Autorizzazione all'uso dei cookies

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE SI ACCENDE, A PARIGI, LA DISPUTA SUL TEMA DEGLI UNIVERSALI ...

Lezione N.: 
21

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale            18-19-20  marzo  2015

Abelardo ed Eloisa

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE

SI ACCENDE, A PARIGI, LA DISPUTA SUL TEMA DEGLI UNIVERSALI  ...

 

   Questo è il ventunesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale” e, questa sera, ci troviamo di fronte al paesaggio intellettuale dove abita il personaggio che abbiamo iniziato a conoscere la scorsa settimana: Pietro Abelardo.

   Sappiamo che Pietro Abelardo è il figlio del signore di Le Pallet - la località nel pressi di Nantes, in Bretagna, dove è nato nel 1079, e sappiamo che suo padre, sebbene lo abbia avviato allo studio [perché anche lui è una persona che ama studiare], lo vorrebbe però destinare alla carriera militare [deve lasciargli, in quanto primogenito, in eredità il feudo di famiglia]; ma Abelardo ha la vocazione per fare il magister [a diciotto anni è già ben preparato per insegnare la dialettica] e, dopo aver rinunciato all’eredità, comincia a peregrinare nella provincia francese da una Scuola all’altra, guadagnandosi da vivere facendo il lettore. Sappiamo che Abelardo s’iscrive e frequenta la Scuola di Compiègne [siete state, siete stati in visita a Compiègne e alla sua foresta? Siete sempre in tempo a farlo] diretta da Roscellino ma, dopo qualche settimana, viene espulso perché contesta e demolisce con validi argomenti la tesi “nominalista” di questo insigne maestro e, di conseguenza, nel 1101 si trasferisce a Parigi dove s’iscrive, dopo aver superato l’esame di ammissione, alla Scuola più rinomata della città: quella di Guglielmo di Champeaux, il prelato che - come abbiamo studiato la scorsa settimana - diciotto anni dopo, da vescovo, ha fatto parte della delegazione papale alla conferenza di Worms con cui, nel 1122, si è conclusa la lotta delle investiture. Abelardo frequenta la Scuola di Guglielmo di Champeaux finché viene espulso perché contesta, anche in questo caso con validi argomenti oltre che con una certa animosità, le tesi del più celebre magister parigino del momento.

   Sul tema delle espulsioni di Abelardo prima dalla Scuola di Roscellino di Compiègne e poi da quella di Guglielmo di Champeaux, è necessario imbastire una riflessione per spiegare questa situazione in cui Abelardo, pur facendosi dei nemici, si mette in luce. Ci aspetta una riflessione piuttosto complessa ma la dobbiamo fare: non possiamo rinunciare [ora che siamo qui, a Parigi] ad avventurarci sul terreno accidentato del pensiero dialettico di Abelardo.

   Agli albori del XII secolo in tutte le Scuole europee è in corso la polemica sul tema degli universali [un argomento che abbiamo trattato a suo tempo] che consiste [con la complicità del pensiero contenuto nei Dialoghi di Platone, nella Metafisica di Aristotele e nell’Isagoge di Porfirio] nel cercare di stabilire da dove vengano e di che natura siano le idee: c’è chi sostiene che le idee universali siano “ante rem [prima delle cose]” ed esistano come archetipi [come modelli] nella mente di Dio; c’e chi sostiene che le idee universali siano “in re [dentro alle cose]” ed esistano nelle cose come essenze [come forme] delle cose stesse; c’è chi sostiene che le idee universali siano “post rem [dopo le cose]” e siano presenti solo nella mente della persona sotto forma di concetti; c’è chi sostiene che le idee universali non esistano e siano solo dei “puri nomi”, un “flatus vocis [l’espressione della voce, l’espressione vocale e simbolica dei nomi delle cose]”.

   Parigi diventa il centro propulsore dell’animato dibattito sul tema degli universali, soprattutto, per impulso di due importanti Scuole contrapposte: quella di Roscellino di Compiègne e quella di Guglielmo di Champeaux, entrambe frequentate da Abelardo con spirito critico tanto da esserne espulso.

   Dobbiamo puntualizzare che Guglielmo [1070-1121] è nato a Champeaux che è un pittoresco villaggio a nove chilometri da Rennes. Rennes è una vivace città della Bretagna di circa 212 mila abitanti che è stata ricostruita dopo il terribile incendio che, nel 1720, l’ha quasi interamente distrutta privandola delle sue vestigia medioevali che erano molto significative perché Rennes è stata dal 922 al 1532 la capitale del ducato indipendente di Bretagna, da cui dipendeva anche il piccolo feudo della famiglia di Abelardo. Rennes, la città di Guglielmo di Champeaux, si trova [andate ad osservare la carta geografica] ad un centinaio di chilometri [107 per l’esattezza] a nord di Nantes, la città di Abelardo, e quindi sono due bretoni a contendersi il potere intellettuale a Parigi agli albori del XII secolo.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia e navigando in rete andate a fare una visita a Rennes e al pittoresco villaggio di Champeaux, buon viaggio...

 

   Sulla scia della discussione intorno al tema degli universali [sulla provenienza e sulla natura delle idee] sono andate formandosi tre correnti di pensiero che hanno cercato di fare chiarezza su questo argomento [forzando però anche la logica e Abelardo mette proprio in rilievo questo fatto] e poi - nel clima di effervescenza culturale che la Scolastica ha creato - ogni corrente ha cercato di imporsi a scapito delle altre evitando il confronto: di conseguenza, con l’irruenza di Abelardo lo scontro diventa inevitabile e lui, in questa atmosfera conflittuale di carattere intellettuale, ci si trova a meraviglia facendo valere le sue indubbie doti dialettiche.

   Le definizioni formulate sul tema degli universali sembravano ormai acquisite e nessuna corrente era più disposta a metterle in discussione mascherando anche [a scapito della logica, ma “non si può forzare la Logica pur di aver ragione”, afferma Abelardo] le contraddizioni in esse contenute [ma “non si può forzare la Logica pur di aver ragione”, afferma Abelardo] e riducendo l’itinerario dialettico in una comoda e diritta via piuttosto monotona da percorrere, mentre Abelardo costringe i più celebri pensatori del momento ad imboccare un impervio e faticoso sentiero che, facendo guadagnare quota, dà la possibilità a maestri e discepoli di osservare ampi panorami da un’altezza che permette di vedere come certe costruzioni [certe proposizioni] non s’intonino col paesaggio [pecchino di incoerenza logica]. Arrampichiamoci pazientemente anche noi su questo impervio sentiero.

   All’inizio del XII secolo sul tema degli universali [sulla provenienza e sulla natura delle idee] si confrontano tre correnti di pensiero.

   La prima corrente ha preso il nome di “concettualista” e sostiene che le idee universali esistono [post rem] solo nella mente di ogni singolo individuo, e prendono forma mediante la capacità di astrazione dell’intelletto che sa trasformare gli oggetti materiali, soggetti all’esperienza sensibile, in concetti [in idee]. Abelardo critica questa soluzione affermando che, per sostenere la tesi [corretta] secondo cui le idee universali sono concetti plasmati dall’intelletto che si giova dell’esperienza sensibile della persona, è necessario ammettere che le idee sono anche nelle cose [in re] perché le cose hanno tutte una “forma” [come ci ha insegnato Aristotele, afferma Abelardo] che corrisponde all’idea, ed è l’idea a trasformare un pezzo di materia informe in un oggetto riconoscibile e, quindi, non sarebbe possibile fare esperienza di un oggetto se l’oggetto non contenesse un’idea e, di conseguenza, la tesi [il “rigido concettualismo” lo chiama Abelardo] secondo cui gli universali sono solo nella mente della persona non può reggere [per essere nella mente le idee devono essere anche nelle cose].

   La seconda corrente, sostenuta dalla Scuola di Roscellino [1050-1120] di Compiègne [dalla quale Abelardo è stato espulso in prima istanza], è stata chiamata “nominalista” perché sostiene che gli universali non ci sono perché esistono unicamente le singole persone e le singole cose con i loro “nomi” e un “nome” non è altro che una “emissione di voce [un flatus vocis]” e, dunque, le idee sono solo un’invenzione del linguaggio. Abelardo - pur apprezzando il fatto che questa corrente dà un giusto valore “al particolare e all’individuale” - critica questa posizione affermando che per creare il linguaggio è necessaria un’elaborazione intellettuale che trasformi i dati esistenti [gli oggetti, l’esistenza] in prodotti essenziali [in concetti, in essenza] e i “nomi” che [come c’insegna Aristotele] sono “oggetti” [spiega Abelardo]” hanno un’esistenza perché sono ancorati ad un’essenza e questa essenza è un’idea e, di conseguenza, senza avere un’idea non possiamo esprimere un nome, quindi, la tesi che gli universali siano solo “voci [flatus vocis]” non può reggere, afferma Abelardo.

   La terza corrente - quella che va per la maggiore - ha preso il nome di “realista” e vuole conciliare la visione [il mondo delle Idee] di Platone con la dialettica [il sistema delle categorie] di Aristotele, per cui sostiene che gli universali [le Idee] sono realtà a sé stanti che esistono prima delle cose [ante rem, come le Idee di Platone] e siccome tutte le cose sono create sul loro modello [perché la realtà è frutto dell’unione tra la materia e la forma, come insegna Aristotele] se ne deduce che gli universali [le idee] sono anche nelle cose [in re] e, in funzione della conoscenza, l’intelletto umano le riproduce in sé [come spiega Aristotele nella Metafisica] astraendone il concetto e, di conseguenza, le idee universali vengono anche dopo le cose stesse [post rem]. Secondo la corrente “realista”, quindi, gli universali esisterebbero, in senso gerarchico, innanzi tutto nella mente di Dio “prima delle cose [ante rem]” poi comparirebbero anche “nelle cose [in re]” e pure nella nostra mente sotto forma di concetti “dopo le cose [post rem]”. Il più autorevole sostenitore della “[composita] tesi realista” è Guglielmo di Champeaux, e Abelardo, dopo essersi iscritto alla sua Scuola, ne contesta la teoria perché non spiega [non riesce a spiegare, afferma Abelardo] in che relazione stanno questi tre elementi: se si sostiene questa ipotesi, afferma Abelardo, significa che le idee avrebbero tre nature diverse e ci sarebbero le idee di Dio [le uniche reali e universali ma non conoscibili dall’intelletto dell’essere umano], le idee che stanno nelle cose [le quali non possono avere la stessa natura degli archetipi divini altrimenti Dio sarebbe immanente, sarebbe nelle cose e non trascendente e separato dal mondo] e le idee che stanno nella mente della persona [le quali si presentano sotto forma di concetti di natura intellettuale e quindi unicamente umana]. Quindi, questa tesi “composita” produce, sostiene Abelardo, una gran confusione sul tema della provenienza e della natura degli universali.

   Per questa critica, sebbene ben fondata, Abelardo viene cacciato dalla Scuola di Guglielmo di Champeaux e questo fatto, nonostante gli procuri molti nemici, fa aumentare l’interesse del mondo della cultura, prima parigina e poi europea, nei suoi confronti. Guglielmo di Champeaux risponde radicalizzando ancora di più, forse un po’ troppo, la sua tesi “realista” e ribadisce che di “reale” in questo universo ci sono solo le Idee universali create da Dio [che hanno un’unica natura, quella stessa dell’anima] e questo mondo c’è e vive in virtù degli archetipi divini [delle anime] e, di conseguenza, gli individui, i corpi materiali, non sono che accidenti [cioè attributi e modificazioni] di queste Idee di natura divina. Questa drastica affermazione [e Guglielmo di Champeaux si pente ben presto di averla fatta, sebbene nel suo ragionamento complessivo si sia un fondamento logico] dà modo ad Abelardo di contrattaccare in modo sferzante facendo una dichiarazione dalla quale si capisce che è cambiato anche il linguaggio; dice Abelardo: «Si deduce dalla tesi del maestro Guglielmo che Dio avrebbe creato l’universo per finta, e avrebbe popolato il mondo di parvenze, di simulacri, di lemuri, di fantasmi. Guglielmo con il suo “realismo esagerato” » afferma pungente Abelard  «ha messo il mondo, e anche Dio, fuori dalla realtà».

   Con questo ragionamento [il “Dio che avrebbe fatto finta” evocato da Abelardo ricorda l’ironia di Aristotele sul tema di Dio], Abelardo mette in ridicolo Guglielmo di Champeaux e fa scandalizzare l’uditorio dei benpensanti parigini ma si guadagna l’ammirazione di molti giovani studenti [nasce nelle Scuole un clima psicologico che in tempi recenti abbiamo chiamato “contestazione”].

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Che cosa vi fa venire in mente l’espressione “fare finta”?...  Basta anche una sola frase per rispondere, scrivetela...  Quale azione di “contestazione” da voi messa in atto ritenete sia stata la più significativa?...

Scrivete quattro righe in proposito...

Quale di queste parole – critica, polemica, protesta, dibattito, dissenso – mettereste per prima, secondo la vostra esperienza, accanto al temine “contestazione”?...  

Scrivetela...

 

   Abelardo contesta le semplificazioni, gli aggiustamenti in nome di un principio: “non si deve credere in ciò che non si è capito”, e quali sono le conseguenze? Le conseguenze sono che Guglielmo di Champeaux se la prende a male: lascia la cattedra di dialettica e abbandona la sua Scuola nel centro di Parigi [sull’Ile de la Cité a ridosso della Chiesa di Notre-Dame che, dal 1163, verrà demolita e sostituita con la grande Cattedrale di Notre-Dame], e Abelardo - gradito dalla maggioranza degli studenti - prende il suo posto , ma Guglielmo di Champeaux non si dà per vinto e si trasferisce in periferia, portando con sé un gruppo di chierici a lui fedeli.

   Guglielmo di Champeaux viene accolto ben volentieri e con tutti gli onori nell’abbazia di San Vittore che era stata fondata, fuori città, in un’ansa della Senna qualche anno prima, anche su impulso di Guglielmo, dall’abate Ugo [detto appunto Ugo di San Vittore], e qui Guglielmo di Champeaux contribuisce dal 1108 allo sviluppo della Scuola dei cosiddetti Vittorini [Ugo, Riccardo, Gualtiero, Accardo e Goffredo] che elabora il suo programma sul pensiero di Sant’Agostino secondo cui la Ragione, se non è aiutata da Dio, non può comprendere pienamente le verità dell’ordine naturale [“più credi e più conosci”] e, quindi, Abelardo, che secondo i Vittorini distinguerebbe nettamente la Ragione dalla Fede non sarebbe altro, scrive Gilberto da San Vittore, che “un minotauro accovacciato nel suo labirinto” destinato a fare la brutta fine del mitico personaggio cretese, e questa premonizione non ha portato bene ad Abelardo: ma lui, per ora, non se ne preoccupa.

   Quale pensiero coltivano i Vittorini? I Vittorini - ispirati da Guglielmo di Champeaux [che viene considerato il fondatore della Scuola di San Vittore] - pensano che il valore di una persona dipenda dal ben-essere della sua anima e ritengono che gli stati della vita umana siano quattro e siano determinati dall’azione dell’anima [la dialettica è soggetta alla mistica], e la Scuola di San Vittore si propone di insegnare a vivere secondo le quattro condizioni dell’anima visto che il corpo risorgerà in virtù della salute dell’anima [dell’idea sublime]: il primo è lo “stato preliminare” in cui l’anima discorre con se stessa [l’anima invita alla presa di coscienza]; il secondo è lo “stato del pensiero” per mezzo del quale l’anima, guidando l’esperienza, cerca Dio nelle cose [l’anima illumina il pensiero]; il terzo è lo “stato della meditazione” attraverso la quale l’anima cerca Dio in se stessa [l’anima governa la ragione]; il quarto è lo “stato della contemplazione” con la quale l’anima si unisce e vive in comunione con Dio [l’anima è la depositaria della Fede].

   La Scuola di San Vittore, per educare allo spirito cristiano, esalta l’utilità della cultura classica [latina e greca] e considera importante lo studio delle discipline del Trivio [grammatica, retorica e dialettica] e del Quadrivio [aritmetica, geometria, astronomia e musica] e prevede anche lo studio della fisica, dell’agricoltura e, in genere, di tutto ciò che in qualche modo possa giovare alle necessità della vita pratica. Abelardo per i suoi avversari [e ne ha molti!] è solo un demolitore molto abile nell’uso della dialettica e difatti lui afferma che la sua azione critica si basa su un pensiero logico racchiuso in una famosa massima: «Nihil credendum nisi prius intellectum » [Non si deve credere in nulla se prima non lo si è capito].

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale significato volete dare, in prima istanza, al verbo “capire”: comprendere, giustificare, percepire, persuadersi?...

Scrivete il termine adatto scegliendo in base alla vostra esperienza ...

 

   In realtà, però, non è che Abelardo sia un “razionalista ribelle” [così come è stato etichettato da una certa letteratura ottocentesca anticlericale] perché in lui c’è un consistente afflato mistico [secondo Abelardo: è la mistica che alimenta la dialettica] per il fatto che il mondo spirituale che ha ereditato è quello della Tradizione cristiana nel più puro spirito “scolastico” e nell’ambito della Filosofia cristiano-latina, un mondo ben definito dai dogmi, la cui tutela è affidata, anche per Abelardo, all’autorità della Chiesa e, difatti, lui polemizza anche, sulla scia di Severino Boezio del quale è un grande ammiratore, contro chi applica la dialettica ai “misteri di Dio”, quasi che i “misteri della Fede” potessero rientrare nelle dieci categorie di Aristotele.

   Prima di riflettere su come Abelardo affronta il tema degli universali e su come si esplicita - attraverso le opere che ha scritto - la sua azione critica e il suo pensiero filosofico dobbiamo occuparci delle sue vicende private.

   Abelardo, infatti, è diventato famoso più per le sue vicende personali che per i suoi principi filosofici, e delle sue vicende private ce ne dobbiamo occupare perché nell’esperienza che ha vissuto la passione intellettuale e la passione amorosa risultano essere due elementi inscindibili; per giunta, in funzione della didattica della lettura e della scrittura [secondo la natura del nostro Percorso], seguendo questa strada [la strada delle sventure di Abelardo, calamitatum Abaelardi], c’imbatteremo in un intreccio filologico per dipanare il quale ci avvarremo del contributo di una scrittrice che stiamo per incontrare.

   Conoscere la vita di Abelardo è facile perché è lui stesso a descrivere tutto quello che gli è capitato dal momento della nascita fino al giorno in cui decide di farsi monaco, e lo fa scrivendo, intorno al 1136 nell’abbazia di San Gildasio in Bretagna, una lunga lettera ad un amico immaginario [un’autobiografia epistolare che è diventata la sua opera più conosciuta] intitolata Historia calamitatum mearum [Storia delle mie disgrazie] e la scorsa settimana abbiamo letto un frammento di quest’opera. Abelardo racconta come ha trascorso l’infanzia preso dalla passione per lo studio, una passione che lo ha portato ad abbandonare la Bretagna e la sua famiglia feudale e a svolgere, da giovanissimo, un’intensa attività di maestro peripatetico in giro per la provincia. Poi Abelardo racconta del suo scontro con Roscellino alla Scuola di Compiègne e del suo arrivo a Parigi e dell’incontro con Guglielmo di Champeaux che prima lo accoglie con entusiasmo, poi, vistosi confutato sotto gli occhi dei suoi stessi allievi, lo caccia in malo modo. Abelardo racconta di aver reagito all’espulsione utilizzando la sua “abilità dialettica” fino a mettere in ridicolo, come abbiamo studiato poco fa, le tesi del suo maestro il quale “spiacentissimo” lascia la Scuola della chiesa di Notre-Dame nel centro di Parigi e si ritira ad insegnare nell’abbazia di San Vittore mentre Abelardo gli prende il posto, ma poi - visto che a Parigi si è fatto troppi nemici - decide di emigrare per aprire una propria Scuola.

   Abelardo apre una propria Scuola a Melun, a una cinquantina di chilometri a sud di Parigi, e nella sua autobiografia racconta che, ben presto, la sua fama si diffonde ovunque nel campo della dialettica e, a poco a poco, oscura anche quella del suo maestro Guglielmo di Champeaux. Abelardo racconta poi di aver aperto una seconda scuola a Corbeil [a pochi chilometri a nord di Melun] e poi di essere tornato ad insegnare a Parigi e la sua presenza galvanizza il mondo studentesco e crea una rivoluzione nella logistica della fruizione culturale.

   A Parigi Abelardo viene ospitato in un locale, utilizzato già come Scuola, attiguo alla chiesa di St-Julien-le-Pauvre - una delle chiese più antiche di Parigi, cresciuta attorno ad una cappella edificata nel VI secolo - che si trova sulla “rive gauche” della Senna sul versante nord della collina di Ste-Geneviève in aperta campagna, ed intorno ad essa si sta sviluppando un sobborgo che, con l’arrivo di Abelardo, viene preso d’assalto da un gran numero di studenti che accorrono ad ascoltare le sue Lezioni: quindi, il baricentro della cultura parigina comincia a spostarsi [dal centro] dal chiostro di Notre-Dame nell’Île-de-la-Cité alla collina di Ste-Geneviève, e il sobborgo sorto intorno alla chiesa di St-Julien-le-Pauvre comincia ad essere chiamato “quartiere latino [il latino è la lingua che si parla nelle Scuole]”. Nel giro di qualche tempo questa zona periferica ha uno sviluppo straordinario e diventa il “centro studi” della città ben collegato con il centro e con tutte le principali vie di comunicazione, perché viene ampliata, sui terreni della famiglia Galande, la strada romana [rue Galande] che va in direzione di Lione e dell’Italia e poi, nel 1202, a metà di rue Galande viene aperta rue du Fouarre [via dello strame o del letame, perché è un parcheggio per asini, muli e cavalli] dove viene ristrutturato un antico edificio nel quale entra in funzione la Facoltà delle Arti [il primo nucleo dell’Università parigina]; qui, nel 1253, sorge un collegio per studenti e maestri di teologia poveri edificato per iniziativa di Robert de Sorbon, il cappellano del re Luigi IX, e intorno a queste prime strutture nasce e si estende l’universalmente famosa Università di Parigi: la Sorbona.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la giuda di Parigi e navigando in rete fate visita alla chiesa di St-Julien-le-Pauvre [prima di tutto per osservare, sulla carta, dove è collocata] la quale dal 1170 è stata oggetto di molti interventi di restauro che ne hanno modificato l’assetto e moltiplicato le stratificazioni architettoniche...

Entrate in contatto con questo edificio che è stato protagonista di una rivoluzione culturale ...

 

   Ma ora torniamo ad Abelardo che, di questa cronaca espositiva, sta in principio. Abelardo - nonostante un gran numero di studenti accorra ad ascoltare le sue Lezioni sulla collina di Ste-Geneviève - si trattiene per breve tempo a Parigi [neppure un anno] perché, racconta Abelardo, l’invidia e il dolore di Guglielmo di Champeaux gli aveva reso la vita impossibile: Guglielmo, racconta Abelardo, “livido di bile e roso dalla rabbia”, cerca con l’astuzia di farlo allontanare di nuovo da Parigi e, dal momento che “l’invidia, scrive Abelardo, è come il vento, che tanto più alta è la cima dell’albero, tanto più lo scuote”, è costretto a ritrasferirsi a Melun.

   Non possiamo perdere l’occasione di fare una visita alla città di Melun che oggi ha circa 35 mila abitanti, capoluogo del dipartimento Seine-et-Marne. La città di Melun è situata, come Parigi [è chiamata “la piccola Parigi”], sopra un isolotto sulle due rive della Senna all’estremità settentrionale della foresta di Fontainebleau. Melun è di origine celtica ed è stata fondata dai Galli Sènoni, e poi è stata conquistata dai Romani [da Labieno, luogotenente di Giulio Cesare] nel 53 a.C.. Dopo l’anno Mille - per la sua posizione strategica - Melun è diventato un florido centro commerciale e culturale e non è casuale il fatto che Abelardo si sia trasferito proprio qui.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia [meglio ancora con la guida di “Parigi e dintorni”] e navigando in rete fate un’escursione a Melun per visitare in primo luogo la chiesa romanica di Notre-Dame costruita [tra il 1020 e il 1031] sull’isola della città, dove Abelardo apre la sua Scuola  

 

   Per fortuna, scrive Abelardo, Gugliemo di Champeaux fa carriera [carriera ecclesiastica]: prima viene nominato vescovo e poi dal 1119, come ben sappiamo, è delegato pontificio di papa Callisto II nelle trattative per mettere fine alla lotta delle investiture; poi Guglielmo muore nel 1121 ed esce di scena, ma Abelardo nel 1117 era già tornato a Parigi dove aveva riaperto la sua Scuola anche nel centro della città, e qui accade un fatto determinante che cambia la sua vita.

   Nel 1117 Abelardo conosce Eloisa, una giovane studentessa della sua Scuola, nipote dell’eminente canonico Fulberto, e la sua vita cambia di colpo perché tra Abelardo ed Eloisa scoppia l’amore: lui ha quarant’anni, lei sedici e nell’autobiografia Abelardo descrive con tutti i particolari [psicologici, erotico sentimentali] la sua storia d’amore con Eloisa, una storia che ha dato linfa alla Letteratura, al Teatro, al Cinema, all’Arte in generale come è successo per Tristano e Isotta, per Paolo e Francesca, per Giulietta e Romeo. Eloisa propone ad Abelardo - che abita in una locanda - di chiedere alloggio in casa di suo zio [che, avendo un appartamento molto grande, affitta le camere] e il canonico Fulberto è onorato di accogliere Abelardo in casa sua e [sebbene sia piuttosto attaccato al denaro] lo ospita gratuitamente purché segua la nipote nello studio. I due amanti, abitando sotto le stesso tetto, possono studiare e amarsi con passione e, difatti, non molto tempo dopo, Eloisa si accorge di essere incinta ed è piena di gioia mentre Abelardo è molto preoccupato perché teme la reazione del canonico Fulberto che, quando lo viene a sapere, s’imbestialisce. Abelardo ed Eloisa decidono di fuggire a Le Pallet, in Bretagna, nel castello di famiglia di Abelardo, dove lui è nato [ed è la sorella di Abelardo che accoglie e dà ospitalità ai due fuggiaschi], e dove nasce il loro bambino al quale danno il nome di Astrolabio.

   Dopo qualche mese, pensando che le acque si fossero calmate, Abelardo ed Eloisa tornano a Parigi e celebrano segretamente di notte il loro matrimonio [sebbene Eloisa sia fortemente contraria al matrimonio] e, per evitare lo scandalo [tira un’aria di disapprovazione intorno a loro], vivono separati, ma il canonico Fulberto non li perdona e vuole vendicarsi di Abelardo. Una notte Abelardo, mentre dorme nella locanda dove ha preso alloggio, viene aggredito da quattro manigoldi pagati da Fulberto che vuole infliggere all’amante della nipote la più crudele e infamante delle vendette, scrive Abelardo nella sua autobiografia: «Fulberto mi fece tagliare la parte del corpo con cui avevo commesso il delitto». Abelardo subisce un’evirazione e rischia di morire dissanguato ma si salva per miracolo, o meglio, per l’intervento tempestivo di un medico e dei suoi amici che curano la sua ferita e si disperano insieme a lui: la mattina seguente la notizia della violenza subìta da Abelardo fa il giro della città e una folla si riunisce davanti all’ostello dov’è ricoverato. Ma non tutti piangono: il suo ex maestro Roscellino [del quale Abelardo a Compiègne - come sappiamo - aveva contestato la sua tesi “nominalista” sugli universali] addirittura lo prende in giro in una Lettera dove scrive: «Caro Abelardo, ci sono pezzi del tuo corpo che valgono molto di più. Ringrazia Nostro Signore se ti hanno tolto solo quello».

   E [dobbiamo aprire una piccola parentesi] a proposito di questo scritto, l’unico di Roscellino che ci sia rimasto e che s’intitola Lettera di Roscellino ad Abelardo sulla Trinità, dobbiamo dire che nel testo di questa Lettera Roscellino comunica ad Abelardo il suo pensiero sulla natura della Trinità: il maestro della Scuola di Compiègne ritiene che le tre persone della Trinità non siano fatte della stessa sostanza ma abbiano sostanze differenziate [quella superdivina del Padre, quella a media divinità del Figlio e quella a bassa divinità dello Spirito Santo] e, quindi, il Dio Trinitario, afferma Roscellino, non può essere definito “Uno in tre persone” ma “Tre persone in comunione unitaria”. Abelardo, compiaciuto del fatto che Roscellino lo abbia interpellato nonostante abbia ironizzato sulla sua disgrazia, risponde al suo ex maestro consigliandolo di modificare questa posizione e, difatti, la tesi “triteista” di Roscellino viene condannata dal concilio di Soisson e lui, per evitare la sanzione, è costretto a ritrattare.

   Abelardo, dopo la brutta avventura che ha vissuto e le minacce che continua a ricevere, decide di ritirarsi in convento, e la stessa cosa consiglia di fare ad Eloisa. Lui diventa monaco a Saint-Denis, lei monaca ad Argenteuil, e da questo momento non comunicano più per molti anni finché l’autobiografia di Abelardo [la “Lettera di Abelardo sulle sue disgrazie”] non capita nelle mani di Eloisa: lei la legge e gli scrive, e tra i due antichi amanti inizia uno scambio di Lettere, e l’Epistolario di Abelardo ed Eloisa è diventato uno dei più celebri “romanzi epistolari” della Storia della Letteratura. Eloisa nelle sue Lettere esprime un sentimento ardente e insopprimibile e con sincerità riconosce d’aver preso il velo più per amore di Abelardo che di Dio. Meno vibranti, seppur dense di affetto, sono le Lettere di Abelardo, tutte indirizzate a far sì che Eloisa ritrovi la pace e si abbandoni in Dio.

   Quando Eloisa [che non è particolarmente ben vista nell’ambiente ecclesiastico] viene scacciata, con un gruppo di sue consorelle, dal monastero di Argenteuil, Abelardo le mette a disposizione il convento del Paràcleto [in greco “paràcletòs” significa “consolatore” ed è la principale prerogativa dello Spirito Santo], un rifugio-claustrale che Abelardo aveva fatto costruire per sé presso Nogent-sur-Seine, del quale Eloisa diventa badessa portando anche delle modifiche d’impronta secolare alla regola benedettina.

   Le Lettere di Aberlardo ed Eloisa, per il modo spontaneo in cui esprimono il sentimento, hanno assunto un carattere universale tanto che sembrano un documento contemporaneo, e il loro fascino sta anche nella severa bellezza della lingua latina in cui sono scritte per cui Abelardo ed Eloisa, due persone intellettualmente ben preparate, creano un “genere letterario”: danno vita ad un vero e proprio “stile” che mescola con naturalezza, all’espressione dei più semplici sentimenti, tutto un apparato di citazioni classiche, di richiami alla Sacra Scrittura e anche di “espressioni forti [così sono state definite]”, ed è per questo motivo formale - oltre a quello contenutistico - che l’opera intitolata Lettere di Abelardo ed Eloisa è considerata uno dei capolavori della Letteratura epistolare di tutti i tempi.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se richiedete in biblioteca: “Storia delle mie disgrazie” di Pietro Abelardo e “Lettere di Abelardo ed Eloisa” potete leggerne qualche pagina...

 

   Adesso leggiamo insieme alcuni brani dall’Epistolario di Abelardo ed Eloisa, ma prima dobbiamo fare due considerazioni: innanzitutto c’è da dire [ed è semplice constatare questo fatto] che le Lettere di Eloisa sono una più struggente dell’altra e contengono una dichiarazione d’amore dopo l’altra verso il suo amante, quelle di Abelardo invece sono tutte Lettere improntate al pentimento, alla preghiera e all’amore per Dio e per Gesù Cristo. Le studiose e gli studiosi di filologia si sono chiesti il perché di questo atteggiamento “[che è stato considerato] moralistico e bacchettone” di Abelardo: non c’è dubbio che lui abbia subìto un trauma dalla violenza ricevuta ed è stato anche minacciato per cui, se non avesse tenuto le distanze da Eloisa, non solo lui ne avrebbe pagato le conseguenze ma anche lei e, quindi, Abelardo nelle sue Lettere - che potevano essere facilmente intercettate e lette [e lui lo sa] - usa un linguaggio adeguato per non dare modo ai suoi molti nemici di agire contro di lui e contro Eloisa.

   La seconda considerazione che dobbiamo fare è legata al fatto che vogliamo puntare l’attenzione su un elemento che costituisce un intreccio filologico che dobbiamo dipanare in funzione della didattica della lettura e della scrittura secondo la natura del nostro Percorso. Eloisa utilizza nella sua prosa epistolare una serie di “espressioni forti” che potremmo [se non riflettessimo correttamente] ritenere scurrili. In particolare Eloisa usa un certo numero di volte la parola “mĕrĕtrix” e la parola “merĕtrīcula”, che indicano [è facile tradurre] la figura della “prostituta” ma nell’accezione più volgare del termine: “puttana”, e si capisce che Eloisa [anche in convento] si è sentita apostrofare molte volte con questo termine.

   E ora - tenendo conto di queste due considerazioni - leggiamo una serie di brani dalle Lettere di Abelardo ed Eloisa.

 

LEGERE MULTUM….

Lettere di Abelardo ed Eloisa

[Eloisa ad Abelardo]

La tua amante, figlia, sorella, sposa per sempre.

Il terribile oltraggio che è stato inflitto al tuo corpo ti fa capire quanta invidia ci fosse nei tuoi riguardi. Tu sai quanto ti ho amato e quanto ti amo. A legarmi non è stato il vincolo del matrimonio ma il mio amore. Dio mi è testimone. Per te sono disposta a essere definita sposa, amica, amante e perfino sgualdrina [merĕtrīcula]. Se Augusto in persona mi avesse chiesto in moglie io avrei preferito fare la puttana con te, piuttosto che l’imperatrice con lui. Tu hai due cose che in genere i filosofi non hanno: il fascino della parola e la grazia dei tuoi versi. Dimmi soltanto perché, dopo il nostro ritiro, mi hai abbandonato. Perché non mi vieni a trovare e non mi scrivi eppure lo so che il tuo interesse per me, allora, era soprattutto l’amore più che la semplice attrazione. In nome di Dio ti prego: fatti vivo.

[Abelardo a Eloisa]

Sorella carissima in Cristo, se dopo la nostra fuga dal mondo non ti ho ancora scritto una parola, lo si deve al fatto che ho per te una grandissima stima.

Ho pensato che una donna come te non avesse bisogno di aiuti del genere. Tu sei l’unica in grado di ricondurre sulla retta via chi ha sbagliato e sai incoraggiare chi è ancora incerto. E come? Con la preghiera. È necessario che noi, in espiazione dei nostri numerosi peccati, si preghi il Signore. Sai bene quanto siano efficaci le preghiere. La continenza e la castità è quanto di più efficace possa esistere in questi casi. Ricordami sempre nelle tue preghiere e non stancarti mai. Dio Padre, ne sono sicuro, avrà pietà di noi.

[Eloisa ad Abelardo]

A colui che è tutto per me dopo Cristo.

Mi stupisce che tu, mio unico bene, ponga nella tua lettera il mio nome prima del tuo, la moglie prima del marito, la monaca prima del monaco. E un’altra cosa mi ha stupito: la tua lettera avrebbe dovuto confortarmi e invece ha aumentato i miei pianti e il mio dolore. Mi scrivi che saresti pronto a morire, e come pensi che io, poi, potrei continuare a vivere senza di te? «Che bisogno c’è - dice Seneca - di anticipare le disgrazie e perdere la vita ancor prima di morire?». Me infelice e disgraziata tra tutte le donne. Tu mi hai sollevata più in alto solo per aumentare il dolore della caduta.

Mentre ci abbandonavamo ai piaceri dell’amore, Dio ha fatto finta di non accorgersene, poi ci ha puniti: e nemmeno il nostro matrimonio ha diminuito la sua collera. A peccare eravamo in due, tu solo però hai pagato. Ora soffro anch’io. Mi perseguita il ricordo. Persino a Messa, quando la preghiera dovrebbe farmi sentire più pura, i ricordi mi tormentano la mente, e invece di pentirmi, rimpiango l’amore che ho perso. La gente in apparenza loda la mia castità perché sa che, in realtà, sono un’ipocrita. La mia abilità nel fingere non li trae in inganno perché io non sono guarita: ti penso, ti amo, ti voglio come prima e più di prima, e c’è chi continuerà per sempre a considerare te un servo [lacheus, un lacchè] e io una puttana [mĕrĕtrix]».

[Abelardo ad Eloisa]

Alla sposa di Cristo il tuo servo.         

In quattro punti esponi la tua anima offesa. Prima mi rimproveri per aver messo il tuo nome prima del mio, poi mi accusi che invece di consolarti ho aumentato i tuoi pianti, poi ti sei abbandonata ancora una volta alle solite recriminazioni nei confronti di Dio, e infine mi hai invitato a non sopravvalutare i tuoi meriti reali. Risponderò punto per punto. Per quanto riguarda la formula del saluto, ho rispettato la consuetudine che vuole il nome del superiore davanti all’inferiore, e tu, lasciamelo dire, mi sei superiore. Per quanto riguarda la seconda accusa, sei stata tu a chiedermi di tenerti informata delle mie sofferenze, ricordati comunque di quello che dice l’Apostolo [Paolo]: «Tutti coloro che vogliono vivere in Gesù Cristo debbono soffrire». Terzo: non dimenticare quanto Dio ha fatto per te. Per quanto riguarda, infine, il rifiuto di qualsiasi lode, sono d’accordo. Hanno scritto «chi si umilia si esalta» e io ti auguro di umiliarti ancora.

 

   Abbiamo detto che vogliamo puntare l’attenzione su un elemento che costituisce un intreccio filologico che dobbiamo dipanare in funzione della didattica della lettura e della scrittura secondo la natura del nostro Percorso; ebbene, a questo proposito abbiamo appena letto un frammento dall’Epistolario di Abelardo ed Eloisa che ha ispirato una scrittrice, che stiamo per incontrare, nel comporre uno dei suoi più incisivi “romanzi-brevi”. Scrive Eloisa [e abbiamo letto un momento fa queste parole forti]: La gente in apparenza loda la mia castità perché sa che, in realtà, sono un’ipocrita … e c’è chi continuerà per sempre a considerare te un servo [lacheus, un lacchè] e io una puttana [mĕrĕtrix]». E questa “incisiva espressione” di Eloisa, Il lacchè e la puttana, dà il titolo al romanzo, scritto nel 1937 da Nina Berberova, del quale stiamo per leggere qualche pagina. Chi è Nina Berberova, l’autrice di questo romanzo? [Sulla rete potete vedere tante belle foto di questo personaggio durante le sue varie età].

   Nina Berberova è nata l’8 agosto 1901 a San Pietroburgo quando questa città era la capitale dell’Impero Russo, suo padre Nikolaj Ivanovič Berberov è un funzionario del Ministero delle Finanze e sua madre Natal’ja Ivanovna Karaulova è una persona colta che ama l’Arte. La Rivoluzione del 1917 porta, inizialmente, un grande fervore culturale ma successivamente, nel momento in cui le condizioni di salute di Lenin si aggravano ed è costretto a distaccarsi dalle attività politiche, si sviluppa una forma di censura nei confronti degli intellettuali e molti di loro sono costretti ad emigrare: nel giugno del 1922 anche Nina Berberova, per evitare la repressione, deve lasciare la Russia insieme a suo marito, lo scrittore Vladislav Felicianovič Chodasevič, e, dopo una sosta a Berlino, nel 1925 si stabilisce a Parigi [dove rimane fino al 1950], e a Parigi Nina Berberova scrive molti testi tra i quali il romanzo Le feste di Billancourt.

   Nel 1950 si trasferisce negli Stati Uniti dove ha iniziato la sua carriera accademica dapprima alla Yale University e in seguito, dal 1963, alla Princeton University dove ha lavorato fino al 1971. Nina Berberova è considerata la cantatrice della malinconica vita degli “emigrés [gli emigrati, gl’esuli]” russi, i transfughi dalla Rivoluzione, incapaci di adattarsi alla dura realtà di una nuova vita lontani dalla madre patria e perduti nel sogno di un passato incantato, in una Russia spesso più immaginata che reale, e di questo la Berberova è perfettamente cosciente e questa condizione la descrive nelle sue molte opere, in particolare, in due libri di memorie: il primo intitolato Il corsivo è mio scritto nel 1957, pubblicato in Italia nel 1989, e il secondo, pubblicato in Italia nel 1990, intitolato Il giunco mormorante. Una delle opere più significative [più tradotte e più lette] di Nina Berberova, pubblicata nel 1936, s’intitola Il ragazzo di vetro ed è la più approfondita [soprattutto dal punto di vista psicologico] biografia del grande musicista russo Pëtr Il’ič Čajkovskij.

   Nina Berberova è tornata una sola volta in Russia, per un soggiorno di alcune settimane, nel 1989, pochi anni prima di morire: è morta il 27 settembre 1993 a Filadelfia in seguito alle complicazioni di una caduta.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In biblioteca, se volete, potete richiedere le opere di Nina Berberova – in particolare “Le feste di Billancourt”, “Il corsivo è mio”, “Il giunco mormorante”, “Il ragazzo di vetro” - e potete leggerne qualche pagina…

 

   E ora noi leggiamo qualche pagina del romanzo il cui titolo evoca la provocatoria espressione di Eloisa: Il lacchè e la puttana. La protagonista di questo racconto è Tanja, che merita di occupare un posto nella galleria delle grandi “abiette” della Letteratura russa, della quale la scrittrice racconta le avventure da Pietroburgo al Giappone, alla Cina fino a Parigi. E, a Parigi, dopo che lei è rimasta sola e in rovina, compare, a farle da spalla, il “lacchè”, un ex ufficiale della cavalleria zarista, finito come cameriere a servire caviale in un ristorante. Lo scenario di questo racconto è quello della Parigi degli emigrati russi incapaci di adattarsi alla dura realtà di vivere lontani dalla madre patria, continuamente in preda al rimpianto del loro passato che trasfigurano in modo irreale.

   Eloisa non assomiglia certamente a Tanja però, ai suoi tempi e in un diverso contesto, la maggior parte delle persone deve averla immaginata e giudicata ambigua, abietta, detestabile, spregevole come appare la protagonista del romanzo che stiamo iniziando a  leggere.

 

LEGERE MULTUM….

Nina Berberova,  Il lacchè e la puttana

Era la figlia di un funzionario pietroburghese che aveva raggiunto il grado di consigliere effettivo di V classe, un uomo dal viso lungo e stretto, diffidente, malaticcio, sempre scontento di tutto. Sua madre somigliava a tal punto alle mogli di altri funzionari pietroburghesi che dopo la sua morte (aveva quattordici anni compiuti quando la perse) Tanja non riusciva più a distinguerla nel ricordo dalle altre signore che frequentavano la loro casa, che la prendevano per il mento facendole male, che tra loro parlavano - con risatine isteriche, giocherellando leziosamente con le lorgnettes [gli occhialini] - di domestici, negozi e comitati di beneficenza. In casa comparve una governante, ma non si ambientò, non riuscì ad aver ragione della ragazza più grande, Lilja, che un guardiamarina andava a prendere all’uscita del liceo. Tanja e Lilja le insegnarono a bere il madera, a dire parole oscene, e la convinsero che l’inquilino del piano di sotto era perdutamente innamorato di lei.

... continua la lettura ...

 

   Abbiamo detto che un gran numero di studenti accorre sulla collina di Ste-Geneviève, nei locali attigui alla chiesa di St-Julien-le-Pauvre, ad ascoltare le Lezioni di Abelardo il quale - dopo avere criticato le tesi di Roscellino di Compiègne e di Guglielmo di Champaeux - spiega il suo pensiero sul tema degli universali. Nell’affrontare la questione degli universali Abelardo inaugura un nuovo modo di trattare la problematica intellettuale [per cui sembra precorrere quasi la modernità] e intraprende una via che verrà percorsa poi dai più illustri pensatori della Scolastica.

   Abelardo utilizza la disputa sugli universali non tanto per dare una risposta esaustiva su questo tema, così come fanno Roscellino di Compiègne e Guglielmo di Champeaux, ma, piuttosto, per sperimentare un nuovo e più efficace metodo dialettico: Abelardo vuole ampliare il discorso sul tema della conoscenza partendo dalla convinzione che il primato spetta alla Logica per cui “è necessario capire [intelligo], per poter credere [ut credam]”. Abelardo non vuole costruire una propria tesi chiusa in se stessa, che sia una enunciazione da proporre come vera in una competizione su argomenti - come quello degli universali - che devono rimanere “aperti” perché suscettibili di modifiche tanto nell’immediato quanto, soprattutto, in futuro, per l’avvento di nuove cognizioni nel campo della Logica capaci di rettificare le regole della Dialettica.

   Nell’affrontare la questione degli universali Abelardo vuole fare l’analisi delle ipotesi che scaturiscono dalla riflessione su questo argomento per capire quanto possano reggere al vaglio della Ragione. E, quindi, anche se il suo tono è sarcastico, non vuole semplicemente colpire e affondare  il pensiero dei suoi avversari ma vuole sezionare razionalmente le loro tesi per valutarne gli aspetti utili e quelli insostenibili [secondo la Logica]: difatti tiene conto tanto della teoria “nominalista” di Roscellino [gli universali sono puri nomi, espressioni della voce] quanto di quella “realista” di Guglielmo di Champeaux [gli universali esistono realmente solo nella mente di Dio, ante rem] e, naturalmente, di quella “concettualista” che a lui sembra la più logica [gli universali esistono nella mente della persona sotto forma di concetti, post rem].

   Abelardo pensa che Roscellino abbia ragione quando sostiene che si ha vera conoscenza solo del particolare. Noi, afferma Abelardo, non conosciamo “l’essere umano in senso universale” ma conosciamo “ogni singola persona”, noi non conosciamo “il mondo creato in senso universale” ma conosciamo “ogni singola cosa”, quindi, facciamo esperienza del singolo individuo e del singolo oggetto e non delle specie e dei generi e, di conseguenza, i “nomi universali [albero, animale, essere umano...]” evocano, afferma Abelardo, solo rappresentazioni generiche [riduttive della conoscenza]. Però Abelardo non condivide il pensiero di Roscellino quando afferma che i “nomi” si identificano solo col “suono delle parole [col “flatus vocis”]”: Abelardo pensa che i “nomi” non sono soltanto “espressioni della voce [voces, suoni]” ma ritiene si debba fare una distinzione logica per cui bisogna considerare, afferma Abelardo, che ogni “nome universale” [albero, animale, essere umano...] è sì un vocabolo, una “vox [un suono]” ma è, contemporaneamente, il significato di questo vocabolo, è un “sermo [un discorso esplicativo]” che contiene una disposizione logica ad essere usato come predicato di una pluralità di soggetti [ci mette a conoscenza di una categoria]. Quindi gli “universali” sono “parole” ma la Logica ci fa capire, afferma Abelardo, che queste parole contengono i tratti comuni delle cose e, dunque, sono indice di avvenimenti reali [di effettive conoscenze]. La duplice valenza [“vox e sermo”, “suono e significato”] di un nome è dovuta, afferma Abelardo, al fatto che il suono [la vox] è stato stabilito per convenzione mentre il suo contenuto logico [il sermo, il significato] è il prodotto, afferma Abelardo, del processo astrattivo dell’intelletto, il quale, in una moltitudine di oggetti offerti dalle sensazioni, sceglie [con un investimento in intelligenza] quei caratteri che si ritrovano in tutti gli oggetti e che esprimono il loro “status communis”, la loro comune condizione: il “concetto”. E, di conseguenza, si capisce, afferma Abelardo, che gli universali esistono con certezza - sotto forma di “concetti” - solo nella mente della persona.

   Di conseguenza, si può affermare, sostiene Abelardo, che negli individui non c’è una sostanza comune che rimanda alle Idee eterne di Dio come sostiene la tesi “realista” di Guglielmo di  Champeaux, il quale ha ragione, però, afferma Abelardo, quando sostiene che nella mente di Dio ci sono i modelli [gli archetipi] universali perché non si può concepire che Dio non abbia Idee: il fatto è che gli esseri umani non sono in grado di conoscerle nella loro qualità integrale se non facendo delle ipotesi parziali, ed è per questo motivo logico che Abelardo polemizza, sulla scia di Severino Boezio, con chi vorrebbe applicare la dialettica ai misteri di Dio come se questi misteri potessero rientrare nelle dieci categorie di Aristotele.

   Quindi, mentre un filosofo come Anselmo [ve lo ricordate?] parte dai dati della Fede per sviluppare le sue argomentazioni filosofiche [io devo credere, per poter comprendere], Abelardo, consapevole della diversità tra la Filosofia e la Fede [io devo comprendere, per poter credere], lascia da una parte i dogmi e procede a partire dalla Ragione, restando costantemente nei suoi confini, nonostante siano angusti questi confini [e Abelardo ne è perfettamente cosciente]. I confini della Ragione sono rigorosamente tracciati dal reticolato delle categorie e, al di là di questo reticolato, solo la Fede, sostiene Abelardo, ci si può avventurare. Inoltre, afferma Abelardo, si capisce che le idee sono anche negli oggetti, non perché siano “cose” con una loro “natura”, ma perché, afferma Abelardo, è la mente umana che proietta il concetto sull’oggetto identificandone la forma.

   In definitiva, secondo Abelardo, gli universali sono modelli nella mente di Dio [ante rem] con una loro specifica qualità incomprensibile all’essere umano, sono nelle cose [in re] come vocaboli dotati di suono convenzionale [vox] e di significato logico [sermo], e sono presenti nella mente umana [post rem] sotto forma di concetti elaborati dall’attività astrattiva dell’intelletto. Quindi non possiamo più dire che l’idea è una, universale ed eterna secondo il pensiero di Platone, ma dobbiamo ammettere che le idee hanno “una natura flessibile” e questa loro natura va ulteriormente studiata.

   Ciò che conta nella speculazione di Abelardo è il suo metodo filosofico [questa è la novità] perché Abelardo procede in modo rigorosamente dialettico per affinare lo strumento dell’analisi razionale che è l’unico valido a disposizione dell’itinerario conoscitivo, di quel percorso logico [fin dove la Ragione può arrivare] che permette alla persona di passare dall’acquisizione della sensazione alla formulazione del concetto, e, quindi, con Abelardo la Filosofia comincia a camminare con i propri piedi.

   L’articolato pensiero di Abelardo sulla questione degli universali è raccolto in un’opera intitolata Dialectica [Dialettica] che contiene cinque trattati sul tema della Logica, e questo volume - nonostante le censure e le condanne del tribunale ecclesiastico - è sempre stato utilizzato come libro di testo in tutte le Scuole medioevali e moderne.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Abelardo, nell’opera intitolata “Dialectica”, tratta cinque temi legati ai termini: la forma, il vocabolo, il significato, il suono, la voce...   Scegliete uno di questi termini e scrivete quattro righe per comunicare a che cosa vi fa pensare la parola scelta...   

 

   Eloisa [abbiamo detto] non assomiglia certamente a Tanja però, sebbene in un diverso contesto, è stata giudicata ambigua e detestabile, e lei ne soffre, ma anche la vita di Tanja non è facile e non è immune dalla sofferenza.

 

LEGERE MULTUM….

Nina Berberova,  Il lacchè e la puttana

Tanja si ritrovò sola. Cominciava una giornata grigia - grigia come la sua vita. Ma lei non voleva giorni così, né notti così, lunghe, morte, con la testa piena di conti: quanti soldi mi restano, cosa posso comprare con quei soldi, dove trovare un uomo dietro cui nascondermi, un uomo che pensi a tutto, paghi tutto, che mi faccia regali, mi adori, un uomo di quelli che a volte capitano nella vita, di quelli che probabilmente capitano a tutte: lo avevano trovato due sue amiche di Pietroburgo incontrate a Parigi, e una conoscente di Shanghai; insomma, ce l’avevano tutte le donne - così le sembrava - che lei conosceva. Il giorno cominciava, e lei se ne andava in giro per i negozi: non comprava quasi mai nulla, ma sceglieva, valutava i prezzi, rovistava sui banconi pieni di calze e guanti, lesinava i suoi pochi soldi, nelle sue fantasticherie si agitava fino a farsi venire le palpitazioni quando si immaginava coperta da questo o quello straccetto di seta o di pelliccia.

... continua la lettura ...

 

   Dove andrà Tanja? Vedremo.

   Oltre che la “dialettica”, Abelardo insegna “l’etica” e “la teologia” e la prossima settimana ci occuperemo del suo pensiero in proposito. Una serie di affermazioni del pensiero di Abelardo vengono condannate dal concilio di Sens nel 1140 dove Abelardo subisce gli attacchi di un implacabile accusatore: Bernardo di Clairveaux [e, prossimamente, incontreremo anche lui]. Abelardo si difende, si appella al papa, ma non viene né ascoltato né graziato. Abelardo è gravemente ammalato e riceve ospitalità da Pietro il Venerabile, il potente abate di Cluny che lo accoglie rivolgendosi minacciosamente verso Roma dicendo: «Nessuno tocchi Abelardo».

   Abelardo muore nell’abbazia di Saint-Marcel nei pressi di Chalon-sur-Saône [dove era stato invitato a tenere una serie di Lezioni] nel 1142 e la sua salma viene portata nel monastero da lui fondato, il Paracleto, dove è badessa Eloisa che ventidue anni dopo, nel 1164, lo raggiungerà nella stessa tomba. Ma nei secoli successivi le salme sono state trasferite in loculi separati, fino a quando, verso la fine del Settecento, le autorità religiose le hanno rimesse in un’unica tomba nei sotterranei della cappella di Saint-Leger, ma hanno posto tra i due una lastra di piombo in modo che gli scheletri [sebbene scarnificati] non ne possano approfittare e, soprattutto, per fare in modo, così ha affermato un importante prelato dell’epoca: “che i due amanti non si trovino a diretto contatto il giorno in cui, alla fine dei tempi, ci sarà la risurrezione della carne e i corpi riacquisteranno tutte le loro prerogative [anche quelle temporaneamente perdute da Abelardo?]”.

   Rendiamo omaggio alla comicità involontaria che accompagna la tragica storia di Abelardo e di Eloisa fino alla fine dei tempi!

   A proposito di “risurrezione” non perdete la prossima Lezione: l’ultima prima della vacanza pasquale. Sappiamo che tra “la rinascita [materiale, intellettuale, spirituale]” e “la volontà d’imparare” c’è un nesso profondo. E sappiamo che lo “studio” - in quanto sinonimo di “cura” - è fonte di “rinnovamento”.

   E, quindi, la Scuola è qui, e il viaggio continua mentre “primavera è sulla soglia”…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 20, 2015