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LA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AFFIDATA AGLI ANIMALI - IL RITORNO DEL CORVO ...

Lezione N.: 
11

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

La sapienza poetica e filosofica dalla seconda metà del ‘600 al secolo dei Lumi

La sapienza poetica e filosofica affidata agli animali

Prof. Giuseppe Nibbi

NONO  ITINERARIO [in attesa di tornare a viaggiare in presenza] ...   5 maggio 2021

IL RITORNO DEL CORVO ...

     Care compagne e cari compagni di Scuola, nell’attesa di riprendere il cammino in presenza sul Percorso canonico di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura sulla via che dalla metà del Seicento porta verso il secolo dei Lumi, su consiglio di Jean de La Fontaine [che spera di poter comparire dal vivo al più presto negli spazi della nostra Scuola], abbiamo, come sapete, cominciato a leggere una Favola dove “la Sapienza poetica e filosofica” è affidata agli animali perché, da che mondo è mondo, “la favola”, attraverso la voce degli animali, parla degli esseri umani per invitarli a riflettere sulla loro condizione esistenziale [de te fabula narratur, ci ricorda La Fontaine], ma gli umani - a causa della loro debolezza cognitiva e del loro istinto predatorio - non hanno recepito l’insegnamento che, attraverso il genere letterario della fabula, deve contribuire a far emergere nel loro animo i valori dell’Umanesimo: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia. E, in proposito, Jean de La Fontaine ci ha proposto di utilizzare il testo della Favola selvaggia di un autore che si fa chiamare Filelfo [come se fosse un umanista rinascimentale] e, di conseguenza, lo stiamo esaminando nella nostra Officina dell’apprendistato cognitivo per far emergere i riferimenti letterari in esso contenuti, in modo che questo esercizio di carattere ermeneutico ci consenta di tenere attiva nella nostra mente la funzionalità delle principali azioni mediante le quali avviene il processo di apprendimento perché per andare incontro al pensiero scritto e per sostenere il carico della scrittura [tanto nelle sue forme quanto nei suoi contenuti] è necessario saper utilizzare le azioni cognitive [conoscere capire applicare analizzare sintetizzare valutare].

     La lettura non è un’arte facile da praticare, e sono capaci a leggere nel vero senso della parola solo le persone che sanno conoscere il significato delle parole-chiave, che sanno capire la rilevanza delle idee-cardine, che si sanno applicare metodicamente, che sanno analizzare i pensieri che il testo contiene, che sanno sintetizzare il contenuto del testo e che sanno valutare il grado di soddisfazione che hanno provato leggendo.

     Nell’itinerario scorso, come ricorderete, abbiamo letto e commentato l’ottavo capitolo della Favola di Filelfo intitolata L’assemblea degli animali e abbiamo assistito, a causa del disaccordo tra il leone [il re dei mammiferi] e l’aquila [la regina dei volatili], al prevalere, con l’assenso del giaguaro, della strategia proposta dal re dei topi: sarà il pipistrello [il topo con le ali] a dare l’avvio ad un espediente atto a punire la specie umana per la sua arroganza, ma, con lo scioglimento dell’assemblea, è il corvo [che abbiamo incontrato all’inizio] a tornare temporaneamente in primo piano per farci riflettere sul fatto che tutto si trasforma.

     E ora leggiamo il nono capitolo della Favola e, nel corso della lettura, ci fermeremo per condurre alcune riflessioni perché leggere un testo corrisponde a un esercizio di ermeneutica, di interpretazione, di spiegazione, di chiarimento, di complicazione, di analisi, di sintesi, di esegesi [una competenza, l’esegesi, che in greco significa “di lettura attenta”], e un testo va sempre letto con grande attenzione portandolo nell’ambito di un’Officina di apprendistato cognitivo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo IX. Il ritorno del corvo 

Quando il topo finì di parlare, il corvo si alzò in volo tra i primi, e non perché dovesse portare dei messaggi - l’esito dell’assemblea era noto in quel momento già a tutti gli animali della terra - ma perché voleva evitare la grottesca parata delle flotte di pipistrelli che avrebbe gremito il cielo entro breve man mano che arrivava il crepuscolo e il rosso diventava violetto e poi cenere, dipingendo lo sfondo appropriato per il volo di quei mezzi mammiferi e mezzi volatili.

Quando, dopo giorni di traversata, il corvo arrivò nel cielo della piccola città in cui viveva, nello spiazzo tra le case avvistò come sempre il giardino quadrato, poco folto ma ordinatamente cinto da nere siepi punteggiate appena di bianco, stendersi sotto di lui nella traiettoria che lo avrebbe portato dritto all’antico tetto di tegole spioventi dove viveva. Vide su una panchina di marmo un uomo vecchio e barbuto. Guardava tranquillo il crepuscolo. Il corvo si fermò in aria battendo le ali - se avesse attraversato il giardino da quel lato, solcando il cielo da sinistra a destra davanti agli occhi del vecchio in segno di buon augurio, avrebbe tradito il proprio ruolo di messaggero. Teneva, come da millenni usavano fare i corvi, a dargli un avvertimento. Era esausto, ma ugualmente si rassegnò al giro più lungo in modo da tagliare il cielo da destra a sinistra, in segno inequivocabilmente infausto. Sbucò da sopra la geometria delle siepi mentre il vecchio ancora guardava in alto. Gli passò davanti agli occhi e attese il lampo che incrociava nello sguardo degli àuguri, gli antichi lettori del volo degli uccelli. Niente. Il vecchio non lo aveva neppure visto. Cosa stava guardando nel cielo deserto? - È troppo tardi, - si disse. - Gli umani non sanno più cogliere i presagi, e non impareranno più -. E ripeté ad alta voce, rivolto al vecchio ma soprattutto a sé stesso: - Mai più si porranno l’interrogativo supremo: come può l’essere non essere più, una volta che sia stato? -. E se ne volò verso il suo tetto prima che arrivasse la notte. ...

     Dobbiamo riflettere sull’amara constatazione fatta dal corvo: «Gli umani non sanno più cogliere i presagi, hanno disimparato l'arte di presagire» e, di conseguenza, se non sono più in grado di leggere i segni premonitori che accompagnano il cambiamento, non saranno più neppure preparati ad amministrare il fenomeno ineluttabile de “la metamorfosi” con l’effetto di non saper più gestire, in modo etico, i processi di trasformazione; questo porterà a sottovalutare ancor di più la funzione essenziale dell’Essere rispetto alle preminenti ostentazioni dell’Avere e dell’Apparire, sebbene la brama che suscita l’Avere sia destinata a far degradare il Creato e la frenesia di Apparire generi un’insoddisfazione permanente nell’animo umano, mentre l’Essere è la colonna portante dell’esistenza in quanto «l’Essere è, e non può non essere più una volta che è stato!».

     La lucida e articolata riflessione del corvo - incentrata sul concetto della metamorfosi - ci porta inevitabilmente a incontrare un personaggio a noi noto e dal quale [e così la pensa anche Dante mentre staziona insieme a Virgilio nel Limbo] non conviene mai prendere le distanze: il poeta Ovidio [nato a Sulmona nel 43 a.C. - morto a Tomi sul Mar Nero intorno al 17 d.C.]. E percorrendo la Storia del Pensiero Umano, come sapete, s’incontra spesso Pubblio Ovidio Nasone il quale - come se avesse voluto prendere spunto dal suo terzo nome - ha messo il naso [per così dire] nell’ambito di quel concetto fondamentale che è “la metamorfosi”: un fenomeno che Ovidio ha saputo trasformare in una figura letteraria esemplare.

     Sull’opera di Ovidio intitolata Le metamorfosi - e sul suo impatto nella cultura universale - potremmo conversare per anni, e per anni quest’opera l’abbiamo incontrata nei nostri viaggi e non si smette mai d’incontrarla! Prendiamo le mosse - dopo aver anche attirato l’attenzione del corvo, cercando di lenire la sua frustrazione - da un esempio concreto: tutte e tutti voi avete probabilmente ammirato il gruppo scultoreo intitolato Apollo e Dafne, realizzato nel 1625 da Gian Lorenzo Bernini, che, come sapete, è uno dei capolavori dell’arte barocca collocato nella Galleria Borghese a Roma.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Utilizzando un Catalogo di Storia dell’Arte barocca e navigando in rete dedicate un po’ di attenzione a quest’opera: osservatela in tutti i suoi particolari...

     Ebbene oggi l’Arte barocca in generale, in tutte le sue forme, è più che mai al centro dell’interesse perché, da oltre un quarto di secolo, le studiose e gli studiosi si sono dedicati a valorizzare le Opere dell’epoca secentesca [un’epoca che stavamo attraversando prima che la pandemia facesse fermare il nostro viaggio]. Ebbene, a questo proposito le esperte e gli esperti affermano che senza Le metamorfosi di Ovidio non ci sarebbe il barocco in tutta la sua grandezza, in particolare non ci sarebbe la scultura barocca, ma neppure la pittura, la musica, la letteratura barocca. Senza Le metamorfosi di Ovidio [affermano ancora le studiose e gli studiosi] non ci sarebbero le Opere di Shakespeare, o ci sarebbe un teatro shakespeariano tutto diverso. Approdando poi in età contemporanea si può constatare [tanto per fare un altro esempio destinato a stimolare la curiosità] che esiste un corposo romanzo di Ernest Hemingway che s’intitola Il giardino dell’Eden, pubblicato postumo nel 1987 dopo una drastica riduzione del testo, di circa il 30%, rispetto a quello del manoscritto originario [chi lavora nel campo dell’editoria sa che la gente legge poco, e se le persone comprano Libri vogliono acquistare oggetti di poche pagine: l’editoria punta a fare cassa e ignora le problematiche riguardanti la didattica della lettura!]. Ebbene, intorno ai tagli operati sul testo del romanzo di Hemingway è nata una violenta polemica negli Stati Uniti anche per il fatto che, se si legge nella sua stesura integrale, depositata a Boston, si scopre che la parte del testo che è stata ingiustamente amputata - e, forse, quella che avrebbe reso più interessante il romanzo - contiene la storia di una metamorfosi: il racconto inizia con lo stupore della protagonista, Caterina, che rimane profondamente turbata di fronte a una statua del celebre scultore Auguste Rodin [che si trova al Museo del  Prado a Madrid] ispirata a Le metamorfosi di Ovidio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Fate una piccola ricerca – utilizzando un Catalogo e navigando in rete – sullo scultore Auguste Rodin: vale sempre la pena fermarsi a riflettere osservando le sue opere...

     Si capisce che, in ogni epoca, chi scrive, chi scolpisce, chi dipinge, che progetta, chi compone musica non può fare a meno, per spiegare il fenomeno misterioso dell’esistenza, di chiamare in causa Le metamorfosi di Ovidio, e perché non se ne può fare a meno? Non se ne può fare a meno perché quello della metamorfosi è un mito penetrante, persuasivo e, soprattutto, confortante. Il mito della metamorfosi ci rassicura, in quanto, se tutto si trasforma, di conseguenza, nulla muore, nulla scompare nel nulla, nulla si dissolve, nulla si decompone. «Come può l’essere non essere più una volta che è stato?» scrive Ovidio e, difatti, l’Essere non può perdere la propria essenza, ma continua a persistere “trasformandosi”, e noi dobbiamo essere pronte, pronti e disponibili a partecipare a questa trasformazione, ad aderire a questa evoluzione perché solo la metamorfosi ci permette di uscire dal bozzolo, di mettere le ali e di volare, di volare nel cielo della conoscenza.

     Le metamorfosi di Ovidio esaltano - non in modo banale, bensì con ragionevolezza - l’inesauribile vitalità dell’intelletto e decantano la possibilità che ogni persona ha di imparare a investire in intelligenza. E questo encomio avviene tanto attraverso il contenuto delle storie che quest’opera racconta [Ovidio narra ben duecentoquarantasei favole] quanto attraverso la forma che l’autore dà al racconto stesso.

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Se vi procurate in biblioteca un volume de Le metamorfosi di Ovidio [in certe edizioni sono due i volumi e quasi sempre con il testo latino a fronte] potete, per prima cosa, sfogliarne le pagine in modo da leggere, via via che si presentano, i titoli degli episodi narrati, i quali contengono i nomi delle protagoniste e dei protagonisti che hanno usufruito di una trasformazione, di una metamorfosi: molte e molti di questi personaggi mitici sarete in grado di riconoscerli [li avrete almeno sentiti nominare], altri no e, quindi, come prima esercitazione potete impegnarvi a distinguere tra le conoscenze da voi possedute e le competenze che dovete ancora acquisire per quanto riguarda la mitologia [che è ancora – metaforicamente parlando – il nostro pane quotidiano e necessario per comprendere meglio i significati contenuti in molte pagine di Letteratura]…

Si consiglia di leggere per prime le favole di Filemone e Bauci, di Apollo e Dafne, di Cadmo e Armonia, di Cerere e Proserpina, di Orfeo ed Euridice, di Perseo e Andromeda, di Cicno tramutato in cigno, delle Eliadi trasformate in pioppi, e le favole in cui Zeus [il più grande amatore trasformista della Storia della Letteratura] si trasforma per inseminare e fecondare le donne mortali che lui desidera possedere [«Ma – ha scritto qualcuno - non lo fa per piacer suo ma per inscenare un rito che dia forma a un nuovo mito»] …

Il contenuto di queste favole, narrate poeticamente da Ovidio, ha dato addito a una straordinaria produzione di opere d’arte di ogni genere – scolpite, dipinte, musicate, narrate - e, utilizzando l’enciclopedia e navigando in rete, potete arricchire le vostre conoscenze e soddisfare la vostra volontà di imparare...

L’esperienza di “trasformazione” [di una situazione, di un oggetto, di un ambiente, di un sentimento...] coinvolge molto spesso, quasi in continuazione,] gli umani e, di conseguenza, scrivete quattro righe in proposito sul vostro coinvolgimento in una metamorfosi...

     Ovidio, nella sua opera, gioca volentieri con le parole e con la loro metamorfosi: dove ci porta questa affermazione? Prima di rispondere proseguiamo nella lettura del testo del Capitolo IX  della Favola di Filelfo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo IX. Il ritorno del corvo 

Il corvo, esausto e deluso perché gli umani avevano perduto la capacità di interpretare il volo degli uccelli, prima che arrivasse la notte, si posò sull’antico tetto di tegole spioventi dove abitava.  Il sole era rotolato verso l’altro emisfero e, facendosi largo nel buio del mondo che si ritirava al suo passaggio come un mare biblico, vi portava l’alba, e anche questa continua trasformazione in atto nella vita dell’universo sfuggiva ormai alla percezione degli umani che non riconoscevano più in essa l’incontro straordinario tra natura e cultura. ...  

     Le studiose e gli studiosi di filologia - dal Medioevo al Rinascimento, fino ad oggi - hanno studiato con passione il testo latino de Le metamorfosi di Ovidio. E che cosa hanno scoperto? Hanno scoperto - ed è questo che rende straordinaria quest’opera! - che Ovidio non si limita a raccontare la trasformazione [in rocce, in alberi, in animali] di una serie di personaggi mitici della cultura greca ma gioca soprattutto con la metamorfosi, con la trasformazione delle parole. Ovidio gioca in modo assiduo con le sillabe e con i suoni per sfruttare i molteplici significati che le parole hanno e, utilizzando “il gioco di parole”, vuole lanciare dei messaggi che vadano al di là delle mura di Roma, blindate sotto il potere di Augusto, e con questo vuole ribadire che il potere agisce spesso contro la natura e, di conseguenza, contro la cultura. Ovidio, per esempio,] scrive ne Le metamorfosi che la creazione del nostro mondo non è avvenuta “ex nihilo” [dal nulla] ma bensì “ex Nilo” [dal Nilo], sì, cita proprio il fiume che attraversa l’Egitto, e che cosa c’entra il Nilo con la creazione, e che significato ha questo metaforico gioco di parole: “non ex nihilo ma ex Nilo”? Ovidio, quando scrive che gli umani sono chiamati “a creare il mondo”, intende affermare che sono chiamati a “creare cultura [a fare coltura] non dal nulla [non ex nihilo, sono forse Dio, gli umani, per creare dal nulla?]”, ma nell’intraprendere il loro atto creativo devono agire valutando e tenendo conto di ciò che c’è già, di bene e di male, nella Natura.

     Il fiume Nilo [ed è per questo che viene preso metaforicamente ad esempio] con le sue piene regolari, che hanno reso molto fertile il territorio che attraversa, ha ispirato agli Egizi [la Maat, in lingua originale] il senso dell’ordine, della rettitudine, della giustizia e, di conseguenza, “nel Nilo” [ex Nilo], la natura e la cultura s’incontrano con effetto straordinariamente positivo. Le feconde piene regolari fanno del Nilo un fiume ordinato, giusto e retto, e l’ordine, la rettitudine, la giustizia - parole che non possono stare separate tra loro - non nascono “ex nihilo” [dal nulla] ma “ex Nilo”, vale a dire, da ciò che c’è già di buono in Natura.

     Il concetto dell’ordine, della rettitudine, della giustizia è, dunque, già presente “ex Nilo”: nelle manifestazioni, nelle trasformazioni, nelle metamorfosi della Natura. La cultura [e la coltura] della legalità - suggerisce Ovidio con il suo gioco di parole - non nasce dal nulla ma dal benefico effetto che certi fenomeni ambientali, nel corso del loro regolare processo di trasformazione, producono, mostrando che l’ordine, la rettitudine e la giustizia sono valori radicati nella Natura. E allora perché Augusto, per motivi legati alla gestione del potere, va spesso “contro natura”, affossando la cultura della legalità, tanto da sacrificare anche - in modo spregiudicato, sua figlia Giulia Maggiore e i suoi amici più cari? Dicono le studiose e gli studiosi di Filologia che i giochi di parole creati da Ovidio ne Le metamorfosi esprimono tutti un profondo disagio, lo stesso disagio provato dal corvo. E, la parola-chiave “disagio” non può non farci riflettere.

     Senza Le metamorfosi di Ovidio, forse, non ci sarebbe neppure il famosissimo racconto intitolato La metamorfosi scritto da Franz Kafka nel 1915. Se oggi ci dedichiamo a leggere o a rileggere La metamorfosi di Kafka possiamo capire a pieno la portata quasi profetica e universale di questo testo nel quale c’è una forte analogia tra ciò che narra e la nostra odierna situazione di sospensione e di provvisorietà che è tipica di tutte le opere kafkiane in cui l’autore afferma che non ci sarà mai “un compimento” ma gli umani vivono e vivranno sempre in “un continuo stato di disagio”. Un tranquillo commesso viaggiatore una mattina si sveglia e per lui il mondo è diventato all’improvviso immondo [questo gioco di parole è tratto Le metamorfosi di Ovidio] perché si scopre trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto schifoso. Vittima di questa trasformazione animalesca, paradossale e ripugnante, è Gregorio Samsa, l’emblematico protagonista de La metamorfosi di Kafka, che è costretto a scontare le conseguenze di questo terribile mutamento: l’isolamento, la depressione, l’alienazione, l’annichilimento e, da parte della sua famiglia [il padre, la madre e la sorella] deve pagare con la separazione, il distanziamento e la repulsione: tutti termini e concetti diventati familiari al giorno d’oggi con l’emergenza sanitaria in corso. Tutte condizioni che affliggono Gregorio trasformato in insetto immondo - la ripugnanza, la maldicenza, la depressione, l’emarginazione, l’incomprensione, l’incomunicabilità, e il cinismo del sistema produttivo che non può incepparsi e sacrifica la diversità sull’altare dell’efficienza - rischiano di travolgere gli umani anche oggi, soprattutto [come sta pensando il corvo] se, a causa della crescente debolezza cognitiva, viene a mancare la consapevolezza intellettiva necessaria per gestire, in modo etico, i processi di trasformazione.

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Non pensate che La metamorfosi di Kafka esalti la disperazione, in realtà esorta a reagire per «rendere meno immondo il mondo»... La lettura o la rilettura di questo racconto non va rimandata perché deve procedere di pari passo con la campagna di vaccinazione che dovrebbe affiancare quella permanente di alfabetizzazione...

     E ora continuiamo a leggere il testo del Capitolo IX  della Favola di Filelfo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo IX. Il ritorno del corvo

Il corvo stava vivendo un profondo disagio mentre il sole era rotolato verso l’altro emisfero facendosi largo nel buio del mondo e l’occidente diventava oriente e sulle campagne della Cina meridionale il cielo accoglieva l’aurora che toccava con le sue dita rosee un villaggio contadino dove un bambino stava andando con il padre al mercato. Aveva con sé una gabbia. Dentro, come un cavaliere medievale nella sua armatura, scrutava attento il mondo esterno un pangolino. Era più lungo del liuto che suonava suo padre durante le feste, ma stava raggomitolato su sé stesso come un punto interrogativo e dalle scaglie lucide si apriva perplessa la bocca a proboscide, e teneva gli occhi puntati come spilli. Era una merce rara e proibita, per la carne delicatissima, specie se l’animale è bollito vivo, e per le risapute proprietà afrodisiache delle scaglie. Avrebbero potuto mangiare riso per un mese con il ricavo della vendita, ed è lecito pensare che in principio è il gioco di parole visto che nella mente del bambino si stava manifestando il ritornello dell’antica canzone che dice: «Sii felice come se tu stessi in un paradiso perché è dal riso che si genera il riso!» ...

     Abbiamo detto che “i giochi di parole” creati da Ovidio ne Le metamorfosi esprimono un profondo disagio. Ovidio ne Le metamorfosi crea innumerevoli “giochi di parole” giocando per esempio con l’assonanza fra le parole numen, flumen, fulmen, lumen. O giocando con la parola “populus”: perché, quanti significati ha la parola latina “populus”, e quali esercizi di riflessione ci propone Ovidio in relazione a questa parola? Il termine “populus” significa “popolo” ma significa anche “pioppo”, e il verbo “populari”, che sembra così innocuo, significa: “devastare e saccheggiare” e, quindi, quando si gioca con queste parole e con l’ambiguità e la pluralità dei loro significati, si può anche trasgredire.

     E Ovidio che cosa intende dire quando - giocando con le assonanze delle parole - racconta, in versi, la metamorfosi di un “populus” [un pioppo] trasformato in un “populus” [un popolo] che si prodiga a “populari” [a devastare non a trasformare] il territorio? Intende insinuare - mediante la poetica descrizione de “i pioppi fluttuanti al vento” - che il “populus romanus” è stato anche un popolo di devastatori, di saccheggiatori e che l’Impero non è il frutto della gloria ma bensì dell’istinto predatorio? Sappiamo che Le metamorfosi contengono una profonda insofferenza per la politica imperialista di Augusto e, difatti, il primo imperatore romano è stato uno degli uomini di potere più spregiudicati che siano mai esistiti.

     Le metamorfosi contengono una profonda insofferenza per il modo in cui Augusto gestisce e amministra il potere: Augusto vuole mantenere fermo e lasciare immutato lo stato delle cose e Ovidio gli dedica Le metamorfosi alludendo al fatto che l’operato di Augusto è contro Natura perché in Natura tutto si trasforma, e Augusto - sebbene ammiri il genio di Ovidio - lo condanna e lo punisce. E, infatti, Ovidio, oltre ad averci lasciato in eredità la figura della trasformazione, ci ha consegnato anche la figura dell’esule, la figura del confinato politico. Ovidio - ormai famosissimo scrittore, ricco e autorevole cittadino romano apprezzato da Augusto - un bel mattino dell’anno 8 d.C. riceve la comunicazione di essere stato condannato all’esilio, e - se non vuole che gli succeda qualche brutto incidente - deve partire subito [con il foglio di via] per un posto che non conosce, per un posto sperduto: un villaggio fortificato di nome Tomi situato ai confini dell’impero sulla costa del mar Nero [nel territorio dell’odierna Romania] a sud del delta del Danubio, e tutti i particolari che riguardano questo avvenimento li potete trovare, leggere o rileggere in un bel Libro.

     Perché Ovidio è stato mandato in esilio? Questo è un interrogativo che ricorre e lui, con tutti quei giochi di parole che ha messo in poesia, forse, se lo doveva aspettare! I giochi di parole, come abbiamo detto, possono essere molto pericolosi in quanto non sono solo delle regressive impertinenze infantili o solo delle licenze poetiche, ma nel testo de Le metamorfosi diventano uno strumento di opposizione nei confronti del potere che odia ogni forma di trasformazione, e che tende a cristallizzare tutto, e a impadronirsi anche del destino delle persone. Ma nessuno è padrone del proprio destino [ci spiega Ovidio] perché il destino del nostro destino [tanto per continuare a giocare con le parole] è quello di essere sempre in trasformazione, in perenne stato di metamorfosi. La condanna di Augusto trasforma Ovidio nella figura dell’esule per eccellenza: Ovidio non tornerà mai più a Roma - muore a Tomi intorno al 17 d.C. - ma saprà trasformare se stesso in una persona consapevole dei propri limiti e avrà modo di rendersi conto che altre culture affascinanti e altre significative forme di linguaggio esistevano ai confini dell’impero e oltre i confini dell’impero.

     Perché Ovidio è stato mandato in esilio? Abbiamo detto che c’era da aspettarselo perché ad un uomo di potere accorto come Augusto fanno più paura i giochi di parole che i complotti: ai complotti si risponde con la forza, con la violenza, con la furbizia, mentre ai giochi di parole bisogna rispondere con l’intelligenza e la creatività, ed è più difficile far sì che si estinguano, e difatti resistono anche dopo duemila anni!

     Lo scrittore Paul Valéry si è avvicinato al bersaglio [più di quanto abbia fatto Freud] quando ha scritto che “il gioco di parole è come una forma speciale di adulterio” che fa sviluppare alcune competenze: la trasgressione formale, la capacità di indagare e la curiosità. Perché Ovidio è stato mandato in esilio? Quale “scelus” [scelleratezza] ha compiuto? Quale “error” [errore] ha commesso? Di quale “crimen” [crimine] si è macchiato? Il fatto è che Ovidio, ne Le metamorfosi, fa giocare spesso la parola “crimen” [il crimine], con la parola “lumen” [la luce, l’occhio]. È un crimine essere curiosi? È un crimine voler “fare luce”? Non è, forse, un atto creativo per eccellenza il fare luce? In esilio Ovidio scrive un’opera che s’intitola Tristia e nel terzo Libro afferma: «Inscia quod crimen viderunt lumina »[Sono stato condannato perché i miei occhi hanno visto cose, hanno fatto luce su cose che non dovevano vedere]. Dunque Ovidio ha visto delle scene che - in età augustea - avrebbe dovuto far finta di non vedere. Ovidio ha sbirciato e ha aperto gli occhi su uno scenario proibito: sulla lunga scia di morti “accidentali” che caratterizzano il consolidamento del potere di Augusto e, subito dopo, della lotta sotterranea per la sua successione che lui vuole gestire in prima persona. Queste situazioni, oltre agli occhi, tirano in ballo anche il naso e noi possiamo dire che Pubblio Ovidio Nasone ha ficcato il naso dove non doveva, mettendo allegoricamente in rilievo nei suoi versi il suo dissenso nei confronti di chi aveva definitivamente decretato la fine delle Istituzioni repubblicane, e lo ha fatto sfidando la censura giocando con le parole. Ovidio viene spedito in esilio a Tomi: nei pressi dell’odierna città di Costanza in Romania, sul mar Nero, vicino alla sponda orientale del Danubio che faceva da confine tra l’Impero romano e gli sconfinati territori a nord ovest, abitati, in quella zona, dalle tribù dei Geti o Daci.

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Con una guida della Romania e navigando in rete andate a far visita alla città di Costanza [c’è anche una località che porta il nome di Ovidio] e osservate sulla carta geografica la regione della Dobrugia, delimitata a est dal mar Nero, a ovest dal corso del Danubio, e a nord dal grande delta del Danubio...

     Tomi era il posto più sperduto e più inospitale del mondo e Ovidio non ritornerà mai più a Roma: neppure il successore di Augusto, Tiberio, gli concederà la grazia, e Ovidio morirà lì intorno al 17 d.C. e non sappiamo nulla della sua fine. Ma Ovidio a Tomi fa delle scoperte che incidono sulla sua metamorfosi intellettuale - e lo sappiamo leggendo le sue opere scritte in esilio: Tristia, in cinque Libri in versi e Epistulae ex Ponto, sessantaquattro Lettere dal Mar Nero – perché in quel luogo “sperduto” entra in contatto con una cultura che non conosceva, una cultura ricca di valori “nuovi”, per lui, cittadino romano che considerava l’egoismo e l’affermazione di se stessi come le virtù dei forti, da perseguire per imporsi. Ovidio a Tomi scopre la cultura delle tribù dei Daci o Geti: una cultura legata alla predicazione del pensiero di Zamolxis, uno dei nomi di Zaratustra. Secondo questo pensiero se la persona vuole realizzarsi come essere umano deve schierarsi sempre e inequivocabilmente dalla parte del Bene sostenendo il debole, il sofferente, il perdente, il bisognoso, e sforzandosi, con la volontà, di voler bene materialmente al proprio prossimo! Ovidio, da intellettuale latino, non aveva mai considerato l’amore in questi termini e aveva scritto sull’amore [l’Arte di amare] sotto il profilo del “gioco erotico” - anche se la cosa non lo ispirava particolarmente -. In esilio, scopre il valore dell’amore solidale, il valore affettivo dell’amore considerato non come un elemento di debolezza ma come un fattore di maturità umana, di pienezza psicologica, di arricchimento della personalità, scopre che “fare del bene” rende la persona più forte e qualitativamente superiore rispetto a chi si vuole imporre con la violenza e la sopraffazione.

     Molte e molti di voi [perché ne abbiamo parlato più di una volta in questi anni] sanno che un antichista, uno studioso di storia antica, lo scrittore rumeno [per lungo tempo in esilio in Francia] Vintila Horia ha raccontato “il diario di Ovidio a Tomi” scrivendo un bel romanzo intitolato Dio è nato in esilio, uno di quei Libri che va letto e poi riletto periodicamente. Vintila Horia crea, nel suo romanzo - in cui s’intrecciano le storie di molti personaggi - una bellissima figura di donna dacia, la donna che aiuta Ovidio nelle faccende domestiche, dal nome simbolico di Dokia, perché in latino Dokia è “colei che insegna” e in greco Dokia è “colei che accoglie”. Ovidio, nella trama del romanzo - s’innamora di Dokia provando un sentimento nuovo: s’innamora della sua persona, della sua cultura solidale, della sua visione del mondo e della sua percezione del destino, e sono queste le qualità - e non l’aspetto fisico, l’eleganza, il comportamento lezioso - che rendono Dokia una donna bellissima agli occhi di Ovidio. Ma lui non osa neppure dichiararsi perché lui - che ha scritto L’arte di amare, un’opera che lo ha reso famoso nel mondo letterario - si accorge di essere sì abile a “mettere in versi l’erotismo” ma di non essere capace “a parlare d’amore” ad una donna che lo rispetta e lo accoglie non perché è famoso ma perché è un uomo condannato all’esilio che riflette e che cerca, con la sua intelligenza, di dare un senso a quello che gli sta accadendo. E poi Dokia è già impegnata sentimentalmente: è la compagna [e hanno anche una figlia piccola] di un ufficiale della guarnigione romana, e allora, leggendo questo romanzo, ci accorgiamo che lì, in quella zona del mondo, sta succedendo qualcosa d’inconsueto e di straordinario.

     Vintila Horia, per bocca di Ovidio, ci racconta una situazione storica e antropologica che noi in Italia, a scuola, studiando la Storia romana, non abbiamo mai approfondito in termini precisi: che cosa sta succedendo nella terra dei Daci? Nella terra dei Daci, ai confini dell’Impero, molti ufficiali e soldati romani hanno cominciato a disertare, a emigrare fuori dai confini dell’Impero, dando inizio ad una crisi irreversibile perché sono stufi della guerra, dell’imperialismo, vogliono cambiare vita e si dileguano, spariscono al di là del Danubio ed entrano a far parte delle tribù dacie, tornado a vivere di agricoltura, di pastorizia e di raccolta selezionata come i loro antichi antenati, come i Latini, i Sabini, i Falischi che abitavano nella valle del Tevere seicento anni prima: ebbene, qui, in Dacia, da questa mescolanza multietnica, prende corpo una nuova nazione, quella che, non a caso, ha preso il nome di Romania. Nel romanzo di Vintila Horia c’è poi, soprattutto, una significativa riflessione filosofica sul concetto del destino, e sul fatto che nessuno - per quanto famoso o potente possa essere - nessuno è padrone del proprio destino, e questo fatto è positivo, è giusto, perché la forza del Destino ci riserva delle sorprese che danno una dimensione sempre nuova, nel bene e nel male, alla nostra vita.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Se è vero che la pandemia ha il potere di farci provare la condizione dell’esilio è altrettanto vero che come antidoto nei confronti di questa condizione possiamo leggere o rileggere il romanzo Dio è nato in esilio di Vintila Horia dopo averlo richiesto in biblioteca...

     E ora concludiamo la lettura del testo del Capitolo IX  della Favola di Filelfo.    

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo IX. Il ritorno del corvo

Il pangolino aveva una zampa insanguinata. Il bambino lo aveva appena acchiappato, ancora stordito dal morso di uno degli enormi pipistrelli succhiasangue che in quelle notti di gennaio volteggiavano molto più numerosi del solito sui tetti delle capanne in cui viveva, le ali nere che si spiegavano come mantelli e la maschera con le orecchie a punta da supereroe. Sembrava che il cavaliere oscuro in persona fosse venuto in soccorso della sua famiglia e le avesse offerto in dono quella preda preziosa, senza bisogno di soffocarla col fumo e prenderla a randellate come fanno di solito i cacciatori. Quasi già sentisse suonare i soldi in tasca, il padre per due yuan comprò un maialino. E nella piccola carovana che si inoltrava tra i banchi rossi di sangue nel sole del mattino il maialino comprato dal padre si strinse al pangolino, morso dal pipistrello, catturato dal bambino, il quale non poteva minimamente presagire che la sua buona caccia avrebbe influito sul destino dell’intera umanità. ...

     Il genere letterario della favola c’insegna che spesso è un fatto apparentemente insignificante ad influire sul destino dell’intera umanità, e questa constatazione dovrebbe rendere ciascuna e ciascuno di noi più responsabile nell’atto di compiere un’azione. Non perdete la prossima tappa di questo viaggio virtuale che si avvia verso la sua conclusione.

     Vi invito a esercitarvi rileggendo il testo del nono capitolo della Favola di Filelfo, e poi vi esorto a fare il compito come è richiesto da ogni punto del REPERTORIO ...  perché il desiderio di apprendere stimola il sistema immunitario e corrobora, rinfranca e ritempra lo spirito.

     Ci risentiamo [fra quindici giorni] per compiere il decimo itinerario di questo Percorso in modo da continuare a studiare insieme in attesa di poter riprendere, speriamo in autunno, a viaggiare in presenza perché lo studio è cura.

     E, infine, un abbraccio a tutte e a tutti voi, nell’ambito di quel significativo paradosso che consiste nel mantenere le distanze restando uniti…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Mercoledì, Maggio 5, 2021