Autorizzazione all'uso dei cookies

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600 COMPARE IL CONCETTO DI IDEOLOGIA DELLA SCIENZA ...

Lezione N.: 
15

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi 

La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza 13-14-15  marzo 2019

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600

COMPARE IL CONCETTO DI IDEOLOGIA DELLA SCIENZA ...

     Questo è il quindicesimo itinerario del nostro viaggio,  sulla soglia della primavera come avevamo preventivato, siamo entrate ed entrati sul territorio de “la sapienza poetica e filosofica del ‘600, il secolo della scienza come dice il titolo del nostro Percorso.

     Ci troviamo, comunque, sempre in compagnia di Michel de Montaigne, l’autore dei Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano, un’opera complessa della quale mi auguro abbiate un’idea più chiara per quanto riguarda la sua forma e il suo contenuto. Montaigne non riesce a entrare nel Seicento perché muore come sapete il 13 settembre 1592 all’età di cinquantanove anni, ma questo “geniale gentiluomo di provincia”, come è stato definito, continua a essere presente intellettualmente perché la sua opera ha avuto un’ampia divulgazione, e il merito come sappiamo lo si deve attribuire a una giovane donna [e questo è, per l’epoca, un fatto straordinario]: Marie de Gournay, considerata da Montaigne come la sua “figlia d’elezione” e accolta, in quanto tale, tanto dalla moglie di Montaigne  Françoise quanto dalla figlia Léonor. Se i Saggi di Montaigne hanno conquistato lettrici e lettori in tutta Europa lo si deve a Marie de Gournay che ha curato su richiesta di Françoise, la vedova di Montaigne, la pubblicazione nel 1595 dell’edizione postuma dei Saggi, poi ha sollecitato la loro traduzione in inglese, confidando nelle competenze di un umanista di origini italiane che abbiamo rincontrato la scorsa settimana: John Florio, grande amico di Giordano Bruno a Londra. In questo contesto londinese la scorsa settimana abbiamo incontrato un personaggio con il quale siamo entrate ed entrati nel territorio del secolo della scienza: Francis Bacon [Francesco Bacone].

     Come sappiamo, Francis Bacon [Francesco Bacone] è considerato colui che ha creato l’ideologia della scienza, cioè un progetto globale in cui le Leggi della scienza possono e debbono estendersi alla totalità dell’esperienza umana, e per raggiungere questo obiettivo Francis Bacon si è impegnato [come vedremo fra poco] per diventare il fautore di una nuova razionalità [di stampo moderno]. Durante l’itinerario scorso abbiamo messo in evidenza il lato utopico [da umanista rinascimentale] di Francis Bacon facendo conoscenza con la sua celebre opera intitolata Nuova Atlantide in cui emerge [facciamo riemergere l’Atlantide] un concetto nuovo [moderno] di scienza che considera il sapere scientifico non come l’opera di un solitario sapiente illuminato che studia ed esperimenta per conto proprio, ma come l’attività di una comunità ben organizzata di ricercatori [la comunità scientifica] tesa a migliorare il modo di pensare e le condizioni di vita dell’intero genere umano. Poi abbiamo constatato che Francis Bacon compone i Saggi [ne scrive 58] sulla scia di Montaigne del quale legge con grande interesse l’opera, ancor prima che Florio la traduca in inglese perché conosce il francese avendo studiato anche a Parigi. Francis Bacon utilizza lo stesso titolo dell’opera di Montaigne [che ormai fa tendenza] ma il titolo è l’unica cosa che le due opere hanno in comune perché gli stili dei due autori [come abbiamo potuto constatare una settimana fa] sono diversi, e i “consigli civili e morali” di Francis Bacon, che insegnano come comportarsi bene nella vita, spesso sono ispirati da un deteriore utilitarismo privo di generosità, senza coltivare il dubbio o nutrire conflitti interiori, tutto il contrario di come pensa, scrive e agisce Montaigne.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quali atti orientati verso la generosità avete compiuto ultimamente?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     L’unico piano su cui Francis Bacon non concepisce forme di utilitarismo deteriore è quello scientifico perché la scienza deve dare [scrive Bacon] agli esseri umani il potere sulla Natura in modo da poterla dominare e governare esclusivamente per attuare un innalzamento generale della qualità della vita. Ma quali sono le parole-chiave e le idee-guida del Pensiero scientifico di Francis Bacon? Mettiamoci in cammino.

     All’opera più importante di Francis Bacon - un’opera che ha lasciato il segno nella Storia del Pensiero – oggi, per semplificare sul piano dello studio e su quello editoriale, si dà il nome di Novum organum [Nuovo organo]; bisogna però chiarire [e inizialmente, in proposito, per semplificare, volevo sorvolare sul tema della titolazione dell’opera più importante di Francis Bacon, ma poi mi sono detto: «Costui ha lavorato vent’anni attorno a questo progetto, quindi, in primo luogo è opportuno, per lo meno, descrivere come ha proceduto a dargli forma e, in secondo luogo, è utile per chi studia conoscere questa forma perché, a livello didattico, tra il conoscere e il non-conoscere c’è differenza»] che Francis Bacon concepisce un piano d’insieme della sua opera che dal 1605 al 1623 va sviluppando, e ogni volta che ne compone una porzione le dà un titolo: inizia nel 1610 a denominare ciò che ha prodotto con il titolo di Instauratio Magna [Grande ricostruzione], poi amplia l’opera e nel 1615 la intitola De dignitate et augmentis scientiarum [La dignità e il progresso delle scienze], poi prosegue nella composizione e nel 1620 la intitola Novum organum sive indicia vera de interpretatione naturae [Nuovo organo ossia veri indizi intorno all’interpretazione della natura], dopo di che aggiunge ancora un’ulteriore porzione e nel 1623 la intitola Historia naturalis et exsperimatalis ad condendam philosophiam sive phenomena universi [Storia naturale e sperimentale per fondare la filosofia ovvero i fenomeni dell’universo]. Infine Francis Bacon compone ancora una parte dell’opera che viene pubblicata postuma nel 1627 con il titolo di Silva silvarum [Raccolta delle raccolte]. Noi ora - con questo elenco di titoli - abbiamo voluto cavalcare la complessità [e perché non l’avremmo dovuto fare?] ma l’editoria, in età contemporanea [ma già nel secolo precedente a quello scorso], ha anche giustamente creduto opportuno intitolare Novum organum [Nuovo organo] la più importante opera di Francis Bacon.

     Il termine latino “organum” deriva dal greco “órganon” che ha la stessa radice di “érgon” che significa “opera, esecuzione, lavoro” e gli autori, a cominciare da Aristotele, utilizzano la parola “organum” con il significato di “strumento a più voci” per dare un titolo complessivo ad un volume che contiene opere legate insieme da un tema comune [da una logica unanime]. Ma l’organo è anche uno straordinario strumento musicale: il più antico organo di cui si abbia notizia ha una tecnologia idraulica ed è stato, secondo la tradizione, e secondo la testimonianza di una serie di autori antichi, e con il ritrovamento di alcuni reperti negli scavi di Pompei, inventato da Ctesibio di Alessandria nel III secolo a.C., e nasce come strumento profano usato nei circhi. Nell’Alto-medioevo, intorno all’anno Mille, viene inventato l’organo a mantici che, attraverso una continua e graduale opera di perfezionamento, entrerà poi ad accompagnare sia la liturgia della Chiesa cattolica [con il favore del concilio di Trento] che quella protestante.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete un ricordo particolare legato al suono dell’organo?...

Scrivete quattro righe in proposito...    

     E allora quali sono le parole-chiave e le idee-guida contenute nella più importante opera di Francis Bacon intitolata Novum organum [Nuovo organo]? Anche Francis Bacon inizia il suo percorso con un’aspra critica al modo di pensare degli accademici aristotelici che ancora dominano nelle Università alla fine del XVI secolo.

     Francis Bacon, come fanno i matematici e astronomi rinascimentali che abbiamo incontrato lo scorso anno: Bernardino Telesio, Giordano Bruno, fra’ Tommaso Campanella, Galileo Galilei, inizia il suo percorso criticando il modo di pensare degli accademici aristotelici che ancora dominano nelle Università alla fine del XVI secolo e che continuano a considerare i testi della Logica e della Fisica di Aristotele come se fossero sacri quindi intangibili, anche se propongono concetti ormai superati nell’ottica di una nuova [di una moderna] visione del mondo: questi concetti sono [e rimangono] teoricamente significativi ma lo stesso Aristotele [dopo millenovecento anni] li avrebbe considerati desueti in quanto puramente astratti [e di questo tema ne abbiamo parlato diffusamente durante il viaggio dello scorso anno] come il concetto di “motore immobile” [il propulsore intellettuale che mette in movimento l’Universo], come il concetto della divisione tra il Mondo celeste [composto di sostanza perfetta e incorruttibile, l’etere] e il Mondo terrestre [fatto di sostanza deperibile, la materia], e come l’idea che il moto planetario si basi su orbite perfettamente circolari [rifiutando la figura ellittica - quella effettivamente corrispondente al moto planetario - perché considerata imperfetta rispetto al cerchio].

     Francis Bacon ammira comunque i ragionamenti, per quanto antiquati possano essere, contenuti nelle Opere di Aristotele [l’Organon aristotelico] ma non può condividere il fatto che Aristotele consideri la scienza fine a se stessa [la scienza per la scienza] senza attribuirgli uno scopo pratico. Come abbiamo studiato la scorsa settimana, Bacon concepisce il sapere scientifico come uno strumento [come un “organum”] utile a stabilire il dominio dell’Essere umano sulla Natura mentre Aristotele non era interessato a trovare un sistema per “dominare” la Natura ma intendeva creare un apparato logico per poterla “conoscere”, per poterla “inquadrare con la mente”, in modo che la persona potesse essere in grado di contenerla con il pensiero e, a questo scopo, proponeva il dispositivo tutto intellettuale [l’impianto ideale] delle “dieci categorie”. Le categorie [e questo è un argomento che ritorna puntualmente nei nostri viaggi di studio] sono secondo Aristotele i dieci concetti più generali che ci siano [la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, il luogo, il tempo, l’azione, il possesso, lo stato e la passione] oltre i quali non si può andare nella scala [nella gerarchia] delle idee ed è, quindi, nel quadro di questi dieci predicati supremi che sta la possibilità della conoscenza della realtà: è attraverso queste dieci idee generali, afferma Aristotele, che noi conosciamo l’essenza della realtà [non però come effettivamente è ma come la nostra mente la interpreta, per categorie intellettuali]. Questo impianto - che inquadra tutte le sostanze nel sistema delle categorie - permette secondo Aristotele di formulare un “giudizio” sulle sostanze [sulle persone, sugli animali e sulle cose] ma non di dominare la Natura, che è per Aristotele un obiettivo praticamente non realizzabile.

     Il dispositivo intellettuale delle categorie [e lo sappiamo dai viaggi precedenti a questo] è stato archiviato da tempo dagli studiosi rinascimentali e Bacon pensa a uno strumento nuovo [a un nuovo “organum”] che possa servire alla persona non solo per conoscere intellettualmente la realtà ma anche per controllare [empiricamente, praticamente] i fenomeni naturali e per sfruttarli a proprio vantaggio: questo strumento [questo “organum”] deve essere in grado di individuare gli elementi essenziali di un fenomeno e di risalirne alle cause, ma perché questo avvenga [scrive Bacon] è necessario, in primo luogo, che la persona sgombri la mente da ogni pregiudizio [ci vuole, afferma Bacon, una “Instaurazio Magna”, una “Grande ricostruzione”, ed è questo il primo titolo che dà alla sua opera]. Se la persona [scrive Bacon] non si libera dai pregiudizi che occupano la sua mente, per la ricerca scientifica non c’è probabilità di successo.

     Di conseguenza, il metodo di Bacon prevede due momenti, due parti ben distinte: la parte negativa che lui chiama “pars destruens” [la parte in cui si elimina] e la parte positiva che chiama “pars construens” [la parte in cui si introduce].

     Con “la pars destruens” Bacon si propone di eliminare [destruere] tutte le false credenze [i pregiudizi] che impediscono alla persona di acquisire l’autentica conoscenza della realtà, e questi pregiudizi - che Bacon chiama “idola” [idoli] - sono secondo lui di quattro specie: idola tribus [idoli della tribù], idola specus [idoli della caverna], idola fori [idoli della piazza o del mercato] e idola theatri [idoli del teatro]. Oggi si ritiene che Francis Bacon aggiungerebbe a questi idoli [a questi pregiudizi] anche “le [cosiddette] percezioni irragionevoli” [idola perceptionis sine ratione, gli idoli della percezione immotivata]: impressioni che non corrispondono alla reale consistenza di certi fenomeni dei quali si dà una lettura spesso inficiata dalla propaganda ideologica piuttosto che sostenuta dalla logica e dai dati reali [per cui, senza fare i conti con la realtà e coltivando l’irrazionalità, si sfocia nell’intolleranza, nella violenza, nell’oscurantismo].

     Come descrive Francis Bacon le quattro specie di “idoli” [le quattro forme di pregiudizio] che ha elencato e che rendono difficoltosa la conoscenza della realtà?

     Gli idoli della tribù [idola tribus, la prima specie] sono pregiudizi comuni a ogni persona, sostiene Francis Bacon, perché hanno la loro radice nella natura umana, e i più comuni sono: la tendenza a ritenere l’essere umano superiore agli animali, la tendenza a considerare la Natura come un tutto perfettamente armonico, la propensione a dare un’importanza maggiore a ciò che è in rilievo rispetto a ciò che si trova nascosto.

     Gli idoli della caverna [idola specus, la seconda specie] sono i pregiudizi che prendono il nome, afferma Francis Bacon, dal famoso “mito della caverna” che Platone descrive nel Libro VII del dialogo intitolato Repubblica. Bacon ritiene che la testa di ogni persona [quasi sempre ben piena e quasi mai ben fatta] si configuri come se fosse la caverna descritta da Platone. Platone, nel Libro VII del dialogo Repubblica, narra che le persone vivono come se fossero costrette a guardare verso la parete di fondo di una caverna sulla quale scorrono le immagini riflesse di ciò che passa fuori, quindi [scrive Francis Bacon, parafrasando Platone], la mente delle persone è come una caverna sulla cui parete di fondo si vedono riflesse le ombre delle cose e non le cose reali, e ciò significa  che ogni essere umano ha in mente dei pregiudizi che considera come se fossero [idoli] la verità mentre, invece, queste false credenze [queste ombre] pregiudicano la conoscenza effettiva della realtà.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Dal “mito della caverna” di Platone hanno tratto ispirazione nei secoli molte autrici e molti autori, e in biblioteca potete richiedere, per leggerlo o per rileggerlo, il romanzo intitolato La caverna di José Saramago: questo è il momento adatto per fare questo esercizio...

     Gli idoli della piazza o del mercato [idola fori, la terza specie] nascono, sostiene Francis Bacon, dal significato plurimo [bivalente o trivalente] che è stato dato pregiudizialmente ad una serie di termini per poterli utilizzare in modo equivoco, per cui una parola, che dovrebbe definire un unico concetto, viene invece usata per indicarne due o più di due, e la parola “forum” [per esempio, scrive Francis Bacon] indica sia “la piazza” che “il mercato” e, dunque, simboleggia tanto “la vita sociale” quanto “le relazioni ambigue che ne derivano” ed è proprio dalle relazioni ambigue, sostiene Francis Bacon, che si sviluppa ulteriormente l’ambiguità dei termini perché la persona va in piazza per costruire delle relazioni ma anche per fare affari e, nella dinamica del fare affari, le relazioni [tranne che in casi rarissimi] sono sempre equivoche [subdole, false, dubbie, insincere]: di conseguenza molte importanti parole-chiave assumono un significato ambiguo, e siccome è con le parole che si descrive il mondo, anche il mondo viene interpretato in modo vago [indeterminato, indefinito, confuso, falso].

     Gli idoli del teatro [idola theatri, la quarta specie] sono quei pregiudizi, sostiene Francis Bacon, che derivano dal fascino delle grandi teorie tradizionali della Storia del Pensiero, come quelle di Pitagora, di Platone e di Aristotele perché gli apparati intellettuali che questi straordinari autori hanno prodotto sono molto affascinanti come se fossero delle meravigliose rappresentazioni teatrali capaci di suggestionare la mente di qualsiasi persona, e senza il superamento di questo insidioso pregiudizio il processo della conoscenza non è in grado di andare oltre il pensiero [spesso presentato in senso dogmatico] dell’età antica.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quali sono, secondo voi, oggi, i pregiudizi, le false opinioni, le superstizioni, le credenze inutili da rifiutare perché frutto di percezioni che non corrispondono alla realtà?...  

Scrivete quattro righe in proposito...

     Francis Bacon ritiene che una volta sgombrata la mente dai pregiudizi [gli idola] si possa procedere nella ricerca scientifica, e quale strada indica e descrive?

     Francis Bacon ritiene che il procedimento più adatto per realizzare la ricerca scientifica sia “l’induzione”. Il metodo induttivo, scrive Francis Bacon, è quel procedimento scientifico che, attraverso lo studio dei casi particolari che vengono registrati, permette alla ricercatrice e al ricercatore di arrivare gradualmente a formulare delle Leggi e dei Principi sempre più di carattere generale [universali]: questa fase - dopo quella della “pars destruens” [la parte in cui si eliminano gli idola, i pregiudizi] - è la “pars construens [la parte che introduce], in cui la ricerca scientifica deve porre in luce l’essenza e la forma dei vari fenomeni. La “forma” di un fenomeno, sostiene Francis Bacon, è data dalle Leggi che lo regolano, e le Leggi che regolano un fenomeno sono anche valide per molti altri fenomeni, e la possibilità che si possa controllare il maggior numero possibile di fenomeni della Natura permette di poterne utilizzare, in modo vantaggioso, le manifestazioni perché questo è l’obiettivo che la scienza si propone di raggiungere: trarre vantaggio dalle manifestazioni dei fenomeni della Natura per poter migliorare il modo di pensare e le condizioni di vita dell’intero genere umano.

     Per arrivare a conoscere le Leggi secondo le quali un fenomeno si manifesta, scrive Bacon, bisogna, in base all’esperienza, procedere alla compilazione di una serie di “tavole” per ogni fenomeno. Bisogna comporre, afferma Francis Bacon, la “tabula presentiae” [di presenza] che elenca tutti i casi in cui appare un fenomeno, la “tabula absentiae [di assenza] che registra i casi più importanti in cui un fenomeno manca, la “tabula graduum” [delle comparazioni] che indica le varie gradazioni in cui un fenomeno compare. Dalla compilazione di queste tre tavole - che comprendono tutti i casi particolari che interessano un determinato fenomeno - si ricava la “forma” del fenomeno osservato che corrisponde alla Legge universale che lo regola.

     Per Francis Bacon non ha importanza che il suo metodo “induttivo” venga elogiato sotto il profilo filosofico e sia ritenuto valido in chiave teoretica [in una prospettiva speculativa] perché lui, nell’opera Novum organum [Nuovo organo], vuole enunciare dei concetti che possano far progredire la scienza sul piano pratico [empirico, sperimentale] e, difatti, il problema della validità del suo procedimento “induttivo” rimane insoluto [sotto il profilo filosofico, teoretico] e alcune domande fondamentali non trovano una risposta a partire dai due interrogativi insoluti basilari: perché dall’osservazione anche di molti casi particolari si dovrebbe risalire a una Legge universale? Che cosa ci garantisce che in futuro, o in tutto il resto del mondo, i fenomeni si svolgano così come vengono osservati adesso?

     Per avere questa garanzia bisogna ammettere l’esistenza di un presupposto necessario e universale [è Dio il garante, il grande manovratore, il regista?], e Bacon, senza dare alcuna spiegazione, dà per scontato che ci sia un presupposto necessario e universale. Francis Bacon non si pone il problema [e lo ignora volontariamente] di fare una distinzione tra la Fisica e la Metafisica, e questo fatto rappresenta un limite per il suo metodo “induttivo”. Questa constatazione ci porta ad affermare che il creatore del metodo sperimentale è Galileo Galilei, il quale fa una chiara distinzione tra la Fisica e la Metafisica ribadendo che “la Fisica studia i rapporti tra i fenomeni in modo completamente autonomo dalla Metafisica”. Ma Francis Bacon ribadisce che, nell’indagine sul funzionamento dei fenomeni della Natura, lui vuole far prevalere decisamente i risultati concreti dell’esperienza [il lato empirico] piuttosto che dedicarsi all’indagine teorica [al lato intellettuale]. Bacon tende a far prevalere l’aspetto pratico della scienza piuttosto che quello teoretico: secondo lui la scienza non ha come fine “il semplice conoscere”, non ha come obiettivo “la disinteressata contemplazione della Natura”.Per Bacon la scienza serve per costruire delle tecniche che possano fornire alla persona gli strumenti per “dominare la Natura”. La “tecnica” rappresenta lo scopo ultimo delle scienze naturali: ecco perché il titolo che Francis Bacon si è guadagnato è quello di “primo filosofo della civiltà industriale” anche se lui avrebbe preferito essere chiamato “tecnocrate” piuttosto che filosofo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per fare un determinato lavoro, un certo esercizio, una particolare faccenda ... quale tecnica – che vi ha suggerito l’esperienza pratica - utilizzate?... 

E visto che la tecnica dello scrivere la conoscete: scrivete quattro righe in proposito...

     Uno dei fenomeni naturali su cui Francis Bacon punta maggiormente l’attenzione - e non nel modo “esistenziale” con cui affronta il tema Montaigne , come abbiamo studiato - è quello della morte, un fenomeno che, in Natura, è parte integrante del ciclo della vita, e “le tavole” riguardanti il fenomeno della morte [di quando in Natura si presenta o ritarda o è prevedibile] sono state puntigliosamente compilate da Bacon: il suo intento è certamente quello di trovare la chiave [la Legge] per misurare salvo imprevisti la durata della vita umana [l’aspettativa di vita].

     In conformità con questo tema stiamo leggendo, come sapete, il testo del romanzo-breve composto da Arthur Schnitzler intitolato Novella dell’avventuriero, [pubblicato a Vienna nel 1937. Come sapete, lo scrittore viennese prende spunto da un’annotazione scritta in margine da Montaigne [all’altezza del capitolo XX del Libro I dei Saggi intitolato Filosofare è imparare a morire] per rappresentare un personaggio, che Montaigne ha evocato con preoccupazione, capace di predire alle persone il giorno e l’ora della loro morte. Questo personaggio - sebbene abbiamo già letto più della metà delle pagine della Novella dell’avventuriero - non lo abbiamo ancora incontrato perché la narrazione inizia e si sviluppa con la storia del giovane Anselmo Rigardi, un ragazzo nobile che, come ricorderete, in seguito alla morte dei suoi genitori avvenuta durante l’epidemia di peste che colpisce Bergamo nell’anno 1520, si ritrova solo e, dopo aver superato lo sconforto iniziale, attratto dalla libertà che ha acquisito, decide di abbandonare il palazzo dove abita e di partire all’avventura. Nel giro di pochi giorni, vive una serie di esperienze piene di imprevisti: vince ai dadi una ragazza, Anita, con la quale passa la sua prima notte d’amore in casa di un misterioso e buffo personaggio che li ospita, e il mattino seguente uccide in duello - essendo un abile spadaccino - il marito di lei, l’ambiguo conte Francesco Raspighi che li ha rintracciati, ma che, il giorno prima, nelle vesti di un losco individuo, si era giocato Anita ai dadi. Dopo questo tragico episodio Anselmo riprende il suo viaggio stando prudentemente alla larga da situazioni rischiose finché, dopo giorni di cammino verso sud, e rinfrancato dal paesaggio armonioso che lo circonda e dall’ospitalità che, per mangiare e per dormire, riceve in locande ben tenute, si ritrova in un vasto spiazzo erboso traboccante di fiori di campo dove incontra un vecchio vestito con un saio marrone il quale, dopo aver attinto, con una brocca, acqua ad una fonte, gli offre da bere. Poi il vecchio mette al corrente Anselmo su come stanno le cose nel paese in cui è capitato: lo informa che il sovrano è in punto di morte, che il principe ereditario è partito per un viaggio in terra straniera, che un nobile potente e pericoloso vorrebbe spodestare il re, che lo Stato confinante si preparava ad un attacco. E, mentre sta dicendo ad Anselmo che anche lui si dovrebbe schierare ed arruolare, dal bosco ai margini dello spiazzo fiorito, compare un cavaliere che si stacca dal gruppo armato di cui è alla testa e, al galoppo, seguito da uno scudiero che tiene per le briglie un cavallo sellato, si avvicina ad Anselmo e al vecchio e, in modo perentorio, domanda loro dove sia la casa di Geronte, e il vecchio gli fa notare che il portone d’ingresso della casa che cerca è nascosto dal fitto rampicante che ricopre le mura che hanno di fronte. Il cavaliere allora batte con forza contro il portone finché sulle mura appare il maggiordomo al quale il cavaliere dichiara di essere venuto a prelevare Geronte per portarlo a corte perché è in gioco il destino del sovrano, del Paese e dello Stato e, quindi, c’è bisogno del suo intervento in modo che, con la sua arte, sveli ai consiglieri del re se e quando il sovrano morirà. Il maggiordomo, però, comunica al cavaliere che Geronte non intende seguirlo: sono anni che non si allontana da casa e non riceve visite, ma il cavaliere urla che, se non ubbidirà, la casa verrà assaltata e la sua giovane figlia Lucrezia, con la quale Geronte vive, subirebbe violenza. Geronte, di fronte a questa minaccia, è costretto a seguire il cavaliere, e Anselmo, confuso, chiede al vecchio come sia possibile che esista un individuo capace di predire alla gente l’ora della morte. E, all’incredulo Anselmo, il vecchio risponde, e noi riprendiamo a leggere il testo della Novella dell’avventuriero.

LEGERE MULTUM….

Arthur Schnitzler, Novella dell’avventuriero

Confuso ed eccitato da quanto aveva udito e visto, Anselmo si rivolse al vecchio: «Ma non può essere vero che dietro queste mura viva qualcuno capace di predire alla gente l’ora della morte». «È vero» disse il vecchio. «E se avete un po’ di pazienza, ne vedrete la conferma con i vostri stessi occhi, e sarò proprio io a darvela. Io sono l’ultimo di sette amici ai quali Geronte cinquant’anni fa predisse la morte, e per ognuno la profezia si è avverata esattamente. Sono rimasto io solo, e per quanto vi possa sembrare strano, io so per certo che oggi a mezzanotte, come mi venne predetto cinquant’anni fa, ciò avverrà». Anselmo fu percorso da un brivido di spavento e, in quel momento, il portone si aprì e a uscirne fu un uomo dalla scarna figura avvolta in una sopravveste nera, in capo un berretto nero da cui spuntavano ciocche di capelli bianchi. Le sopracciglia erano invece corvine e gli occhi del centenario sfolgoravano di una forza oscura come quelli di un giovanotto. Anche la voce non era di un vegliardo quando si voltò e investì il maggiordomo con queste parole: «Risponderai con la tua vita dell’incolumità di Lucrezia». «Non vi preoccupate, signor Geronte,» intervenne il cavaliere «ora vostra figlia è al sicuro come dietro cento inferriate». «Avanti allora» gridò Geronte. E, con meraviglia di Anselmo, il centenario balzò in sella. Ma, prima che il portone si richiudesse, apparve tra i battenti una fanciulla in un fluttuante abito bianco, il cui volto chiaro riluceva vago tra riccioli scuri, e gridò impaurita: «Dove vai, padre mio?». «Sarò di ritorno prima che spunti l’alba. E tu, maggiordomo, chiudi a chiave il portone». E, in men che non si dica, il maggiordomo e la fanciulla scomparvero dietro i battenti e i tre, Geronte, il cavaliere e lo staffiere, partirono al galoppo verso il margine del bosco dove si dileguarono in un crepitio di rami. Ma, mentre i due battenti si richiudevano, gli sguardi di Anselmo e di Lucrezia si erano incrociati e accesi, tanto che l’aria pareva sprigionare scintille anche quando il portone era ormai sbarrato. Fu allora che, come da un altro mondo, gli giunse la voce del monaco di cui aveva quasi dimenticato l’esistenza. «Eravamo sette» disse questi continuando la sua storia. «Io solo son rimasto dei sette amici ai quali cinquant’anni fa Geronte predisse l’ora della morte. A quei tempi eravamo un’allegra compagnia che la notte si ritrovava puntualmente insieme a bere e a divertirsi. Neppure le donne mancavano nelle nostre tavolate, e data la nostra baldanza e spensieratezza non mancavano neppure le liti ma, per quanto si eccedesse, anche dopo minacce insulti e bestemmie, si finiva sempre con un brindisi di riconciliazione. Trascorsa una certa notte, mentre cominciava ad albeggiare, il discorso cadde sul portentoso Geronte che già a quel tempo abitava in questa stessa casa nascosta dietro queste mura. In gioventù, perché era già vecchio allora e, oggi, deve aver passato il secolo, era stato medico e alchimista; un bel giorno si era stancato della sua arte e della sua scienza, e si limitava a predire a ogni persona, in base a certi segni, a chiunque incomprensibili - forse lo sguardo, la lucentezza dei capelli, il tono della voce, l’effluvio del respiro - l’ora esatta della morte. E migliaia di persone vagavano con la tremenda consapevolezza dell’ora della propria morte se erano state tanto stolte da interpellare in proposito Geronte. E la sua predizione era così infallibile che, chi sapeva, poteva anche esporsi ai più gravi pericoli, buttarsi nella mischia, dormire nel letto di un appestato, perfino bere del veleno o ficcarsi un pugnale nel cuore, senza per questo trovare la morte. Fino a quel giorno, fino a quell’ora, costui era e restava invulnerabile. Quella notte dunque, un’invitante notte di primavera, noi sette amici ci eravamo messi a camminare all’aperto per continuare sotto le stelle la festa che era incominciata in una mescita. E il caso ci portò in questo stesso spiazzo erboso dove ora ci troviamo e ci accampammo, abbandonandoci all’ebbrezza dell’aria primaverile e del vino dolce che avevamo portato in abbondanza. Allo spuntar dell’alba s’alzò un vento fresco che ci strappò al torpido sopore in cui eravamo caduti. Fu allora che il portone si aprì, come oggi, di colpo, e comparve il vecchio Geronte. La sua vista - forse mi potrete capire, avendolo veduto anche voi oggi - ci turbò profondamente. Egli mosse verso di noi quasi ci avesse atteso e ci parlò credendoci venuti, come molti altri in passato, per sapere da lui quando sarebbe giunta per ognuno la fine. A nessuno di noi, in verità, era passata una tale idea per il capo, e comunque c’era chi si sarebbe anche defilato volentieri, ma giovani e stolti come eravamo, ognuno si vergognava di mostrare all’altro la propria paura, e quando con grande cortesia egli ci invitò a entrare in casa, dove - ci disse - era già pronto uno spuntino con il quale ci saremmo dovuti rinfrancare, come d’uso, prima di apprendere la sua profezia, noi subito lo seguimmo tutti contenti e per nulla stupiti di trovare, in una sala spaziosa, la tavola apparecchiata e fornita di ogni ben di Dio. Geronte ci fece accomodare, e mentre da perfetto padrone di casa passava dall’uno all’altro invitandoci a mangiare e a bere, domandava a ognuno di dove venisse, quali affari e progetti avesse; e, da apparizione inquietante, Geronte si trasformò in figura venerabile, anzi paterna, e sembrava proprio che il tutto avesse voluto essere soltanto un gioco istruttivo e che, alla fine, egli ci avrebbe congedato dalla sua accogliente casetta - dove pareva vivere in completa solitudine - per riconsegnarci senza pensieri alla nostra vita di giovani. Ma quando noi, finita la colazione, ci alzammo da tavola e facemmo per andarcene con molte grazie, egli tese a ciascuno la mano, e con la stretta, guardandoci negli occhi con aria per nulla sinistra o minacciosa, nominò tranquillamente un’ora, insieme al giorno al mese all’anno - e ognuno di noi capì che gli era stata annunciata l’ora della morte. Adesso non starò a raccontarvi come lasciammo la casa, che cosa accadde ancora quel giorno, quale corso presero le nostre vite, o come in ognuno di noi si alternassero incredulità e terrore, spavalderia e indifferenza, o ribellione - voglio solo dirvi che a ognuno di noi sette andò esattamente come aveva predetto Geronte applicando il suo metodo misterioso e infallibile. L’uno, il primo, morì durante una passeggiata impigliandosi nella radice di un albero, l’altro si spense dopo una lunga malattia, il terzo cadde in guerra, il quarto venne avvelenato dalla moglie, il quinto se lo portò via la peste, il sesto, in fuga perenne dal suo destino, morì in terra straniera e, come seppi più tardi, esattamente nell’ora predetta. Io solo sono rimasto, mi resta da vivere fino alla mezzanotte, non un secondo di più, non un secondo di meno. E chissà che non tocchi proprio a voi» ma sorrise nel dirlo «essere il mio assassino». Così concluse, impassibile, quasi avesse parlato non di sé, ma di qualcun altro, o il suo racconto fosse tutta un’invenzione. Ma, riandando con la mente a ciò che aveva visto con i suoi propri occhi, Anselmo capì di non poter mettere in dubbio la verità del racconto del vecchio né la certezza del suo imminente decesso. E per quante domande gli si affollassero alle labbra, egli non sapeva, non osava, rivolgerne una sola a quel vegliardo che la prossimità della morte trasfigurava e accanto al quale lui, con la sua giovinezza, la sua curiosità, la sua vitalità, si sentiva stranamente indegno, stolto, perfino impuro. Restare e assistere al decesso del vecchio da estraneo capitato lì per caso, attenderla quella morte - o venirsene via con o senza un addio, gli pareva in egual modo impossibile. L’indecisione sul che cosa dire e sul che cosa fare divenne per Anselmo un tormento, e fu quindi con un senso di stupore, ma anche di liberazione, perfino di gioia, che tutt’a un tratto egli vide aprirsi un poco quel portone che un’ora prima si era così ineluttabilmente chiuso davanti a lui. Era soltanto uno spiraglio, ma grande abbastanza da incorniciare la bella fanciulla che doveva essere la figlia di Geronte. Dopo lo sguardo di prima in cui le loro anime s’erano incontrate, quell’apparizione, pur immobile e silenziosa, significava già di per sé una promessa di felicità. Volando sul prato, dimentico del vegliardo e della sua sicurezza, Anselmo fu accanto a lei. Il portone si chiuse alle loro spalle e i due, in silenzio, attraversarono, quasi senza sfiorare il suolo, il giardino straripante di fiori e rischiarato dalla luna, e raggiunsero la casa che graziosamente li accolse con le sue luci. Una scala stretta e bassa li condusse in un’alta stanza che, chiusa tutt’intorno da tende bianche e immersa in una luce scintillante di cui non si vedeva la fonte, pareva predestinata a camera nuziale. Era come se Lucrezia avesse vissuto fino a quel momento solo per aspettare Anselmo, e Anselmo si fosse messo in cammino soltanto per trovarla. E, dimentichi del mondo prossimo e remoto, si abbandonarono a un lungo abbraccio.

     In queste pagine - oltre alla descrizione del personaggio di Geronte evocato da Montaigne per il quale Arthur Schnitzler inventa un nome evocativo perché “Geronte” contiene le parole “géron” [la vecchiaia] e “óntos” [l’essere] e, di conseguenza, il significato del termine rimanda a “l’essenza della vecchiaia che è data dall’esperienza congiunta alla saggezza” - ebbene, in queste pagine, oltre alla descrizione del personaggio di Geronte, Arthur Schnitzler fa risaltare una parola-chiave che costituisce per noi un’indicazione verso la direzione in cui ora dobbiamo andare. Abbiamo letto: «…a ognuno di noi sette [dice il vegliardo ad Anselmo] andò esattamente come aveva predetto Geronte applicando il suo metodo misterioso e infallibile». Alla fine del Cinquecento entra in scena sul terreno della Storia del Pensiero Umano la parola-chiave “metodo” che corrisponde al termine greco “méthodos” - un’espressione formata da “metá” [oltre] e “hodós” [la via] - che significa “investigazione” nel senso di “andare sempre oltre sulla via della ricerca”, e la parola-chiave “metodo” [come, probabilmente, avrete già intuito per conto vostro] ci porta a incontrare a sorpresa un altro importante personaggio: Renato Cartesio [René Descartes].

     L’importanza di Renato Cartesio [di René Descartes, latinizzato in Cartesio] nella Storia del Pensiero Umano dipende dal fatto che si è impegnato e ha voluto progettare un metodo scientifico che potesse avere una valenza universale per rispondere, oltre a quello del “come”, anche all’interrogativo del “perché”. Galileo Galilei e Francis Bacon hanno cercato di costruire, ciascuno a suo modo, un organo [uno strumento] per poter interpretare il sapere scientifico e poter capire “come funziona la scienza”, cioè come si comporta la Natura nel mettere in atto i suoi fenomeni, mentre Cartesio vuole andare oltre [metáhodós], vuole costruire un sapere universale basato sul ragionamento proprio delle discipline matematiche, vuole mettere a punto non solo “uno strumento” per comprendere come funziona la scienza ma “un metodo generale” che possa rispondere prima di tutto alla domanda: perché la scienza funziona così?

     René è, fin da piccolo, uno studente attratto dalla Matematica [con la M maiuscola], e scrive: «Prediligevo le Matematiche [lo scrive al plurale riferendosi ai diversi metodi dei vari matematici da Pitagora in avanti] a causa della certezza e dell’evidenza dei loro ragionamenti». La Matematica è per Cartesio il modello a cui devono rifarsi tutte le altre scienze perché la disciplina matematica [pensa Cartesio, fin da quando è studente] prende le mosse da principi certi, i cosiddetti “postulati” [le verità fondamentali], e giunge - deve giungere - a conclusioni altrettanto certe, ed è studiando la Matematica [le Matematiche, come dice lui] che Cartesio comincia a porsi le prime domande di carattere filosofico che lo portano alla costruzione di quel Metodo che porta il suo nome. E il Discorso sul metodo [Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze] è il titolo dell’opera più significativa di Cartesio, una delle opere più eloquenti [un capolavoro] della Storia del Pensiero Umano.

     Abbiamo detto che Cartesio, studiando la Matematica, comincia a interrogarsi e a riflettere, e pensa e scrive: «Se per arrivare a formulare delle conclusioni certe si deve partire dai postulati [da verità fondamentali] ciò significa che i postulati devono essere sempre principi “certi e veri” e, di conseguenza, questo fatto ci porta ad affermare che questi principi dovranno anche essere sempre “convalidati come certi e veri”». Dopodiché Cartesio si pone tre domande essenziali: «Perché è basilare il fatto che il principio da cui parto debba essere considerato certo [e non ipotetico], e che cosa garantisce ad un principio la sua validità e, soprattutto, esiste un punto di riferimento fondamentale che tuteli la certezza?» [Tutelare la certezza: un bel tema da sempre!].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole – la garanzia, la difesa, la chiarezza, la competenza - mettereste per prima accanto al termine “certezza”?...

Scrivetela...

     Abbiamo iniziato elencando quali sono le domande che arrovellano la mente del giovane studente René Descartes, ma chi è René Descartes [Renato Cartesio], colui che viene considerato il fondatore della Matematica moderna?

     Renato Cartesio [René Descartes] è nato il 31 marzo 1596 a La Haye en Touraine. Suo nonno si chiama Pierre ed è un medico, suo padre si chiama Joachin ed è un avvocato che esercita a Parigi ed è consigliere del Parlamento di Bretagna, mentre sua madre si chiama Jeanne Brochard, che appartiene a una famiglia di magistrati, e partorisce René come terzo figlio, purtroppo però, muore l’anno dopo il 13 maggio 1597 nel dare alla luce un quarto bambino che vive solo tre giorni. Il padre, che è quasi sempre assente, a breve, si risposa con una giovane signora bretone che si chiama Anne Morin, e René viene allevato a La Haye en Touraine a casa della nonna materna da una balia alla quale rimane affezionato per tutta la vita [questa persona è vissuta più a lungo di Cartesio e, citata nel suo testamento, ha anche ricevuto un vitalizio ed è stata citata in una famosa affermazione di Cartesio che leggeremo strada facendo].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La Haye en Touraine è una località situata nella regione “Centro-Valle della Loira” che, dal 1967, si chiama Descartes, ed è un comune di circa 3800 abitanti che, con la guida della Francia e navigando in rete, potete visitare, buon viaggio...

     A otto anni - dopo aver ricevuto l’istruzione elementare in casa della nonna da precettori privati - René viene mandato a studiare nel famoso collegio de La Flèche, a Parigi, gestito dai Gesuiti e frequentato dai figli dei nobili e dei grandi borghesi perché questa è la Scuola dove viene formata la classe dirigente. René [se guardiamo la pagella] è un allievo modello: disciplinato, studioso, “di pronto intelletto” e, senza manifestarlo apertamente, all’età di 14 anni è assai dotato di spirito critico, così come il suo migliore compagno di collegio Marin Mersenne, che ha otto anni di più di lui e sta già frequentando il corso di Teologia per entrare nell’ordine dei Gesuiti. L’amicizia tra i due dura tutta la vita e padre Mersenne come vedremo è “il [principale] complice” del pensiero di Cartesio [sgradito all’Inquisizione]. Nella prima parte del Discorso sul metodo, Cartesio rivolge una critica assai aspra all’educazione che ha ricevuto in collegio, e la sua valutazione negativa è attribuita al percorso di studio basato sui testi delle Opere di Aristotele [in particolare la Fisica e la Logica] proposti dagli insegnanti de La Flèche [e noi su questo tema siamo al corrente] come se fossero “sacra scrittura” [un pensiero votato all’immobilismo, afferma Cartesio] per cui il patrimonio aristotelico [scrive Cartesio] - che fornisce sul piano teorico un persistente stimolo a praticare l’osservazione e la ricerca - finisce per essere svalutato, e non viene messo a disposizione della persona che studia in modo che possa [invece di continuare a ripetere un pensiero statico e inerte] diventare capace di elaborare un nuovo pensiero, un metáhodós, che vada oltre la via aristotelica. Cartesio critica poi il modo che gli insegnanti de La Flèche impongono per far studiare la Filosofia: una maniera superficiale basata su quella che chiamano “la discussione dei testi”, e scrive Cartesio nel Discorso sul metodo: «La discussione dei testi era l’unico esercizio di filosofia, si discuteva in classe, a passeggio, in ricreazione, in ogni luogo e tempo, e questo esercizio consisteva nel ripetere le vuote formule dei commentatori ufficiali senza invitare la persona che studia a riflettere su quel repertorio originale che è il testo stesso e, peggio ancora, senza chiederle di sviluppare, applicandosi personalmente, la trama delle sue riflessioni». E Cartesio per “applicarsi personalmente” intende che si debba dare continuità al ragionamento sulle parole-chiave contenute nelle Opere di Aristotele e nei Dialoghi di Platone invogliando [mediante un programma di Alfabetizzazione] le persone che studiano a utilizzare la scrittura. La scrittura, afferma Cartesio, è lo strumento che consente di ragionare con più attenzione e, quindi ogni studente del collegio si sarebbe dovuto applicare nel comporre scritti per comunicare le proprie riflessioni derivanti dalla conoscenza e dalla comprensione delle idee-cardine contenute nelle opere dei Classici studiati, ma «questo esercizio [afferma caustico Cartesio] a La Flèche era vietato, e l’uso della scrittura era permesso solo per copiare pedissequamente i testi, ormai logori, dei commentatori ufficiali » [Pensate - direbbe Cartesio - a come siete fortunate e fortunati voi: libere e liberi di scrivere quattro righe al giorno di commento alle parole-chiave e alle idee-cardine che incontrate strada facendo! È un ammonimento il suo? Cartesio utilizza i termini “repertorio e trama” e voi avete, appunto, tra le mani un REPERTORIO E TRAMA ...].

     Ma non è tutto: la mentalità critica nei confronti di questo antiquato tipo di educazione Cartesio la acquisisce leggendo, in collegio, di nascosto insieme a Mersenne, i Saggi di Montaigne, e Cartesio sottolinea la loro soddisfazione quando scoprono nel capitolo XXVI del Libro I dei Saggi l’affermazione che noi ben conosciamo: «È meglio avere una testa ben fatta che una testa ben piena», meglio educare la testa in modo che sappia applicarsi ad organizzare le conoscenze piuttosto che addestrare la testa a diventare solo un caotico deposito di informazioni. Inoltre Cartesio, nella prima parte del Discorso sul metodo, critica lo scarso spazio che, in questo famoso collegio, viene concesso allo studio della Matematica, e denuncia il ruolo secondario che viene dato a questa importante disciplina e alle sue applicazioni; ma succede che lui ha modo di studiarla bene la Matematica perché non tutti i docenti sono dei “saccenti parrucconi, retrivi e bigotti” e, quindi, sempre con la mediazione di Marin Mersenne, può entrare in complicità con due professori che coltivano lo spirito “libertino” e, per questo, gestiscono un laboratorio clandestino per dare spazio allo studio della Matematica considerata disciplina pericolosa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Cartesio, con la mediazione di Marin Mersenne, diventa un grande matematico approfittando anche del fatto che le cose proibite stimolano la curiosità e il desiderio di sapere: a voi è capitato che certe proibizioni abbiano stimolato il vostro desiderio di sapere?… 

Scrivete una riga in proposito...

     E ora, sempre sul tema dell’educazione, concludiamo questo itinerario leggendo ancora una pagina da Novella dell’avventuriero, dove spicca la figura di Lucrezia che parla di istruzione con una certa competenza.

LEGERE MULTUM….

Arthur Schnitzler, Novella dell’avventuriero

Dopo essersi sulle prime appagati l’uno del respiro, delle labbra, della voce dell’altra, a poco a poco iniziarono a parlare, e aprendosi reciprocamente il cuore seppero ben presto l’uno dell’altra tutto ciò che per loro era importante: lei, che Anselmo, perduti all’improvviso i genitori, solo da pochi giorni aveva lasciato la sua città e dopo futili esperienze andava incontro a un grande e ignoto destino; lui, che Lucrezia, per quanto ricordava, in quella casa era sempre vissuta sola con il padre Geronte, non rammentava nulla della madre, né mai si era spinta oltre i confini del parco, di cui parlava in verità come se fosse un universo. Il padre le aveva insegnato fin da piccola tutto ciò che altrimenti è rimesso a una schiera di maestri, istruendola non solo nell’economia domestica, come usa con le fanciulle, ma anche in discipline quali le lingue, la matematica, la storia universale, l’astrologia; lei sapeva che cos’erano la giustizia e l’ingiustizia, l’amore e la morte, il dubbio e la fede, sempre dal padre era stata addestrata in tutte le arti cavalleresche, e raccontò di cavalcate al suo fianco nel parco come se insieme avessero percorso chissà quali distanze, e dei suoi esercizi di scherma con lui come se non ci fosse per lei gioco più delizioso che incrociar la spada col vecchio genitore. Certo del mondo esistente di là da quelle mura non aveva conoscenza e ne provava un senso di nostalgia. Ma dal padre sapeva anche che lì la sua vita era solo un assaggio, e che un giorno, forse non tanto lontano, il portone da cui era appena entrata con Anselmo, per lei, si sarebbe spalancato. Geronte conosceva il giorno perché era quello della sua morte - a lui altrettanto nota quanto l’ultima ora di chiunque - ma a lei, sua figlia, non l’aveva rivelato. «Ma allora sa anche quale sarà il tuo giorno?» domandò Anselmo preoccupato. «No, il mio è proprio quello che non sa. Perché, mentre se guarda un estraneo coglie in modo infallibile nei suoi occhi il momento della fine, l’occhio di una persona cara non gli rivela nulla. Così ha perso mia madre, e forse altre che ha amato prima di lei, senza averne alcun presentimento. Perciò io sono oggi l’unica creatura al mondo per la quale davvero tema. Per me vede pericoli ovunque e sempre, non immaginando dove e quando mi attendono»«E per questo che ti tiene sotto chiave? Crede con ciò di preservarti da ogni pericolo?»«Che lo creda o no, io non aspetto con ansia il giorno in cui uscirò da questa clausura, perché sarà anche quello della sua morte e della nostra eterna separazione, e per nulla al mondo lascerei volontariamente questa casa finché lui vive»«Neppure se io volessi portarti via con me?». «Se anche tu volessi io non verrei via con te»«Mi lasceresti dunque ripartire pur con la certezza di non rivedermi più?». «Mi sei piaciuto dal primo momento che ti ho visto, e vorrei essere tua. Ma non pensavo, e non penso, di trattenerti». «E se io decidessi di restare qui …».  Per la prima volta ella sorrise. «Tu non sei fatto per fermarti in un posto, e se lo fossi, non mi saresti piaciuto». «E dunque, adesso, saresti capace di mandarmi via?». «Sì, perché tu possa continuare a pensarmi, per tutta la vita, come ti penserò io, con perenne nostalgia».

Il momento era troppo importante perché Anselmo potesse replicare con una frase in cui d’amore c’era soltanto un soffio. Così si limitò a dire, commosso nel più profondo dell’animo: «E tu, che non hai esperienza del mondo, come fai a conoscere così bene i cuori delle persone?». «Mio padre è Geronte» ribatté lei. «Le sue parole sono lo specchio del mondo, e sono più limpide, più chiare di qualunque esperienza e di qualunque fatto. E ora è tempo di dirci addio».

     Perché Lucrezia vuole dire addio ad Anselmo sebbene lui le piaccia? Vedremo.

     Dopo la laurea Cartesio nel 1616 viene introdotto, da quell’ambizioso di suo padre [che non assomiglia a Geronte], nel “gran mondo parigino”, ma questo ambiente frivolo, non fa per lui. La biografia di Cartesio, come quella di Montaigne e di Bacon, è piuttosto complessa e noi citeremo i fatti più significativi, quelli utili per conoscere i cardini del Pensiero cartesiano. Che cos’è il metodo di Cartesio, e in che cosa consiste?

     Per rispondere a questa, e a molte altre domande, dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, quindi, la Scuola [che ha fatto tesoro di alcuni aspetti del metodo cartesiano] è qui, e il viaggio [ora che è arrivata anche la primavera, o quasi] continua…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 15, 2019