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LA TRAGEDIA É IN CORRISPONDENZA CON LA PERFEZIONE E LE ORIGINI…

Lezione N.: 
4

Prof. Giuseppe Nibbi                Tragòs oidos 2003            22-23-24   ottobre  2003

LA TRAGEDIA É IN CORRISPONDENZA CON LA PERFEZIONE E LE ORIGINI…

   La scorsa settimana, attraverso l’itinerario che abbiamo percorso, ci siamo imbattuti nella prima definizione che è stata data dall’antropologia culturale alla parola tragedia, e tante saranno le definizioni che dovremo dare di questa parola-chiave ricchissima e complessa. In queste settimane ci siamo chiesti e stiamo continuando a chiederci: che cos’è la tragedia? Quali scenari intellettuali contiene questo termine-significativo ricchissimo e complesso?

   Sappiamo ormai che in greco il termine tragedia corrisponde a due parole: tragòs oidòs, il cui significato letterale è "il canto del caprone". E abbiamo imparato che la tragedia si identifica con il termine logos-la parola, con il termine epos-il discorso, con il termine mytos-il racconto. Abbiamo capito che la tragedia, il canto del caprone, è il contenitore di quella straordinaria rete di racconti che stanno all’origine della cultura.

   Se consultiamo una Storia della Letteratura leggiamo che le origini della Letteratura greca si perdono nella notte dei tempi e (come presso tutti gli altri popoli, per esempio come nella cultura egizia del Papiro Smith o come nella cultura dei libri dei Veda dell’India, o come nella cultura mesopotamica dell’Enuma Elish, il poema sulla creazione, o come nella cultura dell’Antico Testamento delle tribù cananee) la più antica poesia ebbe carattere religioso, liturgico: la parola, il discorso, il racconto, la poesia è la struttura dei riti, delle cerimonie che sono la struttura della società organizzata. La cerimonia primordiale è una festa che viene celebrata, dall’epoca del Neolitico in avanti, dopo le principali e più faticose attività agricole (è ancora vivo il ricordo delle vendemmie, delle battiture…). Tutti i membri della comunità agricola si riuniscono per mangiare (ò tragòs, il caprone), e bere insieme (il vino), per fare festa, per cantare e per raccontare: per dire "fare festa", si cominciò ad usare (a Creta, in Tracia, in Tessaglia, poi in Asia Minore) l’espressione "far cantare il caprone", "cantare attorno al caprone"!

   Ebbene, di anno in anno, si codifica un calendario liturgico, e di generazione in generazione si codificano anche le filastrocche, le cantilene, gli inni, i racconti che si ripetono, si consolidano e poi si evolvono: così, dal canto del caprone nascono forme poetiche e si sviluppa la Letteratura greca. Le origini della Letteratura greca corrispondono a quello che si chiama il periodo ionico che va dalle origini remote del Neolitico fino al 500 a.C.. Il periodo ionico, secondo la Storia della Letteratura, prevede una prima fase di poesia detta religiosa, liturgica, formata da inni da cantare nelle feste agricole, cantilene per i funerali, racconti per celebrare le nozze e le nascite. Poi si sviluppò, successivamente all’invasione degli Achei (2000 circa a.C.), con l’evoluzione del racconto, una poesia epico-lirica, accompagnata dalla musica, dalla lira (da qui il termine "lirica") che prendeva a soggetto le gesta degli eroi e degli dèi (le canzoni di gesta eoliche, in Tessaglia, in Etolia). In un primo momento queste canzoni erano improvvisate nelle feste, ma successivamente sorse una categoria di cantori di professione, gli aedi (dal verbo greco έdo édo-canto): questi cantori andavano in giro di polis in polis, di villaggio in villaggio, di festa in festa, cantando nelle aie, nelle corti, nelle piazze. Si andò così formando una tradizione orale con diversi stili, legati alla creatività dei cantori (questo è l’antecedente della poesia omerica).

   Intorno al 1150 circa a.C. il territorio della Grecia fu invaso dai Dori, appartenenti a popolazioni che provenivano dal nord. Questa invasione provocò una migrazione, molti abitanti dell’Ellade scapparono via mare, verso est, verso le coste dell’Asia Minore. Anche la poesia e il racconto, il mytos, insieme a questi profughi che furono chiamati Ioni, lasciò la Grecia continentale e passò nell’Asia Minore, sulle le coste dell’odierna Turchia, dove a nord c’era la polis di Troia, e sulle isole adiacenti a quella costa: questo territorio che fu chiamato Ionia. Su quella costa dell’Asia Minore, gli Ioni fondarono le loro polis, e la (nuova) Ionia diventa la culla della poesia greca.

   Abbiamo studiato i culti di Dioniso e di Orfeo: il racconto del mito di Orfeo fa miticamente pervenire la testa e la lira di Orfeo, dilaniato dalle donne di Tracia, sulle rive dell’isola di Lesbo, davanti alla costa dell’Asia Minore. Questo avvenimento mitico è un’eco del ricordo dell’invasione dorica e della migrazione. Del resto tutta la grande poesia dell’Iliade sarà piena di nostalgia e di ricordi della Grecia continentale, dell’antica Ionia. L’eroe Achille è originario della Tessaglia, del cuore del continente, come dire che gli Eroi e gli dèi, vengono di lì. Odisseo, Ulisse, è il protagonista di un nostos nostos, di un viaggio di ritorno in un’isoletta dell’antica ionia: la nostos-algia, la nostalgia di Odisseo, di Ulisse è la tensione verso le origini.

   E che cosa c’è in origine, all’inizio? Possiamo dire allora che prima di tutto, all’inizio, come manifestazione culturale, sotto forma di festa in cui si mangia, si beve, si parla, si discute, si racconta, c’è il canto del caprone, c’è la tragedia. Prima dei riti di Dioniso, prima del culto di Orfeo, prima degli dèi (che arrivano ben ultimi!) c’è il racconto. è dal racconto arcaico, è dal primordiale canto del caprone che nascono Dioniso, Orfeo, gli Eroi, e poi gli dèi…

   Attenzione, queste affermazioni ci forniscono alcuni motivi di riflessione: abbiamo detto che tutte le volte che noi "raccontiamo", noi evochiamo "il canto del caprone" e ci troviamo a contatto con le origini, abbiamo un incontro ravvicinato con le origini (la scrittura autobiografica ha questa caratteristica affascinante…).

   Quando nel VI - V secolo a. C. gli scrivani (in particolar modo quelli di Israele, che a Babilonia, in esilio, scriveranno i testi della Genesi e dell’Esodo) cominceranno a mettere per iscritto i racconti orali della tradizione, ampliandoli ed elaborandoli, saranno affascinati e attratti dal problema delle origini: lo scrivere sarà come un viaggio avventuroso verso le origini dell’esistenza, lo scrivere sarà come dare un’essenza alle cose, all’individuo, alla Natura, all’Universo.

   In origine, in principio quindi nella cultura umana c’è il racconto, c’è la complessa rete dei racconti, c’è la tragedia: in Europa, alla fine del 1700, quando, con lo sviluppo dell’archeologia, ha inizio una nuova fase di studi e di ricerche in particolare sulla cultura greca. questa affermazione e molte affermazioni culturali che faremo cominciano a diventare operative. In origine, in principio, per la cultura greca dicono i primi antichisti, c’è la tragedia: che cosa significa questa affermazione? Significa che innanzi tutto la parola tragedia viene a trovarsi strettamente legata alla parola "perfezione"! La tragedia è in corrispondenza con la perfezione. Eppure, quando pensiamo alla tragedia, pensiamo tutt’altro che la perfezione! Come si giustifica il fatto che la parola tragedia è strettamente legata al termine perfezione? Con questo interrogativo ci siamo salutati la scorsa settimana. E questo è un bel problema culturale che si presenta sul nostro cammino! E noi dobbiamo andare avanti passando proprio di qui.

   Come mai la parola tragedia rimanda all’idea di perfezione? Per rispondere dobbiamo mettere in atto un ragionamento progressivo e riflettere. Innanzi tutto dobbiamo dire che quando pensiamo alla parola perfezione, in relazione alla cultura greca, piuttosto che alla tragedia pensiamo agli dèi! E a proposito degli dèi, nella cultura greca gli dèi si chiamano Olimpi, e sono diventati una struttura simbolica potentissima che continua ad influenzare l’arte, la letteratura, fino ai cartoni animati e alla fantascienza…

   Dobbiamo dire innanzitutto, lo abbiamo già capito la scorsa settimana, che gli Olimpi sono "dèi nuovi", rispetto a divinità più antiche e più arcaiche, rispetto a Orfeo, rispetto a Dioniso. Quindi noi dobbiamo riflettere su un luogo comune: siamo stati abituati a pensare che gli dèi stanno in principio, stanno prima di tutto; ebbene, questa idea non vale per gli dèi dell’Olimpo! L’idea religiosa, il sentimento religioso, è molto più antico, più arcaico di quanto siano gli dèi Olimpi. E di questa idea naturalmente sono consapevoli già gli intellettuali di 2500 anni fa.

   Primo fra tutti, una nostra vecchia conoscenza, Senofane di Colofonie. Senofane è il primo pensatore (è un cantautore) che critica e smentisce la teologia tradizionale: ridicolizza gli dèi, scrivendo che gli dèi se li sono inventati gli uomini come modello dei loro vizi e dei loro difetti, dei loro usi e dei loro costumi. A Colofone (polis della Ionia), Senofane, viene processato e condannato all’esilio, per empità: abolire gli dèi significava abolire un fiorente commercio religioso. Senofane concepiva razionalmente l’idea di Dio, e razionalmente Dio può essere pensato solo al di là della natura umana. Così l’esiliato Senofane approda sulle coste della Campania felix nella prosperosa polis di Elea, fondata dai Focesi; lì viene accolto con simpatia e diventa, con le sue idee, l’ispiratore della prestigiosa Scuola di Elea. Saranno suoi discepoli Parmenide che sviluppa il problema dell’Essere e Zenone, il creatore dei famosi paradossi razionali. Oggi gli scavi della polis Elea, con il nome di Velia, li possiamo ammirare sulla bella costa del Cilento, in provincia di Salerno nel comune di Ascea: il primo passo da fare è quella di cercarla sull’atlante, Velia, e poi con una guida della Campania, organizzare il viaggio…

   Ma per costruire il nostro ragionamento noi questa sera incontriamo un altro grande personaggio della Stopenum, Erodoto, quello che viene considerato il "padre della storia", perché è il primo scrittore che racconta gli avvenimenti distinguendoli dai miti. Prima di lui c’erano scrittori che sono stati denominati "logografi, scrittori di miti", che confondono gli avvenimenti storici realmente accaduti con i racconti mitici fantasticamente immaginati.

   Erodoto, nato nel 484 a. C. nella polis di Alicarnasso nella Ionia (l’odierna Budrum, siamo sulla costa turca del mar Egeo), ha compiuto una lunga serie di viaggi, percorrendo quasi tutti i paesi del mondo allora conosciuto (Asia Minore, Egitto, Sicilia e Magna Grecia), si è fermato soprattutto ad Atene dove divenne amico di Sofocle e conobbe Pericle; ad Atene mise in ordine le sue Storie (per l’esattezza l’opera di Erodoto si intitola Storia delle guerre persiane). Erodoto passò gli ultimi anni della sua vita nella nella Mega-Ellas, nella polis di Turi (in Puglia) che considerò come la sua seconda patria e dove probabilmente morì intorno al 424 a.C..

   Ma noi, nei prossimi Percorsi che faremo, ci dovremo occupare di Storia perché è un problema culturale importante della Stopenum tra il ‘700 e l’’800 (ci finiremo dentro, alla Storia, soprattutto in compagnia di un certo Hegel): ecco che Erodoto, o meglio Le Storie di Erodoto saranno per noi, prossimamente, terreno di studio e di ricerca. Quindi ora non ci dilunghiamo su di lui, anche se un viaggetto ad Alicarnasso, dove è nato, e a Turi, dove probabilmente è morto, è consigliabile, almeno sull’atlante.

   Erodoto, ne Le Storie, scrive una serie di considerazioni di straordinaria importanza culturale (è sì uno storico, ma è anche un poeta, e un filosofo), e scrive concetti che permettono alcune significative riflessioni. Egli ci fa capire che gli dèi sono fondamentalmente frutto del racconto, di un racconto orale durato per generazioni e generazioni, codificato poi da scrivani a cui abbiamo dato il nome di Omero (che oggi, per opera delle ricerche filologiche di Giambattista Vico, sappiamo non essere mai esistito) ed Esiodo (la cui esistenza non è supportata da alcuna notizia storica). Per Erodoto è chiaro che gli dèi non sono in origine, anche perché non lo erano neppure per Omero e per Esiodo. Gli dèi non stanno in principio, non sono in origine, scrive Erodoto, e nel racconto che li costruisce (che li fa esistere) non sono considerati in quanto potenti, in quanto onnipotenti, ma bensì vengono definiti come perfetti: attenzione, non tanto perché loro (e chi sono loro se non un simbolo?) sono perfetti, ma perché si tende a considerare perfetti gli oggetti dell’arte e della cultura che li rappresentano, viene considerato perfetto ciò che li rappresenta.

   Leggiamo, a vantaggio delle nostre riflessioni, che cosa scrive Erodoto nel libro II de Le Storie:

 LEGERE MULTUM….

 Erodoto, Storie libro II, 53, 1 2.

Gli Olimpi hanno un nome e una figura. Ma fino a ieri, non si sapeva dove fosse nato ciascuno degli dèi, o se fossero esistiti eternamente, e quali mai fossero d’aspetto. Per noi, ieri, significa Omero ed Esiodo, che sono vissuti in un’era antica, l’era dei logografi (scrittori di miti). E sono loro che hanno dato i nomi agli dèi, distribuendo gli onori e le arti e manifestando il loro aspetto. In Esiodo si avverte la fatica di cercare le origini del Cosmo, c’è in lui un lento distaccarsi dai miti. Solo alla fine, dopo che il Cosmo aveva più volte tremato per conto suo, Zeus, secondo lui, spartì fra gli dèi gli onori. Ma il vero enigma è Omero, per la sua indifferenza verso le origini. In lui vi è una totale assenza di pomposità, pretende di cominciare a raccontare la storia del mondo non dagli inizi ma dalla fine: dall’ultimo di quei dieci anni disastrosi di guerra sotto le mura di Troia che servirono soprattutto a cancellare intere stirpi di eroi. E gli eroi stessi, per Omero, erano un fenomeno recente, di cui cantava l’estinguersi. Agli Olimpi era stato già dato un corso costante alla loro vita, e sembravano volerlo mantenere per sempre. La terra serviva loro per incursioni, capricci, intrighi, varianti. Ma che cos’era successo prima (Erodoto non usa l’avverbio di tempo "proteron", ma la preposizione "meta" nel senso di "al di là": l’Olimpo è solo un monte simbolico) dell’Olimpo? Qua e là vi sono accenni a quegli eventi, in Omero, ma fuggevoli, lui non ha voglia di addentrarsi in particolari. Mentre il destino di un guerriero troiano lo assorbe molto di più. Qualcosa è presupposto in Omero di cui non si parla, e che regge silenzi ed eloquenza: è l’idea di perfezione. Ciò che è perfetto è origine in sé e non ama dilungarsi sulla propria formazione. Chi è perfetto recide ogni legame con il circostante, perché basta a se stesso. La perfezione non racconta la propria storia, ma offre il proprio compimento. Gli abitatori dell’Olimpo, più che a essere potenti, tennero a essere perfetti: essi sono una statua, e sono il racconto racchiuso in essa. Gli Olimpi sono un gruppo di figure, isolato nell’aria, compiuto, iniziatico, perfetto (téleios)

   Erodoto ci informa che gli dèi Olimpi sono le statue che li raffigurano! Questo è quello che lui, da storico, soprattutto ad Atene, ha visto personalmente con i propri occhi: l’autopsia, la chiama Erodoto, ciò che si constata personalmente. Gli dèi Olimpi sono le statue greche delle famose botteghe di Fidias, Scopas, Prassiteles, che Erodoto ha potuto ammirare. La "statua greca" è un oggetto culturale, speciale, divinizzato: la materializzazione degli dèi…

   Un oggetto a tutto tondo che riempie lo spazio cosmico con il suo volume, frutto di una sintesi che cerca l’armonia e l’equilibrio delle proporzioni (come il tempio). La statua greca tende ad essere un oggetto compiuto: che cosa significa? Significa che pretende di far coincidere l’inizio (il dio) con la fine (la sua manifestazione epifania epifania in greco), pretende di creare il compimento delle cose; quindi è un oggetto iniziatico, che presiede a riti di iniziazione e ad atti di culto: sotto la statua, dinanzi alla statua si prega, si promette, si giura, si celebra. Lo scultore (il vasaio-il demiurgo), con la realizzazione della statua, intende avvicinarsi e raggiungere la perfezione! La statua greca viene considerata, quindi, un oggetto compiuto, iniziatico, perfetto. Queste tre parole, in greco sono una parola sola; il testo greco di Erodoto le dice in una parola sola: tέleios téleios, che definisce il concetto della perfezione, di ciò che è compiuto, di ciò che è originale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è una statua greca che risulta, per te, particolarmente significativa ?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Allora, se la statua rappresenta simbolicamente gli dèi, rappresenta un’idea che c’è già, infatti la statua appare più tardi rispetto agli dèi. La statua rappresenta l’origine, il modo di manifestarsi di quegli esseri nuovi, che sono gli dèi Olimpi, ma viene dopo di loro. La statua contiene, in modo simbolico, in modo sintetico, il racconto degli dèi, il racconto in cui gli dèi sono protagonisti: allora, questo che cosa significa? Significa che prima della statua, come oggetto compiuto, iniziatico, perfetto, in principio: c’è il racconto, il logos, l’epos, il mytos . In principio c’è il logos (così inizia il Vangelo secondo Giovanni), l’epos, il mytos: in principio c’è la parola, il discorso, il racconto. Prima della statua, quindi, è il racconto ad essere considerato: compiuto, iniziatici. In principio, quindi, prima della statua e prima degli dèi, è il racconto ad essere téleios, perfetto.

   Colleghiamo quello che sappiamo già. Sappiamo che il racconto, il mytos, si identifica con il tragòs oidòs, con il canto del caprone, con il rituale arcaico della tragedia. E allora? Allora possiamo dire che in principio è la tragedia a identificarsi con le origini, e in origine, dal rito arcaico del canto del caprone (dal tragòs oidòs), nascono i racconti, poi sui racconti si codifica il culto, poi dal culto nascono gli dèi Olimpi, poi la statua li raffigura. La perfezione quindi, quella che in greco si chiama téleios, si trova nella statua, ma ha le sue radici più antiche nel racconto che, a sua volta, ha le sue radici, ancora più antiche, nella tragedia.

   Così l’antropologia culturale, supportata dall’archeologia e dalle ricerche degli antichisti dal 1700, ci insegna che in origine l’oggetto compiuto, iniziatico, perfetto è la tragedia! Ecco perché possiamo dire che la tragedia è téleios, che la tragedia è in corrispondenza con la perfezione.

   Questo concetto è avvalorato da molti autori: uno di questi ci viene incontro questa sera, è un autore latino: Gaio Crispo Sallustio (86-35 a.C.). Anche Sallustio si occupa di storia (è autore della Guerra Catilinaria, della Guerra Giugurtina, delle Historiae) e poi di un’opera intitolata Degli dèi e degli uomini, in cui mette in chiaro il fatto gli dèi sono un concetto mitico, non storico. Gli dèi vivono attraverso un racconto simbolico, attraverso una tragedia. Tutti i popoli hanno elaborato i loro racconti simbolici, scrive Sallustio, per dare una forza straordinaria alla loro storia; difatti ci sono dei simboli comuni che possiamo trovare in tutti i racconti, c’è come un canone comune. Noi Romani in fatto di racconti mitici, scrive Sallustio, abbiamo imparato quasi tutto dalla Mega-Ellas. E questi racconti sono così perfetti, così compiuti, così iniziatici che hanno una potenza straordinaria: "Queste cose, scrive Sallustio, non avvennero mai, ma sono sempre". L’esempio più affascinante di questo racconto, di questa tragedia, scrive Sallustio, sono Le cosiddette leggende troiane che stanno in origine alla cultura greca, ma non sono storia, sono logos, sono epos, sono mytos. Queste Leggende hanno influenzato anche la cultura latina, scrive Sallustio. E Sallustio, proprio per il piacere di raccontare, scrive queste Leggende nella sua opera intitolata Degli dèi e degli uomini con il suo stile asciutto da storico e anche un po’ satireggiante secondo il suo carattere piuttosto libertino.

   Noi utilizziamo il racconto di Sallustio de Le leggende troiane, dall’opera Degli dèi e degli uomini, non tanto per leggere queste storie (che tutti conosciamo già, beh, anche per questo, i racconti sono sempre accattivanti…), ma soprattutto per fare un’operazione che lui non era in grado di fare. Egli aveva intuito che in tutti i racconti mitici di tutti i popoli c’è come un canone comune, un catalogo di simboli che appartiene all’Umanità intera, ma Sallustio non possedeva gli strumenti per fare l’esegesi del testo in modo comparato.

   Le leggende troiane hanno delle affinità culturali, degli elementi simbolici in comune con la Letteratura del Libro della Genesi, quella più legata alla tradizione mesopotamica dell’Epopea di Gilgamesch. I simboli, gli elementi mitici con cui si raccontano le origini ricorrono nei racconti di tutti i popoli dell’Età assiale. Sallustio capisce questo, ma non conosce per nulla l’Epopea di Gilgamesch e forse conosce solo molto superficialmente il Libro della Genesi: non possiede elementi esegetici. E poi, si lascia prendere dal racconto, si appassiona a raccontare. Il racconto è potente, il richiamo del canto del caprone lo prende e ci prende, perché? Perché quando raccontiamo tendiamo a conquistare le origini, ad essere protagonisti dell’origine dell’esistenza; quando raccontiamo diamo un’essenza alle cose (bastano dieci minuti al giorno, raccontando per iscritto, quattro righe, per avvicinarsi all’essenza delle cose: vi sembra poco?). Raccontare è tendere alle origini, è dare un’essenza alle cose, e questo significa avvicinarsi alla perfezione, alla téleios.

   Leggiamo il racconto di Sallustio e facciamo l’esegesi di quei modelli intellettuali che avvicinano la cultura ionica alla cultura di Gigamesch e del Pentateuco (i primi cinque Libri della Bibbia): sono modelli che arrivano dalla cultura del Neolitico e poi si sviluppano in modo diverso a seconda delle differenze etniche che assumono i vari popoli. Popoli diversi, tradizioni diversificate, ma alla base qualcosa unisce tutti: la pratica del racconto, il richiamo suadente del canto del caprone.

  Leggiamo, come ce le racconta Sallustio, Le leggende troiane: troviamo, in corsivo, alcune parole-chiave, e alcune espressioni significative che rimandano all’Epopea di Gilgamesch, e al Libro della Genesi. Non è difficile fare queste comparazioni, e riscontrare le affinità culturali e i modelli comuni: chissà quante altre ne trovate, oltre a quelle segnate, di corrispondenze. Tra le parole-chiave emerge soprattutto la parola sogno.: Sallustio, come tutti gli antichisti, è convinto che ci sia una profonda identità tra il sogno e il racconto mitico (questa è un’idea e una questione culturale che riprenderemo quando studieremo il pensiero del ‘900).

LEGERE MULTUM….

 Gaio Crispo Sallustio, Degli dèi e degli uomini (47 a.C circa)

Le leggende troiane

Un sogno spaventoso…La ricca e potente città di Troia era stata fondata in tempi remoti da Dàrdano, figlio della ninfa Elettra e di Zeus, il re degli dèi e degli uomini. Un lontano discendente di Dàrdano, il re Laomedonte, ospitò Nettuno, dio del mare e fratello di Zeus, e Apollo, dio della luce e della poesia, figlio di Zeus, e li incaricò di cingere la città di Troia di mura inespugnabili; ma poi, terminata l'opera, negò alle due divinità il compenso promesso. Allora, per castigarlo, Apollo diffuse, come castigo, per tutto il paese una terribile pestilenza, e Nettuno, da parte sua, mandò un mostro marino che devastava le coste e impediva la navigazione e i commerci. Poiché, nonostante i sacrifici offerti agli dèi, questi flagelli non cessavano, fu consultato l'oracolo, che dette questa terribile risposta: "Per placare l'ira delle divinità offese e salvare voi stessi e la vostra città, dovete esporre al mostro, sulla spiaggia, la bella Esione, la figlia del re. L'infelice fanciulla stava dunque incatenata sulla riva del mare, aspettando il mostro che la divorasse, quando passò di lì il fortissimo Ercole, semidio, figlio di Zeus e di Alcmena, il quale con Giasóne e gli altri Argonauti stava andando nella Còlchide, in fondo al Mar Nero, per conquistare il Vello d'Oro. Ercole uccise il mostro marino e liberò la fanciulla, che lasciò in consegna al padre Laomedonte con il patto che, al suo ritorno dalla Còlchide, gli donasse certi suoi velocissimi cavalli. Poiché Laomedonte, secondo il suo solito, non tenne fede al patto, anzi imprigionò Telamone (il futuro padre di Aiace Telamonio, l'eroe che poi combatterà a Troia), inviato da Ercole a richiedere il compenso pattuito, Ercole assaltò Troia, la conquistò, la distrusse e dette Esione in moglie all'amico Telamone. Dopo Laomedonte, divenne re dei Troiani Priamo, che ricostruì la città, la quale poco dopo fu di nuovo rasa al suolo dalle Amazzoni, donne guerriere dell'Asia, che combattevano a cavallo armate d'arco e di frecce. Priamo per la seconda volta si dette a riedificare la città di Troia, che risorse dalle rovine più bella di prima, e dopo regnò a lungo felicemente ed ebbe molti figli (la genealogia): cinquanta! Una notte però Ecuba, la moglie di Priamo, nel tempo che attendeva uno dei suoi figli, fece un sogno pauroso: sognò di avere un tizzone in mano, col quale appiccava il fuoco alla reggia, e le parve che l'incendio si propagasse come un mare di fiamme, incenerendo ogni cosa. Convocati gli indovini, questi rivelarono che il figlio che stava per nascere sarebbe stato la causa dell'incendio e della distruzione di Troia. Appena il bimbo nacque, pur con la morte nel cuore, Priamo lo affidò ad un pastore, con l'incarico di esporlo sul monte Ida e di lasciarvelo morire di freddo e di fame. Ma la terribile decisione presa da Priamo per salvare la città cozzava contro il volere del Fato, la divinità misteriosa che determinava il destino degli uomini e degli dèi, alla cui volontà nessuno si poteva opporre, neppure Zeus. Il bimbo infatti dapprima fu allattato da un'orsa e in seguito, raccolto e allevato da rozzi pastori, crebbe forte e robusto sulle balze di quella montagna.

 

Alla più bella…

Passarono gli anni. Il bimbo, cui era stato dato il nome di Paride, era ormai diventato un bel giovane e continuava a vivere tra i pastori, ignaro della sua origine regale, pascolando il gregge sul monte Ida (nell’Eden), quando un giorno, improvvisamente, si vide comparire dinanzi (la tentazione) tre bellissime dee: Era (Giunone) dalle bianche braccia, moglie di Zeus; l'occhiazzurra Pallade (Minerva), dea della sapienza e delle arti, e la splendida Afrodite (Venere), dea della bellezza e dell'amore. Che cosa era successo? Quel giorno si stava celebrando il matrimonio di Teti, dea del mare, con un mortale, Pelèo, giovane re di Ftia nella Tessaglia; ma al banchetto nuziale, al quale partecipavano tutti gli dèi dell'Olimpo, non era stata invitata Eris, la dea della discordia, per timore che turbasse la letizia e la serenità del convito. Allora costei, per vendicarsi, senza farsi scorgere da nessuno, aveva gettato sulla tavola imbandita, in mezzo ai convitati, una mela d'oro, sulla quale aveva inciso queste parole: "alla più bella". Si può immaginare quale scompiglio era nato nella sala del banchetto! Subito fra le tre dee più belle, appunto Era (Giunone), Pallade (Minerva) e Afrodite (Venere), si era accesa un'aspra contesa, perché ognuna pretendeva di essere la più bella e insisteva presso Zeus perché le assegnasse la mela d'oro. Zeus tuttavia non si sentiva di far torto a nessuna delle tre, perché Era (Giunone) era la sua sposa, ed era particolarmente litigiosa, e Pallade (Minerva) e Afrodite (Venere) erano sue figlie ed erano particolarmente vendicative. Perciò le fece accompagnare dal dio Ermes (Mercurio), che era il messaggero degli dèi, presso Paride, perché fosse lui a decidere. Costretto a fare da giudice in questa disputa sulla bellezza, Paride si trovò in un bell'imbarazzo, perché le dee erano tutte tre bellissime, ed egli non sapeva quale scegliere. Infine, poiché Afrodite (Venere) gli promise che lo avrebbe fatto amare dalla donna più bella del mondo, Paride prese la fatale decisione e assegnò il pomo della Discordia ad Afrodite (Venere), tra la rabbia e l'ira delle altre due dee. Ottenuto il premio, Afrodite (Venere) decise di rivelare al giovane la sua vera origine e gli consigliò di recarsi a Troia per farsi riconoscere come figlio del re Priamo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

    I sogni hanno un ruolo importante nei racconti delle origini. Sembra che non esista sonno senza sogni: racconta l’ultimo sogno che hai sognato

    Secondo te voleva significare qualcosa? Scrivi quattro righe in proposito…

 Il ratto di Elena…

Poco dopo Paride, vestito di rozze pelli come un pastore, giunse a Troia e mostrò al re Priamo le fasce dalle quali era avvolto quando venti anni prima era stato esposto sul monte Ida. Abbracciato e festeggiato da Priamo e da Ecuba, tra lacrime di gioia, come il figlio che credevano ormai morto da tanto tempo, Paride pochi mesi dopo fu messo a capo di un'ambasceria e inviato a Sparta, dove regnava Menelao, che aveva sposato Elena, la bellissima figlia di Tindaro. Menelao però era assente dalla polis ed Elena, accolto ospitalmente il giovane e bellissimo principe troiano, se ne innamorò e fuggì con lui, portando con sé tutte le sue ricchezze, come la dea Afrodite (Venere) aveva promesso a Paride sul monte Ida. L'affronto inaudito fece ardere di sdegno e di furore Menelao e il fratello Agamennone, che aveva sposato Clitennestra, la sorella maggiore di Elena. Molti principi e re della Grecia, quando ebbero notizia dell'oltraggio fatto a Menelao, giurarono che lo avrebbero aiutato a farne atroce vendetta sul colpevole, che aveva osato violare in modo così scandaloso gli obblighi dell'ospitalità, offendendo nella persona di Menelao la Grecia tutta. Si decise pertanto di allestire una grande spedizione militare contro Troia e si stabilì che le navi e le truppe di tutte le polis della Grecia si sarebbero radunate nel porto di Aulide, nella Beozia.

 

La guerra di Troia…

Ma non mancarono gravi difficoltà che in un primo tempo resero quasi impossibile l'attuazione dell'impresa. Innanzitutto fu assai difficile riunire la flotta di più di mille navi, la quale doveva imbarcare oltre centomila guerrieri, provenienti da regioni della Grecia assai lontane tra loro. D'altra parte alcuni principi erano riluttanti a partecipare all'impresa, che si preannunciava lunga e difficile. Tra gli altri anche Ulisse, re di Itaca, fece di tutto per non abbandonare la sua famiglia e la sua isola, quasi presagisse che le avrebbe riviste solo dopo molto tempo. Infatti quando Palamede, re dell'isola Eubea, si recò ad Itaca per invitarlo a partecipare alla spedizione, egli si finse pazzo: si fece trovare intento ad arare la sabbia del mare e a seminarvi il sale. Ma Palamede intuì che la follia di Ulisse era simulata e, per smascherarlo, gli pose davanti all'aratro il figlio, il piccolo Telemaco. Ulisse, per non ferirlo, dovette fermarsi e così fu costretto a partire per Troia. Mancava all'appello anche il fortissimo Achille, nato dalle nozze tra Pelèo e Teti, che la madre aveva reso invulnerabile immergendone il corpo nelle oscure acque di un fiume infernale, lo Stige. Poiché gli oracoli avevano predetto che la partecipazione dell'eroe era necessaria per ottenere la vittoria sui Troiani, tutti i principi greci si misero a cercarlo per ogni dove. Lo trovò infine Ulisse, travestito da fanciulla e nascosto tra le damigelle della corte del re Licomede, nell'isola di Sciro, dove la madre Teti lo aveva portato in segreto. Lì Achille aveva amato la figlia del re, Deidamia, dalla quale più tardi ebbe un figlio, Pirro o Neottolemo, che dopo la morte del padre a Troia ne avrebbe preso il posto e avrebbe contribuito alla distruzione della città. Così anche Achille partì per la guerra, abbandonando Deidamia, che ne morì di dolore. Finalmente tutti gli armati furono riuniti in Aulide, ma l'immensa flotta rimaneva immobile nel porto, perché neppure un alito di vento agitava le vele. Dopo aver atteso per mesi senza poter salpare, i condottieri achei infine si convinsero che qualche dio era adirato con loro. Fu allora interrogato l'indovino Calcante, il quale spiegò che Artemide (Diana), sorella di Apollo e dea della caccia, era stata offesa da Agamennone, il quale avrebbe dovuto sacrificarle la figlia, Ifigenia, se voleva che soffiassero i venti favorevoli alla partenza. Col cuore straziato dal dolore Agamennone inviò Ulisse in Argo a prendere la sventurata fanciulla; questa stava già per essere sacrificata sull'altare della dea, quando Artemide (Diana), impietositasi, la rapì, fece comparire al suo posto una cerva, e trasportò Ifigenia nella lontana Tauride, sul Mar Nero, dove la giovinetta divenne una sua sacerdotessa e dove, molto più tardi, fu ritrovata dal fratello Oreste. Intanto in Aulide avvenne un prodigio: al termine di un sacrificio ad Apollo, un serpente uscì di sotto l'altare del dio, salì su un platano e, divorati nove passeri che erano in un nido, diventò di pietra. Anche questa volta fu interrogato l'indovino Calcante, che disse: "Questo è il significato del portento: la guerra durerà nove anni, e nel decimo Troia cadrà". Finalmente spirarono i venti propizi e la flotta salpò. Penetrati nell’Ellesponto, lo stretto tra l'Asia Minore e l'Europa, i Greci approdarono nella Troade e occuparono la spiaggia dal promontorio Sigeo al promontorio Reteo. Trassero a secco le navi, le disposero in triplice fila, e tra le navi drizzarono le tende dell'accampamento. Cominciate le ostilità, i Greci impiegarono nove anni ad attaccare e a distruggere le città alleate di Troia, per indebolirla e tagliarle ogni possibile fonte di rifornimento e di aiuto. Infine, al principio del decimo anno, essi si rivolsero con tutte le loro forze contro la città nemica. Il racconto di Omero nell’Iliade si riferisce appunto a quest'ultima fase della guerra ed occupa un arco di tempo di cinquantuno giorni.

     Questi racconti non sono storia ma risultano così perfetti da possedere una forza straordinaria: queste cose non avvennero mai, ma sono sempre

 REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

    Sallustio, nell’opera Degli dèi e degli uomini, è convinto che ci sia una profonda identità tra il sogno e il racconto mitico. La parola sogno richiama altre parole che rimandano al racconto mitico: visione, illusione, fantasia, utopia, fantasticheria, speranza.

    Quali episodi della tua vita sono legati a una, o a più di una, di queste parole?

    Racconta, scrivi quattro righe in proposito…

   Si sta componendo un catalogo, il catalogo dei significati! Il termine tragedia, come capite, sarà adottato in un secondo momento per dare il nome ad un genere letterario, la tragedia, quella che viene rappresentata a teatro. Ma dobbiamo renderci conto che il termine tragedia, molto prima di definire un genere letterario, rappresenta, prima di tutto: l’espressione primordiale del pensiero umano. La tragedia è la rete dei pensieri più antichi quindi è logos-parola, epos-discorso, mytos-racconto. La tragedia è la rete dei racconti primordiali quindi è una manifestazione del pensiero umano in corrispondenza con l’arché, con il principio. E il principio, l’arché (perché ci sarà bene un principio di tutte le cose, per tutte le cose) è un avvenimento che di conseguenza si è compiuto, e qualcosa che è compiuto è comunque in corrispondenza con la perfezione, con il téleios! Se la tragedia è in corrispondenza con l’arché, con il principio, compiuto e perfetto, è quindi direttamente in corrispondenza con le origini: genesis genesis, in greco. Ecco che quindi la tragedia è il canto più vicino alle origini, è il canto delle origini: è genesis.

   Che bel catalogo che si sta componendo! Quando siamo seduti sulla gradinata del teatro, in attesa dell’ingresso degli attori, noi dobbiamo pensare che la tragedia sta per portare in scena, prima di tutto, i suoi significati. La tragedia corrisponde al logos-parola, all’epos-discorso, al mytos-racconto, all’arché-principio, al téleios-perfezione, al genesis-origine. Questi significati ci appartengono: appartengono a ciascuno di noi! Le nostre parole, i nostri discorsi, i racconti della nostra vita, ci avvicinano al principio-ai princìpi, ci fanno tendere alla perfezione, ci fanno percepire le origini, la Genesi: riflettiamo perché questa consapevolezza, che si acquisisce studiando, è una salutare e continua esercitazione intellettuale che ci allarga la vita.

   La tragedia è genesis: è in corrispondenza con le origini. Ma per tutti noi il problema delle origini, sebbene figli legittimi della cultura greca che occupa una parte consistente del nostro modo di pensare, è legato strettamente al Libro della Genesi, alla cultura dell’Antico Testamento. Facciamo allora due rapidissime incursioni nel Libro della Genesi, proprio nei primi due capitoli: il capitolo 1, sono 31 versetti, e il capitolo 2, i primi tre versetti. Questo testo, questi 34 versetti, riportano la creazione del cielo, della terra e dell’Uomo secondo il codice Egoistico: difatti il Dio creatore si chiama Ruha Eloim.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

    Leggi il capitolo 1, versetti 1-31, e il capitolo 2, versetti 1-3 del Libro della Genesi: si può notare come lo scrivano ne ribadisca la natura di racconto, per avvalorare che è il racconto ad essere in relazione con le origini…

   Noi adesso facciamo due incursioni in questo codice per aprire uno scenario su un nuovo paesaggio intellettuale. La prima incursione è nota a tutti e riguarda l’inizio del Libro della Genesi, i primi 4 versetti del primo capitolo, chi non li conosce? Si tratta del primo atto della prima creazione in sette giorni del cielo, della terra e dell’Uomo secondo il codice Eloistico. Leggete:

 LEGERE MULTUM….

Genesi 1, 1-4

In principio Dio creò il cielo e la terra.

Il mondo era vuoto e deserto, e le tenebre coprivano gli abissi

e un vento impetuoso soffiava su tutte le acque.

Dio disse: "Vi sia la luce!" E apparve la luce.

Dio vide che la luce era bella e separò la luce dalle tenebre.

   La seconda incursione riguarda un versetto, anzi mezzo versetto, meno appariscente ma importantissimo per la sua valenza culturale: si tratta della seconda parte del versetto 3 del secondo capitolo del Libro della Genesi. Che cosa dice di così importante questo mezzo versetto? Sono le parole conclusive di questo primo atto della creazione secondo il codice Eloistico: il settimo giorno, Dio termina l’opera della creazione, e si riposa Ma leggiamo i primi 3 versetti del secondo capitolo:

LEGERE MULTUM….

 Genesi 2, 1-3

Così, Dio completò il cielo e la terra e ciò che vi si trova: tutto era in ordine.

Il settimo giorno, terminata la sua opera, Dio si riposò.

Il settimo giorno aveva finito il suo lavoro.

Dio benedisse il settimo giorno e disse: "È mio!".

Quel giorno si riposò dal suo lavoro: tutto era creato.

Questo è il racconto delle origini del cielo e della terra quando Dio li creò.

   Attenzione: questo è il racconto delle origini del cielo e della terra quando Dio li creò. Lo scrivano di questo testo ne ribadisce la natura di racconto, per avvalorare che è il racconto ad essere in relazione con le origini. Lo scrivano non dice che questi sono gli avvenimenti della creazione: c’è la stessa consapevolezza della cultura greca che l’essere umano può avvicinarsi alle origini esclusivamente attraverso il racconto.

   E ora, per concludere, ritorniamo alla prima incursione che abbiamo fatto e alla prima famosa affermazione di Dio (Ruha Eloim) nell’atto della creazione: Dio disse: "Vi sia la luce!" E apparve la luce. Dio vide che la luce era bella e separò la luce dalle tenebre. Perché abbiamo voluto e dovuto fare questa incursione? Abbiamo detto che la tragedia è genesis, è il canto delle origini. Ebbene il primo tema fondante di questo canto delle origini, anche per la cultura greca, è strettamente collegato alla luce, alla luminosità, al biancore, al dualismo tra luce e tenebre.

   Volete sapere come si configura questa questione? Il primo personaggio fondamentale della tragedia greca è la luminosità in persona! Sapete come si chiama? Si chiama Elena! Sapete che il racconto della sua storia è molto più complesso e va al di là dell’episodio della fuga con Paride. Conoscete i significati mitici e simbolici della storia di Elena: la sua tragedia?

   Allora accorrete: la Scuola è qui!…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 24, 2003
Anno Scolastico: