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SULLA VIA CHE PORTA DAL SECOLO DELLA SCIENZA A QUELLO DEI LUMI SI SENTE L’ECO DEL PENSIERO DI PORT-ROYAL SUL TEMA DEL DIVERTIMENTO ...

Lezione N.: 
12

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi   

La sapienza poetica e filosofica dal secolo della Scienza a quello dei Lumi  12-13-14  febbraio  2020

SULLA VIA CHE PORTA DAL SECOLO DELLA SCIENZA A QUELLO DEI LUMI

SI SENTE L’ECO DEL PENSIERO DI PORT-ROYAL SUL TEMA DEL DIVERTIMENTO ...

     Questo è il dodicesimo itinerario del nostro viaggio sulla via che porta dal secolo della Scienza [il ‘600] a quello dei Lumi [il ‘700].

     Dal mese di ottobre abbiamo viaggiato in compagnia di Blaise Pascal e, nel corso dell’itinerario della scorsa settimana, sono stati messi in evidenza i caratteri fondamentali di due opere, cosiddette filosofico-apologetiche, che hanno reso celebre Pascal nell’ambito della Storia del Pensiero Umano. La prima di queste opere s’intitola Le Provinciali e si tratta di un epistolario contenente diciotto Lettere di carattere apologetico scritte in difesa [la parola greca “apologia” significa “difesa”] dei principi contenuti nel pensiero giansenista ed evangelico di Port-Royal attaccato dai Gesuiti, mentre la seconda di queste opere s’intitola Pensieri e, come sapete, visto che ne abbiamo studiato le ragioni, è una delle opere più famose e significative della Storia del Pensiero Umano. Queste due opere fanno del grande matematico e scienziato Blaise Pascal uno studioso che si è guadagnato il titolo di “primo filosofo dell’Età moderna”.

     Perché a Pascal è stato attribuito questo titolo? Perché, fin dagli albori dell’Età moderna, le pensatrici e i pensatori hanno operato spesso involontariamente per far procedere la Filosofia verso la Scienza [tanto che il Seicento, come sapete, è stato denominato “il secolo della Scienza”], mentre lo scienziato Pascal ha pensato bene di agire per riportare la Scienza verso la Filosofia perché se la Scienza non è temperata dalla Filosofia [dalla disciplina che rende le persone “Amanti della Sapienza e della Saggezza”] può diventare “molto pericolosa”, come afferma “il Galileo” di Bertolt Brecht, nell’opera teatrale che abbiamo letto poco tempo fa. Nel momento in cui la Filosofia si è indirizzata decisamente verso la Scienza, Pascal riporta la Scienza verso la Filosofia per dare un indirizzo umanistico alla Scienza, l’unico indirizzo che la Scienza deve avere: e, in questa prospettiva, Le Provinciali e Pensieri di Pascal sono due opere di attualità.

     Sui Pensieri di Pascal torneremo strada facendo [non mancano i contesti che, sul cammino della Storia del Pensiero Umano, rimandano a quest’opera], mentre per quanto riguarda Le Provinciali c’è una serie di riflessioni che dobbiamo fare subito.

     Come abbiamo anticipato alla fine dell’itinerario della scorsa settimana, su Le Provinciali di Pascal c’è una riflessione di stringente attualità che dobbiamo fare subito, una riflessione che ha un carattere positivo perché ci fa pensare che le cose possono [e potrebbero ancor di più e, forse, meno lentamente e con passo più spedito] cambiare.

     Noi abbiamo avuto la possibilità di assistere per la prima volta nella Storia all’elezione di un papa gesuita oltre che latinoamericano e, per giunta, di origini italiane determinate dalla filiera delle migrazioni. Questo fatto ci deve far riflettere perché quando nel 1657 l’opera di  Pascal è stata pubblicata con il titolo di Le Provinciali, o Lettere scritte da Louis de Montalte a un suo amico provinciale e ai Reverendissimi Padri gesuiti a proposito della morale e della politica di questi Padri: quest’opera è stata subito messa all’Indice dal papa dell’epoca [Alessandro VII], mentre oggi il papa gesuita [Francesco] condivide alla lettera i consigli di Pascal contenuti nelle Lettere Provinciali anche perché, gradualmente, nel corso di questi ultimi trecentosessant’anni, i Gesuiti, a cominciare da quelli operanti nel Nuovo Mondo, sono diventati pascaliani.

     Le Provinciali esortano al rigore della fede «incrinato [scrive Pascal] dall’uso propagandistico e mondano della religione» ed esortano al «gravoso dovere dell’amore nei confronti di Dio e del Prossimo, rinunciando a utilizzare in modo scandaloso [afferma Pascal] i simboli della redenzione per propagandare le azioni della propria congrega mai coerenti con lo spirito evangelico, e rinunciando a utilizzare in modo indecoroso i simboli della redenzione forgiati in metallo prezioso a ornamento del proprio abito in spregio a Gesù Cristo, nudo, sulla croce». Le Provinciali, inoltre, esortano alla seria lettura e allo studio assiduo dei testi del Libri della Bibbia, in particolare dell’Epistolario di Paolo di Tarso e della Letteratura dei Vangeli. Scrive Pascal: «I cristiani, a causa di una predicazione orientata principalmente a ottenere consenso e prebende, hanno una conoscenza della Sacra Scrittura fatta di luoghi comuni che hanno trasformato questo patrimonio di sapienza in una palude di insipienza».

     Ne Le Provinciali Pascal sostiene che la lettura e lo studio della Letteratura biblica [o beritica] fa nascere nel cuore della persona la sapienza e l’amore, e anche «la vergogna di non aver fatto abbastanza per la pace visto che molti cristiani vivono nell’odio e nella violenza pensando poi di potersi “lavare” con la pratica dei sacramenti che, se utilizzati in forma meccanica e fiscale, non possono essere la fonte che elargisce la Grazia di Dio». Pascal, nel testo de Le Provinciali, rimprovera ai Gesuiti - artifici della dottrina del probabilismo [se un peccato ha un’ampia diffusione bisogna - sostenevano i Gesuiti - adottare un atteggiamento di maggior comprensione e, quindi, essere accomodanti verso certe debolezze umane] - ebbene, Pascal rimprovera ai Gesuiti di “giustificare la caduta dell’essere umano nel peccato” e di consentire per esempio, contro il comandamento divino, l’omicidio al fine di proteggere il proprio onore e i propri beni: scrive Pascal: «così succede che si diffonde, giustificata e impunita, la consuetudine efferata da parte dei mariti, che si sentono traditi, di uccidere le spose perfino senza prove, e così succede pure che sono in prevalenza, non i furfanti, ma i bambinelli a essere uccisi perché colti a rubare un tozzo di pane ai responsabili della loro fame». Pascal, nel testo de Le Provinciali, ammonisce il cristiano affinché non compaia “nei tribunali di sangue” ma prenda posizione «a favore dei dannati della terra e contro gli ipocriti che ritengono di essere giusti solo perché dicono di credere nello stesso momento in cui ripagano il male con il male. Il cristiano deve sostenere quotidianamente la lotta per cristianizzare fino in fondo la propria esistenza anche se la verità umana [scrive Pascal, coltivando il suo solito pessimismo dovuto alla fragilità della condizione umana] non potrà mai essere la verità incarnata da Gesù Cristo in quanto via, verità e vita».

     Ma l’elemento più significativo e di stringente attualità contenuto nel testo de Le Provinciali riguarda la distinzione che Pascal fa tra il concetto di “rapporto” e quello di “relazione”: Pascal disapprova il fatto che i Gesuiti pratichino una pastorale che tende a farli entrare “in rapporto” [scrive Pascal] con coloro i quali detengono il potere nella società e dei quali non riescono [e s’illudono di poterlo fare] a condizionare le scelte e, quindi, diventano complici della produzione di molti beni materiali destinati a pochi [dello scandaloso squilibrio economico tuttora in corso], fissando i limiti di un ambiente privilegiato dove la spiritualità viene soffocata dall’ingiustizia. Pascal auspica che la persona [colei e colui che sa cristianizzare fino in fondo la propria esistenza] impari a intessere “relazioni” [non solo rapporti] perché le “buone relazioni” favoriscono la creazione di beni utili e indispensabili che fanno fiorire  “la società dello spirito”, per il fatto che «la virtù della relazione [scrive Pascal, pensando a “la relazione” come ad una virtù evangelica] riesce a dare alla vita un assetto comunitario lanciando una sfida alla società individualistica. Ci sono beni che non sono né materiali né il risultato di prestazioni ma sono “beni relazionali”: l’amicizia, la fiducia, la collaborazione, l’affidamento, la condivisione». Da qualche anno, le studiose e gli studiosi di Scienze sociali [magari senza aver mai letto Le provinciali di Pascal  che ne parla dal 1657] hanno “scoperto” un tipo di beni che non sono né cose materiali, né idee, né prestazioni, ma consistono di relazioni sociali [quante nonne e nonni ci sono qui impiegati a tempo pieno per amore e solo per amore?] e, per questo, sono stati chiamati [così come ha fatto Pascal circa 360 anni fa, relazionando sul pensiero e sull’attività di Port-Royal] “beni relazionali”: questi “beni” [Pascal sorride soddisfatto, da sociologo] danno un apporto pratico per la costruzione di una vita buona [come vivere?] e di una buona società di stampo comunitaristico [lo spirito di Port-Royal, che Pascal diffonde attraverso il testo de Le provinciali, è diffuso oggi in quel fenomeno - di natura solidaristica e sentimentale - che chiamiamo “volontariato” al quale bisogna dare - oltre che una veste legislativa funzionale - anche una solida base filosofica perché la Filosofia è la disciplina che determina gli stili di vita].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quali apporti pratici - legati a “i beni relazionali” dell’amicizia, della fiducia, della collaborazione, dell’affidamento, della condivisione - state fornendo?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     Fino ad ora abbiamo puntato l’attenzione prevalentemente sul pensiero emergente dall’area di Port-Royal, un pensiero molto critico nei confronti dei poteri-forti dell’epoca: la chiesa cattolica romana, la monarchia francese, la nobiltà e l’alta borghesia europea. Le monache e i solitari di Port-Royal sono persone che appartengono prevalentemente a famiglie nobili e alto-borghesi e che decidono di entrare in collisione con il loro ceto di appartenenza, e la loro scelta costituisce una forma di ribellione, di rivolta non violenta ma incisiva tanto da suscitare una brutale repressione come abbiamo studiato strada facendo: i due siti di Port-Royal vengono distrutti.

     Perché queste donne [le benedettine di Port-Royal] e questi uomini [i solitari di Port-Royal] non condividono più l’ideologia della loro categoria sociale [sta germogliando il seme delle Rivoluzioni del secolo successivo? Siamo sulla via che porta verso il secolo del Lumi], e non approvano più, in nome della Letteratura dei Vangeli, un’ideologia che giustifica lo sfruttamento della manodopera fornita dalle classi subalterne mediante lo strumento della servitù della gleba che non prevede né salario né garanzie per le lavoratrici e i lavoratori; questa ideologia considerata antievangelica, appartenente al sistema feudale, viene contestata da secoli dall’ordine benedettino che propone un programma e uno stile di vita alternativo, lo stile di vita di Port-Royal mutuato dal pensiero di Ildegarda di Bingen e dalla Consorteria delle badesse.

     Sempre più di frequente [a metà del Seicento] si assiste sul territorio europeo anche a sollevazioni popolari suscitate dalla fame, dalla disoccupazione, dall’ingiustizia, che si traducono in moti violenti, spontanei e disorganizzati, che vengono repressi sanguinosamente dal braccio armato del potere, questa situazione di disagio sociale, che stimola la ribellione, preoccupa i governanti che ritengono opportuno [ed è un metodo antico] adottare dei sistemi per alienare il popolo favorendo la creazione e lo sviluppo di “un sistema di distrazione di massa” [secondo la definizione di Pascal]: per neutralizzare la ribellione, alla gente del popolo, che vive in maggioranza nell’indigenza, viene data l’illusione [scrive Pascal] di potersi divertire [di delocalizzare il pensiero dalla propria condizione] e, tanto per fare un esempio, in tutta Europa si diffonde “la [cosiddetta] rete delle taverne” dove gli uomini possano trovare, a buon mercato [la sera dopo il lavoro], giochi d’azzardo, alcool, fumo e sesso [e su questi fenomeni - ufficialmente dichiarati illegali - il sistema repressivo chiude un occhio e ne favorisce ipocritamente la diffusione perché, piuttosto che entrare in collisione, preferisce entrare in collusione esercitando un sistematico taglieggiamento]. Il sistema di alienazione [di distrazione di massa articolato su vasta scala] ha sempre funzionato bene in ogni epoca con strumenti adeguati [e tuttora funziona].

     Blaise Pascal [a nome di Port-Royal], tanto ne Le provinciali quanto nei Pensieri analizza e denuncia la creazione e lo sviluppo di “un sistema di distrazione di massa” mettendone in evidenza l’elemento paradossale: «Il popolo [scrive Pascal] viene contagiato dal “vizio del divertimento” che, da sempre, è una malattia endemica che colpisce in primo luogo la nobiltà e che [ecco il paradosso] via via si trasmette alla classe abbiente [alla borghesia] e poi al ceto inferiore facendo degradare ancor di più il carattere, già avvilito dalla miseria, della persona subalterna».

     Ma che cosa intende Pascal per “divertimento”? Non intende certo “il fare festa” in relazione alle saghe popolari, o “il giocare” nell’ambito delle attività della tradizione contadina, che sono due “attività relazionali” da preservare. Un aspetto molto significativo [e di attualità] della filosofia di Pascal è la critica al “divertimento” [divertissement], che lui intende [filologicamente parlando] nel senso originario di “deviazione e allontanamento”, dal latino “devertere”, cioè “deviare, allontanarsi”.

     Il “divertimento” [divertissement] - di cui parla in senso negativo Pascal - non è dunque “la festa o il gioco”, ma è ogni azione ed attività che conduce la persona “lontano dal pensare a se stessa” e, quindi, “incapace di considerare la propria interiorità”. L’individuo appartenente alla nobiltà e al ceto abbiente [afferma Pascal, ritenendo le classi superiori le maggiori responsabili del degrado sociale] ricerca ogni forma di divertimento come uno strumento di distrazione, come un diversivo, e scrive Pascal [nel Pensiero 139]: «Il divertimento del nobile è un risibile tentativo di sottrarsi a ciò che genera infelicità nella sua misera vita di benestante, ricco in denaro e in ignoranza, perseguitato dal pensiero della morte e dalla propria pochezza non compensata né dall’abito elegante né dalla comoda carrozza né dal cibo sostanzioso. E non c’è divertimento che possa distrarre dalla infelicità naturale data dalla condizione umana, che è debole, mortale e così miserabile che nulla può consolare, e l’unico atto degnamente umano sarebbe il prendere seriamente in considerazione questa situazione e non rimuoverla». Il divertimento [così filologicamente inteso] è per Pascal una malattia [e con questa considerazione anticipa una riflessione sociologica e filosofica che comincerà ad essere fatta ai primi del ‘900] in quanto l’essere umano cerca di “distrarsi” dalla propria condizione che è [come scrive Pascal] “debole, mortale e miserabile”, ed è per questo che, per affossare la mente, vengono inventate  molteplici attività ludiche illusorie che servono solo “a rendere disattenta la persona in modo che non percepisca la voce scomoda della propria coscienza che dall’interiorità la richiama alla riflessione”. L’essere umano [scrive Pascal] è sempre in movimento perché se si ferma “sente il nulla, e il nulla è inquietante”, ma stare sempre in movimento è dannoso perché “l’essere umano è vero solo nella stasi” [nella calma, nel silenzio, nella quiete, nella pacatezza]. L’esercizio [suggerito da Pascal] che la persona dovrebbe fare di “stare tranquilla [a riflettere] nella propria camera” [“nella propria retrobottega”, direbbe Montaigne] è utile perché serve a far risaltare “l’infelicità esistenziale”: un sentimento che sarà sempre presente nell’animo della persona se la persona è portata [è sollecitata] a credere che il divertimento possa guarirla dalla disperazione, dall’afflizione, dalla depressione, mentre non è una cura ma bensì una droga che fa crescere il suo disagio. A questo proposito Pascal [uno degli artefici, insieme a Montaigne, della lingua francese moderna] tira come sempre in ballo la filologia [la discriminante filologica] e, nel testo de Le provinciali, scrive che «il divertimento non è “une épice” [una droga nel senso di sostanza utile per insaporire le vivande] ma “une drogue” [una sostanza capace di alterare il senso di comprendonio della persona]». [E Pascal sta descrivendo un’esperienza - quella della ricerca del divertimento - che lui ha fatto a suo tempo e dalla quale ne è uscito disgustato].

     Non è il divertimento [afferma Pascal] lo strumento per esorcizzare “la misera condizione umana” [una situazione con la quale dobbiamo imparare a convivere responsabilmente] ma per la persona credente lo è lo studio, la meditazione, la preghiera, la contemplazione, e per la persona che non coltiva una fede religiosa lo è lo studio, la meditazione, la riflessione, la contemplazione. In entrambi i casi, è prima di tutto “lo studio” il vero divertimento che non allontana ma che dà un senso all’esistenza, come dà un senso all’esistenza la contemplazione dell’assoluto da raggiungersi coi mezzi più semplici e senza il ricorso a concetti esprimibili con le parole. Scrive Pascal nel Pensiero 168: «Le persone non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici, garantendosi l’infelicità perpetua». Il “divertimento” [inteso come sistema di distrazione di massa] è una malattia perché, secondo il pensiero di Pascal, distoglie la persona dalla sua unica dignità e dalla sua vera ricchezza, cioè “il pensiero”. La persona [scrive Pascal] capisce di avere una dignità quando prende coscienza, umilmente, che  «il pensiero la rende più di una bestia e meno di un angelo: bisognosa della Grazia di Dio».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Qual è l’ultima festa a cui avete partecipato, e giocando a quale gioco vi siete divertite e divertiti ultimamente?...

Scrivete quattro righe in proposito pensando che le feste e i giochi possono essere sani passatempi e divertenti occupazioni...

     Pascal scrive che “l’essere umano è vero solo nella stasi” [nella calma, nel silenzio, nella quiete, nella pacatezza] e questa considerazione richiama la dottrina Zen che insegna “la contemplazione dell’assoluto da raggiungersi con i mezzi più semplici che ci possano essere, mediante l’intuizione, e senza fare ricorso a concetti esprimibili con le parole”.

     Questo aspetto del pensiero Zen fa riflettere anche il protagonista del Libro di Italo Calvino pubblicato nel 1983 che stiamo leggendo, intitolato Palomar. Sapete oramai perfettamente che l’attenzione del signor Palomar [un nome simbolico che richiama quello che era il più potente telescopio fino alla metà degli anni ‘80] si orienta nella direzione dei molti fenomeni che gli capitano sotto gli occhi perché [come Montaigne] decide di osservare “le cose della vita” scrutandole nei minimi particolari per cercare di interpretarle nel tentativo [come pretende di fare Pascal] di entrare in rapporto con l’universo. Il signor Palomar ogni tanto compie un viaggio e, in occasione di un viaggio in Giappone, viene a trovarsi dinnanzi a uno dei monumenti più famosi della civiltà giapponese: il giardino di rocce e sabbia del tempio Ryoanji di Kyoto. Ma il signor Palomar non riesce a concentrarsi [e le visite turistiche odierne non facilitano certo la contemplazione]: lui è più portato a riflettere utilizzando molte parole.

LEGERE MULTUM….

Italo Calvino,

Palomar

L'aiola di sabbia

Un piccolo cortile ricoperto d’una sabbia bianca a grossi grani, quasi una ghiaia, rastrellata in solchi diritti paralleli o in circoli concentrici, intorno a cinque gruppi irregolari di sassi o bassi scogli. Questo è uno dei monumenti più famosi della civiltà giapponese, il giardino di rocce e sabbia del tempio Ryoanji di Kyoto, l’immagine tipica della contemplazione dell’assoluto da raggiungersi coi mezzi più semplici e senza il ricorso a concetti esprimibili con parole, secondo l’insegnamento dei monaci Zen.  

... continua la lettura ...

     Anche se potesse crearsi [e Pascal dice che è impossibile] un’armonia tra l’umanità e il mondo [rappresentati dalla sabbia e dallo scoglio del giardino zen] questa armonia non potrebbe mai diventare definitiva per il fatto che la condizione umana è “ondivaga” e, sotto un certo punto di vista, questo potrebbe anche essere un vantaggio.

     Tra il pensiero dei “solitari di Port-Royal” - che è contenuto nelle opere filosofico-apologetiche di Pascal - e le opinioni, le convinzioni e i pareri degli appartenenti alla cosiddetta “buona società” francese ed europea dell’epoca [quella formata da coloro che frequentano la corte e i salotti nobiliari] non c’è alcuna armonia: il pensiero di Port-Royal” presente nelle opere filosofico-apologetiche di Pascal è alternativo all’ideologia della classe dominante.

     Però c’è [potremmo dire] una zona grigia nella quale si muovono dei personaggi che vivono nell’ambito della corte e dei salotti dell’aristocrazia senza essere né nobili né alto-borghesi ma provenienti dall’area intellettuale in quanto dediti alla letteratura, al teatro, alla musica e all’arte in generale: costoro captano l’eco proveniente da Port-Royal e, in particolare, sono sensibili alla riflessione sul tema del divertimento utilizzato come strumento di distrazione di massa [secondo il pensiero di Pascal che abbiamo appena studiato] perché essi prendono coscienza [attraverso la risonanza che hanno i testi de Le provinciali di Pascal] di essere coinvolti direttamente nella questione, in quanto, gli uomini di potere [il re, i funzionari di Stato, i membri della nobiltà feudale] pretendono che gli appartenenti all’area intellettuale siano funzionali al sistema di distrazione di massa [producendo opere che divertano e che distraggano sia le classi superiori che quelle inferiori], e questi intellettuali [dediti alla letteratura, al teatro, alla musica e all’arte in generale], nella maggior parte dei casi [sia per non avere grane ma principalmente per avere dei vantaggi] si prestano a fornire la loro competenza. Tuttavia, con le loro opere, cercano [contando sulla loro abilità artistica] tanto di garantire il piacere del divertimento [che dovrebbe distrarre] quanto di non rendere il divertimento solo funzionale all’apparato che tende ad alienare le masse ma vogliono utilizzare lo strumento del divertimento anche come mezzo per suscitare una riflessione.

     Per questo motivo [per questa loro ambigua posizione tipica del movimento libertino al quale fanno riferimento], questi personaggi sono stati definiti “enigmatici” [nei confronti di Port-Royal] e “dissimulatori” [in rapporto agli apparati di potere] perché, pur subendo il richiamo del pensiero di Port-Royal [e dei Pensieri di Pascal], non scelgono di aggregarsi al gruppo dei “solitari” [per condurre una vita secondo la regola benedettina in aperta opposizione con i poteri forti] ma cercano di inserirsi e di vivere nell’ambito della corte e dei salotti dell’aristocrazia con l’intento, in primo luogo, di trovare una collocazione [facendosi mantenere] all’interno di un ambiente privilegiato, in cambio della produzione di opere letterarie [di vario genere: dalla favola al teatro al melodramma] dedicate ai loro protettori: a questi essi  si rivolgono con spirito di adulazione, però, senza condividerne propriamente la mentalità, sebbene, a parole, facciano finta di approvarla [ed ecco da dove deriva la qualifica di “dissimulatori”] mentre per iscritto [attraverso varie forme di scrittura] trovano, con abilità, il modo per dissimulare, e per colpire, mediante la dinamica della comicità - funzionale al divertimento ma finalizzata a far riflettere - tutta una serie di comportamenti, spesso grotteschi, tipici dei maggiorenti, che vengono camuffati [persino, come vedremo prossimamente, travestiti da animali o da borghesucci che vogliono fare come i nobili] in modo che non sembrino propriamente degli uomini di potere ma delle innocue caricature [coltivando, in chiave moderna, l’arte antica della finzione letteraria].

     Cominciamo, quindi, la nostra escursione in questa zona grigia dal colorato mondo del teatro [in modo che la zona grigia si possa vivacizzare] e, a questo proposito, dobbiamo prendere atto [e lo abbiamo già fatto a suo tempo, nel corso degli ultimi viaggi] del fatto che il Seicento è anche il secolo del Teatro [non solo della Scienza, ed è per questo motivo che nei viaggi degli anni scorsi abbiamo avuto a che fare spesso con questo genere letterario]. Sappiamo che per i fruitori altolocati [come i monarchi, i nobili, gli ecclesiastici] il teatro è sinonimo di “divertimento” mentre per chi il teatro lo fa [lo scrive e lo recita] il divertimento non è il fine del teatro ma è il mezzo per stimolare la riflessione sulla condizione umana che diventa [perché lo è dalle origini] il vero motivo che giustifica l’esistenza del teatro [anche di quello che potrebbe sembrare più becero e più sguaiato come l’antico genere priapeo].

     Uno dei personaggi più significativi per quanto riguarda la storia del teatro, e che stiamo per incontrare, è universalmente conosciuto almeno di nome, si chiama Jean-Baptiste Poquelin, detto Molière.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete recentemente partecipato ad uno spettacolo teatrale?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Chi è Jean-Baptiste Poquelin detto Molière con il quale la nostra attenzione si sposta, momentaneamente, da Port-Royal al Palais Royal, e che cosa significa trasferire l’attenzione al Palais Royal?

     Jean-Baptiste Poquelin detto Molière è nato a Parigi il 15 gennaio del 1622 [l’anno precedente alla nascita di Pascal] ed è il figlio di un mercante di stoffe che si arricchisce quando, per la sua competenza, viene assunto a corte come “tappezziere” [vincendo un appalto di lusso] e, quindi, il signor Jean Poquelin, nominato cameriere del re, diventa un borghese benestante che avrebbe voluto il figlio al lavoro al suo fianco, ma Jean-Baptiste non ha intenzione di svolgere l’attività del padre e di fare carriera a corte. A dieci anni Jean-Baptiste perde la madre, Marie Cressé, e questo fatto ha lasciato un fondo di tristezza nel suo carattere. Suo nonno materno, Louis Cressé, lo fa appassionare fin da bambino al teatro perché lo porta spesso all’Hotel de Bourgogne [presso il Pont Neuf] dove recitano le compagnie italiane della Commedia dell’Arte, ed è proprio il nonno a fargli capire che il genere del teatro avrebbe dovuto fare un salto qualitativo. È per questo che Jean-Baptiste si dedica volentieri agli studi umanistici [vuole approdare all’esperienza teatrale - se mai gli riuscirà di farla - preparato intellettualmente] ed è contento quando suo padre, che invece pensa di distrarlo dalla passione teatrale, lo iscrive nel 1635 nel prestigioso Collegio di Clermont gestito dai gesuiti. Poi Jean-Baptiste frequenta la facoltà di diritto nella rinomata Università di Orleans, ma quando nel 1641, dopo essersi laureato, torna a Parigi, entra in contatto con la compagnia del capocomico napoletano Tiberio Fiorilli detto Scaramuccia [l’inventore del personaggio di Scaramouche] che, con sua moglie, l’attrice palermitana Elisabetta Del Campo [detta Marinetta] sta portando delle innovazioni in teatro: la vocazione teatrale di Jean-Baptiste non viene meno [come avrebbe voluto suo padre] ma aumenta e, di conseguenza [dopo aver rinunciato alla carica di tappezziere reale], insieme alla famiglia Béjart [Joseph, Geneviève e Madeleine], nel 1643, fonda la compagnia dell’Illustre-Théâtre che, dopo due anni di attività, fallisce. Jean-Baptiste [al quale il padre ha tagliato i viveri] si è molto indebitato nel corso di questa impresa e i creditori lo denunciano per insolvenza e viene condannato a sei mesi di galera, ma dopo tre mesi, Madeleine Béjart, con la quale Jean-Baptiste intesse una relazione, raccoglie il denaro per saldare i debiti e lui ottiene la scarcerazione.

     L’attrice Madeleine Béjart [1618-1672, detta “La rossa” per il colore dei suoi capelli] ha quattro anni più di Jean-Baptiste ed è una persona colta [sa suonare diversi strumenti oltre ad essere una brava ballerina] e sa ben gestire l’attività teatrale: sa interpretare vari personaggi, sa affidare le parti, sa organizzare le prove, sa giudicare la validità dei testi da recitare. Madeleine ha avuto una relazione con Esprit de Raymond de Mormoiron barone di Modène [una sorta di cavaliere di ventura amante delle Lettere e della poesia] dalla quale è nato un bambino [Gaston de Raymond de Modène, futuro barone di Gourdan] e, poco prima di costituire la compagnia de dell’Illustre-Théâtre, Madeleine, molto probabilmente ha partorito una bambina: Armande Béjart. Come sarebbe a dire “molto probabilmente”? Sarebbe a dire che sulla nascita e sulla paternità di questa bambina [si pensa sempre al barone di Modène] non si sa nulla di preciso, e Madeleine ha sempre dichiarato che Armande è sua sorella [e sui documenti c’è scritto che è figlia di Joseph Béjart e di Marie Hervé: il padre e la madre di Madeleine] ma tra Madeleine e Armand ci sono ben ventiquattro anni di differenza, un po’ troppi!

     Ma di Armande Béjart sentiremo ancora parlare, fra poco, strada facendo. Intanto Madeleine e Jean-Baptiste [appena scarcerato] entrano a far parte della “compagnia di giro” del celebre comico Charles Dufresne. I membri di “una compagnia di giro” vivono su carri - e il carro dei teatranti girovaghi, in greco si chiama “scené” [da cui deriva la parola “scena”] - e questo carro funge anche da palcoscenico [secondo la tradizione del teatro greco delle origini, quella del Carro di Tespi], e per dodici anni Jean-Baptiste viaggia per la provincia francese con questa compagnia che porta in giro i canovacci della commedia dell’Arte nelle aie dei villaggi, nei borghi e sulle piazze delle città, quelle più tolleranti con i teatranti: Nantes, Bordeaux, Tolosa, Avignone, Lione, Grenoble e Rouen. Questo periodo [dal 1645 al 1657, sconosciuto della sua vita] è stato certamente utile per la formazione come attore e scrittore di Jean-Baptiste.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una carta della Francia che trovate su un Atlante geografico [sicuramente presente nella vostra biblioteca domestica] e navigando in rete andate a percorrere l’itinerario “Nantes, Bordeaux, Tolosa, Avignone, Lione, Grenoble e Rouen”  sul quale [da aprile a ottobre] si muoveva la compagnia di giro di Charles Dufresne...

Avete fatto qualche esperienza di recitazione?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     La dura e rischiosa vita dei teatranti corrisponde a quello che è stato chiamato “un accattonaggio artistico”: si esibiscono per racimolare appena il necessario per mangiare. Qual è il programma di una compagnia di giro come quella del capocomico Charles Dufresne?

     Una compagnia di giro come quella di Charles Dufresne presenta un programma simile a quello del teatro primordiale [quello ellenico di 2500 anni fa] basato su un genere detto “priapèo”, buono per essere compreso a livello popolare, e basato sull’improvvisazione. Del genere priapèo restano delle citazioni [delle battute salaci] che sono entrate nelle opere degli scrittori di teatro più importanti, soprattutto nei Drammi di Euripide, nelle Commedie di Aristofane e in quelle latine di Plauto, Nel genere “priapèo” l’attore principale interpreta la figura del dio Priàpo [figlio di Dioniso e di una Naiade, che abbiamo incontrato qualche anno fa sulla scia della parola-chiave “fascino” studiando gli Epigrammi di Marziale], che è il protettore degli ovili, dei pollai, degli orti, e viene rappresentato [in statuette di terracotta o di legno di fico , molte in mostra in tanti musei] come un ometto molto brutto, nudo, e con un grande fallo in erezione [ed è il dio che punisce i ladri riducendoli all’impotenza e per questo le sue statuette venivano esposte negli ovili, nei pollai, negli orti: e funzionavano benissimo da antifurto]: l’attore che rappresenta Priàpo appare sulla scena con un travestimento tutto incentrato su un enorme fallo [di cartapesta: ò fascinos, in greco], e si presenta come una figura ridicola e oscena ma anche nostalgica e velata di tristezza.

     Questo personaggio viene ridicolizzato dal coro, e rappresenta [perché, fin dalle origini, il teatro ha un fine catartico] l’individuo vittima dell’ignoranza che, per risolvere i suoi problemi, fa affidamento sulla superstizione: piuttosto che far appello al proprio cervello [al pensiero, ò logos, ragionando con la propria testa], si affaccenda intorno al proprio fallo [ò fascinos] credendolo un amuleto e, quindi, ne nasce una rappresentazione satirica, comica, ma anche velata di tristezza [satira ridanciana e riflessione seriosa vanno di pari passo]. Questo tipo di rappresentazione diverte, commuove e attira il popolo, ma a Jean-Baptiste la forma dei canovacci ripetitivi sta molto stretta [pensa sia necessario andare al di là di questo schema]: lui vuole impegnarsi a scrivere delle vere commedie visto che gli strumenti non gli mancano e che, come teatrante, ha già fatto una lunga gavetta. Difatti, nel 1655 [mentre la compagnia di giro di Dufresne, della quale Jean-Baptiste ha preso le redini, sta svernando a Lione] mette in scena alcune sue partiture [Lo stordito, Il dispetto amoroso, Le ridicole] firmandosi con lo pseudonimo di Molière [o dal nome - Molières - di un villaggio della Dordogna o in onore dello scrittore François de Molière]: queste rappresentazioni hanno un successo straordinario in tutte le città dove la compagnia fa tappa, e quando, nel 1658, Molière ritorna a Parigi viene invitato dal re, Luigi XIV, un re che vuole divertirsi [vuole distrarsi per rimuovere l’angoscia, dice Pascal]. Molière organizza uno spettacolo per la corte ma, con grande intelligenza, non inizia da se stesso ma la sua compagnia recita, in prima istanza, un’opera seria e impegnativa, la tragedia Nicomède scritta nel 1651 dal celebre drammaturgo Pierre Corneille e, di seguito, presenta una sua farsa, l’atto unico intitolato Il dottore innamorato [Le médicin volant]. Il re si diverte molto, e per la corte Molière diventa un divo: gli viene concesso l’uso della sala del Petit-Bourbon e, poi dall’ottobre del 1660 quella del Palais-Royal.

     Il successo di Molière - in quanto direttore, attore e scrittore - è clamoroso, e lui non si risparmia, e viene sempre protetto da Luigi XIV ogni volta che viene attaccato da molti [soprattutto dai membri della nobiltà] per invidia e per ragioni ideologiche perché Molière, con grande abilità [visto che appartiene alla categoria degli “intellettuali dissimulatori” e intercetta l’eco di Port-Royal sul tema del divertimento come sistema di distrazione di massa], attacca [sebbene non sembri] le istituzioni di potere: Molière vuol far riflettere il pubblico [ci si deve divertire per pensane non per rimuovere il pensiero], e il re-Sole [che si sente dio in terra, ipocrita com’è], si diverte a proteggere Molière «per far rabbia [dice lui] a quelli a cui Molière fa rabbia». Molière utilizza gli schemi della commedia dell’Arte [all’italiana del Barbieri e del Secchi] per costruire un moderno teatro popolare, comprensibile a tutti, comico, scritto in prosa piuttosto che in versi, ricco di contenuti psicologici e sociali. Molière è un acuto osservatore che mette in scena in modo incisivo la società del suo tempo dominata dall’aristocrazia e dalla borghesia, ridicolizzandone tutti i vizi, ma il suo giudizio appare [e qui rivela tutta la sua arte dissimulatoria] sempre cordiale, è come se dicesse in modo giustificatorio “buttiamola in ridere”, ma in questa risata c’è una condanna senza appello nei confronti del malcostume dei maggiorenti: dell’ipocrisia, del perbenismo interessato, del bigottismo, del tartufismo [nascono neologismi perenni]. Il personaggio di Tartufo di Molière è un classico: un furfante avido, un finto devoto, e questa commedia viene proibita perché gli ecclesiastici [così come i nobili e i borghesi] ci si riconoscono tutti [e non gradiscono]!

     La produzione di Molière è vasta [per le musiche si è avvalso spesso della competenza del musicista Gian Battista Lulli, del quale con l’enciclopedia e sulla rete potete far conoscenza] e i trentuno testi pervenutici delle sue opere teatrali si possono richiedere in biblioteca in modo da poterli leggere perché poi, quando capita l’occasione, si può andare [preparate e preparati] a teatro o al cinema [e anche in rete] per vederli rappresentati [un certo numero di Commedie di Molière sono diventate film]. Le opere più rappresentate di Molière [quelle che questa sera sono in cartellone] nei teatri di tutto il mondo sono: Le preziose ridicole, La scuola delle mogli e La critica della scuola delle mogli, Tartufo, Don Giovanni o il convitato di pietra, Il misantropo, L’avaro, Il borghese gentiluomo, Le furberie di Scapino, Il malato immaginario.

     La sera del 17 febbraio del 1673 [esattamente 347 anni fa], al teatro del Palais-Royal, durante la quarta rappresentazione, mentre recitava proprio Il malato immaginario, Molière [a metà del terzo atto] cade in mezzo al palcoscenico e morirà alcune ore dopo [era da tempo malato di tubercolosi], e il pubblico gli tributa l’ultimo caloroso applauso senza sapere che, anche questo teatrante, fa avanzare la Storia del Pensiero Umano sulla strada che porta verso il secolo dei Lumi. Naturalmente come si usa dire “lo spettacolo deve continuare” e la compagnia viene diretta per un certo periodo di tempo dalla vedova di Molière: Armande Béjart, sì perché nel 1662, Molière ha sposato Armande la presunta sorella di Madeleine Béjart che è certamente sua figlia. Armande Béjart nel 1689 partecipa con la sua compagnia [la Maison Molière] alla nascita della Comédie française, un’istituzione sovvenzionata dallo Stato e tuttora in attività.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida di Parigi e navigando in rete è d’obbligo fare una visita al Palais-Royal fatto costruire da Richelieu nel 1639 su progetto dell’architetto Le Mercier Il cardinale vi ha abitato fino alla morte e ha lasciato il suo Palazzo in eredità al re Luigi XIII...  Oggi il Palais-Royal, con il suo giardino, è una vera e propria oasi di pace nel centro parigino e ospita varie Istituzioni tra le quali il Ministero della Cultura...   Fate visita al Palais-Royal...

     Nel testo del Don Giovanni o il convitato di pietra di Molière si alternano scene comiche a parti di profonda riflessione psicologica ed esistenziale che hanno come obiettivo quello di colpire in modo satirico “la vanità virile degli uomini”, tanto che le rappresentazioni di quest’opera [siccome infastidivano] sono state presto sospese.

     Ebbene, da questa commedia di Molière ha preso spunto lo scrittore Vitaliano Brancati per scrivere il romanzo intitolato Don Giovanni in Sicilia nel quale conia il temine “gallismo” per ridicolizzare il manifestarsi della vanità di quei maschi che esaltano [fuor di misura] la loro potenza virile facendone una ragione di vita.

     Lo scrittore Vitaliano Brancati è nato a Pachino in provincia di Siracusa nel 1907 in una famiglia borghese. In gioventù aderisce al fascismo ma ben presto si pente di aver fatto questa scelta raccontando - nel suo primo romanzo intitolato Gli anni perduti [pubblicato nel 1941 di cui si consiglia la lettura] - come l’enfasi ottusa e retorica del regime aveva frustrato la sua ironia.

     Brancati, laureato in Lettere all’Università di Catania, ha insegnato nella Scuola pubblica a Caltanissetta e ha fatto il giornalista, stringendo amicizia con Leonardo Sciascia. Nel 1941 [all’inizio della seconda guerra mondiale] pubblica Don Giovanni in Sicilia in cui affronta il tema del “gallismo” [della vanità di quei maschi che esaltano, fuor di misura, la loro potenza virile facendone una ragione di vita] e lo fa in modo molto ironico, con lucidità e con sofferenza, anche perché quella del “gallismo” è una metafora: la metafora dell’errore fatto dagli italiani di aver dato retta a “un gran gallo nazionale” [il duce del fascismo affetto dalla sindrome priapea con la quale infetta la nazione] con la conseguente trasformazione della società civile in un pollaio starnazzante e non pensante che, di lì a poco, prenderà fuoco. Brancati racconta - in modo seducente e crudele, con una scrittura corrosiva e accattivante - la storia di Giovanni Percolla e dei suoi amici che sono ossessionati dall’idea e dall’incubo della conquista della donna, mentre intorno a loro tutto precipita e tutto si corrompe. Questo romanzo [ricco di problematiche di attualità], comunica un profondo disagio esistenziale, ed è la storia di un’illusione e di una sconfitta, ma fa anche ridere e divertire [e i galli non sono ancora finiti tutti in pentola! Ne circolano ancora molti]. Nel 1946 Brancati ha sposato la nota attrice Anna Proclemer, e nel 1949 pubblica un altro romanzo famoso intitolato Il bell’Antonio.

     Tra le molte opere teatrali che Brancati ha composto spicca il dramma La governante la cui rappresentazione nel 1952 viene vietata dalla censura perché tratta il tema dell’omosessualità femminile. Vitaliano Brancati è morto prematuramente a Torino nel 1954 a seguito di un’operazione chirurgica, e aveva appena riordinato le carte del suo ultimo romanzo Paolo il caldo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Le teatrali storie di Giovanni [Don Giovanni in Sicilia], di Antonio [Il bell’Antonio] e di Paolo [Paolo il caldo] scritte da Vitaliano Brancati meritano di essere lette, le trovate in biblioteca...

     E ora, per concludere, leggiamo l’incipit di Don Giovanni in Sicilia.

LEGERE MULTUM….

Vitaliano Brancati,

Don Giovanni in Sicilia

Giovanni Percolla aveva quarant’anni, e viveva da dieci anni in compagnia di tre sorelle, la più giovane delle quali diceva di essere vedova di guerra.    Non si sa come, nel momento in cui pronunciava la frase, ella si trovava con una matita e un foglietto in mano, e subito si poneva a scrivere dei numeri, accompagnandosi con le parole: «Quando io ero in età da marito, scoppiò la grande guerra. Ci furono seicentomila morti e trecentomila invalidi. Alle ragazze di quel tempo, venne a mancare un milione di probabilità per sposarsi. Eh, un milione è un milione! Non credo di ragionare da folle se penso che uno di quei morti avrebbe potuto essere mio marito!».    «Giusto!» diceva l’altra sorella. «Giusto! Eri molto graziosa al tempo della guerra!»   Si chiamavano Rosa, Barbara e Lucia, e si amavano teneramente, sino al punto che ciascuna, incapace di pensare la più piccola bugia per sé, mentiva volentieri per far piacere all’altra...

     Proseguite per conto vostro nella lettura: dovreste divertirvi.

     Sulla via che porta dal secolo della Scienza a quello dei Lumi l’eco del pensiero di Port-Royal [che invita alla riflessione sul tema del divertimento come sistema di distrazione di massa] influenza i generi letterari a cominciare dal teatro: Molière [come abbiamo imparato questa sera] è un acuto osservatore che mette in scena, in modo incisivo, la società del suo tempo dominata dall’aristocrazia e dalla borghesia, ridicolizzandone tutti i vizi, ma anche chi scrive Tragedie in versi e chi scrive Favole vuole perseguire questo obiettivo. Al celebre scrittore Stendhal un giorno viene chiesto: «Chi è il più grande poeta di Francia?» e lui risponde: «Il più grande poeta di Francia è Jean de La Fontaine, l’autore delle Favole». Chi è Jean de La Fontaine [e anche lui intercetta l’eco di Port-Royal]?

     Per rispondere a queste domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé e, quindi, consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, non perdete la prossima Lezione perché, poi, tra quindici giorni, ci sarà la pausa di fine febbraio per poter attutire l’impatto del giorno in più come prevede l’anno bisestile.

     E, infine, Jean de La Fontaine per presentarsi si sente in dovere di suggerirci la morale [se di morale si può parlare] di una delle sue Favole [che leggeremo alla fine del prossimo itinerario]: «Il saper parlare con voce dolce e con parole belle | consente a volte di salvar la pelle» e, sperando di poter udire voci dolci e di poter sentire parole belle, la Scuola è qui, e il viaggio continua [signori cari e signore belle!]…

 


 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 14, 2020