Junot, che era un diavolaccio di prim’ordine e anche suo amico per davvero, prende con sé non più di mille uomini e ti scuce l’esercito del pascià che pretendeva di mettersi in mezzo. Torniamo al Cairo, nostro quartier generale. Altra storia. In assenza di Napoleone, la Francia s’era lasciata rovinare il carattere da quelli di Parigi, che si tenevano per sé la paga dei soldati, tutte le loro cose e i loro vestiti, li lasciavano morir di fame e volevano dettar legge all’universo senza prendersi cura d’altro. Erano degl’imbecilli che si divertivano con le chiacchiere anziché darsi da fare. I nostri eserciti erano sconfitti, le frontiere della Francia manomesse: mancava l’uomo. Dico l’uomo, perché lo chiamavano così, ma questa era un’idiozia perché lui aveva una stella e tutto quel che le va dietro; eravamo noi gli uomini! Sente la storia della Francia dopo la famosa battaglia di Abukir, dove, perdendo non più di trecento uomini e con una sola divisione, vinse il grande esercito dei turchi forte di venticinquemila soldati e ne buttò in mare più di metà, giù! Fu il suo ultimo colpo in Egitto. Vedendo che in patria tutto andava a rotoli, si disse: "Io sono il salvatore della Francia, devo andare". Ma mettetevi bene in testa che l’esercito non sapeva nulla della sua partenza, altrimenti lo avrebbe trattenuto con la forza per farlo imperatore dell’Oriente. Eccoci allora tutti tristi senza di lui, perché era lui la nostra gioia. Lascia il comando a Kléber, un grosso cane da guardia che abbandonò il suo posto solo quando fu assassinato da un egiziano che i nostri ammazzarono mettendogli una baionetta nel didietro (è il modo di ghigliottinare di quei paesi), ma ciò fa tanto soffrire che un soldato ebbe pietà di quel delinquente e gli porse la sua fiaschetta, e appena l’Egiziano ebbe bevuto un po’ d'acqua voltò l’occhio con gran soddisfazione. Ma lasciamo stare queste sciocchezze. Napoleone s’imbarca su un guscio di noce, una barchetta da niente, che si chiamava Fortuna e in un batter d’occhio, in barba all’Inghilterra che lo bloccava con vascelli di linea, fregate e tutto ciò che poteva stare in mare, sbarca in Francia, perché ha sempre avuto il dono di varcare i mari con un salto. Vi par naturale? Beh, arrivato a Frejus è già a Parigi. Là tutti lo acclamano, ma lui convoca il Governo. "Cosa avete fatto dei miei figliuoli, dei soldati?", dice agli avvocati. "Siete un branco di sbafatori, ve ne fregate degli altri e vi ingrassate alle spalle della Francia. Non è giusto, e io parlo a nome di tutti quelli che soffrono". Allora si mettono a sparlare di lui per rovinarlo, ma piano! Egli li chiude nella loro caserma di chiacchiere, li fa saltare dalle finestre e li inquadra sotto di sé, facendoli diventare muti come pesci e molli come borse da tabacco. Dopo di che diventa console e, giacché non era certamente lui che poteva mettere in dubbio l’esistenza dell'Essere Supremo, adempie la promessa fatta a Dio che gli aveva sul serio mantenuto la parola, e gli rende le sue chiese e ripristina la sua religione. Le campane suonano per Dio e per lui. Tutti sono contenti; primo i preti, che finiscono di aver fastidi; secondo i borghesi, che possono fare il loro commercio senza aver da temere il "rapiamus" della legge diventata ingiusta; terzo i nobili, che egli proibisce di mandare a morte come era purtroppo diventata un’abitudine. Ma c’erano altri nemici da spazzar via, e lui non riposa sugli allori, perché, vedete, il suo occhio frugava il mondo intero come se fosse stato non più grande della testa d’un uomo. Dà un’occhiata all’Italia come s’affacciasse alla finestra, ed è sufficiente. Auf! Si sbafa gli austriaci a Marengo come una balena i pesciolini. Qui la vittoria francese ha cantato più forte il suo inno perché tutto il mondo lo udisse, ed è bastato. "Non giochiamo più", dicono i tedeschi. "Basta così", dicono gli altri. Insomma, l’Europa si squaglia, l’Inghilterra viene a patti. Pace generale, re e popoli fan le viste d’abbracciarsi. Fu allora che Napoleone inventò la Legion d’Onore, una gran bella cosa per davvero! "In Francia", dice a Boulogne davanti all’intero esercito, "tutti hanno coraggio. Ebbene, i civili che faranno azioni valorose diventeranno fratelli dei soldati, i soldati diventeranno loro fratelli e saranno uniti sotto la bandiera dell’onore". Noi, che eravamo ancora laggiù, torniamo dall’Egitto. Tutto era cambiato! L’avevamo lasciato generale, e dopo così poco tempo lo ritroviamo imperatore. La Francia s’era data a lui come una bella ragazza si dà a un lanciere. Bene, fatto questo con soddisfazione davvero generale, ci fu una cerimonia sacra come non se ne vide mai sotto la volta del cielo. Il papa e i cardinali, nelle loro vesti d’oro e di porpora, passarono le Alpi per consacrarlo davanti all’esercito e al popolo che battevano le mani. C’è un’altra cosa che non posso tacere. In Egitto, nel deserto vicino alla Siria, gli apparve sulla montagna di Mosè l’Uomo Rosso e gli disse: "Così va bene!". Tornò da lui per la seconda volta a Marengo, la sera della vittoria, e gli disse: "Vedrai il mondo ai tuoi piedi, e sarai imperatore dei francesi, re d’Italia, signore dell’Olanda, sovrano della Spagna, del Portogallo, delle Province Illiriche, protettore della Germania, salvatore della Polonia, prima aquila della Legion d’Onore, sarai tutto". Quell’uomo rosso, vedete, era il suo genio, proprio suo, una specie di messaggero che gli serviva, a quel che dicevano, per comunicare con la sua stella. Io non ho mai creduto a queste cose, ma l’Uomo Rosso è un fatto vero e lo stesso Napoleone ebbe a dire che veniva da lui nei momenti difficili e abitava al palazzo delle Tuileries, nelle soffitte. La sera dell’incoronazione, Napoleone lo vide per la terza volta, e discussero di molte cose. Poi l’Imperatore va dritto a Milano per farsi incoronare Re d’Italia. E qui comincia davvero il trionfo dei soldati. Da quel momento tutti quelli che sanno scrivere passano ufficiali. Ecco che piovono pensioni, donazioni di ducati, tesori per lo stato maggiore che non costano niente alla Francia, e c’è la Legion d’Onore fornita di appannaggi per i semplici soldati: tra questi io godo ancora della mia pensione. Insomma, ecco che l’esercito è trattato come non s’era mai visto prima. Ma l’Imperatore, che sapeva di dover essere l’Imperatore di tutti, pensa anche ai borghesi e in paesi nudi come il dorso della mia mano fa costruire, secondo i loro desideri, monumenti favolosi. Pensate, ritornate dalla Spagna per passare a Berlino, e vi trovate archi di trionfo con sopra scolpiti dei soldati semplici come se fossero né più né meno che generali. In due o tre anni, senza imporre tasse a voialtri, Napoleone riempie d’oro le sue casseforti, fa sorgere palazzi, ponti, strade, scienziati, feste, leggi, navi, porti, e spende miliardi sopra miliardi, tanti che se avesse voluto avrebbe potuto lastricar la Francia con pezzi da cento soldi. Quando infine è seduto comodamente sul trono, ed è padrone del mondo, tanto che l’Europa aspetta il suo cenno per fare qualsiasi cosa, poiché aveva quattro fratelli e tre sorelle, ci dice come conversando, così alla buona: "Ragazzi, è giusto che i parenti del vostro Imperatore debbano chiedere l'elemosina? No. Voglio che risplendano di gloria come me!". Dunque bisogna conquistare un regno per ciascuno di loro, affinché il cittadino francese sia il padrone dell’universo e i soldati della guardia facciano tremare il mondo e la Francia sputi dove vuole e tutti le dicano, come sta scritto sulla mia moneta: "Dio ti protegga!". "D'accordo", risponde l’esercito, "andremo a pescarti i regni con la baionetta". Ah, credete a me, non c’era da tirarsi indietro! Se si fosse messo in mente di prendere la luna, bisognava preparare gli zaini e arrampicarsi; fortuna per noi che non ne ha mai avuto la voglia. I re, che erano abituati alle dolcezze del trono, si fanno naturalmente pregare, e allora, sotto noialtri. Ci mettiamo in marcia e ricomincia il terremoto dappertutto. Ne abbiamo consumati, in quel tempo, di uomini e di scarpe! Ci si batteva così ferocemente che chiunque altro, fuor che i francesi, si sarebbe stancato. Ma voi sapete che il francese è nato filosofo e sa che presto o tardi bisogna morire. Per questo si moriva tutti senza dir niente, perché c’era il piacere di vedere l’Imperatore giocare con la carta geografica. Diceva: Questo (e qui il veterano tracciò rapidamente col piede un cerchio sul pavimento), questo sarà un regno, e il regno era fatto. Che bei tempi! In un batter d’occhio i colonnelli passavano generali, i generali marescialli, i marescialli re. E ce n’è ancora uno che è vivo e può farlo sapere all’Europa, benché sia un guascone e abbia tradito la Francia per conservar la corona, un uomo che non è mai arrossito di vergogna, e questo perché le corone son fatte d’oro! Insomma, gli zappaterra, pur che sapessero leggere, diventavan nobili. Io che vi parlo ho veduto coi miei occhi a Parigi undici re e un nuvolo di principi tutti intorno a Napoleone come i raggi intorno al sole. Voi capite bene che ogni soldato aveva la possibilità di salire al trono, purché se lo meritasse, e un caporale della guardia era come una curiosità da ammirare quando passava, perché ognuno aveva la sua parte nella vittoria e il bollettino lo diceva ben chiaro. E ce ne sono state di battaglie! Austerlitz, dove l’esercito aveva fatto manovre come a una parata, Eylau, dove i russi furono fatti affogare in un lago come se Napoleone ve li avesse spinti con un soffio, Wagram, dove ci si batté per tre giorni di seguito senza fiatare. C’erano insomma più battaglie che santi nel calendario. Fu allora che si vide come Napoleone tenesse nel fodero la vera spada di Dio. Aveva rispetto per il soldato, lo considerava suo figlio, si preoccupava che avesse scarpe, vesti, cappotti, pane, munizioni, per quanto conservasse la propria regalità, perché regnare era il suo mestiere. Ma non importava! Un sergente e anche un soldato potevano parlargli chiamandolo: "Mio Imperatore", come voi mi chiamate: "Amico mio". Ed egli rispondeva alle domande che gli facevano, dormiva nella neve come noialtri; insomma, pareva quasi un uomo come gli altri. L’ho visto io coi miei occhi in mezzo al fuoco, non più preoccupato di quanto non siate voi ora, sempre in moto col suo cannocchiale, sempre attento al suo compito, e noi stavamo là, tutti tranquilli. Non so come facesse, ma quando parlava, la sua parola ci metteva come del fuoco dentro lo stomaco; e per mostrargli che eravamo i suoi figli incapaci di tirarci indietro, si andava compatti senza dir verbo davanti a quei maledetti cannoni che ruggivano e vomitavano caterve di proiettili. Insomma, i moribondi trovavano la forza di sollevarsi per salutarlo e gridargli: "Viva l'Imperatore!". Era naturale? Avreste fatto questo per un semplice uomo? Messi dunque a posto tutti i suoi, poiché l’Imperatrice Giuseppina, pur essendo una buona donna, aveva la disgrazia di non potergli fare dei figli, fu costretto ad abbandonarla, benché l’amasse molto. Ma gli occorrevano figliuoli, per la questione del governo. Conoscendo questo problema, tutti i sovrani d’Europa andarono a gara per dargli moglie. Sposò, ci hanno detto, un’austriaca, che era la discendente di Cesare, un uomo dell’antichità di cui si parla dappertutto e non solo da noi, e che dicono abbia fatto di tutto in ogni parte d’Europa. Ed è proprio vero, perché io che vi sto parlando, proprio io, sono stato sul Danubio, dove ho visto coi miei occhi i resti di un ponte costruito da quell’uomo, il quale pare che a Roma fosse un antenato di Napoleone, per questo motivo l’imperatore si permise di prenderne l’eredità per il figlio. Allora, dopo il matrimonio, che fu una festa per il mondo intero, e per il quale egli abbuonò al popolo dieci anni d’imposte (che però si pagarono lo stesso perché i gabellieri non ne tennero conto), la moglie ebbe un bambino, il re di Roma, cosa che non s’era mai vista sulla faccia della terra perché non era mai nato un bambino che fosse re, vivente ancora suo padre. Quella volta partì un pallone da Parigi per dar l’annuncio a Roma, e quel pallone fece la strada in un giorno. Beh! vorrei sapere se qualcuno di voi avrà il coraggio di dire che anche questo è naturale! No, era tutto scritto lassù. E possa venire un accidente a chi non dirà che Lui è stato mandato da Dio per far trionfare la Francia. Ma ecco l’Imperatore di Russia, amico suo, che se la prende perché non aveva sposato una russa, e si mette a sostenere gli inglesi, nostri nemici, ai quali Napoleone non aveva mai potuto andare a dir due parole a casa loro. Bisogna finirla con quei pollastri. Napoleone perde la pazienza: "Soldati!", dice, "siete entrati vittoriosi in tutte le capitali d’Europa. Resta Mosca, che si è alleata con l’Inghilterra. Bene, per poter conquistare Londra e le Indie, che sono suo possedimento, bisogna decidersi a marciare su Mosca". Prepara allora l’esercito più grande che si sia mai visto marciare a questo mondo, e così ben inquadrato, che in una sola giornata Lui passò in rivista un milione di uomini. "Hurrah!", dicono i russi. Ed ecco tutta quanta la Russia, e quegli animali di cosacchi, che se la svignano. Era un mondo contro un altro mondo, una baraonda generale, che sarebbe stato meglio evitare; era l’Asia contro l’Europa come aveva detto l’Uomo Rosso a Napoleone. "Basta", disse, "prenderò le mie precauzioni". Ed ecco i re, proprio tutti, che vengono a leccar la mano a Napoleone: l’Austria, la Prussia, la Baviera, la Sassonia, la Polonia, l’Italia, tutti sono con noi, ci fanno i complimenti, una bellezza! Le nostre aquile non hanno mai tanto esultato come in quelle parate, stavano più in alto di tutte le bandiere d’Europa. I polacchi non stavano in loro dalla gioia, perché l’Imperatore aveva in mente di liberarli; da allora Polonia e Francia sono state sempre sorelle. "A noi la Russia!", grida l’esercito. Entriamo ben equipaggiati. Cammina, cammina, niente russi. Finalmente troviamo quei furfanti accampati sulla Moscova. Fu lì che ricevetti la croce, e mi permetto di dire che fu una sacrosanta battaglia! L’Imperatore era inquieto, aveva visto l’Uomo Rosso che gli aveva detto: "Ragazzo mio, tu fai il passo troppo lungo, ti verranno a mancare gli uomini, e gli amici ti tradiranno". Allora propone la pace. Ma prima di firmarla: "Freghiamo i russi?", ci dice. "Freghiamoli", grida l’esercito. "Avanti!", dicono i sergenti. Le mie scarpe erano consumate e gli abiti sbrindellati a forza di correre per quelle strade che non sono davvero molto comode! Ma non importa. "Poiché è la fine della baraonda", mi dico, "voglio divertirmi per bene". Siamo davanti alla grande trincea, in prima linea. Si dà il segnale e settecento pezzi d’artiglieria cominciano una conversazione da farvi venir fuori il sangue dalle orecchie. E qui bisogna esser giusti coi nemici: quei russi si facevano ammazzare come i soldati francesi, senza indietreggiare, e noi non s’andava avanti. "Avanti!", ci dicono, "ecco l’Imperatore!". È vero, passa al galoppo facendoci segno che bisognava a ogni costo prendere quella posizione. Ci sprona, noi corriamo, io arrivo per primo alla trincea. Ah mio Dio, cadevano i tenenti, i colonnelli, i soldati! Non importa! Ciò voleva dire scarpe per quelli che non ne avevano e galloni per gli intriganti che sapevano leggere. "Vittoria!", grida tutta la linea. Cosa mai vista, c’erano venticinquemila francesi per terra, vi par poco? Era come un campo di grano falciato, e invece di spighe, uomini! Quanto a noi, eravamo demoralizzati, noialtri! Arriva Lui, ci mettiamo in cerchio attorno a Lui. Allora ci convince con le buone, perché era gentile quando lo voleva, ad accontentarci di carne marcia con la nostra fame da lupi! Il furbacchione distribuisce con le sue mani le croci, saluta i morti, poi dice: "A Mosca!". "A Mosca!", grida l’esercito. Prendiamo Mosca. Ed eccoti che i russi danno fuoco alla loro città. Un falò lungo due leghe che durò due giorni. Le case crollavano come fossero di carta. Cadeva un’orribile pioggia di ferro e di piombo fuso che, ora posso dirlo a voi, illuminava la nostra desolazione. L’Imperatore dice: "Basta, un altro po’ e tutti i miei soldati ci restano". Ci fermiamo per ristorarci e rimetterci in sesto perché eravamo davvero stanchi. Portiamo via una croce d’oro che stava sul Kremlino, e ogni soldato ha il suo piccolo tesoro. Ma ecco che sulla strada del ritorno l’inverno anticipa di un mese, cosa che i dotti, gran bestie, non hanno saputo spiegare, e cominciamo a sentire il freddo. Niente più esercito, capite?, niente più generali, niente più nemmeno sergenti. Era il regno della miseria e della fame e in quel regno tutti eravamo veramente eguali. Non si pensava che a rivedere la Francia, non ci si chinava per raccogliere il fucile o il denaro; ognuno andava avanti, armato come voleva, senza più curarsi della gloria. Insomma, il tempo era così cattivo, che l’Imperatore non vide più la sua stella. C’era qualcosa tra lui e il cielo. Poveretto! Come soffriva a veder le sue aquile che avevano voltato la schiena alla vittoria! Gliene era capitata una di grossa, ammetterete! Arriviamo alla Beresina. E qua, amici miei, si può giurare su quel che c’è di più sacro, sull’onore, che da quando mondo è mondo non si era mai visto un simile guazzabuglio di uomini, di carrozze, di artiglieria sotto tanta neve e con un clima così tremendo. La canna del fucile a toccarla vi bruciava le dita tanto era fredda. Fu là che l’esercito fu salvato dai pontieri, che stettero saldi al loro posto, e tra i quali si comportò egregiamente il nostro Gondrin, unico superstite di quegli uomini così forti e testardi da mettersi in acqua per costruire il ponte sul quale passò l’esercito e da sfuggire ai russi, che avevano ancora del rispetto per la grande armata a causa delle nostre vittorie». E aggiunse indicando Gondrin che lo guardava con la particolare attenzione dei sordi: «Gondrin è un vero soldato. un soldato intemerato, che merita tutta la vostra deferenza. Ho veduto l’Imperatore», riprese, «in piedi vicino al ponte: immobile; non sentiva il freddo. Era naturale anche questo? Guardava la rovina dei suoi tesori, dei suoi amici, dei suoi vecchi "Egiziani". Passava di tutto, donne, carriaggi, artiglieria, e tutto era logoro, distrutto, rovinato. I più coraggiosi portavano le aquile che erano la Francia, che erano tutti voialtri, che erano l’onore del cittadino e del soldato che doveva restare senza macchia e non chinar la testa per il freddo. Non ci si riscalda che vicino all’Imperatore, perché quando lui era in pericolo si correva, tutti gelati, noi che non ci si fermava nemmeno per tendere la mano a un amico. Si diceva che di notte piangesse sulla sua povera famiglia di soldati. Ci volevano soltanto lui e i soldati francesi per cavarsela, e ce la cavammo, ma con quante e quante perdite! Gli alleati avevano mangiato i nostri viveri. Tutti cominciavano a tradirlo, come aveva detto l’Uomo Rosso. I chiacchieroni di Parigi, che avevano taciuto dopo l’istituzione della Guardia imperiale, lo credono morto e fanno una cospirazione, dove si fa entrare il prefetto di polizia, per rovesciare l’Imperatore. Egli viene a conoscere queste cose, va su tutte le furie e ci dice partendo: "Addio, figlioli, tenete le posizioni, tornerò". Macché! I suoi generali se ne lavan le mani, perché senza di lui non è più la stessa cosa. I marescialli dicono sciocchezze e fanno bestialità, e si poteva aspettarselo, perché Napoleone, che era buono, li aveva nutriti d’oro ed essi erano diventati tanto grassi di lardo che non volevano più camminare. Questa fu la causa della nostra rovina, perché molti restarono chiusi nelle città senza toccar la schiena dei nemici che avevano davanti, mentre quegli altri ci spingevano verso la Francia. Tornò finalmente l’Imperatore coi coscritti, coscritti speciali, ai quali cambiò completamente il morale: e ne fece da borghesi in parata cani perfettamente addestrati a mordere chiunque: magnifiche brigate, che si sciolsero come nevi al sole. Nonostante la nostra prodezza, ecco che tutto è contro di noi; ma l’esercito fa ancora prodigi di valore. Si hanno allora battaglie colossali, popoli contro popoli, a Dresda, Lutzen, Bautzen Ricordatevene, voialtri, perché in quei luoghi il francese ha dimostrato tanto eroismo che un buon granatiere allora non durava in vita più di sei mesi. Vinciamo sempre; ma alle spalle eccoti gli inglesi, che raccontando frottole fanno ribellare i popoli. Alla fine ci si fa strada attraverso quella muta di nemici. Dove c’è l’Imperatore ce la facciamo sempre, perché sia per terra che per mare, quando diceva: "Voglio passare", si passava. Per finirla, eccoci in Francia, e a più d’un soldato, nonostante l’inclemenza del tempo, l’aria della patria rimette a posto lo spirito. Anch’io in particolare posso dirlo che ne fui rinfrancato. Ma in quel momento si trattava di difendere la Francia, la patria; insomma, la nostra bella Francia contro l’Europa intera che non ci perdonava di aver voluto dettar legge ai russi, respingendoli entro i loro confini perché non ci divorassero, com’è abitudine del Nord che è ghiotto del Mezzogiorno, come ho sentito dire da molti generali. Fu allora che l’Imperatore vide sollevarsi contro di sé il suocero, gli amici che aveva fatto diventar re e le canaglie che aveva rimesso sul loro trono, e addirittura francesi e alleati, che per ordine superiore si rivoltarono contro di noi dentro le nostre stesse file, come nella battaglia di Lipsia. Non sono orrori di cui i semplici soldati non sarebbero capaci? Mancavano di parola tre volte al giorno, e si dicevano prìncipi! Tentano dunque di invaderci. Dappertutto dove il nostro Imperatore mostra la sua faccia leonina, il nemico indietreggia. Fece più miracoli in quei giorni difendendo la Francia di quanti non ne avesse fatti per conquistare l’Italia, l’Oriente, la Spagna, l’Europa e la Russia. Vuole distruggere tutti gli stranieri per insegnar loro a rispettare la Francia, e li lascia venire fin sotto le porte di Parigi per schiacciarli di colpo e toccare il culmine della gloria con una battaglia ancora più grande di tutte le altre, insomma, con una superbattaglia! Ma i parigini hanno paura per la loro pelle da due centesimi e le loro botteghe da due soldi, e aprono le porte. Ecco che cominciano le ragusades e finisce il bene, ecco l’imperatrice sobillata e la bandiera bianca alle finestre. I generali, che aveva trattato come i suoi migliori amici, lo abbandonano per i Borboni, che nessuno aveva mai sentito nominare. Egli allora ci dice addio a Fontainebleau. "Soldati". Mi pare ancora di sentirlo, piangevano tutti come bambini. Le aquile e le bandiere erano abbassate come per un funerale, perché si può ben dirlo, erano i funerali dell’impero, e i suoi brillanti eserciti non erano altro che un’ombra. Dunque ci dice dalla scalinata del suo castello: "Figlioli, siamo vinti dal tradimento, ma ci rivedremo in Cielo, che è la patria dei valorosi. Difendete il mio figlioletto, ve lo affido. Viva Napoleone II". Aveva in mente di darsi la morte. Perché non si vedesse Napoleone vinto, prende allora tanto di quel veleno da ammazzare un reggimento, perché, come Gesù Cristo prima della sua passione, si credeva abbandonato da Dio e dalla sua stella. Ma il veleno non gli fa niente di niente. Altra novità! Capisce di essere immortale. Sicuro dei fatti suoi e di esser sempre l’Imperatore, va in un’isola per qualche tempo a studiarsi il temperamento di quelli là, che non mancano di fare una sciocchezza dopo l’altra. Mentre lui sta lì di guardia, i cinesi e le bestie della costa africana, i barbareschi e altri che non sono certo gente comoda, lo ritengono qualcosa di ben diverso da un uomo, tanto che rispettano la sua bandiera e dicono che toccarla è come toccar Dio. Egli regnava sul mondo intero, mentre qui l’avevano buttato fuori dalla sua patria. Poi s’imbarca sullo stesso guscio di noce dell’Egitto, passa il mare in barba alle navi inglesi e mette piede in Francia. La Francia lo riconosce, l’uccello sacro vola da un campanile all’altro, tutta la Francia grida: "Viva l'Imperatore!". Anche qui da noi ci fu un grande entusiasmo per questo miracolo. Il Delfinato si comportò bene e io in particolare fui contento di sapere che si piangeva di gioia rivedendo il suo pastrano grigio. Il primo marzo, Napoleone sbarca con duecento uomini per conquistare il regno di Francia e di Navarra, che il 20 marzo ritorna a essere l’impero francese. Lui si trovava quel giorno a Parigi. Aveva spazzato via tutto, aveva ripreso la sua amata Francia, e rimessi insieme i suoi uomini dicendo soltanto una parola: "Eccomi!". È il più grande prodigio che Dio abbia mai fatto. Chi mai prima di lui aveva conquistato un impero senza far altro che mostrare il proprio cappello? Credevano che la Francia fosse a terra? Per niente! Alla vista dell’aquila, si riforma un esercito nazionale e andiamo tutti a Waterloo. Ma lì tutta la Guardia cade in un attimo. Napoleone, disperato, si getta per tre volte davanti ai cannoni nemici alla testa dei rimasti senza trovare la morte. L’abbiamo veduto noi! La battaglia è perduta. La sera l’Imperatore chiama i suoi veterani, e in mezzo a un campo imbevuto del nostro sangue brucia le bandiere e le aquile. Quelle povere aquile sempre vittoriose che nella battaglia gridavano: "Avanti!", e che erano volate su tutta l’Europa furono salvate dall’infamia di cadere nelle mani dei nemici. I tesori dell’Inghilterra non valevano una sola penna di quelle aquile. Addio, aquile! Il resto lo sapete. L’Uomo Rosso da quel furfante che è passa ai Borboni. La Francia è schiacciata, il soldato non è più niente, gli vien tolto quel che gli spetta, lo rimandano a casa e mettono al suo posto dei nobili incapaci di marciare che fanno pietà a vederli. Con un tradimento s’impadroniscono di Napoleone e gli inglesi lo richiudono in un’isola deserta dell’oceano, sopra un picco alto diecimila piedi. Per farla breve, deve restar là finché l’Uomo Rosso non gli renderà il suo potere per il bene della Francia. Questi qua dicono che è morto. Ah sì, morto! Si vede davvero che non lo conoscono! Dicono queste fandonie nella loro baracca di governo per abbindolare il popolo e tenerlo tranquillo. Sentite. La verità è che i suoi amici l’hanno lasciato solo nel deserto affinché si compisse una profezia fatta su di lui; perché ho dimenticato di dirvi che il nome Napoleone vuol dire leone del deserto. E questo è vero come il Vangelo. Tutte le altre cose che sentirete dire su di lui sono bestialità senza senso, perché, vedete, a un figlio di donna Dio non avrebbe dato il diritto di scrivere in rosso il proprio nome come lui ha fatto sulla terra che se ne ricorderà per sempre! Viva Napoleone, padre del popolo e del soldato!». «Viva il generale Eblè!», gridò il pontiere. «Come avete fatto a non morire nel burrone della Moscova?», domandò una contadina. «E che ne so io? Quando siamo entrati eravamo un reggimento, e siamo rimasti in piedi soltanto in cento fanti, perché solo i fanti potevano farcela! In un esercito, vedete, la fanteria è tutto». «E la cavalleria, allora?», gridò Genestas lasciandosi scivolare dall’alto del fieno e presentandosi all’improvviso, tanto che anche i più coraggiosi gettarono un grido di spavento. «Eh, vecchio mio, tu dimentichi i lancieri rossi di Poniatowski, i corazzieri, i dragoni e tutto quello che hanno fatto. Quando Napoleone, impaziente di veder concludersi la battaglia con la vittoria, diceva a Murat: "Sire, spezzami in due quelli là", noi partivamo prima al trotto e poi al galoppo. Uno, due! e l’esercito, nemico era tagliato come una mela da un coltello. Una carica di cavalleria, vecchio mio, è come un fuoco in fila di cannonate!». «E i pontieri?», gridò il sordo. «Ah, figlioli», riprese Genestas vergognandosi della sua sortita e vedendosi in mezzo a una cerchia di gente stupita e silenziosa, «qui non ci sono agenti provocatori! Eccovi qualcosa perché brindiate al caporaluzzo». «Viva l’Imperatore!», gridarono tutti insieme i presenti. «Zitti, ragazzi», disse l’ufficiale cercando di nascondere il suo profondo dolore, «zitti! È morto dicendo: "Gloria, Francia, battaglia". È dovuto morire, figlioli, ma la sua memoria mai!». Goguelat fece un cenno d’incredulità, poi disse sottovoce ai vicini: «L’ufficiale è ancora in servizio, hanno la consegna di dire al popolo che l’Imperatore è morto. Non bisogna giudicarlo male, perché, vedete, un soldato non conosce altro che la sua consegna».

   Ora torniamo a Stendhal. Stendhal ha scritto un saggio che s’intitola Storia della pittura in Italia (1817) che va annoverata tra le opere dedicate al Bel Paese, all’Italia. Nella prefazione di quest’opera, Stendhal scrive che: chiunque sia stato catturato, almeno una volta, dal sorriso enigmatico e misterioso de La Gioconda sente, in cuor suo, il desiderio di mettersi a studiare e di mettersi a scrivere. Spesso la scrittura è un’attività pericolosa, soprattutto quando si ha a che fare con la censura. Anche se, spesso, la censura, non funziona da deterrente ma funziona da propulsore! Quasi sempre la censura stimola gli scrittori a sfidarla e, paradossalmente, la censura, favorisce spesso la produzione di opere d’Arte.

   Napoleone esigeva dagli scrittori una deferenza e una accondiscendenza assolute, e ciò gli valse la reputazione di tiranno, di imbavagliatore della libertà di parola e di oppressore della libertà di pensiero. Gli scrittori liberali – che quasi tutti, in gioventù, hanno salutato, in Napoleone, il liberatore – si oppongono alle tendenze autoritarie del regime imperiale, e, spesso, pagano con l’esilio il loro atteggiamento ma non rinunciano a scrivere. Chi sono questi scrittori e queste scrittrici, e che cosa producono? Ebbene, il sorriso de La Gioconda, ci porta anche sul sentiero degli oppositori di Napoleone. Questi scrittori, in gioventù, hanno creduto che Napoleone fosse una specie di Messia, il figlio di Dio, un Unto del Signore, ma sono costretti a ricredersi e fanno autocritica, e, parte dell’autocritica, consiste nel rimettere le cose al loro posto: il concetto del Messia è legato, nella nostra cultura (ebraica, cristiana, islamica), alla figura di Gesù di Nazareth, del quale celebriamo il natale.

   Uno di questi scrittori d’opposizione, che incontreremo dopo la pausa natalizia, si chiama René de Chateaubriand : che scrive una grande opera di apologia, di elogio, di esaltazione del cristianesimo: Il Genio del Cristianesimo. In quest’opera, Chateaubriand, si esprime con l’intento di dimostrare non tanto la verità: per Chateaubriand la fede non diventa mai una certezza da manifestare esternamente, ma per lui, la fede è una bellezza, è qualcosa di bello da gustare nel proprio intimo. "Di tutte le religioni che siano mai esistite – scrive Chateaubriand – la religione cristiana è la più poetica, la più umana, la più favorevole alle arti e alle lettere". Il suo è, quindi, un atteggiamento estetico, piuttosto che una professione di fede. (Siamo nel territorio del "romanticismo galante".). Il cristianesimo – nella convinzione di Chateaubriand – ringiovanisce la letteratura, offrendole nuove fonti di ispirazione. Quindi Il genio del Cristianesimo – nell’intenzione dell’autore – è un’opera che non esalta la "dottrina" ma decanta la capacità che il cristianesimo ha avuto ed ha d’ispirare la produzione artistica, la produzione "culturale". In effetti "il natale di Gesù di Nazareth" ha ispirato – scrive Chateaubriand – quella formidabile cultura popolare che è la letteratura dei Vangeli che, poi, ha ispirato, soprattutto dopo l’anno Mille, una straordinaria stagione artistica, in particolare pittorica. Quando Vivant Denon – che continua ad accompagnarci – esalta i pittori primitivi italiani, tra i quali Cimabue, Duccio, Giotto, Beato Angelico, che mettono in immagini la letteratura dei Vangeli producendo degli autentici capolavori, e si batte per conservarli al Louvre, non agisce a caso, ma secondo un preciso atteggiamento "romantico".

   Ma, a Chateaubriand, diamo appuntamento a dopo la pausa natalizia perché dobbiamo conoscere meglio questo complesso personaggio e dobbiamo riflettere ancora sulle sue opere a cominciare da Il genio del Cristianesimo.

   E, ora, per concludere il ciclo di quest’anno 2004, e per celebrare il "Natale" nel senso della cultura e della storia, leggiamo un frammento da un romanzo che s’intitola Truciolo dello scrittore ungherese Sandor Màrai (1900-1989), che già conosciamo. Truciolo è il nome di un cane che funge da protagonista, ma fa soprattutto da pretesto per far riflettere lo scrittore e i lettori sui comportamenti umani piuttosto che sui comportamenti animali. Sandor Màrai è uno scrittore contemporaneo che, in molte pagine dei suoi numerosi romanzi, persegue la tradizione del "romanticismo ungherese": un movimento culturale elitario, sentimentale ma ironico e graffiante. Gli scrittori di questo movimento – profondamente individualisti – hanno costruito sempre una grande letteratura. È Natale, è tempo di regali! Il signore si è sentito dire dalla moglie: "Mi raccomando, caro, a Natale, per regalo, è sufficiente una sciocchezza…". Ma il signore sa che quell’affermazione nasconde una pretesa. La famiglia non naviga in buone acque dal punto di vista economico e la signora sembra non essersene accorta. Il signore, non avendo molto denaro a disposizione, decide di regalare alla moglie un cucciolo "di razza" acquistato al canile minicipale, a buon prezzo. Lo porta a casa e riesce a tenerlo nascosto fino alla sera della vigilia quando dovrà impacchettarlo (ma come s’impacchetta un cane?) e presentarlo come una sorpresa! Nel frattempo s’immerge in una significativa riflessione sul significato del Natale e sul senso della vita.

LEGERE MULTUM…

 Sandor Màrai, Truciolo (1932)

Mentre i mèmbri della famiglia bevono il vermut nella sala da pranzo e conversano, il signore spegne le luci della stanza e accende le candeline dell’alberello di Natale. Anche suo padre faceva così, e anche suo nonno, la cerimonia dei preparativi continua a vivere attraverso le sue mani, allo stesso modo in cui nei gusti e nelle parole si tramandano da una generazione all’altra le usanze di famiglia – perché cos’altro sono la religione e la cultura, pensa indispettito mentre si gratta via una macchia di cera rovente dalla spalla dello smoking liso, cos’altro sono se non queste piccole liturgie della memoria, consuetudini radicate nella vita familiare, queste tradizioni non scritte tipiche della famiglia, delle piccole comunità, che stabiliscono quel che si deve mangiare, come ci si deve comportare, come bisogna vestirsi e che cosa va represso. «Certo, quando si tratta di una vera famiglia» aggiunge poi di sfuggita a questa sua riflessione.

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   E buon Natale a tutti, anche da parte di Vivant Denon che continua a seguirci fedelmente e deve ancora dire la sua, e la dirà, nell’inverno del 2005. Buon Natale di studio a tutti.

   Accorrete, la Scuola è qui…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Mercoledì, Dicembre 22, 2004