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SUL TERRITORIO DEL SECOLO DELLA SCIENZA SI RIFLETTE SULL’ESISTENZA E SUL SIGNIFICATO DEL DUBBIO, DELL’IO E DI DIO ...

Lezione N.: 
17

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi 

La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza   3-4-5  aprile 2019

SUL TERRITORIO DEL SECOLO DELLA SCIENZA

SI RIFLETTE SULL’ESISTENZA E SUL SIGNIFICATO DEL DUBBIO, DELL’IO E DI DIO ...

     Questo è il diciassettesimo itinerario del nostro viaggio, e, come sapete, siamo entrate ed entrati nel territorio del ‘600, il secolo della scienza dopo aver compiuto un lungo tragitto in compagnia di Michel de Montaigne, l’autore dei Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano, dalla quale abbiamo tratto una ventina di pensieri su cui riflettere che hanno dato forma a un catalogo.

     Nelle ultime settimane, sulla scia di Montaigne, abbiamo incontrato come sapete prima Francis Bacon, l’autore del Nuovo Organo, vale a dire di uno strumento nuovo [moderno] utile a stabilire il dominio dell’Essere umano sui fenomeni della Natura, e autore de La nuova Atlantide, un’opera utopica in cui Bacon formula un moderno concetto di scienza perché considera il sapere scientifico non come l’opera di singoli sapienti che studiano ed esperimentano ognuno per conto proprio, ma come l’attività di una comunità ben organizzata di ricercatori [la comunità scientifica] tesa a migliorare il modo di pensare e le condizioni di vita dell’intero genere umano. Poi abbiamo incontrato Renato Cartesio e il suo amico padre Marin Mersenne del quale quindici giorni fa abbiamo messo in evidenza le doti esegetiche [è il personaggio di punta del “movimento esegetico moderno”, ed è molto abile a non uscire mai dal perimetro dell’ortodossia e a risultare insospettabile ai giudici dell’Inquisizione] perché è l’autore di “un manifesto” direttamente collegato, come sapete, ai concetti contenuti nel testo del Primo Libro dei Re, che possa giustificare teologicamente, con un linguaggio appropriato tale da non suscitare polemiche, la bontà della ricerca scientifica, che implica la Sapienza, e l’efficacia del metodo sperimentale, che implica la Saggezza, perché Dio - essendo Lui stesso Sapienza - ama la persona che si avvicina con buona volontà alla Conoscenza, alla Sapienza, alla ricerca condotta a fin di Bene. Ma, prevalentemente, ci siamo intrattenute e intrattenuti con Renato Cartesio del quale abbiamo studiato i punti salienti della sua biografia [nella vita di Cartesio ci sono una serie di periodi non descrivibili perché mancano dati certi per verificare i suoi comportamenti ed è meglio soprassedere piuttosto che dare credito a delle leggende come spesso fanno i suoi numerosi biografi]; poi abbiamo studiato i punti rilevanti del contenuto delle sue Opere e, in particolare, abbiamo enunciato le regole dell’evidenza, dell’analisi, della sintesi e della revisione descritte nel Discorso sul metodo, che viene considerata l’opera più importante di Cartesio anche per il suo valore divulgativo e autobiografico. E ora in compagnia di Renato Cartesio riprendiamo il nostro cammino sul territorio del Seicento, il secolo della scienza: per percorrere l’itinerario di questa sera dobbiamo camminare su un sentiero particolarmente impervio ma Cartesio, sebbene abbia abitato quasi sempre nei Paesi Bassi, quando pensa ama stare in alto.

     Renato Cartesio, nella prima regola fondamentale del suo metodo - “la regola dell’evidenza” - sostiene che è necessario accettare per vere solo le conoscenze che sono chiare e distinte. Ma è evidente che la persona, per arrivare a stabilire se una cosa, una conoscenza, è chiara e distinta, passa inevitabilmente attraverso l’esperienza del dubbio: è praticamente impossibile, afferma Cartesio, che ogni persona non si domandi se “una cosa [una conoscenza] sia davvero [sia indubbiamente] chiara e distinta”. Quindi, per arrivare a stabilire “il valore della certezza di una conoscenza [di una cosa]”, l’essere umano parte sempre da “un dubbio”. Per esempio: «Questa parete è più lunga o più corta di quella? Come mi sembra? Ebbene, nel dubbio la misuro, soprattutto se ho fatto una scommessa». Ed è proprio “nel dubbio” che la persona è portata ad analizzare, a sintetizzare, a revisionare e a dichiarare l’evidenza. E che significato ha il fatto che la persona giunga all’evidenza attraverso il dubbio? Se ogni persona giunge all’evidenza attraverso il dubbio significa che “il dubbio” è un vero e proprio metodo di lavoro: “il dubbio è metodico”. E a noi questa affermazione può sembrare ovvia [con tutti i dubbi che ci assillano] ma bisogna considerare il fatto che - mentre Cartesio riflette su questo tema - il dubbio [l’atteggiamento dubbioso, il ragionamento dubitativo] viene ritenuto dalla teologia tridentina [dal Documento sulla Fede emanato dal concilio di Trento conclusosi nel 1564] come qualcosa di peccaminoso”, ed ecco perché le Opere di Cartesio - nel testo delle quali l’autore tratta il dubbio come un valore - subiscono una condanna e vengono messe all’Indice. Nel Discorso sul metodo Cartesio afferma che “il dubbio è metodico, e non è sistematico”, che cosa significa? Intanto chissà quante volte oggi abbiamo già pensato e detto: «Mi viene il dubbio che …».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

«Dubitare - afferma Cartesio - è una condizione necessaria per conoscere»...  Di fronte a quali temi esistenziali e a quali situazioni concrete voi coltivate maggiormente dei dubbi?...

Scrivete quattro righe in proposito, senza dubitare del fatto che “scrivere è un utile esercizio”...

     Cartesio afferma che “il dubbio è metodico, e non è sistematico”: perché fa questa distinzione? Cartesio fa questa distinzione tra il dubbio metodico soggetto a determinate regole e il dubbio sistematico senza condizioni di sorta perché di questo tema se n’è già occupato Montaigne nel testo dei Saggi facendo un’affermazione sulla quale Cartesio dubita.

     Sul tema del “dubbio” le opinioni di Cartesio divergono da quelle di Montaigne il quale ha studiato la questione con grande interesse riportando le sue riflessioni in particolare nel capitolo XXVI del Libro I dei Saggi intitolato Dell’educazione dei fanciulli, sostenendo la tesi del “dubbio sistematico”, infatti scrive: «Noi dubitiamo su tutto, su tutte le conoscenze che abbiamo acquisito, ed è evidente_che l’unica cosa certa è il dubbio, e il nostro atteggiamento più vero è quello del dubitare. E, di conseguenza, tutto il sistema dell’acquisizione del sapere è avvolto nell’alone del dubbio che si dimostra un atteggiamento sistematico senza condizioni di sorta». Quindi, per Montaigne, il dubbio è nettamente un comportamento incondizionato e fine a se stesso. Cartesio non è convinto [dubita!] di questa conclusione di Montaigne e, per questo motivo, decide [proprio come gli avrebbe consigliato di fare Montaigne] di dedicarsi allo studio di questo tema che non è nuovo nella Storia del Pensiero Umano e, di conseguenza, Cartesio comincia, con impegno, a passare in rassegna le idee sul “tema del dubbio” contenute nel pensiero degli Atomisti, degli Epicurei, degli Stoici, degli Scettici, di Agostino di Ippona, di Anselmo d’Aosta, di Tommaso d’Aquino, di Duns Scoto, di Bernardino Telesio, di Giordano Bruno, di fra’ Tommaso Campanella e di Galileo Galilei [tutte correnti di pensiero e pensatori che, a suo tempo, abbiamo incontrato nei nostri viaggi]. Cartesio, in particolare, aderisce al pensiero di Agostino di Ippona e valuta con interesse anche l’opinione di Anselmo d’Aosta, di Tommaso Campanella e di Galileo Galilei.

     Perché Cartesio è attratto, in particolare, dal pensiero di Sant’Agostino? Cartesio prende spunto dalle Confessioni, la famosa opera di Sant’Agostino del 401, e dal capitolo 26° del Libro XI della De civitate Dei , La città di Dio”, altra importante opera di Sant’Agostino del 426, per studiare il tema del dubbio, e “dall’io dubito” delle Confessioni] approda alla questione del “cogito, io penso” del capitolo 26° del Libro XI della De civitate Dei. Sant’Agostino afferma “Dubito quindi penso e, se penso, sono”, ma Cartesio dubita, e vuole ulteriormente riflettere su questa affermazione.

     Cartesio è attratto dal pensiero contenuto nelle Opere di Sant’Agostino perché l’insegnante che lo ha indirizzato verso lo studio della Filosofia è padre Pierre Bérulle, un agostiniano, fondatore a Parigi nel 1611 della Congregazione dell’Oratorio. Ebbene, dopo aver studiato con impegno il fenomeno in questione, Cartesio tira le fila della sua riflessione sul “concetto di dubbio strettamente legato al tema della conoscenza [«Quando la persona dubita - scrive Cartesio in Meditationes (Meditazioni sulla prima filosofia) - deve essere consapevole che questo evento è legato al fenomeno della conoscenza contrariamente fa solo frullare a vanvera la propria mente rendendola sospettosa e non degna di saggezza»]”, e in che modo Cartesio sviluppa la sua riflessione? Cartesio, in primo luogo affrontando il problema gnoseologico, della conoscenza, si domanda [una domanda che tutte le persone dovrebbero imparare a farsi] come avviene il processo della conoscenza: come fa la persona a conoscere? La persona, afferma Cartesio, conosce su due piani: quello sensibile e quello razionale ma, in entrambi i piani [è assodato, sostiene Cartesio], s’insinua il dubbio perché l’Essere umano è portato sempre a dubitare sia sul piano della conoscenza sensibile sia su quello della consapevolezza razionale. La persona dubita tanto del mondo che la circonda quanto della sua stessa ragione, e questo procedimento tocca anche la Matematica perché, sebbene sia la più certa di tutte le discipline, tuttavia, anche i postulati, i principi e gli esatti risultati matematici, vacillano.

     La persona, sostiene Cartesio, possiede la facoltà “di spingere il dubbio all’eccesso”, e la mente della persona può produrre “un dubbio iperbolico” [esagerato, eccessivo, smisurato] e questo fatto, però, porta anche a “dubitare del dubbio stesso”, e scrive Cartesio, in Meditationes (Meditazioni sulla prima filosofia): «Potrebbe esserci un Diavoletto maligno che abbia foggiato la mia mente in modo tale da farle apparire come vero ciò che invece è falso. Che cosa mi dice questo? Mi suggerisce che tutto è in dubbio, e questa è una cosa evidente. Se c’è una certezza, questa certezza è che io dubito di tutto! E questo ragionamento mi fa capire che l’idea della certezza esiste! Io posseggo, dubitando, l’evidenza della certezza, infatti, io posso dubitare di tutto e di tutto posso ingannarmi, ma non posso certo dubitare del fatto che io sto dubitando, cioè non posso dubitare del fatto che io penso di ingannarmi. Se dubito, penso di ingannarmi e, se penso di ingannare proprio me stesso, allora io esisto, e la mia esistenza si identifica con il mio pensiero». Per sintetizzare questa riflessione contenuta nella seconda delle sue Meditazioni sulla prima filosofia, Cartesio crea una notissima formula e la scrive in latino: «Cogito, ergo sum»[Penso, quindi sono].

     Ma Cartesio, che continua a domandarsi come possa avvenire il processo della conoscenza, vuole portare avanti la sua riflessione e s’interroga su che tipo di ragionamento abbia utilizzato per trarre la conclusione che ha tratto: Cartesio si chiede se abbia utilizzato il ragionamento deduttivo, cioè si domanda e lo scrive nella seconda delle sue Meditazioni sulla prima filosofia: «Prima ho pensato, e poi sono arrivato a dire che sono io che penso? Cioè prima c’è l’azione del pensare, oppure, prima c’è la mia essenza dalla quale è partito il pensiero che sono io che penso? Insomma [si domanda e scrive Cartesio], prima c’è “l’io penso, c’è il pensare” oppure prima c’è “l’io sono, c’è l’essere”? [E noi, afferma Cartesio, siamo subito portati a dire che prima c’è “il sono” e poi c’è “il penso”, ma se prima non penso di essere, ribadisce Cartesio, come faccio a dire che sono? Come la mettiamo? Come ragiono in proposito?] E l’affermazione “Cogito, ergo sum” a che tipo di ragionamento corrisponde? Ebbene, ritengo che non si tratti di un semplice ragionamento deduttivo [un procedimento logico dall’universale al particolare] ma di un’intuizione [dal verbo latino “intueor, vedo dentro”, che esprime una percezione diretta, immediata di una cosa] e, di conseguenza [afferma Cartesio conciliante ma in contraddizione], prima “io intuisco che sono io” e poi “deduco che io penso”. E ritengo che questa sia un’intuizione immediata, anteriore a ogni ragionamento deduttivo, per cui posso affermare che “io intuisco il mio essere nel pensare”. Io, in quanto penso, intuisco di essere questo stesso pensiero, e il mio essere si identifica con il mio pensare, e intuisco e verifico che, per pensare, bisogna necessariamente esistere». Cartesio è soddisfatto di questa sua riflessione se non fosse che, poco dopo [dopo aver riletto ciò che ha scritto], gli viene un dubbio (e te pareva!), e questo dubbio lo fa venire anche a noi, che, come Cartesio, abbiamo studiato la Logica di Aristotele! Cartesio [dopo aver riletto ciò che ha scritto] capisce subito che l’affermazione “Cogito, ergo sum” corrisponde inequivocabilmente a un sillogismo aristotelico [a un ragionamento logico con una premessa logica e una conclusione logica]. L’enunciato “Cogito, ergo sum” equivale sul piano logico, afferma Cartesio, a tutti gli enunciati che hanno una premessa logica e una conclusione logica come “cammino dunque sono, mangio dunque sono, parlo dunque sono, e così via quasi all’infinito. Però Cartesio [che, lì per lì, è tentato di buttare all’aria le sue riflessioni] sa che si deve dubitare anche del sistema sillogistico [a causa dei suoi limiti argomentativi che facevano dubitare anche Aristotele] perché, effettivamente , c’è da dubitare del fatto che tutte le azioni possano identificarsi con l’essere: che cosa significa? Significa, afferma Cartesio, che si può pensare di camminare senza camminare, si può pensare di mangiare senza mangiare, si può pensare di parlare senza parlare, ma: si può pensare di pensare senza pensare? Non si può pensare di pensare senza pensare di non pensare. E allora questo significa [afferma e scrive Cartesio] che: «Nell’atto di pensare la persona si fa trasparente a se stessa, nell’atto di pensare la persona riconosce se stessa come soggetto pensante, come sostanza pensante, come “res cogitans” [afferma Cartesio usando l’incisività del latino per definire “la sostanza pensante”]. E, quindi, l’atto del pensare è la manifestazione dell’essenza. E  potremmo anche dire  che l’atto del pensare è la manifestazione dell’anima? Riconosco  che rispondere a questo quesito è difficile mentre posso dire che tutta questa riflessione nel suo complesso mi porta inequivocabilmente ad affermare che “io ho certezza di esistere” e questo è certamente un fatto importante» [Voi siete certe, siete certi di esistere? Attenzione, una cosa è essere certe e certi di vivere, altra cosa è essere certe, essere certi di esistere].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In quale momento particolare vi è capitato di essere soddisfatte o compiaciute, soddisfatti o compiaciuti per aver intuito che era bello esistere?...  

Scrivete quattro righe in proposito pensando che anche l’esercizio della scrittura può far percepire la soddisfazione di esistere...

     Cartesio ritiene di aver dimostrato che “l’Io [personale] ha la certezza di esistere” [e questo fatto lo intuiamo, lo percepiamo mentalmente]. Ma Cartesio riscontra che questo passo in avanti sul piano conoscitivo ha una dimensione interiore che riguarda l’essenza intrinseca dell’Io e, quindi, continua a dubitare dell’effettiva possibilità che la persona abbia di conoscere il mondo esterno, di comprendere le Leggi che regolano i fenomeni della Natura.

     Cartesio ritiene di essere riuscito mediante l’intuizione a dimostrare che “l’Io ha la certezza di esistere”, ma non è pienamente soddisfatto perché il passo in avanti che ha fatto sulla via della conoscenza è tutto interiore [teoretico, speculativo, concettuale] mentre continua a dubitare che la mente della persona possa realmente accedere alla conoscenza esteriore [pratica, concreta] del mondo materiale e dei fenomeni della Natura. E, in proposito, Cartesio scrive: «Io so di esistere, ma dubito di ciò che vedo che sento che tocco che annuso che assaggio. Però, a dire il vero, non posso dubitare del fatto che lo sto facendo. Può darsi benissimo che ciò che vedo che sento che tocco che annuso che assaggio sia illusorio, ma il fatto che io ho l’illusione di conoscere è una cosa certa, ed è una certezza che io, nel momento in cui penso di conoscere, esisto, anche se, per il momento, la mia esistenza si riduce a “un pensare di conoscere”. E la cosa più evidente che penso di conoscere, che ritengo di intuire è che, per pensare, bisogna esistere, anche se non vi è niente in questa affermazione che mi assicuri che io sto dicendo la verità perché il dubbio in me continua a sussistere, quindi, è un fenomeno che si presenta come un vero e proprio strumento di lavoro, è “un dubbio metodico” che voglio chiamare “punto archimedico”».

     Il termine “archimedico”, coniato da Cartesio, deriva dal nome di Archimede [detto “Pitagorico”, un personaggio che abbiamo incontrato più volte nei nostri viaggi, e bastano alcuni accenni per ricordarne l’importanza]. Archimede di Siracusa, vissuto tra il 287 e il 212 a.C., è non a caso l’autore di un trattato intitolato Sul metodo nel quale vuole chiarire come, facendo uso di concetti tratti dalla meccanica, si possa giungere a teoremi matematici corretti, ed è colui che ha studiato “il peso specifico”, [il rapporto tra peso e volume di un corpo, e, facendo uso di concetti tratti dalla meccanica, ha messo a punto uno strumento semplice ma efficacissimo, regolamentandone l’uso per il sollevamento dei pesi: “la leva” [in quale occasione avete utilizzato una leva ultimamente, per sollevare che cosa? Scrivete una riga in proposito]. Archimede è lo scienziato che, con una serie di specchietti ben orientati [gli specchi ustori], ha fatto andare a fuoco nel 212 a.C. la flotta [la più grande flotta del Mediterraneo] del console romano Claudio Marcello che assediava Siracusa nel corso della Seconda guerra punica. Scrive Cartesio nel 1641 in Meditationes (Meditazioni sulla prima filosofia): «Archimede, il grande scienziato di Siracusa, per alzare la Terra e spostarla altrove domandò un solo punto d’appoggio, fisso e immobile [è la famosa dichiarazione, il paradosso di Archimede: «Datemi un punto d’appoggio e solleverò il Mondo!»]. Così io avrò il diritto di concepire alte speranze se sarò abbastanza fortunato da trovare una sola cosa che sia certa e indubitabile».

     Come sappiamo, è per merito del dubbio - che Cartesio definisce “il mio principio archimedico” - che può continuare la sua riflessione, e può scrivere, sempre in Meditazioni sulla prima filosofia: «L’unica certezza che ho acquisito finora è quella della mia esistenza, ossia dell’esistenza di me stesso, Io come pensiero, e posso affermare che questa certezza si presenta alla mia mente come un’idea chiara e distinta e, da questo fatto, ritengo di poterne trarre almeno una conseguenza». Quale conseguenza filosofica trae Cartesio da questa certezza, dalla certezza della sua esistenza? Per rispondere a questa domanda Cartesio - nello scrivere l’opera intitolata Meditationes [Meditazioni sulla prima filosofia] - utilizza anche le riflessioni contenute nel Monologion [Monologo, 1076] e nel Proslogion [Discorso, 1078] cioè nei due celebri trattati che abbiamo studiato a suo tempo viaggiando sul territorio della Scolastica di Anselmo d’Aosta [1033-1109]. Scrive Cartesio sempre in Meditazioni sulla prima filosofia: «Ora, così come fa Archimede quando parla della potenzialità della sua leva, posso affermare che la certezza della mia esistenza, che io intuisco, rende chiara e distinta l’esistenza del mio Io, e perciò posso confermare di essere in possesso di due elementi chiari e distinti, il dubbio e l’Io, e ne consegue che posso riflettere - se mi sforzo di farlo - sulla coscienza che Io ho del mio dubbio, per cui  “il mio Io che dubita” su quali strade mi porta in modo che Io possa percorrerle per trarne delle conseguenze?».

     E Cartesio, a questo punto, individua tre strade delle quali descrive il percorso e, sempre in Meditazioni sulla prima filosofia e parafrasando i trattati di Anselmo d’Aosta, scrive: «La coscienza che io ho del mio dubbio mi porta a percorrere tre strade. La prima strada che imbocco mi suggerisce che, se io mi accorgo di dubitare, mi accorgo anche di essere imperfetto, e questa constatazione mi fa intendere che io possiedo l’idea di perfezione, altrimenti non mi accorgerei di essere imperfetto. Ma quale provenienza ha in me l’idea di perfezione? Non può essere germogliata autonomamente in me perché sono imperfetto e, allora , da dove proviene? Questo mi induce a riflettere sul fatto che, se io mi penso come un essere imperfetto ed esisto a maggior ragione deve esistere anche un Essere perfetto, e io sono in grado di pensarlo, e questo pensiero mi porta a imboccare una seconda strada. E la seconda strada mi suggerisce che, se io possiedo l’idea di perfezione, è evidente che io non mi sono creato da solo in quanto mi sarei creato perfetto. E se io possiedo l’idea della perfezione, pur essendo imperfetto, significa che questa idea mi è stata messa in testa da qualcuno che non può non essere che un Essere perfetto. E questo significa che, se l’esistenza in me dell’idea della perfezione dipende da un Essere perfetto, anche la mia esistenza imperfetta dipende da un Essere perfetto che ha lasciato un segno nella mia interiorità, e questo pensiero mi porta a imboccare una terza strada. E la terza strada mi suggerisce che, se io, che penso di essere imperfetto, ho la certezza di esistere, non posso non pensare che, all’idea di perfezione che io penso presente ed esistente in me, non corrisponda l’esistenza di un Essere perfetto. Per cui queste tre strade parallele mi fanno capire che in me c’è l’idea di Dio, ed è un’idea chiara e distinta dall’Io e, di conseguenza  se l’idea di Dio è presente in me chiara e distinta questo serve a garantire che tutto ciò che è chiaro e distinto è anche vero».

     Cartesio è molto abile a condurre la sua riflessione [a costruire il suo teorema], ma è anche consapevole che nel suo ragionamento ci sono dei punti deboli, gli stessi punti deboli che si trovano nel pensiero di Anselmo d’Aosta: Cartesio sa bene che “la perfezione non è di questo mondo” [perfetto può essere solo Dio che è il garante dell’idea di perfezione] e Cartesio sa che, quando si parla di “perfezione”, ci si riferisce a un’idea garantita dall’ipotetica certezza dell’esistenza di Dio, che contiene la tensione umana verso il concetto della “completezza” [Cartesio sa che nel pensiero di Platone e di Aristotele i termini “perfezione” e “completezza” si identificano nella parola “téleios”, per cui “è perfetto ciò che è completo”].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Niente è perfetto a questo mondo ma, tuttavia, siamo portate e portati a pensare che ci sia qualcosa che, per la sua completezza, si avvicina più di altre cose all’idea della perfezione: c’è una cosa alla quale, secondo voi, per la sua completezza, possiamo avvicinare il termine “perfezione”?...  

Scrivete quattro righe in proposito...

     Cartesio, ricalcando la prova ontologica di Anselmo d’Aosta, dimostra come certa, chiara e distinta dall’Io l’esistenza di Dio, o meglio, l’esistenza dell’idea di Dio. Ma l’interesse, strettamente legato alla ragione da parte di Cartesio, per “l’idea di Dio” non corrisponde alla propensione per “la figura di Dio” legata alla fede che coltiva Anselmo d’Aosta [che si fregia del titolo di Santo]: Dio, per Anselmo, è “l’Essere perfettissimo, Creatore e Signore del Cielo e della Terra, Uno in Tre persone uguali e distinte, Padre Figlio e Spirito Santo”, mentre a Cartesio [sulla cui fede religiosa - visto che lui si definisce uomo di fede - non siamo autorizzati a giudicare] non interessa propriamente il tema teologico riguardante l’essenza di Dio, a lui interessa la valenza teoretica [conoscitiva, speculativa] che ha “l’idea garante dell’esistenza di Dio”: che cosa significa?

     Cartesio mette in evidenza “l’idea dell’esistenza di Dio” perché costituisce quello che lui definisce “il marchio di perfezione” che è necessariamente presente in tutte le cose create [tutte le cose create non sono perfette ma hanno il marchio della perfezione divina]. Scrive Cartesio: «Le verità alla base della creazione, sono tali perché così Dio ha voluto», ma la Teologia cartesiana è smaccatamente orientata a esaltare i principi della Matematica, la vera religione in cui Cartesio crede. Scrive Cartesio: «I postulati della Matematica [ecco dove Cartesio vuole arrivare] sono tali [perché Dio ha voluto così, e la somma degli angoli interni in un triangolo è uguale a due angoli retti perché Dio ha voluto così, ma avrebbe potuto volere altrimenti! Ma ha voluto così per avvalorare [per autenticare] il marchio della perfezione». L’idea garante dell’esistenza di Dio è l’anello forte su cui si regge il sistema cartesiano: Dio è “la prima Verità in Sé”, così come l’affermazione “Io penso” è la prima verità per ogni persona. L’esaltazione della potenza di Dio, in Cartesio, non esprime nessun entusiasmo mistico, e Dio è potente perché trascende il mondo creato, ed è l’autonomia di Dio che garantisce l’autonomia del creato e di tutte le Leggi a cui è soggetto il funzionamento del creato e, di conseguenza, è garantita anche l’autonomia della persona e della scienza. Il Dio di Cartesio è “necessario”, ed è come se fosse “una carta di credito straordinaria” da utilizzare per conoscere le Cose, il Mondo e la Natura. Afferma Cartesio: «Dio non può che essere “verace” e non mi può ingannare, perché se Dio c’è ha messo in me l’idea della perfezione, e questo significa che la Legge del mio Pensiero è veramente la Legge dell’Universo, e tutto ciò che in modo chiaro e distinto si presenta alla mia ragione è vero in modo eterno e universale [posso cercare la Verità, posso costruire la Scienza]. Tutta la nostra conoscenza si fonda su “le idee innate” [gli universali ante rem, in quanto prima delle cose esistono le Idee] messe da Dio nel nostro pensiero. E il nostro intelletto, se vuole davvero conoscere, deve procedere basandosi su tali idee. E allora  perché sbagliamo, e anche spesso e facilmente? Come è possibile l’errore [se nel pensiero della persona ci sono Idee vere, chiare e distinte donate da Dio]? Purtroppo la persona è portata dalla sua volontà ad agire senza metodo, fidando su idee confuse che io chiamo “idee avventizie” perché derivano dai sensi [che sono incapaci di fornire una conoscenza oggettiva], e “idee fittizie” che sono quelle elaborate in base alle idee avventizie. La persona si lascia abbindolare dalle idee avventizie e fittizie [dalla relatività dei sensi], quindi, la responsabilità dell’errore non è di Dio ma della volontà umana che spinge l’intelletto a utilizzare pensieri ingannevoli, né chiari né distinti. Solo l’utilizzo delle idee innate, che sono connaturali all’Io [all’intelletto] per volontà di Dio [scrive Cartesio, pensando alle Idee contenute nei postulati della Matematica], porta la persona a conoscere la forma e la sostanza dell’Universo».

     Cartesio, in base al sistema che ha disegnato, ritiene che la realtà dell’Universo dipenda da due tipi di sostanze che chiama: “res cogitans” [sostanza pensante] la prima e “res extensa” [sostanza corporea ed estesa] la seconda. La prima sostanza, “la sostanza pensante” [in latino “res cogitans”], corrisponde all’essenza di Dio che è Spirito assoluto ed è “una sostanza” che, in quanto “pensante”, può, afferma Cartesio, essere definita nel senso proprio della parola, cioè “ciò che esiste, in modo tale da non aver bisogno di nient’altro per esistere”, e anche l’Io di ogni persona, afferma Cartesio, per grazia divina, senza bisogno di altro che del concorso di Dio, è di “sostanza pensante” [“res cogitans”] ed è, quindi, di natura spirituale [l’Io corrisponde all’anima immortale?].

     La seconda sostanza, “ la sostanza corporea ed estesa” [in latino “res extensa”], è la materia, che Cartesio concepisce come “spazio”. Afferma Cartesio: «Dove c’è spazio c’è materia e la scienza dello spazio è la Matematica e, di conseguenza, solo la Matematica dà una conoscenza obiettiva della Natura».

     Le due sostanze - “res cogitans et res extensa” - sono disgiunte: il mondo spirituale e quello corporeo sono due mondi separati, e l’uno non può agire sull’altro, eppure, scrive Cartesio, questi due mondi trovano un punto di congiunzione e, difatti, hanno la possibilità di essere uniti non solo in Dio, che è il Creatore dell’uno e dell’altro, ma anche nella persona in quanto per volere di Dio è composta di anima e di corpo.

     La visione dell’Universo che Cartesio propone è molto affascinante ma è piena di temi contraddittori [i cosiddetti “dualismi cartesiani”] che Cartesio lascia in eredità alle pensatrici e ai pensatori successivi, che incontreremo strada facendo nei prossimi viaggi che faremo. Uno dei temi [dei dualismi cartesiani] più interessanti riguarda l’essenza di Dio e Cartesio non chiarisce [e la questione è destinata a rimanere in sospeso] se “Dio” - e, di conseguenza anche “l’Io della persona” - sia “un’attività pensante” [un Pensiero che pensa di essere] oppure “una sostanza pensante” [un Essere dal quale scaturisce un pensiero]. Cartesio [e voi direte: a che pro baloccarsi con questi giochi di parole?], glissando su questo dualismo ma pretendendo che si rifletta, utilizza entrambe le opzioni perché, riflettendo sul concetto di “attività pensante [”per cui ci si deve domandare: che potenzialità ha il pensiero umano nel suo essere rivolto al Bene in modo attivo? La persona se la pone questa domanda?] e riflettendo sul concetto di “sostanza pensante” [per cui ci si deve domandare: come posiamo misurare il rapporto esistente tra il pensiero e la materia? La persona se la pone questa domanda?], Cartesio può proclamare [il teorema] l’idea che gli sta più a cuore, quella per cui la persona può affermare: «Io sono il mio stesso pensiero», ed è proprio nell’aver gettato le basi per dimostrare questa affermazione che sta la grandezza di Cartesio perché questa asserzione è ricca di implicazioni utili per sostenere “la questione dell’autonomia dell’intelletto” [oggi ci domandiamo: “Come ha potuto e come può il pensiero scaturire dalla materia?”]. Difatti uno che se ne intende, Friedrich Hegel [che abbiamo incontrato a suo tempo e che, a suo tempo, rincontreremo] nelle sue Lezioni sulla Storia della filosofia pubblicate nel 1832 scrive: «La filosofia moderna in senso stretto ha inizio con Cartesio. Con lui, quando afferma, dopo un’ampia riflessione, che “Io sono il mio stesso pensiero”, possiamo dire di essere a casa e, come il marinaio dopo un lungo errare, possiamo infine gridare “Terra!”. La coltura moderna della ragione comincia con lui».

     Ed è inevitabile la domanda che ne consegue: “Se Io sono il mio stesso pensiero, in che modo posso garantire la qualità del mio pensiero?”. Come abbiamo detto, tutto il ragionamento teologico di Cartesio è in funzione della valorizzazione della Matematica , l’unica disciplina che, secondo lui, fornisce una conoscenza certa, e quando Cartesio riflette sul concetto di “attività pensante” lui vede la Geometria e quando riflette sul concetto di “sostanza pensante” lui guarda all’Algebra: difatti, Cartesio, attraverso quello che si chiama “il piano cartesiano”, fa conciliare la Geometria e l’Algebra in un’unica branca della Matematica, la Geometria analitica, che è il principale dispositivo dell’Analisi matematica per cui nel piano cartesiano: «una retta, la geometria, può essere espressa mediante un’equazione di primo grado a due variabili con l’algebra, che [afferma Cartesio] rappresenta una funzione lineare che, in chiave matematica, permette la conoscenza delle Cose, del Mondo e della Natura »[e io non so spiegare nulla in questo campo perché sono ignorante e, quindi, posso solo riportare le parole di Cartesio che ci fanno intuire l’importanza dei suoi studi].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quali parole – secondo la vostra esperienza - mettereste accanto ai termini “geometria” e “algebra”?... 

Scrivete quattro righe in proposito...

     Ma tutta la riflessione che Cartesio ha fatto non ha dato solamente un contributo fondamentale allo sviluppo della disciplina matematica perché le studiose e gli studiosi parlano, in relazione al sistema cartesiano, di “rivoluzione copernicana sul piano della dottrina”. Perché questo e che cosa significa?

     Per quale motivo [ci si domanda] il pensiero di Cartesio, il pensiero contenuto nelle sue Opere, viene sistematicamente condannato dall’Inquisizione con, in allegato, una perentoria richiesta come per Galileo di ritrattazione [anche nell’ultima condanna quella del 1663, quando lui è morto da tredici anni, si chiede una ritrattazione!]. Come mai il pensiero di Cartesio viene messo all’Indice se lui si è impegnato a dimostrare l’esistenza di Dio “Creatore del Cielo e della Terra, Fattore del mondo creato” e a proclamare che “Dio è la prima Verità in Sé” [è questa affermazione che l’Inquisizione non ritiene consona alla dottrina]? Quali dovrebbero essere i termini della ritrattazione che gli viene richiesta e in che modo - secondo l’ideologia del tribunale dell’Inquisizione - il pensiero contenuto nelle Opere di Cartesio violerebbe i dettami della dottrina? Il tribunale dell’Inquisizione pretende che, per il rispetto dell’ortodossia, emerga nel pensiero del filosofo [di qualunque filosofo] la dichiarazione del “primato della fede” e, a riguardo, la linea dottrinaria giusta, secondo il tribunale dell’Inquisizione, è data dal pensiero della Filosofia scolastica [abbiamo citato le opere di Agostino, quelle di Anselmo d’Aosta - che Cartesio utilizza con grande abilità - e potremmo citare le Summe teologiche di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino] in cui “è la fede [come dono di Dio] a ispirare la ragione perché la ragione cerchi le prove dell’esistenza di Dio per esaltare il valore della fede stessa” mentre nel sistema cartesiano si ravvisa l’opposto che “è la ragione a richiamare la fede per dar prova dell’esistenza di Dio in modo da avere la suprema garanzia che possa dare certezza, chiarezza e verità ai postulati della Matematica [la sola disciplina in cui Cartesio ripone assoluta fiducia] secondo la volontà di Dio”. Ma il tribunale dell’Inquisizione in una delle sentenze che mettono all’Indice le Opere di Cartesio afferma: “Cartesio confonde la presunta volontà di Dio evocata dalla umana ragione con secondo la Volontà divina ispiratrice della fede”. Cartesio controbatte con piglio esegetico [quello che ha ereditato da padre Mersenne] nei confronti del tribunale dell’Inquisizione - che lo accusa di “confondere la Volontà di Dio con la presunzione dell’Io” - sostenendo che se l’Io di ogni persona, per grazia divina, senza bisogno di altro che del concorso di Dio, non fosse di “sostanza pensante” [“res cogitans”, una sostanza di natura spirituale] non sarebbe stato possibile a Dio - come affermano i testi della Sacra Scrittura biblica - entrare in comunicazione con l’essere umano: come avrebbero fatto, per esempio, Dio e Mosè [l’Io di Mosè?] a comunicare così intensamente senza l’esistenza della “sostanza pensante” [della “res cogitans”, elemento portante del sistema cartesiano]? Certo che viene da pensare che Cartesio come si suole dire “stia tirando Dio per la giacchetta” e, di fronte a questa situazione, ci viene incontro la Letteratura, ci viene incontro un Libro, molto apprezzato dagli addetti ai lavori, che però come spesso succede è rimasto e rimane sotto traccia, e mi riferisco al romanzo [o al saggio scritto sotto forma di romanzo] intitolato Il mondo creato scritto, nel 1986, da Franco Ferrucci, un autore nato a Pisa il 20 settembre 1936, e morto il 30 agosto 2010, che ha insegnato per diversi anni in una Università a New York e che si è occupato di poetica, di estetica, di traduzioni e ha scritto dei romanzi: L’anatra nel cortile [1971], Il cappello di Panama [1973], A sud di Santa Barbara [1976] e dei saggi Addio al Parnaso [1971], L’assedio e il ritorno [1974], Il giardino simbolico [1980] e Lettera a me stesso ragazzo [1982, di cui si consiglia la lettura].

     Il mondo creato è un’opera significativa e si presenta come una autobiografia di Dio: anche Dio ha uno spirito autobiografico e cerca di coltivarlo per curarsi e per mettere a nudo le proprie frustrazioni. Il mondo creato racconta la storia appassionata di una lunga incomprensione tra Dio e quelle persone, soprattutto uomini, che si sono fatti carico anche con determinazione, con coraggio, con dedizione, di trasmettere il pensiero divino [e ci mettiamo anche Cartesio nella lista]. Il disappunto scaturisce dal fatto che quando questi uomini si sono manifestati in nome di Dio lo hanno fatto senza tenere conto delle sue vere intenzioni: le intenzioni di Dio sono sempre state considerate poco consone con la gestione del potere e così il suo autentico pensiero è stato travisato e, di conseguenza fatalmente tutti questi rapporti sono finiti in tragedia e Dio è sconfortato perché, proprio coloro che lo hanno maggiormente invocato, sono stati i suoi interpreti più infedeli, in primo luogo Mosè col suo bisogno di credere in un solo Dio possente, che desse un potere sulle folle, e che garantisse la validità della sua Legge, così come anche Cartesio ha bisogno di Dio per garantire validità ai postulati della Matematica.

     Dio, che Franco Ferrucci descrive con compassione, assiste impotente al precipitare della storia: si dispera, si agita, si affanna per farsi capire: «Invano mi industriavo a curare le anime, contro di me veniva costruito il più solido baluardo. L’oppressione era il modo sicuro per impedire all’essere umano di diventare l’animale che avevo sognato». Dio, infine [e qui Ferrucci utilizza la chiave talmudica], deve ammettere malinconicamente che l’opera, il mondo creato, gli è sfuggito di mano: «Il mio mondo era un’opera imperfetta, una sorta di abbozzo da perfezionare; e sapevo che la revisione non poteva essere fatta su questo pianeta». E allora è necessario ripartire, è utile ritentare altrove l’esperimento [e se fosse davvero stato ritentato altrove?]?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il mondo creato - insieme alle altre opere di Franco Ferrucci - lo potete richiedere in biblioteca e ne potete leggere qualche pagina...

     E ora leggiamo insieme alcune pagine dove l’autore racconta l’incontro drammatico tra Dio e Mosè [pagine che fanno riflettere anche Cartesio].

LEGERE MULTUM….

Franco Ferrucci, Il mondo creato

Lo vidi [è Dio che parla] seduto alla pietra-scrittoio in atteggiamento grave. Si era fermato a riflettere, lo stilo nella mano, fissando un punto verso di me, senza vedermi. Poi recitò a voce alta la frase che cercava. … «Quando un bue ha cozzato contro un uomo o una donna, che ne muoia. Sia lapidato e la sua carne venga mangiata. Ma il padrone del bue venga assolto».  Mosè si chinò a scrivere il comandamento appena formulato. Entrai nel cerchio di luce della sua torcia; ed egli alzò gli occhi. Rimase a guardarmi, il viso impenetrabile; capii dai suoi occhi in tempesta che dentro di lui si riversavano ondate di emozioni. Rimanemmo così per qualche attimo, poi Mosè parlò. «Eccoti qui finalmente. Dove sei stato tutto questo tempo?». Mi avvicinai alla pietra-scrittoio e mi sedetti, in silenzio, di fronte a lui.  Mosè continuò: «Ho dovuto cavarmela da solo.

... continua la lettura ...

     Cartesio è rimasto colpito da alcune frasi: «L’essere umano divenne un animale ombroso, vendicativo, perso in un enigma continuo. Era un animale imperfetto e confuso, sempre più invaso dallo spavento a causa dell’oscurità che si portava dentro, e non si faceva domande». Cartesio è più che mai convinto di aver fatto bene a definire Dio e l’Io come “res cogitans” [sostanza pensante] che permette agli esseri umani di differenziarsi dagli altri animali che, privi di raziocinio, vivono per volontà di Dio al di là del bene e del male. Cartesio si è ribellato quando è stato accusato di trascurare il tema della Morale e decide di affrontare la questione partendo da un interrogativo semplice ma stimolante e provocatorio: “Ma noi esseri umani lo sappiamo che cosa ci stiamo a fare al mondo?”. Di solito, afferma Cartesio, le persone, paradossalmente [e disabituate a pensare], affermano che non si tratta di una domanda concreta come se “i valori dell’Umanesimo” [l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia] - che l’essere umano dovrebbe concretamente realizzare abitando il mondo creato - fossero termini astratti e, quindi [afferma Cartesio, molto divertito da una sintesi poetica che, apparentemente, può sembrare banale], sarà bene che l’essere umano non si comporti con la supponenza de l’Omo davanti alla Scimmia che il poeta Carlo Alberto Salustri [1871-1950] detto Trilussa descrive al termine di questo faticoso itinerario, perché la Scimmia, o la Natura, risponde a tono.

LEGERE MULTUM….

Trilussa,  L’Omo e la Scimmia (da Favole moderne, 1922)

L’Omo disse a la Scimmia: - Sei brutta, dispettosa:

ma come sei ridicola! ma quanto sei curiosa!

Quann’io te vedo, rido: rido nun se sa quanto! -

La Scimmia disse: - Sfido!  T’arissomijo tanto!

     Le bestie, o la Natura, afferma Cartesio, sebbene prive di raziocinio, hanno molto da insegnare, da insegnarci. Cartesio pensa si debba fondare una morale basata su principi chiari e distinti, su principi che siano ben definiti. E quello che Cartesio chiama] “un solido edificio morale” va edificato [bisogna insegnare come si edifica] gradualmente e, di conseguenza, la persona si troverà sempre a fare i conti [anche nell’Etica ha un ruolo la Matematica, afferma Cartesio] con la costruzione di “una morale provvisoria”. Che cosa significa “imparare a fare i conti con una morale provvisoria”?

     Per rispondere a questa e ad altre domande dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare [così come non dobbiamo perdete la prossima Lezione perché poi ci sono le vacanze di Pasqua, del 25 aprile e del 1° maggio tutte in fila].

     Se avete fatto il compito assegnato dal  REPERTORIO E TRAMA ...  di quindici giorni fa avrete scoperto che nella città di Ulma c’è un famoso Museo del pane, sui cinquemila anni di storia di questo fondamentale alimento. All’ingresso del Museo c’è scritta una frase tratta dai Dialoghi di papa Gregorio Magno [dove è riportata la Regola benedettina]; la frase dice: “Chi calpesta il pane, calpesta l’Umanità. L’oltraggio al pane è oltraggio alla civiltà”. A questo proposito potete leggere Il pane di ieri [il pane di ieri è buono domani] di Enzo Bianchi, che tutte e tutti voi conoscete.

     Ebbene, il pane è cura, è come lo studio, quindi, la Scuola è qui, e [mentre inizia il conto alla rovescia degli itinerari ancora da percorrere] il viaggio continua, e abbiamo ancora un bel po’ di strada da fare [di pane da mangiare]…          

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 5, 2019