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NEL TERRITORIO DEI MODELLI SIMBOLICI DELLA TRAGEDIA…

Lezione N.: 
1

Prof. Giuseppe Nibbi                Tragòs oidos 2003        1-2-3 ottobre 2003

NEL TERRITORIO DEI MODELLI SIMBOLICI DELLA TRAGEDIA

    Bentornati a scuola ai viaggiatori di lungo corso, e benvenuti ai nuovi viaggiatori che iniziano a prendere il passo in questo percorso di Stopenum 2003-2004. Questa sera ci dedichiamo alla preparazione della partenza, con tutti i suoi rituali: ci dedichiamo a cercare e a prendere il passo per poter affrontare questo Percorso.

   E il preparare la partenza necessita di una riflessione. In partenza, dobbiamo riflettere sul fatto che prendere il passo, tutti assieme, è una condizione necessaria per intraprendere un viaggio culturale che presenta, senza dubbio, delle difficoltà. E ci mettiamo virtualmente in movimento, consapevoli del fatto che, prima di tutto: ciascuno di noi deve cercare il proprio passo! Un passo che sia giusto per ciascuno e ma che possa essere anche in armonia con il passo degli altri viandanti.

   Per riflettere sull’argomento del "prendere il passo, in partenza" ci consultiamo con Aristotele (384-322 a C.): non possiamo farne a meno di consultare Aristotele, visto che stiamo partendo in direzione della Grecia di 2500 anni fa. È Aristotele infatti che nel secondo libro della Politica ad un certo punto scrive: "La riuscita di un viaggio dipende soprattutto dalla compagnia"! Che cosa significa? Nel secondo libro della Politica (siamo circa nel 340 a.C.), Aristotele spiega come una "compagnia sbagliata" possa rovinare anche il viaggio meglio organizzato.

   Quale insegnamento possiamo trarre, noi, da questa considerazione così attuale di Aristotele noi, che non siamo propriamente una compagnia di persone in viaggio per le strade del mondo? Noi siamo un gruppo di studenti, di viaggiatori intellettuali, e quindi dobbiamo cogliere la metafora che Aristotele vuole utilizzare per farci riflettere! Una "compagnia sbagliata, spiega Aristotele, è quella in cui ognuno, non è consapevole del fatto, che è necessario prendere sempre il proprio passo in equilibrio con il passo degli altri: altrimenti rischiamo la rovina del viaggio". Ma Aristotele, nel suo saggio, non parla propriamente di viaggi. Aristotele usa la metafora del "prendere il passo" per riflettere, per ragionare e parlare di Politica, che è la disciplina con la quale si amministra lo Stato. E ragionare di politica, per Aristotele, significa parlare della polis, cioè della città-Stato, e dell’amministrazione dello Stato come comunità: questo è il significato della parola "politica".

   In questo saggio Aristotele critica gli Imperi (c’è l’Impero persiano) perché presuppongono un padrone e dei sudditi; quindi, scrive Aristotele, l’Impero non è propriamente uno Stato, ma si configura semmai come un’azienda: gli affari dello Stato, scrive Aristotele, finiscono per identificarsi con gli affari dell’Imperatore che è il padrone dello Stato e questo crea la fine dell’amministrazione dello Stato. Naturalmente Aristotele esalta la polis, la città-Stato, come luogo della realizzazione della Politica. Nella polis, amministrata da cittadini rappresentanti dei cittadini, lo Stato non può essere identificato con un’azienda. Lo Stato non fa affari, perché detta le regole in modo che i cittadini possano fare affari: lo Stato detta le regole per "prendere il passo".

   Aristotele, in questo saggio, usa la metafora del "prendere il passo" per parlare anche di "politeia", che è la Costituzione, cioè il catalogo dei princìpi sui cui si fonda la polis, il catalogo dei principi da cui derivano le regole, per garantire allo Stato di funzionare come comunità.

   Aristotele, in questo saggio, usa la metafora del "prendere il passo" per parlare di "polites", che è il cittadino consapevole e responsabile del suo ruolo nello Stato. E quando il cittadino è responsabile e consapevole del suo ruolo nello Stato? Il cittadino è consapevole e responsabile, scrive Aristotele, quando possiede "aretέ" (questa è la prima parola-chiave che questa sera, in partenza, incontriamo): l’aretè è la virtù politica: e, scrive Aristotele, a che cosa corrisponde la "virtù politica", l’aretè? Scrive Aristotele che il cittadino della polis deve imparare e praticare "άtos aretέ": atos, in greco, significa il passo, e àtos aretè possiamo tradurlo, con "prendere il passo in modo consapevole e responsabile", "prendere il passo virtuoso: questa è la "virtù politica".

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

    Una passeggiata in cui tu hai preso il passo in compagnia dei tuoi pensieri…

    Scrivi quattro righe in proposito…

   Mentre prepariamo la partenza ci troviamo subito a giocare con le parole: e sapete che giocare (riflettere) con le parole è un "investimento in intelligenza". Mi permetto, in partenza, di commentare il secondo libro della Politica di Aristotele dicendo che il gesto virtuale di prendere il passo (àtos aretè) in un percorso di Sto. Pen. Um. diventa un gesto virtuoso, è un dovere fondamentale per acquisire il diritto di cittadinanza.

   Perché siete venuti a Scuola (nella Scuola pubblica) questa sera? Ebbene, tra le risposte personali che ciascuno di noi può dare, io, sulla scia di Aristotele, aggiungerei: perché siete cittadini che sentono, che percepiscono il valore dell’àtos aretè, cioè sentono il desiderio di prendere il passo, in modo consapevole e responsabile, un passo virtuoso, in un percorso di studio per investire in intelligenza.

   E allora, prendiamo il passo: mettiamoci in cammino, che la strada è lunga…

   Il percorso di Sto. Pen. Um., quest’anno, propone ben tre itinerari diversi, ma legati da un filo conduttore comune: quale? Ce ne renderemo conto strada facendo, ricordando che non sono le perle che fanno la collana, ma è il filo: Il filo di per sé non vale nulla, ma ha un ruolo fondamentale. Voglio dire: non è tanto importante l’argomento (la perla), seppure prezioso, più importante è l’esercitarsi a studiare, importanti sono le azioni che un’esperienza di studio produce; è soprattutto il filo che dà una forma al nostro apprendimento.

   Questa sera, come da programma, davanti a noi (che poi significa dentro di noi) si estende un vastissimo spazio culturale: il territorio della Tragedia. Tragedia è una di quelle parole che ha assunto un significato talmente vasto da perdere, in gran parte, i suoi connotati culturali, i suoi significati più profondi. Sono talmente tanti e variegati i paesaggi intellettuali presenti in questo territorio che ci vorrebbero ore e ore anche soltanto per farne l’elenco. Chissà quante parole ci vengono in mente quando pensiamo al termine tragedia. Ed è quindi comprensibile che il Repertorio e trama ci chieda di riflettere, di ragionare su questo termine, scrivendo una parola.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

 Qual è la prima "parola" (che rappresenta un oggetto, una persona, un avvenimento e che può essere di carattere personale o generale) che ci viene in mente pensando al termine: tragedia?

   Scrivetela…

   Qual’è la prima parola che associ al termine "tragedia"?

   Scrivila

   Se volessimo introdurre il tema culturale della Tragedia (dal punto di vista storico, economico, politico, scientifico, artistico, letterario, antropologico, autobiografico, etc), potremmo dilettarci per anni e dovremmo avere a disposizione strumenti molto più sofisticati di quelli su cui possiamo contare! Ma sapete che non siamo abituati a rinunciare. Usiamo il tempo che abbiamo, e usiamo gli strumenti didattici che possediamo, e che continuiamo a sperimentare da circa vent’anni.

   E allora che cosa bisogna fare per percorrere un itinerario attraverso il territorio culturale della Tragedia? La prima cosa da fare, per incamminarci lungo la strada che vogliamo percorrere, ora che abbiamo cominciato a prendere il passo, è quella di imboccare uno dei mille sentieri che attraversano questo territorio, altrimenti rischiamo di perderci, perché questo territorio è immenso! Imboccare un sentiero, quindi: un sentiero a caso? Beh, non a caso! Dobbiamo imboccare un sentiero che ci possa essere utile per continuare a viaggiare nella Sto. Pen. Um, e dopo anni di viaggi siamo tra il 1700 e il 1800. Abbiamo appena incontrato Kant. È in questo periodo, tra il 1700 e il 1800, anche attraverso lo sviluppo di quella disciplina che si chiama l’archeologia, che vengono ripensati una serie di modelli simbolici della cultura "tragica greca" da cui derivano una serie di parole-chiave, di idee-significative, di repertori intellettuali che influenzeranno la successiva Sto. Pen. Um. e il nostro odierno modo di pensare. Quindi, per quanto riguarda i contenuti, è questo il sentiero che dobbiamo imboccare! Vogliamo riflettere sui modelli simbolici della Tragedia perché, tra il 1700 e il 1800, questi sono stati interpretati in modo moderno e hanno dato impulso al pensiero attuale.

   Poi, oltre ai contenuti (le perle), ci sono le forme (i fili), e, per quanto riguarda la forma, dobbiamo cominciare questa sera, nel momento della partenza, a mettere il nostro essere studenti, qui e ora, a disposizione del nostro apprendimento: la Scuola serve non tanto per imparare di più, ma per imparare meglio (intelligere non multa, sed multum). Prendere il passo, quasi tutti lo sapete ma è doveroso ripeterlo, significa anche utilizzare il metodo che gli esperti di didattica chiamano: dell’affabulazione, cioè del ragionamento articolato e della riflessione progressiva sulle parole-chiave e sulle idee-significative che s’incontrano negli itinerari di Sto. Pen. Um. In questo nostro primo itinerario noi c’imbatteremo in una serie di paesaggi significativi (una ventina) davanti ai quali ci soffermeremo a riflettere: troveremo delle perle e avremo bisogno di un filo!

   Sappiamo che se riusciamo ad appropriarci delle parole-chiave e delle idee-significative presenti nei territori della Sto. Pen. Um., sarà poi più facile per ognuno di noi l’attività del leggere, del riflettere e dello scrivere: questi sono gli obiettivi didattici del nostro percorso scolastico. Per imparare meglio a leggere, per provare il piacere del testo, dobbiamo essere consapevoli dei significati culturali racchiusi nelle parole, e dobbiamo comprendere le idee che il testo contiene: senza chiavi di lettura non si può entrare dentro al testo! Ecco perché la maggior parte dei cittadini non legge: non perché non sappia decodificare il testo (anche se gli analfabeti sono ancora tanti: un cittadino adulto su dieci è analfabeta, uno su tre è semianalfabeta), non perché mancano i libri: ce ne sono in abbondanza di libri da leggere. Il cittadino non legge perché non riconosce i modelli culturali (le chiavi di lettura) della Sto. Pen. Um.: d’altra parte quando mai sono stati proposti in modo efficace? Quando leggiamo, riflettiamo e scriviamo, noi potenziamo le nostre azioni cognitive: utilizziamo il filo per legare le perle che peschiamo. Le azioni cognitive fanno funzionare la nostra mente, e permettono che si possa attuare il processo di apprendimento. Attraverso le azioni cognitive noi possiamo investire in intelligenza. Le azioni cognitive sono le uniche azioni che danno sempre un alto rendimento, non le troviamo in Borsa, ma le troviamo, attraverso la mediazione della Scuola, in un luogo privilegiato: nella nostra mente, nella nostra coscienza, nel nostro pensiero.

   Allora, riflettiamo. Che cosa vuol dire, concretamente, investire in intelligenza? Noi investiamo in intelligenza quando siamo capaci ad utilizzare le azioni cognitive, le azioni per mezzo delle quali s’impara. E, lo sapete, il nostro apprendimento (l’imparare) passa attraverso sei azioni privilegiate (ci dicono gli esperti): le azioni del conoscere, capire, applicarsi, analizzare, sintetizzare, valutare. A queste sei azioni cognitive principali corrispondono altre quaranta azioni cognitive conseguenti, che contribuiscono a fare di ciascuno di noi, quel che si dice un essere intelligente. Può un itinerario intellettuale non seguire questa strada, per quanto faticosa possa essere?

   E allora, in pratica, secondo il progetto didattico della nostra Scuola, in che cosa consiste l’esercizio dell’investire in intelligenza, l’esercizio dell’imparare? Ogni itinerario settimanale che percorriamo corrisponde a un ragionamento progressivo e articolato, nel quale ci esercitiamo attraverso le sei fasi, che corrispondono alle azioni del nostro apprendimento: conoscere, capire, applicarsi, analizzare, sintetizzare, valutare: attraverso queste azioni s’impara a imparare!

   1. Per prima cosa, ci esercitiamo a conoscere (che cosa?):  conoscere le "parole-chiave" più importanti (una, due, non più di quattro) del repertorio culturale che, nel suo itinerario settimanale, la Scuola ci propone.Questa sera abbiamo in partenza conosciuto una parola del vocabolario di Aristotele, di grande attualità: la parola "aretè ", la virtù politica che ogni cittadino deve possedere.

   2. Per seconda cosa, ci esercitiamo a capire (che cosa?):  capire l’esistenza di "idee significative" della Sto. Pen. Um. presenti nel repertorio di ogni itinerario settimanale.Questa sera abbiamo capito che la parola "aretè" contiene un’idea (di Aristotele) molto significativa: il cittadino coltiva "la virtù politica" come "àtos aretè", cioè quando è consapevole e responsabile del fatto che lo Stato è una comunità in cui ciascuno ha il dovere e il diritto di cercare e di prendere il passo, ma, in armonia con il passo degli altri (questa idea prefigura l'articolo 3 della nostra Costituzione: lo avete letto?)

   3. Per terza cosa, agiamo per applicarci (come e quanto?): ci applichiamo riflettendo almeno dieci minuti al giorno, sulle proposte operative del repertorio, in modo da costruire la trama dell’itinerario settimanale.La parola "aretè" e l’idea "àtos aretè" ci fanno certamente venire in mente molti pensieri, e come persone, e come cittadini, e come studeniti: corteggiamoli, questi pensieri!

   4. Per quarta cosa, ci esercitiamo ad analizzare: catalogare i pensieri che ci vengono in mente attraverso le parole e le idee contenute nel repertorio.La parola "aretè" e l’idea "àtos aretè" ci fanno di sicuro venire in mente molti pensieri: quindi possiamo fare l’analisi di questi pensieri, e possiamo fare un elenco, dei tre o quattro pensieri che consideriamo più significativi, e possiamo catalogarli…

   5. Per quinta cosa, ci esercitiamo a sintetizzare: quattro righe scritte costituiscono già una trama intellettuale e sintetizzano un nostro pensiero. Se scegliamo il pensiero più significativo che la parola "aretè" e l’idea "àtos aretè" ci hanno fatto venire in mente e lo scriviamo, in quattro righe, abbiamo messo a punto una "sintesi a priori": e voi sapete, da bravi studiosi di Kant, che la conoscenza avviene per mezzo dei giudizi sintetici a priori.

   6. Per sesta cosa, ci esercitiamo a valutare: auto-valutare l’andamento di questa nostra attività cognitiva, considerando nel loro complesso i pensieri che abbiamo elaborato e leggendo i pensieri degli altri, in viaggio con noi.La parola "aretè" e l'idea "àtos aretè" sono un mezzo per raggiungere un fine: dare corpo (per iscritto) a un mio pensiero: sarà un pensiero semplice, sarà banale, sarà comune ma è un mio pensiero, è una sintesi a priori che viene fuori dalla mia mente. Se poi il mio pensiero è "autobiografico" (racconta qualcosa della mia vita), allora sto "facendo un patto con il mio Io". L’Io-tessitore – l’elemento creativo che è in me – si mette in azione e tradisce (questo è l’unico tradimento ammesso) l’Io-dominante, che, in me, non vorrebbe mai perdere il controllo della situazione (ma non è un bene!); se l’Io-tessitore persuade l’Io-dominante a dipanare la matassa del racconto, si crea un circolo virtuoso utile per l’apprendimento, perché quando si dipana (quando si scrive in modo autobiografico), si comincia a creare, si comincia a investire, in questo caso, in intelligenza…

   La Scuola (con i suoi mezzi elementari: proprio perché non possono mancare gli "elementi" fondamentali) propone parole e idee che ci servano per leggere, per scrivere, per studiare e per creare una rete di rapporti umani basati sulla riflessione culturale! E dove le troviamo, le parole-chiave e le idee-significative, se non negli itinerari della Sto. Pen. Um., che è la "nostra Storia"! Noi (homo sapiens sapiens) abbiamo la straordinaria fortuna di aver ricevuto in eredità un enorme repertorio di opere scritte: sono un patrimonio a disposizione di tutti i cittadini. Queste opere contengono la Storia del Pensiero Umano: l’archeologia e la geografia del sapere contengono i territori dell’Intelletto universale (per citare Averroè), una ricchezza di cui, dobbiamo usufruire.

   E ora, dopo questo preambolo necessario, di carattere didattico (sono i riti della partenza), facendo un passo dopo l’altro, siamo arrivati, in modo virtuale, al confine di un grande territorio, che vogliamo attraversare: entriamo allora in questo spazio che si usa chiamare il territorio dei modelli simbolici della Tragedia. Il sentiero che imbocchiamo, attraversa un paesaggio culturale assai complesso che, come tutti i paesaggi culturali, ha un carattere interlocutorio, cioè ci pone molti interrogativi, e stimola la nostra curiosità!

   Prima, abbiamo identificato il termine "tragedia" con un catalogo di parole molto significative: ma che cosa significa il termine tragedia? Che cosa evochiamo quando utilizziamo questo termine: tragedia? Che cosa significa e che cosa contiene questa parola-chiave: tragedia? Facendoci queste domande iniziamo il nostro primo itinerario; ma a queste domande non si può rispondere con una battuta: è necessario un ragionamento e una riflessione che ci impegneranno anche la prossima settimana.

   Ma ormai, dopo i riti formali della partenza, ci siamo messi in movimento. Intanto dobbiamo dire che, questa parola, "tragedia", in forma scritta, ha più di 2500 anni in forma scritta, perché, come concetto orale, potrebbe avere circa diecimila anni! E in greco, che è la lingua in cui si esprime per iscritto questo concetto, la parola "tragedia" ne contiene due, di parole: il termine "tragedia" nasce dall’unione di due parole: tragos e oidos . La prima parola, tragos, letteralmente significa: del caprone. La seconda parola, oidos, significa: il canto. Messe insieme, queste due parole ci danno il significato letterale del termine tragedia: il canto del caprone…

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

    Conosci il titolo di qualche tragedia greca? Hai mai letto il testo di una tragedia greca?

    Hai mai visto a teatro la rappresentazione di una "tragedia"?

    Scrivi quattro righe in proposito…

   Quante domande ci passano per la testa in questo momento? Il canto del caprone: da dove viene fuori questo strano connubio? Ebbene, bisogna farne di strada, sapete, per fare chiarezza! E, questa sera, cominciamo ad incamminarci sulla via del canto del caprone…

   Riflettiamo: rispetto a quello che si pensa, di solito, del concetto di tragedia, il senso del significato letterale del termine il canto del caprone, qualche problema di comprensione ce lo crea! O no? Che cosa nascondono queste due parole (tragos oidos), e chi ci può portare dentro al significato di queste parole? Da chi ci possiamo far accompagnare in questo itinerario di conoscenza e di comprensione?

   Siamo fortunati perché, proprio all’inizio del sentiero che dobbiamo imboccare ci aspetta un personaggio straordinario, a cui abbiamo dato appuntamento, e che ci aiuterà, con la sua scrittura, a capire alcune idee importanti: chi è costui? Molti di voi, ormai, conoscono bene questo personaggio perché lo abbiamo incontrato tante volte; per una cosa o per l’altra finiamo praticamente per incontrarlo tutti gli anni: si chiama Pubblio Ovidio Nasone. Oggi Ovidio è un genere letterario. E Ovidio è anche questo libro famoso, di cui ci serviremo ancora questa sera, e la prossima settimana ce ne serviremo ancora e poi altre volte, strada facendo. Ovidio è l’autore latino che ha scritto una delle opere più significative della Sto. Pen. Um., quello che viene considerato il più importante romanzo dell’antichità: Le Metamorfosi (le Trasformazioni).  Un testo che contiene cultura greca, con un titolo in greco, ma scritto in latino, da un poeta latino, in un momento storico – duemila anni fa – in cui il latino è diventato la lingua ufficiale del mondo, la lingua internazionale per eccellenza, ma della cultura greca (anche se la Grecia è stata sconfitta militarmente e politicamente dai Romani) non se ne può tuttavia fare a meno.

   Ora prima di incontrarlo, come scrittore de Le Metamorfosi, dobbiamo in breve rinfrescarci la memoria: chi è Ovidio? Ovidio è nato a Sulmona, in Abruzzo, in provincia de L’Aquila, nel 43 a.C, in una ricca famiglia della classe equestre, ha studiato e vissuto a Roma; ha avuto, in vita, uno straordinario successo come scrittore. I suoi poemi in versi sono diventati subito famosi, in particolare Ars amatoria. Ma, di punto in bianco, la vita di Ovidio è cambiata drammaticamente: infatti nell’8 d.C viene esiliato da Augusto, e il motivo preciso di questo odio dell’imperatore verso di lui non lo conosciamo, si fanno delle ipotesi. Ma conosciamo Cesare Ottaviano Augusto, il primo imperatore romano, uno dei più ambiziosi e famigerati uomini di potere che siano mai esistiti, uno capace di strumentalizzare la figlia (Giulia Maggiore) e la nipote (Giulia Minore) per consolidare il suo potere, mandandole anche, essendosi loro ribellate, a morire in esilio.

   Ovidio, per gelosia (Augusto non tollerava che qualcuno oscurasse la sua fama divina) o perché stava partecipando a un complotto contro l’Imperatore, viene spedito in esilio a Tomi: nei pressi dell’odierna città di Costanza in Romania, sul mar Nero, vicino alla sponda orientale del Danubio che faceva da confine tra l’Impero romano e gli sconfinati territori a nord ovest, abitati, in quella zona, dalle tribù dei Geti o Daci.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

 Andate a osservare sull’atlante questa zona della Romania (la Dobrugia) delimitata a est dal mar Nero, a ovest dal Danubio e a nord dal grande delta del Danubio: ci torneremo, fra qualche settimana, sulla scia di una coppia in fuga…

   Tomi, allora, era il posto più sperduto e più inospitale del mondo: Ovidio non ritornerà mai più a Roma; neppure il successore di Augusto, Tiberio, gli concederà la grazia, e Ovidio morirà lì, intorno al 17 d.C, e non sappiamo nulla della sua fine. Ma Ovidio, a Tomi, entra in contatto con una cultura per lui sconosciuta, una cultura ricca di valori "nuovi" per lui, cittadino romano che considerava l’egoismo, l’affermazione di se stessi, come una virtù dei forti, da perseguire. Ovidio, a Tomi, scopre la cultura delle tribù dei Daci o Geti: una cultura legata alla predicazione del pensiero di Zamolxis, o Zaratustra. Diceva questo pensiero: vuoi realizzarti come essere umano? Allora schièrati sempre dalla parte del Bene, del debole, del sofferente, del perdente, del bisognoso, e sforzati, con la volontà, di voler bene materialmente al tuo prossimo!

   Ovidio, che aveva sempre considerato e scritto dell’amore come "gioco erotico" (ma non ne era granché soddisfatto, per la verità) scopre il valore dell’amore solidale, il valore affettivo dell’amore, considerato non come un elemento di debolezza ma come un fattore di maturità umana, di pienezza psicologica, di arricchimento della personalità: è "fare il bene" che rende la persona più forte e qualitativamente superiore rispetto a chi si vuole imporre con la violenza e la sopraffazione.

   Sapete che un antichista, uno studioso di storia antica, lo scrittore rumeno Vintila Horia ha raccontato il "diario di Ovidio a Tomi" in un bellissimo romanzo Dio è nato in esilio, che molti di voi hanno letto e che continua vergognosamente a essere fuori dai cataloghi e a non essere ristampato da nessuna casa editrice (è, per fortuna, in prestito nella biblioteca di Impruneta!). Vintila Horia costruisce, nel suo romanzo, in cui s’intrecciano molti personaggi, un bellissimo personaggio di donna dacia, Dokia, il cui nome è simbolico: in latino Dokia è "colei che insegna", in greco Dokia è "colei che accoglie".

   Ovidio, nel romanzo, s’innamora di Dokia, che gli fa da colf: s’innamora soprattutto della sua persona, della sua cultura solidale, della sua visione del mondo e della sua percezione del destino: sono queste qualità che rendono Dokia una donna bellissima agli occhi di Ovidio. Ma lui non può neppure dichiararsi perché si accorge che ha scritto L’arte di amare, un’opera con la quale, abbiamo detto, era già diventato famoso nel mondo: egli si accorge di essere sì abile a "mettere in versi l’erotismo", ma di non essere capace a "parlare d’amore" ad una donna che lo rispetta, non perché è famoso, ma perché è un uomo qualunque, in esilio, e che cerca, con intelligenza, di dare un senso, riflettendo, a quello che gli accade. E poi Dokia è già impegnata sentimentalmente: è la compagna (hanno anche già una figlia piccola) di un ufficiale della guarnigione romana, e allora, leggendo questo romanzo, ci accorgiamo che lì, in quella zona del mondo, sta succedendo qualcosa d’inconsueto e di straordinario.

   Ci viene raccontata da Vintila Horia, per bocca di Ovidio, una situazione storica e antropologica, che noi in Italia, a scuola, non abbiamo mai approfondito in termini precisi, studiando la "storia romana": che cosa sta succedendo nella terra dei Daci? In quella terra, ai confini dell’Impero, molti ufficiali e soldati romani cominciano a disertare, a emigrare fuori dai confini dell’Impero (ha inizio una crisi irreversibile): sono stufi della guerra, dell’imperialismo, vogliono cambiare vita e si dileguano, spariscono al di là del Danubio, si fidanzano con le donne dei Daci ed entrano a far parte di quelle tribù, tornando a vivere di agricoltura, di pastorizia, di raccolta selezionata, come i loro antichi antenati, come i Latini, i Sabini, i Falischi, che abitavano nella valle del Tevere, seicento anni prima: ebbene, qui, in Dacia, da questa mescolanza multietnica, prenderà corpo una nuova nazione, quella che oggi chiamiamo, la Romania.

   Nel romanzo di Vintila Horia c’è poi, soprattutto, una significativa riflessione filosofica sul concetto del destino, e sul fatto che nessuno, per quanto famoso o potente possa essere, è padrone del proprio destino: e questo fatto è positivo, è giusto, perché la forza del Destino ci riserva delle sorprese che danno una dimensione sempre nuova alla nostra vita.

   Ora per andare incontro a Ovidio, che ci accompagnerà nel nostro viaggio, leggiamo mezza pagina da:

LEGERE MULTUM….

 Vintila Horia, Dio è nato in esilio (1959)

Chi lo avrebbe mai pensato? Chi lo avrebbe mai immaginato? Ma molte cose sono possibili, e ora lo capivo, proprio perché noi non siamo i padroni del nostro destino

Neppure il sommo Augusto ne è padrone, egli pensa di poter dominare il destino con l’uso del suo immenso potere ma, anche lui, farà la fine di quel lupo, la cui carcassa abbiamo trovato, questa mattina, in mezzo alla strada del villaggio

... continua la lettura ...

    Ma perché noi, questa sera, dobbiamo incontrare Ovidio? Dobbiamo incontrarlo perché, per poter cominciare a definire il termine "tragedia", nel suo significato letterale, il canto del caprone, abbiamo bisogno di utilizzare anche Le Metamorfosi di Ovidio. Ora, questa sera, non possiamo parlare a lungo de Le Metamorfosi, perché sono diciotto anni che facciamo l’esegesi di quest’opera di poesia latina formata da XV libri, e scritta con lo stile del romanzo in versi. Ovidio, dal punto di vista formale, come costruttore del testo in versi, e dal punto di vista psicologico, per la capacità di descrivere i sentimenti dei personaggi è considerato uno straordinario poeta! Ovidio, ne Le Metamorfosi, ci presenta in versi latini duecentoquarantasei favole tratte dal vastissimo repertorio della letteratura greca. Molte di queste favole, sono nell’aria, e noi le conosciamo anche senza aver letto Le Metamorfosi.

   Le Metamorfosi, in particolare dal Medioevo, risulta uno dei testi più letti in tutta Europa; quindi è un'opera che ha avuto un grandissimo successo, e la sua diffusione nel bacino del Mediterraneo è stata enorme: possediamo migliaia di codici con citazioni da quest'opera. E da questo testo, nel corso dei secoli, moltissimi gli scrittori e artisti hanno preso spunto in modo esplicito, e si continua a prendere spunto da quest’opera. Molte sono state, nel corso dei secoli, le interpretazioni date a Le Metamorfosi. Oggi la critica letteraria considera Ovidio un grande scrittore soprattutto perché è stato capace di tradurre il dolore e la disperazione delle donne, che, quando non si sottomettono, sono vittime immolate della violenza degli dèi e degli uomini. Ne Le Metamorfosi c’è un lungo catalogo di "dolenti figure femminili" che rivendicano un ruolo nella società, e che vorrebbero essere considerate non uno strumento, un oggetto, ma un soggetto ricco di pensieri e di sentimenti. Le Metamorfosi è anche il poema della pietà umana in cui Ovidio vuole capire e far capire l’animo femminile nella sua interiorità, come fa Euripide. Le Metamorfosi è anche il poema della superficialità maschile, soprattutto quando i maschi si considerano dèi: questo provoca la catastrofe. E in questa superficialità anche Ovidio stesso si riconosce: non ci si "trasforma" cambiando maschera, ma gettando la maschera…

   Ovidio scrive con un’ironia e una leggerezza straordinaria, ma non è facile leggere Le Metamorfosi, perché il racconto è come una rete di continui riferimenti culturali. Ma è proprio da questo punto di vista che ci interessa quest’opera! È proprio per questo motivo, per la ricchezza di riferimenti culturali presenti ne Le Metamorfosi, che questa sera abbiamo dato appuntamento a Ovidio.

   Ma dobbiamo dire che non potevamo, questa sera, non dare appuntamento a Ovidio, soprattutto per una ragione celebrativa molto importante: sapete perché? Perché il testo de Le Metamorfosi è stato reso pubblico, a Roma, nell’autunno dell’anno 3 d.C e quindi sono duemila anni giusti giusti, che Le Metamorfosi di Ovidio circolano per il mondo, e dobbiamo festeggiare!

   Ma, allora che cosa c’entra Le Metamorfosi con il significato della parola tragedia: il canto del caprone? Che cosa c’entra Le Metamorfosi con il significato di questa parola, che, al tempo di Ovidio, ha già circa 500 anni di storia, come parola scritta?

   Prima di tutto dobbiamo dire che il concetto di tragedia, trova una sua collocazione ne Le Metamorfosi di Ovidio perché quest’opera, come ci dicono gli esperti, è fortemente permeata, fortemente intrisa di cultura orfica; e questa è la strada che dobbiamo percorrere per definire il significato del termine tragedia!

   Ma che cosa significa che Le Metamorfosi è un’opera intrisa di cultura orfica? Questa è una prima chiave da utilizzare, è un primo indizio da scoprire per conoscere e per capire che cosa significa "il canto del caprone". Questa è la prima domanda alla quale dobbiamo rispondere: che cos’è la cultura orfica? Possiamo dare una breve definizione che, però, va spiegata, e va dimostrata.

   La cultura orfica, l'Orfismo, è una dottrina che sta alla base della nostra cultura! C’è chi dice che è la dottrina fondamentale che sta alla base della nostra cultura! Il fatto è che noi, oggi, continuiamo puntualmente a pensare e ad agire in chiave orfica: molte manifestazioni sono permeate di Orfismo! E allora, che cos’è la cultura orfica, e che cosa c’entra il canto del caprone? L’itinerario della prossima settimana s’inoltrerà per questa via.

   Ora, per concludere, facciamo un’incursione nella letteratura contemporanea: leggiamo ancora una volta (perché molti di voi lo conoscono già, ma non tutti e non dobbiamo essere egoisti) un racconto dal romanzo Gli asparagi e l’immortalità dell’anima di Achille Campanile. Achille Campanile (1900-1977) è uno dei maggiori scrittori umoristi della nostra letteratura. C’è da dire che Campanile è stato un profondo conoscitore della Letteratura greca e latina, ed è stato un attento lettore di Ovidio, in particolare de Le Metamorfosi. Il racconto che leggiamo da Gli asparagi e l’immortalità dell’anima s’intitola Pantomima (dal greco pantόs tutto, e mimos imitatore, attore). Pantomima: la vita è tutta una recitazione intrisa di cultura orfica.

LEGERE MULTUM….

Achille Campanile, Pantomima da Gli asparagi e l'immortalità dell'anima (1974)

La bella Angelica Ribaudi, coi biondi capelli in disordine e le fresche gote di diciottenne arrossate, affannando per aver fatto le scale a quattro a quattro, si fermò un attimo sul pianerottolo per calmarsi; indi mise pian pianino la chiave nella serratura, girò delicatamente, spinse la porta senza far rumore e scivolò in casa come una ladra. Voleva arrivare prima di sua madre, ch’ella aveva intravisto in fondo alla strada scendere dal tram. Non già che la turbasse l’idea di rincasare tardi per la cena, ma una volta tanto ch’era arrivata un po’ meno tardi del solito poteva esser comodo evitare i rimproveri e le frasi amare della madre e magari farle credere di essere arrivata molto prima. Non le capitava mai di rincasare quando la mamma non era ancora in casa. In punta di piedi percorse il corridoio. Davanti alla camera del padre si fermò un attimo, trattenendo il fiato; spinse appena la porta socchiusa, guardò dentro e respirò: la camera era buia. Il babbo non era ancora rientrato. Quanto ai fratelli non c'era pericolo che rincasassero prima dell'alba.

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Ma chi avrebbe potuto parlare: Apollo o Dioniso?

    Attenti, non dobbiamo perdere la bussola: per capire la cultura orfica dobbiamo dirigerci verso il territorio di Apollo e Dioniso. Per continuare a cercare una risposta alle domande che abbiamo lasciato in sospeso, accompagnati ancora da Ovidio, dobbiamo intraprendere, la prossima settimana, un nuovo itinerario, sulla via del canto del caprone, ci aspettano: Apollo e Dioniso!

   Achille Campanile è autore di numerose opere: tra queste una delle più famose s’intitola, non a caso Tragedie in due battute.

 

Conoscete il: CONSUETO CANTO DEL CAPRONE PER IL FINALE DELLA LEZIONE ?

Personaggi:

IL CAPRONE

GLI STUDENTI

 

IL CAPRONE

Volete incontrare Apollo e Dioniso?

GLI STUDENTI (in coro)

Sì!

IL CAPRONE

Accorrete numerosi, la Scuola è qui

(Sipario)

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 3, 2003
Anno Scolastico: