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LA PAROLA "MUSEO" E LA PAROLA "FASCINO" SONO CONTIGUE…

Lezione N.: 
2

Prof. Giuseppe Nibbi     Tra ‘700 e ‘800: il sorriso della Gioconda 2004    20-21-22 ottobre 2004

LA PAROLA "MUSEO" E LA PAROLA "FASCINO" SONO CONTIGUE…

    Chissà se qualcuno di voi, in questa settimana, ha cercato e ha trovato un’immagine de La Gioconda migliore di quella, fotocopiata, sul nostro primo REPERTORIO?

    La Gioconda di Leonardo entra nel Museo, allestito all’interno del palazzo del Louvre, il 13 luglio 1797: da dove arriva questo quadro? Che storia ha questo oggetto? Che cosa rappresenta, e chi rappresenta questo dipinto?

    Prima di occuparci di queste questioni – che non sono facilmente risolvibili con una battuta – dobbiamo dire che La Gioconda entra al Louvre senza alcuna menzione particolare: è un quadro al pari di tutti quelli che – in questo momento – vengono depositati al Museo del palazzo del Louvre: erano di proprietà dei re di Francia e ora, con la Repubblica, diventano di proprietà della Nazione francese. Veramente però, la prima descrizione ufficiale de La Gioconda, ne esalta alcune qualità, alcune caratteristiche e, questo fatto, c’invita a riflettere. Intanto sappiamo già che, la prima descrizione ufficiale di questo dipinto, la dobbiamo a un signore che abbiamo incontrato la scorsa settimana e che continuerà ad accompagnarci strada facendo: è il signor Vivant Denon che, nel 1802, riceve, da Napoleone, l’incarico di direttore, di sovrintendente dei Musei di Francia. Oggi – abbiamo ricordato la scorsa settimana – un’ala del Museo del Louvre – l’ala storica di questo importante Museo (siete andati a fare due passi al Louvre?) – è dedicata a Vivant Denon, e questo significa qualcosa, anche se pochi visitatori del Louvre sanno chi è Vivant Denon, i più lo ignorano e non si accorgono neppure che uno spazio consistente di questo museo è dedicato a lui.

    Questa sera – lo sapete – abbiamo un appuntamento con questo personaggio, con il nobile (della piccola nobiltà terriera) Vivant Denon, con il gentiluomo Vivant Denon, con il cittadino Vivant Denon, con il barone Vivant Denon, con il signor Vivant Denon. Ebbene, questi titoli che accompagnano il suo nome – nobile, gentiluomo, cittadino, barone, signor – non sono casuali ma scandiscono momenti storici differenti, e capiamo che, questo personaggio è passato indenne (conservando la testa sulle spalle), attraverso un periodo (1747-1825) molto complesso della storia d’Europa.

    Vivant Denon – a detta degli esperti – ha, senza dubbio, incarnato tutto quello che ha espresso un’epoca particolarmente caratterizzata dalla complessità. Un’epoca – ricca di avvenimenti culturali significativi – a cavallo tra il 1700 e il 1800. Incontrare Vivant Denon significa quindi – dicono gli specialisti – assaporare il gusto di un’epoca, un’epoca, in cui emerge, nel bene e nel male, una delle parole-chiave della cultura del nostro tempo: la parola "museo". Attenzione perché la parola "museo" è affiancata da un’altra significativa parola-chiave che, questa sera, incontreremo sul nostro itinerario.

    E la parola "museo" – accompagnata da quest’altra significativa parola-chiave – è strettamente collegata con l’oggetto intitolato: La Gioconda. Vivant Denon rappresenta un’epoca, e poi, soprattutto, è stato il primo a scrivere una notizia ufficiale su La Gioconda, che abbiamo pubblicato la scorsa settimana. Una descrizione molto importante sul piano della didattica della lettura!

    Due cose, due argomenti, ci colpiscono nel testo di questo brano che, ora, andiamo a rileggere perché, per continuare il nostro cammino e la nostra riflessione, dobbiamo ragionare ulteriormente su questa prima Nota descrittiva ufficiale de La Gioconda.

LEGERE MULTUM…

Dominique Vivant Denon, Notizie sui quadri esposti nelle gallerie

del Museo Nazionale del Louvre (1802)

Una giovane posa seduta, la mano destra poggiata sul polso sinistro, la sinistra stretta al bracciolo in legno della sedia che corre parallelo al piano dell’immagine, così come la parte inferiore non visibile del corpo. Se si fosse seduta dritta ne avremmo scorto solamente il profilo, ma è rivolta verso di noi e ci mostra tre quarti del busto. Il volto pallido ci appare quasi frontale; gli occhi marroni guardano verso destra, mentre l’assenza delle sopracciglia accresce l’ampiezza della fronte. Le guance sono piene e i capelli, che le arrivano alle spalle, sono avvolti da un velo trasparente. Indossa un vestito scuro, piuttosto sobrio e la spalla sinistra è adornata da un mantello dal ricco panneggio. La linea del collo rivela l’inizio del seno. Non indossa alcun gioiello. Sorride. La loggia o il balcone su cui si trova sembra come sospeso sull’orlo di un abisso. Immediatamente alle sue spalle, al di là del parapetto, si erge uno strano paesaggio distante e complesso fatto di formazioni rocciose, picchi montuosi, vallate e colline. Sulla sinistra appare un lago da cui parte un sentiero serpeggiante, a destra si scorge un fiume attraversato da un ponte, misero segno dell’esistenza umana in un paesaggio desolato. Questo è quanto viene rappresentato con della pittura ad olio su un pezzo di legno di pioppo. È un quadro piccolo, con i suoi settantasette centimetri d’altezza per cinquantatre di larghezza. Eppure vi è qualcosa "dentro" a quest’opera che si rivolge a chi la guarda, liberando sentimenti, emozioni e consapevolezza. Che cos’è che nella Gioconda "ci tiene in schiavitù": forse la tecnica del pittore? Certamente Leonardo è capace di creare insieme un senso di struttura e di profondità. Il pittore è stato capace di rendere l’interiorità della modella, il senso del suo intelletto e della sua essenza, il suo "animus" che si esprimeva, nel momento della posa, attraverso la forza del sorriso e dello sguardo. Quel suo sorriso sereno la pone su un piano di superiorità rispetto all’osservatore: alziamo lo sguardo verso di Lei, e quel paesaggio sullo sfondo ce la fa apparire ancora più elevata. Sebbene i colli e le montagne siano di gran lunga più imponenti di Lei, è Lei a dominare la scena. Nonostante le piccole dimensioni ci troviamo di fronte a un’opera grandiosa e il suo sguardo è intenso come quello di una figura divina: potrebbe essere una Madonna profana. Esiste dunque una spiegazione semplice che dà conto del grande potere di questo straordinario dipinto? Questa Signora domina la nostra cultura perché domina l’osservatore? Il suo sguardo è più intenso del nostro e noi subiamo la sua attenzione più di quanto lei non subisca la nostra? Un fatto sembra certo: nello sguardo vigile de La Gioconda, la naturalezza e l’artificio sembrano convivere in modo armonico…

    Due cose, due argomenti, ci colpiscono nel testo di questo brano, più un terzo argomento – che riguarda l’affermazione finale contenuta in questa Nota ufficiale – ebbene, di questa terza cosa ci occuperemo a suo tempo, quando avremo a disposizione gli elementi, quando saremo in possesso – perché dobbiamo costruirla – della chiave di lettura utile per decodificare i termini di questo terzo argomento (una "chiave di lettura" è un concentrato di competenze frutto di apprendimenti): tra tre o quattro settimane ce ne occuperemo.

   La prima cosa, il primo argomento, che ci colpisce in questo brano è l’uso, che Vivant Denon fa, della parola-chiave "interiorità", e questo fatto ci permette di fare un’importante riflessione:

   "Il pittore – scrive Vivant Denon nella sua Nota descrittiva – è stato capace di rendere l’interiorità della modella" e, scrivendo questo, Vivant Denon si dimostra figlio del suo tempo…

   Che cosa significa questa affermazione? La parola "interiorità", tra il 1700 e il 1800, è al centro del dibattito culturale. Anche noi – nella nostra consultazione di fine maggio, di cui la scorsa settimana abbiamo visto i risultati – abbiamo scelto a stragrande maggioranza (73%) questa parola: la parola interiorità"…siamo rimasti affascinati da questa parola? Forse abbiamo recepito l’importanza "intellettuale" che questa parola ha.

   Qui dobbiamo fare un’importante riflessione di Storia del Pensiero in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Quando usiamo il termine "interiorità" diciamo la stessa cosa dappertutto? Valgono, per esempio, gli stessi schemi interpretativi tanto in Germania quanto in Francia? I "romantici" tedeschi e i "romantici" francesi intendono la stessa cosa quando usano la parola "interiorità"? Vale a dire: in questo momento, tra il 1700 e il 1800, c’è un modo solo per definire il concetto di "interiorità"? Attenzione: quando Vivant Denon – a Parigi, o a Venezia o a Napoli – usa la parola "interiorità", non la usa propriamente come la usano – in questo stesso periodo – gli intellettuali tedeschi: che cosa significa questo? Intanto, dobbiamo specificare che – nella nostra consultazione – la parola "interiorità" fa riferimento al contesto culturale del "romanticismo tedesco" di cui ci siamo occupati la primavera scorsa. In Germania, la parola "interiorità", si riferisce direttamente ai problemi dello Spirito nel senso mistico del termine (con la "S" maiuscola), e si riferisce ai problemi della coscienza individuale intesa come facoltà di valutazione morale del proprio modo di agire. L’interiorità, per gli intellettuali tedeschi – e li abbiamo incontrati, quasi tutti, i più significativi, nella scorsa primavera – s’identifica con la "tragedia interiore": con uno stato d’animo in cui io valuto se mi sono comportato bene o male. E siccome, comportarsi bene, non è facile, ebbene, nell’interiorità della persona, secondo i "romantici tedeschi", c’è sempre un certo travaglio: un travaglio interiore. Chi ha una "vita interiore" emana pathos, sofferenza, tragedia.

   Attenzione, per Vivant Denon – intellettuale francese – la parola "interiorità" fa riferimento diretto ai problemi dello spirito (ma con la "s" minuscola): e, avere uno "spirito interiore", in questo contesto, significa coltivare delle competenze nel senso della "galanteria". Nell’interiorità – secondo il pensiero di Vivant Denon – si coltivano competenze galanti: il garbo, l’eleganza, la finezza, la distinzione, la gentilezza, la cortesia, la bella maniera, il complimento, la civetteria. Per Vivant Denon la parola "interiorità" fa riferimento diretto alla coscienza del proprio narcisismo, vale a dire alla capacità di piacersi nel proprio intimo, in modo da essere in grado di emanare all’esterno: il fascino…

   Chi ha una "vita interiore" emana fascino.

   Ed ecco la parola-chiave che, questa sera, caratterizza il nostro itinerario: il fascino. Conoscete questa parola seducente?

   Per Vivant Denon, l’interiorità s’identifica, non tanto con la "tragedia interiore" in cui, nell’intimo della mia coscienza, mi domando se ho contribuito alla realizzazione del "bene" nella società, e do, prima di tutto, una valutazione etica: c’è del "bene" dentro di me?. Per Vivant Denon, l’interiorità, s’identifica piuttosto con la "commedia interiore" in cui, nell’intimo, mi pongo il problema di come poter emanare il fascino necessario per contribuire a rendere più bella la società, e do, in questo caso, prima di tutto, una valutazione estetica: c’è del "bello" dentro di me?

   Quindi, per gli intellettuali "romantici" tedeschi il concetto di interiorità corrisponde soprattutto a un’idea di carattere etico, morale. Mentre invece per Vivant Denon, e per gli intellettuali della sua stessa formazione, il concetto di interiorità corrisponde soprattutto a un’idea di carattere estetico. Attenzione: per il romanticismo tedesco, che è stato denominato "romanticismo titanico" – sui cui sentieri abbiamo viaggiato a primavera – l’interiorità presuppone prima di tutto una riflessione sull’idea del bene e sul suo significato. Per il romanticismo francese, che è stato denominato "romanticismo galante" – sul cui sentiero ci stiamo incamminando in questo autunno – l’interiorità ipotizza prima di tutto una riflessione sull’idea del bello e sul suo significato.

   Queste riflessioni, corrispondono a una "chiave di lettura" che, questa sera, dobbiamo portare con noi: quando si parla di "romanticismo" – già lo abbiamo enunciato questo concetto, e questo vale per tutti i movimenti culturali – si parla di qualcosa di eterogeneo, di multiforme, di molteplice, di composito. E allora cominciamo a fare il punto: c’è un romanticismo tedesco, detto "titanico" – di cui abbiamo incontrato molti personaggi importanti – in cui, fondamentalmente la parola "interiorità" è legata alla parola "bene", e dove la "ricerca del bene" conduce anche alla scoperta del bello. Ma c’è anche un romanticismo francese, detto "galante" – che scopriremo strada facendo – in cui fondamentalmente la parola "interiorità" è legata alla parola "bello", e dove la "ricerca del bello" conduce alla scoperta del bene.

   Allora, attenzione! Al termine del percorso primaverile abbiamo scelto a grande maggioranza (73%) la parola "interiorità": bene, ottima scelta! Però, a questo punto, dovremmo precisare la nostra scelta, riflettendo ulteriormente e facendo l’inventario dei nostri pensieri: la parola "interiorità", secondo voi, la sentite più legata alla parola "bene" o più legata alla parola "bello"? Sì, certamente, le cose – il bene e il bello – sono entrambe importanti, ma i concetti sono diversi: "è il bene che fa scaturire il bello" oppure "è il bello che fa scaturire il bene"? Siamo nel difficile? Significa che dobbiamo conoscere e capire: per questo motivo la Scuola ci conduce su questo itinerario. Intanto è utile conoscere e capire che esiste un romanticismo titanico e un romanticismo galante. L’affabulazione prevede di stimolare il principio della domanda e quindi ci chiediamo ancora: c’è solo un "romanticismo" tedesco e uno francese? No, c’è un "romanticismo" inglese, russo, italiano, ispanico, lusitano, ungherese con le loro caratteristiche particolari: tanto per citarne alcuni! Quanti itinerari abbiamo ancora da percorrere, per nostra fortuna.

   Ma ora torniamo alla Nota descrittiva di Vivant Denon su La Gioconda.

   La seconda cosa che ci colpisce leggendo la Nota descrittiva su La Gioconda scritta da Vivant Denon nel 1802, sono, appunto, "gli interrogativi" che si pone e ci pone! Al dipinto intitolato La Gioconda – che già (nel 1802) si trova al Louvre da quasi cinque anni – comincia a essere attribuito un carattere misterioso, enigmatico, fatale: quest’opera possiede un "fascino" particolare? Guardando in faccia questa signora – qualcuno ha scritto – non si coglie una "tragedia interiore", ma una "commedia interiore". Da che cosa dipende questo "fascino" – si domanda Vivant Denon – nel momento in cui scrive la prima Nota descrittiva ufficiale di questo dipinto? Il fascino di questo quadro dipende dal pittore e dalla sua tecnica, oppure dipende dalla seducente modella?

   Ma attenzione, c’informano gli esegeti che Vivant Denon, nel 1802, utilizza la descrizione de La Gioconda – entrata al Louvre senza alcuna menzione particolare – per un motivo molto preciso: usa questo "oggetto culturale" per intervenire in un vivace dibattito in corso, in una animata e fervida discussione che durava da vent’anni e che sarebbe proseguita nel tempo…di che cosa si tratta? 

   Il tema di questa discussione, che avviene soprattutto a Parigi (ma non solo), è uno dei grandi temi che caratterizzano quest’epoca, ed è legato alla parola-chiave che fa da battistrada nell’itinerario di questa sera: la parola "fascino". Che cos’è il fascino, si domandano via via gli interlocutori di questo dibattito? È una "benefica potenza di attrazione e di seduzione" che stimola attitudini positive? Oppure è un "malefico influsso" che rende prigionieri e spinge a sottomettersi, impotenti, ai voleri di altri? Che natura ha questa facoltà che chiamiamo: fascino? È sempre una "benefica potenza di attrazione", oppure è sempre un "malefico influsso che imprigiona"? Oppure possiede tutte e due queste caratteristiche – l’aspetto benefico e l’aspetto malefico – che si manifestano a seconda delle situazioni? La parola "fascino" ci porta nei pressi di un interessante paesaggio intellettuale di fronte al quale dobbiamo riflettere. Intanto dobbiamo conoscere e capire da dove arriva la parola "fascino".

   La parola "fascino" è una parola greca fascinos (fascinos) che entra nella cultura latina, fascinum, intorno al I secolo a.C, ed è un termine – abbiamo anticipato la scorsa settimana – un po’ imbarazzante da presentare, e sembra avere proprio nulla di "romantico": la parola "fascino" – dopo essere passata attraverso un complesso itinerario culturale di cui vogliamo renderci conto – suona, oggi, nelle nostre orecchie senza alcun imbarazzo. Se fossimo cittadini dell’antica Ellade o della Roma del I secolo qualche imbarazzo a pronunciare questa parola ci sarebbe: perché mai? La scorsa settimana ci siamo salutati dicendo che – questa sera – avremmo percorso il sentiero (per lo meno, un tratto) dei "culti priapèi", ebbene, la parola "fascinos" è legata al culto – prima agricolo e poi teatrale – del dio Priàpo. Chi è il dio Priàpo e che cosa sono i culti priapèi? Per entrare nello spazio della parola "fascino" dobbiamo rispondere – almeno in parte – a queste domande.

   Il culto di Priàpo è una delle tante versioni del culto di Dioniso, sul quale siete – quasi tutti – molto informati perché abbiamo passato l’inverno scorso in viaggio nel territorio della "tragedia" in cui Dioniso è protagonista, come documenta il n. 10 de L’ANTIbagno.

   Il culto di Priàpo ha origine nel territorio della polis di Làmpsaco, che è un’antica città della Misia: ci troviamo nel territorio dell’odierna Turchia, e Misia è il nome della regione a nord-ovest dell’Asia Minore, e la polis di Làmpsaco oggi si chiama Làpseki e, come allora, è posta in posizione strategica sulla costa dell’Ellesponto, lo stretto dei Dardanelli (è il primo porto a nord dove si può traghettare sullo stretto dei Dardanelli), che mette in comunicazione il mar Egeo con il mar di Marmara. 

 REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Puoi andare – utilizzando l’atlante, lo stradario, una guida della Turchia o la rete – a fare una visita alla città natale di Priàpo e a quella regione, intorno al mar di Marmara, che ha una grande importanza storica, strategica e culturale: buon viaggio

   Priàpo è il dio dei campi, il dio degli orti, delle vigne, il dio delle stalle, degli ovili, dei pollai, e – nella tradizione più diffusa – è figlio di Dioniso e di Afrodite, quindi si presenta come una figura tutta dedita all’amore, ma incline all’amore che tende a fecondare, a ingravidare, incline all’amore carnale. Quindi Priàpo è espressione della materialità, dell’animalità, della sessualità intesa come penetrazione genitale. Difatti l’immagine di Priàpo si presenta sfacciatamente come quella di un ometto brutto e un po’ deforme ma provvisto di un fallo ben dotato e ben eretto che mostra con ostentazione: l’archeologia ci ha restituito moltissimi oggetti che raffigurano Priàpo e sono o statuette di terracotta o figure dipinte, spesso sui vasi. E tutti abbiamo visto senz’altro raffigurazioni di questo tipo! Ebbene, il fallo di Priàpo – così bene in vista – corrisponde, in greco, alla parola fascinos (fascinos) e in latino alla parola fascinum. Insomma, in origine la parola "fascino" designa il fallo di Priàpo! Ecco perché abbiamo detto che, questo termine, nella sua accezione filologica originale e un po’ imbarazzante da presentare, e sembra, in origine, avere proprio nulla di "romantico".

   La statuetta di terracotta di Priàpo veniva esposta nei recinti, nelle stalle, nei pollai per propiziare la salute degli animali e la loro fecondità: poi – con la cristianizzazione delle campagne – l’effigie di Priàpo, verrà sostituita (dopo il V secolo) dall’immagine di Sant’Antonio. La statuetta di terracotta di Priàpo veniva esposta nei campi, negli orti soprattutto per tenere lontana, per "allontanare" le calamità: le intemperie del cattivo tempo, gli insetti nocivi, i predatori, e i ladri: in che modo funzionava l’immagine di Priàpo contro i ladri? I culti priapèi – che si sono diffusi, con il culto di Dioniso, in tutto il bacino del Mediterraneo – rappresentano l’aspetto più superstizioso della religiosità popolare: la statuetta di Priàpo, con il suo fallo prominente, veniva usata come antifurto, veniva messa a guardia degli orti e dei pollai contro i ladri. Il deterrente era legato all’influenza magica maligna che veniva attribuita alla statuetta, o meglio, all’immagine del fallo di Priàpo attraverso lo straordinario potere della superstizione: i ladri erano, di solito, uomini, e, rubando in un luogo protetto dal fallo, "fascinos", di Priàpo, erano soggetti alla terribile maledizione: "Se tu rubi qui, che tu possa diventare impotente!". Allora, queste cose – in virtù della superstizione – si prendevano molto sul serio, e Priàpo, come antifurto, funzionava benissimo (poi sono arrivati gli allarmi, le porte blindate, i vigilantes ed è finita tutta la poesia).

   A Roma, dal I secolo a.C, la parola "fascinum" designa, non più solo il fallo di Priàpo, ma qualunque amuleto a cui si riconosca il potere di allontanare il malocchio, di liberare da una situazione di disagio; La parola "fascinum", dal I secolo a.C, a Roma, comincia a indicare qualunque oggetto apotropaico: che cosa significa? Apotropaico deriva dal temine greco apotròpaios apotropaios, il cui significato è: che allontana; un oggetto apotropaico è un oggetto "che allontana" la mala sorte! Il "fascinum" – a Roma – designa un amuleto, un oggetto o un rituale apotropaico (che allontana), che serve ad allontanare un’influenza magica maligna. Ebbene, il "rituale priapèo", con l’amuleto (fascinum) che allontana l’influenza magica maligna è entrato e continua a far parte della nostra cultura. 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quali amuleti, quali oggetti protettivi, e quali rituali ricordi in proposito?

Scrivi quattro righe…

   Il libro Scrivere a mezzanotte, stampato nel 1989, e ormai esaurito da tanto tempo, raccoglie una parte dei "testi" della "biblioteca itinerante"che, in quegli anni, sono stati scritti nel contesto di questa esperienza scolastica. Nel capitolo del "rito" possiamo leggere una serie di testi che, quasi tutti, testimoniano la presenza dei culti priapèi sul nostro territorio e ci fanno capire come gli oggetti e i rituali apotropaici, che "allontanano" il male, siano profondamente radicati nella nostra cultura popolare.

   Leggiamo i primi due testi del capitolo dedicato alla parola "rito"

LEGERE MULTUM…

Da Scrivere a mezzanotte (1989)

 All’età di sei, sette anni, ogni due, tre settimane mi venivano i bachi.

Diventavo pallido in volto, mogio mogio, mi mettevo a sedere e non avevo più la voglia di far niente.

La mia nonna mi diceva: «Hai i bachi, non muoverti, altrimenti ti si spandono per tutto il corpo e non ti vanno più via».

Si metteva la pezzola in capo e andava a chiamare Memmolino.

... continua la lettura ...

   Ecco la descrizione autobiografica di due classici rituali priapèi, apotropaici: la "segnatura dei bachi" dove l’anello nuziale diventa l’amuleto, il "fascinos", e la "bagnazione con l’erba della paura", un’erba speciale che diventa l’amuleto, il "fascinos". Due amuleti (anello e erba) utili per allontanare (apotròpaios) situazioni di disagio.

   Naturalmente la parola greca "fascinos" ha anche una storia di carattere letterario che ne determina l’evoluzione sul piano del significato. È nel teatro che si celebra il processo di trasformazione della parola "fascinos". Nel teatro primordiale nasce un genere detto "priapèo", un genere di carattere popolare, quasi tutto improvvisato di cui, di scritto, non ci rimane nulla. Del genere priapèo ci rimangono le citazioni – tutta una serie di battute – entrate nelle opere degli scrittori di teatro più importanti, soprattutto nei drammi di Euripide e nelle commedie di Aristofane e del commediografo latino Plauto. I teatranti – circa 2500 anni fa – viaggiano sul carro di Tespi, si fermano nelle aree agricole della Grecia e della Magna Grecia – sostano nei villaggi, sulle aie. Sullo stesso carro – quel particolare carro, in greco, si chiama scené scene – viaggiano, mangiano, dormono, e allestiscono anche il palcoscenico per la rappresentazione. E la rappresentazione prevede – in quello che è stato chiamato il "genere priapèo" – che l’attore principale interpreti la figura di Priàpo, e ne viene fuori, già dal travestimento (tutto incentrato su un enorme fallo – ò fascinos), un personaggio comico, ridicolo e osceno, ma anche in possesso di una vena di malinconia, di nostalgia e di tristezza. La figura di Priàpo – e ricordiamoci che Priàpo è figlio di Dioniso – costituisce una variante del caprone (ò tragòs) e, questa figura, sul palcoscenico, viene ridicolizzata, viene burlata, viene presa in giro dal coro. Che cosa rappresenta questa figura nella storia del teatro? Priàpo – nell’intento satirico che il teatro ha, fin dall’inizio della sua storia – rappresenta l’individuo vittima dell’ignoranza che, per risolvere i suoi problemi, fa affidamento sulla superstizione, sulla magia, sulla scaramanzia. Insomma, piuttosto che far appello al proprio cervello, al proprio pensiero (ò logos), Priàpo si affaccenda intorno al proprio fallo (ò fascinos) credendolo un amuleto.

   Ne nasce una rappresentazione satirica, comica, scherzosa, oscena, ma anche malinconica, nostalgica, e velata di tristezza. Questa rappresentazione priapèa costituisce il nucleo iniziale di quello che verrà chiamato il "dramma satiresco", e, di quella che sarà chiamata poi, in tempi moderni, la "commedia degli equivoci", e poi "il dramma ponderato", e la "commedia riflessiva".

   Sta di fatto che qui "ò fascinos", nel senso dell’amuleto antimalocchio – attraverso la mediazione culturale del teatro – assume un significato diverso e un insegnamento particolare: la salvezza, l’allontanamento della cattiva sorte non è un problema di fallo, di amuleti, ma è una condizione della mente, è l’esercizio di un ragionamento e di una riflessione intellettuale, è l’atto razionale del liberarsi dal potere della superstizione.

   Attenzione, il significato della parola "fascino", attraverso la mediazione culturale del teatro, diventa aporetico, contraddittorio: comincia a voler dire due cose diverse che contemporaneamente convivono e si completano. Alla tradizione rituale agraria che vede nel fallo di Priàpo (ò fascinos) un amuleto per scacciare il malocchio, si sovrappone la cultura satirica del teatro che invita a riflettere sul fatto che il destino dell’individuo dipende soprattutto dalla lucidità della sua mente, per cui, il vero "amuleto (ò fascinos)", su cui la persona può contare, è la "capacità di ragionare sulle cose (ò logos)": il pensiero. Qui siamo di fronte a una di quelle operazioni che gli esperti chiamano aporia semantica (accostamento contraddittorio): la parola "fascinos – l’amuleto priapèo" si accosta alla parola "logos, il pensiero, il ragionamento, la riflessione". Ed è così che il termine "fascino", oltre a manifestare un aspetto esteriore della realtà (un oggetto, un amuleto che porta fortuna), assume anche – attraverso la mediazione culturale del teatro – una valenza interiore. Per cui il termine fascinos, a un certo punto, significa contemporaneamente due cose contrapposte, quello che gli esperti chiamano l’accostamento contraddittorio. La parola fascinos definisce una cosa esteriore di natura superstiziosa: l’amuleto contro il malocchio e contemporaneamente definisce una cosa interiore, un concetto intellettuale, l’idea che: l’amuleto (ò fascinos) con cui si combatte il malocchio è la ragione, è il pensiero, è l’intelletto Per cui, sul palcoscenico del teatro primordiale, il fallo di Priàpo, ò fascinos, diventa il pretesto per ridicolizzare la superstizione, per satireggiare sugli amuleti. Il vero amuleto (fascinos) sta nel ragionare con il proprio cervello!

   Questa valenza interiore, nel tempo, è diventata preminente e ha occupato anche lo spazio esteriore del termine. Oggi, difatti, quando pensiamo "al fascino", si pensa a tutt’altro che al "fallo di Priàpo"! Però, l’aporia semantica (l’accostamento contraddittorio) non ha modificato la natura originaria del termine: tant’è che, nel profondo, il fallo di Priàpo continua a condizionare questo concetto e la sua comprensione, nel senso che, oggi, il fascino dovrebbe essere frutto dell’interiorità piuttosto che dell’esteriorità, il frutto dell’essere piuttosto che dell’apparire.

   Allora sul termine "fascinos" si è prodotta una contaminazione di significati e così il "fascino", da oggetto di superstizione, si è trasformato in concetto di riflessione: e allora riflettiamo! 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Sul termine "fascinos" si è prodotta una contaminazione di significati e così, il "fascino", da oggetto di superstizione si è trasformato in concetto di riflessione…

C’è "qualcosa" che ti ha affascinato particolarmente ?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Questa riflessione che abbiamo fatto, sulla natura del termine, con la quale abbiamo tentato di ridurre ai minimi termini un complicato problema semantico e di storia delle parole, implica un ulteriore e fondamentale ragionamento culturale.

   A sud, poco distante dalle coste della regione della Misia, nel mar Egeo settentrionale, dove nasce il culto di Priàpo – andate a osservare sull’atlante questa zona – c’è l’isola di Lesbo, dove la poetessa Saffo ha fondato una Scuola, un’istituzione dedicata esclusivamente alle fanciulle greche, per le quali non era prevista una "scuola" : le donne, per il ruolo servile e subalterno che ricoprono nella società, non hanno bisogno di andare a scuola. Saffo contesta questa regola e chiama la sua scuola: il "museo": lo spazio delle Muse, il luogo delle Arti. Il programma educativo di questa Scuola contiene anche una forte reazione alla cultura fallica dei riti di Priàpo che si celebravano nella vicina regione della Misia e gradualmente in tutta l’area egea. Saffo compie quella rivoluzione culturale che determina, nel tempo, un cambiamento di mentalità, e un ulteriore e determinante cambiamento di significato del termine "fascino": Saffo, in modo provocatorio, cambia la sostanza dell’amuleto e chiama "fascinos", non il fallo di Priàpo, che ingravida con prepotenza senza neanche lasciare il tempo di predisporsi all’accoglienza, bensì la corona dell’amore, la ghirlanda di fiori che gli amanti si donano, e che è il simbolo del cerchio che delimita lo spazio all’interno del quale si esprime il corteggiamento: uno spazio e un tempo in cui si manifesta la predisposizione al consenso e all’accoglienza.

   E il corteggiamento non consiste nell’esibizione del fallo – scrive Saffo – ma è la cerimonia della manifestazione dell’abrosyné. Questa parola greca la conosciamo già, e sappiamo che contiene, per essere tradotta, ben quattro parole italiane: la delicatezza, lo splendore, la grazia, e il gusto. L’abrosyné è una situazione nella quale possiamo cogliere contemporaneamente la delicatezza, lo splendore, la grazia, e il gusto. Il "fascino", con la Scuola di Saffo – con il museo – cessa di dare significato esclusivamente a un oggetto materiale, cessa di rappresentare unicamente il fallo di Priàpo e comincia a designare un "oggetto sentimentale". Il "fascino", con la Scuola di Saffo – con il museo – comincia a dare significato a un concetto nuovo per cui, il "fascino", diventa l’espressione dell’abrosyné, vale a dire la manifestazione della delicatezza, dello splendore, della grazia, del gusto.

   Attenzione, tiriamo le fila del nostro ragionamento: se il "museo" – abbiamo detto la scorsa settimana – è lo spazio dell’abrosyné, ecco che il "fascino", come parte integrante dell’abrosyné, è parte integrante del "museo". La parola "museo" e la parola "fascino" sono contigue, il concetto del "museo" e il concetto di "fascino" si compenetrano reciprocamente. E, allora – ci fanno notare gli esperti – qui si pone un interrogativo molto interessante che ha dato addito a lunghe discussioni, che continuano: è il "fascino" del "museo" che rende significativa l’opera d’Arte, oppure è il "fascino" dell’opera d’Arte che rende significativo il "museo"? 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è qualcuno che ti ha affascinato particolarmente?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Intorno alle risposte da dare a questo interrogativo, si sono confrontate diverse correnti di pensiero, che continuano a confrontarsi (è probabile che, strada facendo, le incontreremo).

   Piuttosto, questo interrogativo ci riporta sui nostri passi, ci riporta al Louvre e a La Gioconda, descritta per la prima volta in modo ufficiale da Vivant Denon. La descrizione di Vivant Denon ci ha portato a fare un’incursione nella filologia, nella storia delle parole, nella storia delle idee, a riflettere in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Questa sera abbiamo viaggiato, per un tratto, sul sentiero dei culti priapèi e questo sentiero ci ha portato dentro a un territorio: il territorio della letteratura priapèa. Questo sentiero ci ha portato davanti a un paesaggio intellettuale: il paesaggio del genere letterario priapèo: esiste difatti una letteratura cosiddetta priapèa di cui ci dobbiamo occupare.

   C’è un nesso tra il genere letterario priapèo e il sorriso de La Gioconda? C’è un riferimento perché, prima di tutto, in questo argomento, è coinvolto il signor Vivant Denon, che ci sta accompagnando. Sappiate che è in Italia, per la precisione in Sicilia, durante un viaggio avventuroso e straordinario, che il signor Vivant Denon scopre la letteratura priapèa, scopre l’esistenza del genere letterario priapèo. Lo scopre nel cuore di una Sicilia settecentesca apparentemente deserta e selvaggia, in un convento di monaci Bernardini, dove viene ospitato per la notte. Il padre guardiano, un monaco austero, ma colto e affabile, dopo una frugale cena fa visitare a Vivant Denon ("Non creda di essere capitato in mezzo ai selvaggi"…) la biblioteca del convento: una biblioteca straordinaria per la ricchezza di contenuto di opere greche e latine. Vivant Denon, stupefatto, si sente chiedere se – prima di dormire – vuole leggere un libro, ma in quella grande varietà non sa che cosa scegliere, allora, il padre guardiano, scrive Vivant Denon nel suo diario:

LEGERE MULTUM…

 "Considerandomi francese, uomo di mondo e studioso, mi propose un testo di letteratura priapèa, un libro osceno, messo all’Indice dalla Chiesa ma ben conservato nelle sue biblioteche a disposizione di chi avesse le competenze per leggerlo…Il padre tolse e aprì il volume scritto in versi latini, in Epigrammi, e da autentico magister, me lo lesse, me lo tradusse e me lo commentò sostenendo che anche mostrando l’oscenità, uno scrittore, se è vero poeta, può additare la via della morale"…

   Chi è questo scrittore classico di cui Vivant Denon, per merito di un anonimo monaco, ha subìto subito il fascino culturale? E che caratteristiche ha il genere letterario priapèo? Questo poeta che si chiama Marco Valerio Marziale, è un "classico" molto particolare e ci condurrà anche a fare un breve ma significativo viaggio nella Spagna Tarragonense (che è la sua terra d’origine).

   Ora, sappiate che, le parole-chiave e le idee-significative che incontreremo, esplorando l’opera di Marziale, ci saranno utili per conoscere e per capire meglio tanto il movimento culturale del "romanticismo galante", quanto il mitico sorriso de La Gioconda. Soprattutto le parole, le idee, i pensieri, le riflessioni, di cui faremo conoscenza, ci saranno utili in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Quindi, ve lo dice anche Vivant Denon, che, viaggerà con noi dalla Sicilia Etnea alla Spagna Tarragonense: volete rinunciare a questo itinerario?

   Accorrete, la Scuola è qui…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 22, 2004