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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600 LA PERSONA SI CIMENTA NELLA SCRITTURA PER MANTENERE E PER POTENZIARE L’EQUILIBRIO DELLA MENTE ...

Lezione N.: 
12

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi 

La sapienza poetica e filosofica del ‘600: il secolo della scienza 13-14-15  febbraio 2019

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DEL ‘600

LA PERSONA SI CIMENTA NELLA SCRITTURA PER MANTENERE

E PER POTENZIARE L’EQUILIBRIO DELLA MENTE ...

     Questo è il dodicesimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica nel corso del primo periodo dell’Età moderna e, come sapete, per la precisione ci troviamo nella seconda metà del ‘500 e stiamo viaggiando in compagnia di Michel de Montaigne, che è vissuto tra il 1533 e il 1592.

     Ormai tutte e tutti voi sapete che Michel de Montaigne è l’autore dei Saggi, una delle opere più importanti della Storia del Pensiero Umano: un’opera che è stata pubblicata per la prima volta nel 1580 e, dopo cinque ristampe, è stata ripubblicata, notevolmente ampliata dall’autore, nel 1588.

     Ci siamo soffermate e soffermati a lungo [per quattro mesi] su una serie di temi che l’autore dei Saggi propone sotto forma di riflessioni - a volte sagge, a volte complesse, a volte ironiche, a volte contraddittorie, a volte paradossali - con l’obiettivo didattico che si possano acquisire alcuni strumenti [alcune chiavi] per rendere possibile la lettura di qualche pagina [quattro pagine al giorno] del testo di quest’opera, seguendo il metodo del LEGERE MULTUM, che è il più efficace per affrontare la lettura di un’opera di questo tipo.

     Sappiamo che Michel de Montaigne nell’estate del 1580, all’età di 47 anni, si mette in viaggio sia per lenire le sue sofferenze date dal mal della pietra [i calcoli renali, una malattia che allora costringeva - chi se lo poteva permettere - a frequentare assiduamente le stazioni termali] sia per vedere il mondo, o almeno una certa parte del continente europeo.

     Come abbiamo detto la volta scorsa,  il viaggio di Montaigne - che lo porta in Germania, in Svizzera e in Italia fino a Roma - dura ben diciassette mesi [quasi un anno e mezzo], fino al novembre del 1581, e sappiamo che nel suo bagaglio c’è un bauletto al quale Montaigne tiene particolarmente che contiene, oltre a una piccola biblioteca, tutto l’occorrente per scrivere: le sue annotazioni di viaggio - che come sapete sono state scoperte solo due secoli dopo nel 1772 all’interno di un baule nel suo castello - sono state raccolte in un volume intitolato Diario del viaggio in Italia attraverso la Svizzera e la Germania, pubblicato nel 1774.

     Questa sera torniamo sul Diario di viaggio di Montaigne la cui scrittura, come abbiamo detto la scorsa settimana, non prevede ampollose descrizioni né di carattere artistico né di stampo naturalistico [una mancanza che ha provocato la delusione dei lettori romantici] ma si basa principalmente sui dettagli, e anche questo fatto, come abbiamo detto la volta scorsa, rende Montaigne un autore “moderno“ [indipendentemente dal suo volere] perché, come affermano gli storici novecenteschi, “sono soprattutto i dettagli che fanno la Storia”.

     E Montaigne si domanderebbe quali sono “i dettagli” con i quali noi, fra qualche anno, scriveremo, per esempio, la Storia delle migrazioni di questo periodo: un fenomeno epocale da sempre, e che nessun “condottiero” è riuscito e riuscirà mai a fermare perché va governato in tutti i suoi aspetti. Montaigne [curioso com’è] sarebbe interessato a riflettere sugli oggetti trovati sui corpi di due “minori non accompagnati” , tra le centinaia di cadaveri ripescati in mare sui quali si cercano “dettagli” per dare a ciascuno una vaga identità: ebbene, uno di questi ragazzini aveva in tasca la tessera della sua Biblioteca scolastica, l’altro aveva cucita nella fodera della giacchetta la propria pagella. Dico questo con tutto il cinismo che riesco a produrre mentre - tra le righe dei Saggi - ascolto Montaigne che, dopo aver ipotizzato che sono i dettagli che fanno la Storia, formula una domanda di natura politica dalla quale devono derivare i provvedimenti pratici e amministrativi: “Sono questi [domanda Montaigne] i dettagli con i quali domani scriverete la Storia?”. Ebbene, prendiamo il passo sull’itinerario di questa sera, seguendo Montaigne a Venezia, a Roma e a Ferrara.

     Venezia è una delle prime città di rilievo che Montaigne, insieme alla sua compagnia, visita in Italia e, a proposito, scrive [come se fosse rimasto un po’ deluso e dando un giudizio di straordinaria attualità] che è proprio così che se l’era immaginata «come una destinazione troppo turistica » [difatti Montaigne scopre nel corso del suo viaggio in Italia di essere attratto da luoghi meno noti ma non meno affascinanti], ma non per questo si mette ad esplorare Venezia con meno interesse, bensì è incuriosito dalla sua bizzarra geografia, dalla popolazione cosmopolita che la abita e dal suo status di Repubblica indipendente. Ma, come risulta dal Diario di viaggio, ciò che impressiona maggiormente Montaigne a Venezia [e che viene considerato un dettaglio di rilievo] è [scrive] «l’alta condizione e il lusso che caratterizza in questa città lo stile di vita delle cortigiane, apertamente mantenute dai nobili e rispettate da tutti (anche dagli ecclesiastici). E sono lusingato di aver avuto l’opportunità di incontrarne una tra le più celebri, Veronica Franco, che era recentemente scampata [scrive Montaigne, alludendo ironicamente alle conoscenze che la signora aveva in campo ecclesiastico] al tribunale dell’Inquisizione, e che aveva pure pubblicato un epistolario intitolato Lettere familiari a diversi, di cui me ne regalò una copia, ed io ebbi la soddisfazione di contraccambiare donandole il mio Libro [i Saggi] che accolse con grande piacere».

     Inoltre Montaigne scrive nel suo Diario di viaggio di aver provato una fortissima emozione nel percorrere gli ultimi chilometri della strada [la via Francigena] che, il 3 novembre 1580, lo sta portando verso Roma, verso la Città eterna, anche se, scrive Montaigne, «la strada non prometteva nulla di buono perché era piena di dossi e di buche». Poi, però, Montaigne c’informa che l’emozione gli era subito passata e, riportando una serie di dettagli molto interessanti, scrive: «Appena arrivato con i miei compagni di viaggio alle porte dell’abitato, nonostante provassi commozione alla vista dei primi ruderi della Città eterna, l’emozione in me è subito scemata a causa dell’impatto con la burocrazia romana: dei miei bagagli è stata ispezionata sin la più insignificante minuzia. I funzionari hanno prestato particolare attenzione alla collezione di Libri che portavo con me. Capisco che questa è la città del papa e i crimini di pensiero vengono presi sul serio [scrive ironicamente Montaigne]. Mi hanno confiscato un Libro di preghiere solo perché era stato pubblicato a Parigi invece che a Roma, e alcune opere teologiche che avevo acquistate in Germania. In definitiva fui lieto di non aver portato con me nulla di più compromettente perché, non aspettandomi una perquisizione così rigorosa, avrei benissimo potuto avere dei Libri veramente eretici, data la mia curiosità. I funzionari hanno requisito anche una copia del mio Libro [dei Saggi] e l’hanno tenuta per quattro mesi: mi è stata restituita solo a marzo con una serie di consigli per migliorare il testo. La parola “fortuna” era stata ripetutamente sottolineata e il funzionario ecclesiastico ha obiettato che o andava abolita o, in alcuni casi specifici, andava sostituita con il termine “provvidenza”, ma poi fu pago delle spiegazioni da me fornite». Ovviamente Montaigne non ha mai cancellato dai Saggi la parola “fortuna” [che richiama la cultura classica] né l’ha sostituita con il termine “provvidenza”, ma Montaigne non ha mai osato sfidare l’Inquisizione e non ha mai pensato di scontrarsi direttamente con la Chiesa [anzi si è sempre comportato in modo tale che questo non avvenisse] come invece hanno fatto Giordano Bruno, fra’ Tommaso Campanella e Galileo Galilei.

     Come abbiamo visto, il rapporto tra Montaigne e Roma è partito male e lui ha avuto subito l’impressione di essere capitato in una città intollerante ma, tuttavia, ha cercato di prendere la cosa con il realismo tipico del suo carattere: è comunque arrivato lì [nell’Urbe dei Cesari e nella Città eterna sede del papato] e sa che essere “romani” vuol dire essere cittadini del mondo e Montaigne aspira a questa qualifica, Montaigne vuol essere “cittadino del mondo” e, di conseguenza, si è mosso per ottenere la cittadinanza romana, un onore che gli viene concesso verso la fine del suo soggiorno di quattro mesi e mezzo. Questa concessione lo ha reso talmente felice che ha trascritto per intero il documento che gli attribuisce la cittadinanza romana nel capitolo IX del Libro III dei Saggi intitolato Della vanità. Montaigne è consapevole che la sua volontà di diventare cittadino romano è una vanità e, in proposito, scrive: «La cittadinanza romana è un titolo che serve a niente, eppure ho provato molto piacere nel riceverlo perché questo fatto ha saziato la mia vanità».

     Un’altra esperienza che lo ha affascinato è stata quella di poter visitare la Biblioteca Vaticana e di avere il privilegio, riservato a pochi, di vedere con i propri occhi gli antichi manoscritti delle Opere dei suoi maestri: in particolare di Seneca e di Plutarco. E Montaigne a Roma è stato anche ricevuto dall’ottuagenario papa Gregorio XIII [Ugo Boncompagni, papa dal 1572 e nato a Bologna nel 1502 e morto nel 1585], e il resoconto dell’udienza papale dal Diario di viaggio di Montaigne contiene aspetti esilaranti; scrive Montaigne: «Insieme a uno dei miei giovani accompagnatori siamo entrati nella camera in cui sedeva il pontefice e ci siamo inginocchiati per ricevere la benedizione. Abbiamo rasentato la parete per qualche metro, poi abbiamo proceduto verso di lui e, circa a metà strada, quando ci ha meglio individuati, ci siamo fermati per ricevere un’altra benedizione. Poi ci siamo inginocchiati ai suoi piedi su un tappeto di velluto, accanto all’ambasciatore francese che era venuto a presentarci come suoi connazionali. Anche l’ambasciatore si è inchinato per spostare la veste del papa, scoprendo il suo piede destro, calzato da una pantofola rossa con una croce bianca ricamata sopra e, quindi, ci siamo  inchinati uno alla volta per baciargli il piede. E ho potuto notare [scrive Montaigne amante dei dettagli] che il papa ha alzato un po’ le dita per facilitarci le cose e, dopo questa liturgia (che devo definire quasi erotica) [scrive Montaigne mettendo tra parentesi la sua consueta ironia], l’ambasciatore ricoprì nuovamente il piede papale e si alzò in piedi per presentarci al pontefice. Il papa ci benedisse e pronunciò alcune parole esortandomi a proseguire nella mia devozione alla Chiesa [e qui dobbiamo immaginarci Montaigne che ride sotto i baffi]. Poi si alzò in piedi per congedarci e noi, allora, abbiamo ripercorso i nostri passi senza mai voltarci, inchinandoci altre due volte per la benedizione. Alla fine siamo usciti dalla camera e il rituale si è concluso. Più tardi ho pensato che il papa aveva parlato in dialetto bolognese, il peggiore d’Italia. Devo ancora dire che il pontefice mi è apparso come un bellissimo vecchio, di media statura ed eretto, con il viso pieno di maestà, con una lunga barba bianca, d’età di quasi ottant’anni ma, tuttavia, sanissimo e vigoroso quanto si può desiderare [si capisce che Montaigne lo sta invidiando, lui che è molto più giovane ma è già pieno d’acciacchi], senza gotta, senza disturbi intestinali, senza mal di stomaco e senza nessuna infermità [a differenza sua che queste malattie ce le ha tutte]. Inoltre devo dire che aveva un’aura realmente divina e appariva dolce di natura, poco curante delle cose di questo mondo (una qualità più o meno divina a seconda dei punti di vista) [aggiunge Montaigne ironicamente tra parentesi]. A prescindere dal suo aspetto [e, a questo punto, la scrittura di Montaigne si fa sferzante e si capisce perché - per prudenza - non ha fatto stampare il suo Diario di viaggio], comunque, questo pontefice rimaneva sempre la stessa perfida persona che aveva fatto coniare medaglie e commissionare dipinti per celebrare la notte di San Bartolomeo». Con queste parole Montaigne rinfaccia a Gregorio XIII di aver perfidamente gioito [di aver cantato il Te Deum, celebrato funzioni di ringraziamento, allestito luminarie, fatto coniare medaglie e commissionare dipinti] quando è giunta a Roma la notizia che a Parigi, la notte tra il 23 e il 24 agosto del 1572, la notte di San Bartolomeo, su ordine del re Carlo IX e della regina madre Caterina de’ Medici, sono stati massacrati, per rappresaglia, circa tremila protestanti. Montaigne [così come farà Giordano Bruno intervenendo però pubblicamente] pensa, in privato [lasciando ai posteri in eredità il suo pensiero], che queste manifestazioni papali di giubilo per un massacro non possono essere approvate e ritiene incomprensibile che, ai vertici della Chiesa, si manifesti uno zelo sanguinario contro i seguaci della Riforma che sono pur sempre cristiani anche loro.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A questo proposito, come abbiamo già consigliato nel IX itinerario di questo Percorso, se non lo avete ancora fatto, leggete il romanzo intitolato La Regina Margot scritto da Alexandre Dumas padre [con la collaborazione di Auguste Maquet] nel 1845… Gli avvenimenti vengono trasfigurati dagli scrittori ma la lettura ci fa immergere nel clima della Parigi cinquecentesca al tempo di Michel de Montaigne...

     A Ferrara Montaigne vive l’esperienza emotiva più forte del suo viaggio.

    A Ferrara Michel de Montaigne visita in manicomio Torquato Tasso e scrive «questo è stato il momento più emozionante del mio viaggio e non sono in grado di aggiungere altre parole quando ripenso a questa esperienza perché il mio cuore si riempie di tristezza e il mio volto di lacrime». Montaigne considera Torquato Tasso il più importante poeta del suo tempo, conosce le sue opere e nei Saggi cita l’Aminta e, più volte, la Gerusalemme liberata. Montaigne capisce che Tasso è il più importante interprete della cosiddetta crisi del tardo Rinascimento quando al posto del trionfalismo prende campo l’inquietudine generata, in particolare, dalla forte conflittualità provocata dalla spaccatura del Cristianesimo in cattolico e protestante [il tema de “l’essere infedeli” nella poetica di Tasso riguarda soprattutto il fatto tragico che sono i cristiani - spada alla mano - a rinfacciarsi l’infedeltà molto più di quanto lo facciano cristiani e musulmani], una spaccatura, quella tra i cristiani, che ha allontanato le nazioni dell’Europa settentrionale dalla Roma papale generando, all’interno di molti Stati, sanguinose guerre civili. L’inquietudine tardo-rinascimentale si è poi acuita anche a causa dalle risoluzioni particolarmente restrittive contenute nei Decreti del concilio di Trento che ha avviato la cosiddetta Controriforma sulla realizzazione della quale vigilano, con solerzia, i tribunali dell’Inquisizione.

     Montaigne c’invita a domandarci chi sia Torquato Tasso, noi però ora non abbiamo né il tempo né lo spazio che possano permetterci di percorrere per intero la biografia, molto variegata, di questo personaggio, ma è un esercizio che potete compiere facilmente per conto vostro: adesso noi possiamo fare un primo passo dicendo che Torquato Tasso è nato a Sorrento l’11 marzo 1544 ed è il figlio terzogenito di Bernardo Tasso, un letterato veneziano di antica nobiltà bergamasca che ha acquisito una certa fama soprattutto componendo un poema cavalleresco intitolato Amadigi [prendendo spunto dal famoso romanzo cavalleresco - uno di quelli che ha entusiasmato Don Chisciotte - intitolato Amadigi di Gaula composto da Garcia Rodrìguez de Montalvo nel 1508 a Saragozza: volendo, per curiosità, in biblioteca, sull’enciclopedia di casa e navigando in rete, potete dare un’occhiata a queste opere] e che, per la sua esperienza in campo diplomatico, è stato assunto a servizio [nel regno di Napoli che era compreso allora nella monarchia spagnola] dal principe di Salerno Ferrante Sanseverino [ed è per questo che Torquato nasce a Sorrento], mentre sua madre si chiama Porzia de’ Rossi, una nobildonna napoletana di origini pistoiesi da parte paterna e di origine pisana da parte materna.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con l’ausilio dell’enciclopedia [ce n’è una in tutte le case] e navigando in rete potete leggere la travagliata biografia [dal 1544 al 1595] di Torquato Tasso...

     Noi, adesso, dobbiamo incontrare Torquato Tasso sulla scia dell’esperienza che ha fatto Montaigne in relazione a questo personaggio: Montaigne si è soprattutto domandato quale importanza rivesta Torquato Tasso come poeta moderno e, dopo averlo incontrato nel manicomio di Sant’Anna a Ferrara, rilegge le sue Opere per riflettere in modo più approfondito sulle sue idee morali ed estetiche. Montaigne è rimasto vivamente impressionato dal colloquio che ha avuto col prigioniero che gli racconta la sua vita e, soprattutto, gli parla lucidamente del dramma della sua detenzione in manicomio: Montaigne scopre degli aspetti che non conosceva, rimane turbato e si riconosce in questo personaggio [nella sua inquieta sensibilità, nella sua tendenza all’introspezione], un personaggio che, oggi, viene universalmente riconosciuto come uno dei più grandi poeti che siano mai esistiti.

     Montaigne è consapevole del fatto che la poesia di Tasso - sulla scia di quella di Petrarca, altro poeta che Montaigne ammira moltissimo - costituisce il modello della poesia erotica moderna e, infatti, è stato proprio Tasso - in Europa, in epoca moderna - a mettere insieme con grande abilità tre elementi determinanti per la Storia della Letteratura moderna successiva]: l’elemento erotico [la potenza che ha l’attrazione amorosa] privilegiando il senso dell’attesa che fa aumentare il desiderio d’amore, l’elemento del rapporto inscindibile tra la persona e la Natura e l’elemento della riflessione ironica utile a dare un senso all’esistenza quando questa ci si presenta con il suo volto tragico; questa miscela di erotismo, naturalismo e ironia diventa un modello poetico che condiziona tutta la cultura moderna, e Tasso rappresenta un tassello fondamentale delle radici romantiche presenti nel Rinascimento.

     Montaigne rimane impressionato dal fatto che Tasso in manicomio non solo scrive, ma lo fa anche analizzando, con estrema lucidità, la propria sofferenza psichica, ed è per questo che - attraverso la scrittura - poco per volta riemerge dall’abisso nel quale è precipitato. Che cosa abbia portato Torquato Tasso, al vertice della sua fama, alla reclusione nel manicomio di Sant’Anna non è risultato ancora chiaro alle studiose e agli studiosi. Certamente Tasso soffriva da tempo di una accentuata fragilità nervosa, con connesse sindromi ossessive e fobiche, e con relative cadute depressive, ma la durezza del regime carcerario a cui è stato sottoposto - e Montaigne non si raccapezza [trovandolo incatenato] - è sproporzionata alla gravità delle sue condizioni psichiche, e questo fatto rimane in buona parte oggetto di discussione ancora oggi. Torquato Tasso [viene a sapere Montaigne] è stato segregato in manicomio dal duca Alfonso II d’Este, alla cui corte ferrarese il poeta è vissuto tra il 1572 e il 1577, nel periodo che Tasso considera il più felice della sua vita in cui riceve molti riconoscimenti. Ma già da tempo, però, si sentiva oppresso da una accentuata forma fobico-ossessiva che nasceva dal timore che la sua opera maggiore, la Gerusalemme liberata, non possedesse quella perfetta integrità morale e religiosa richiesta dall’Inquisizione. Tasso vuole, con il suo poema, dar lustro alla liberazione del Santo Sepolcro da parte dei crociati guidati da Goffredo di Buglione, ma quello che sembra il tema dominante del poema [la guerra santa] è in realtà un pretesto perché Tasso vuole esaltare il fatto che è l’attrazione amorosa, è l’Eros a governare i rapporti umani, e la Natura agisce secondo il proprio potere seduttivo e, quindi, la Natura fa germogliare l’Amore e, di conseguenza, anche tra nemici ci si innamora comunque [l’Amore scavalca i confini] e se succede che, per sbaglio, gli innamorati-nemici si ritrovano, senza riconoscersi, a duellare tra loro con l’esito drammatico che uno dei due viene ucciso per mano di chi l’ama, ebbene, come si può [si domanda Tasso angosciato] pensare che il combattere una guerra santa possa giustificare una simile tragedia [un tale evento innaturale]? Può [si domanda Tasso tormentato] una religione che adora un Dio misericordioso legittimare ciò?

     Siamo in tempo di Controriforma e la censura ecclesiastica si fa sempre più soffocante e, per Tasso, lo scrupolo di essere ortodosso nei confronti della dottrina ufficiale della Chiesa assume un aspetto patologico, lui teme di incorrere in sanzioni ma ciò che maggiormente lo affligge [spingendolo a sottoporsi alle più severe revisioni dell’Inquisizione] è il modo in cui si esplicita la mentalità perversa del potere ideologico. Nel giugno del 1577 Tasso si ribella quando, ossessionato dall’idea di essere controllato e spiato, aggredisce un maggiordomo con un coltello, ma non lo colpisce, lo minaccia solo verbalmente.

     Il duca  Alfonso, comunque - è lui il giudice - dispone, per motivi precauzionali, la reclusione immediata in una stanza del castello estense, dalla quale Tasso riesce, dopo pochi giorni, a fuggire travestito, e inizia allora un inquieto vagabondaggio, che lo porta in diverse città italiane, ospite di vari protettori, ma due anni dopo [nel 1579] non riesce a vincere il desiderio di tornare a Ferrara nella speranza di rivivere gli ormai passati anni della gloria e della serenità: il suo sogno è di riacquistare alla corte estense la considerazione di cui aveva goduto, ma si trova a fronteggiare una realtà ben diversa. A questo punto ci troviamo [noi e Montaigne] di fronte a una questione misteriosa che consiste nella famosa e un po’ oscura faccenda del rapporto - amoroso e corrisposto? - tra Torquato ed Eleonora d’Este, la sorella del duca, che ha, però, ben altri progetti su di lei perché vuole utilizzare il matrimonio della sorella per stipulare, com’era in uso, alleanze politiche e militari. Torquato è tornato a Ferrara per rivedere Eleonora che, intanto, è già stata allontanata dal fratello? Questa storia ha appassionato molte studiose e molti studiosi ma nessuno è riuscito a definire questa situazione.

     Tasso ha scelto senz’altro il momento meno adatto per il suo rientro a Ferrara o, forse, lo ha scelto proprio perché sa che avrebbe rivisto Eleonora: infatti sono i giorni della celebrazione delle terze nozze del duca Alfonso con Margherita Gonzaga. Nel fervore dei preparativi Tasso riceve da Alfonso [che, a suo tempo, lo aveva tanto stimato quando come poeta gli dava lustro] una fredda e modesta accoglienza: il poeta [troppo sensibile] subisce l’umiliazione e viene colto da un attacco collerico e durante la cerimonia delle nozze grida in chiesa alcune frasi ingiuriose: un fatto che [a noi e a Montaigne] non sembra così grave ma che, invece, fa scatenare l’ira del duca che lo fa arrestare e rinchiudere nel manicomio di Sant’Anna. La punizione di Alfonso d’Este è stata del tutto sproporzionata: Tasso viene recluso nel reparto riservato ai pazzi furiosi e per un lungo periodo di tempo viene tenuto in catene, e questo trattamento ingiustificato fa sollevare l’indignazione di molti ambienti politici e culturali italiani ed europei - e anche Montaigne fa la sua parte - per cui la corte estense fa circolare una versione falsa e artefatta degli avvenimenti. Per ordine del duca Alfonso viene fatta trapelare la notizia [oggi lo chiamiamo depistaggio] che Tasso è afflitto da una forma grave di pazzia, pericolosa per sé e per gli altri, e che deve essere rinchiuso per il suo bene in alcune stanze dell’ospedale di Sant’Anna, e la versione data dalla propaganda estense, per quanto falsa, riscuote un certo credito ma la realtà - che anche Montaigne ha documentato - è ben diversa.

     Soprattutto nel primo periodo la reclusione di Tasso non ha nessuna finalità curativa, e non viene condotta per il suo bene: il poeta, nonostante le voci della propaganda ducale, non è pazzo furioso ma soffre di un umore malinconico, incline alla depressione, con qualche fobia e con sporadici attacchi d’ira durante i quali urla minacce e invettive, ma è documentato che non ha mai fatto del male a nessuno e, quindi, non è pericoloso né per sé né per gli altri e, soprattutto, è perfettamente in grado di ragionare. La sua intelligenza, la sua cultura e la sua capacità artistica non sono minimamente compromessi: la persona rinchiusa forzatamente in Sant’Anna è in possesso di tutte le sue facoltà mentali ed è in grado di svolgere la sua attività poetica e, invece, viene costretto per almeno tre anni in una cella immonda, in condizioni igieniche spaventose, con scarsità di cibo e di acqua, senza alcun contatto con l’esterno.

     Questa prassi manicomiale è esistita fino in tempi recenti, una prassi non curativa, non preventiva o profilattica ma solo reclusiva, non ospedaliera ma propriamente carceraria per cui le condizioni dell’internamento sono tali che, non solo non hanno alcun intento terapeutico, ma innescano un circolo vizioso in cui la malattia mentale si alimenta e diventa cronica, e questo paradosso è storicamente accertato: si poteva entrare in manicomio sani di mente e se ne usciva - ma in genere non se ne usciva - completamente pazzi.

     Ma in cella Tasso reagisce: in cella Tasso chiede di poter scrivere e questa è stata la sua salvezza, e prendere l’abitudine a scrivere [dieci minuti al giorno] è utile per tanti motivi, non si sa mai! [Non ve lo sto dicendo io: è Montaigne, amante dei paradossi, che ce lo sta dicendo]. Tasso scrive poesie e prose letterarie e, soprattutto, scrive numerosissime Lettere, in cui, in genere, chiede aiuto a personaggi influenti perché si occupino della sua liberazione e chiede piccoli favori, oppure tenta di riallacciare discussioni e scambi culturali. Le Lettere dal manicomio sono state, per molto tempo, per Tasso, il principale collegamento col mondo esterno, e sono servite indubbiamente a mantenere e a potenziare l’equilibrio della sua mente. Queste Lettere sono una straordinaria testimonianza che Tasso rende a nome di tutte le recluse e i reclusi di ogni tempo in manicomio. Montaigne non conosceva le Lettere dal manicomio di Tasso: le ha lette attraverso questo Percorso [e la sua ideale gratitudine ci è gradita].

     Tasso, nelle prime Lettere, descrive, con perfetta lucidità mentale, il suo stato miserevole, soffermandosi sulle condizioni igieniche, sulla scarsezza del cibo e dell’acqua e sul suo costante deperimento fisico e sono una testimonianza inequivocabile non solo della perfetta integrità psichica del poeta ma anche della sua fierezza di filosofo e di scrittore, e spera di poter dimostrare la sua sanità attraverso le opere che va scrivendo. L’arte poetica è per Torquato Tasso il segno qualificante dell’intelligenza, ed è il mezzo salvifico con cui recuperare la sua dignità compromessa. Ma le Lettere riportano anche i momenti in cui la sua mente si popola di allucinazioni e farneticazioni, di incubi e di fantasie per cui descrive con lucidità [con lucidità di coscienza] e con precisione [con capacità analitica] le visite notturne di un folletto [di un genio] con il quale parla di fantasmi e incubi, di malìe e incantesimi a cui vengono attribuiti fatti fantastici e misteriosi. Tasso inventa un personaggio con cui colloquiare come se fosse matto, ed attraverso il quale dare notizie all’esterno [come capiremo tra poco].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Torquato Tasso è stato un grande autore di Dialoghi [ne ha scritto venticinque e li trovate in biblioteca nella storica edizione a cura di Ezio Raimondi pubblicata a Firenze da Sansoni nel 1958 («Autori classici e Documenti di lingua pubblicati dall’Accademia della Crusca») in tre volumi (4 tomi)]; un certo numero di Dialoghi li ha scritti negli anni trascorsi in manicomio, e sul folletto [sul genio] - con il quale immagina di interagire amichevolmente - compone un’opera, sotto forma di dialogo, intitolata Il messaggiero [1582], e quest’opera ha ispirato il celebre Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare contenuto nelle Operette morali [1827] di Giacomo Leopardi: potete cogliere l’occasione [con pazienza, perché la lingua di Leopardi pretende la massima attenzione] per leggere questo famoso Dialogo in cui Torquato Tasso dialoga con il suo Genio sui temi del piacere e della noia ...

     E ora noi leggiamo alcuni frammenti da Lettere dal manicomio di Torquato Tasso: Montaigne avrebbe voluto molto volentieri poter corrispondere con lui…   

LEGERE MULTUM….

Torquato Tasso, Lettere dal manicomio

    A Scipione Gonzaga Roma

Mandai a Vostra Signoria illustrissima, queste settimane passate, cinquanta scudi d’oro e moneta, perché io non li posso tenere; e credo che il signor Luca Scalabrino, al quale io li diedi, li manderà a buon recapito. Non dico altro se non che in questa camera c’è un folletto che apre le casse e toglie i denari, benché non in gran quantità, ma non così piccola che non possa scomodare un povero come son io. Se Vostra Signoria illustrissima vuol farmi la grazia di serbarmeli, me ne dia avviso; e frattanto che io provvedo d’altro, sia contenta di pigliarli. Le bacio le mani.

Di Sant'Anna, li 9 di dicembre del 1585

   

   A Maurizio Cataneo, Roma

Del folletto voglio scrivere alcuna cosa ancora. Il ladroncello mi ha rubati molti scudi di moneta; né so quanti siano, perché non ne tengo il conto come gli avari; ma forse arrivano a venti: mi mette tutti i Libri sottosopra; apre le casse; ruba le chiavi, che io non me ne posso guardare. Sono infelice d’ogni tempo, ma più la notte; né so se il mio male sia di frenesia o d’altro: digiuno spesso; e spesso, senza digiuno fatto per devozione, digiuno perché sento lo stomaco pieno e quelle volte non dormo. Abbiatemi compassione, e sappiate che io sono misero perché il mondo è ingiusto.

Di Ferrara, 25 dicembre 1585

    

   A Maurizio Cataneo, Roma

Vi sono molti spaventi notturni, perché, essendo io desto, mi è parso di vedere alcune fiammette nell’aria, e alcuna volta gli occhi mi sono scintillati in modo che io ho temuto di perdere la vista, e me ne sono uscite faville visibilmente. Ho veduto ancora uno sparviero catturar l’ombre dei topi che, per ragione naturale, non potevano farsi in questo luogo; ho udito spaventosi strepiti e, spesso, negli orecchi ho sentito fischi, tintinnii, campanelle, e rumore come d’orologi a corda; e spesso è battuta un’altra ora di dolore                                                                                  

Di Ferrara, 30 dicembre 1585

     Torquato Tasso è consapevole della propria malattia ed è in grado di analizzare il proprio turbamento, la propria angoscia, i propri sentimenti e ciò colpisce profondamente Montaigne, come poi impressionerà Goethe e Leopardi e molte altre persone. In mezzo a tanto raccapriccio Montaigne si rinfranca quando capisce che per Tasso lo scrivere è un atto riabilitativo che lo riscatta dalla condizione nella quale è costretto a vivere: la scrittura diventa l’affermazione e la dimostrazione che questo “pazzo” è un essere umano [e questa situazione l’ho potuta sperimentare personalmente quando, per quindici anni, ho fatto scuola nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino - coinvolgendo pure in questa esperienza molte e molti di voi - dove la didattica della lettura e della scrittura ha funzionato adeguatamente per le persone rinchiuse]. E, infine, il processo di decadenza psichica di Tasso si arresta e le sue condizioni migliorano: dopo tre anni passati nel reparto dei furiosi gli viene concessa una stanza nell’Ospedale di Sant’Anna dove mangia e dorme meglio e può anche ricevere visite e riprendere i contatti col mondo esterno. Gli giova inoltre sapere che l’uscita a stampa a sua insaputa della Gerusalemme liberata ha fatto crescere in tutta Europa la sua fama e la sua gloria poetica, e penso che tutte e tutti voi conosciate [a memoria] il celebre incipit di questo poema: comunque leggiamo e commentiamo le prime due ottave e poi rifletteremo brevemente su quest’opera.

LEGERE MULTUM….

Torquato Tasso, Gerusalemme liberata   Canto I

POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO AL SERENISSIMO SIGNORE

IL SIGNOR DONNO

ALFONSO II D’ESTE DUCA DI FERRARA

Nella prima ottava il poeta si propone di cantare l’impresa di Goffredo di Buglione, che ha liberato il sepolcro di Cristo, dimostrando molta saggezza e molto valore militare, e soffrendo innumerevoli vicende. Ma invano gli si opposero l’Inferno e i popoli d’Asia e d’Africa insieme riuniti, poiché egli, con l’aiuto di Dio, ha potuto riunire sotto le insegne crociate i suoi compagni dispersi in altre imprese. ... Nella seconda ottava il poeta invoca poi la Musa cristiana, che non risiede sul monte Elicona, sede delle Muse pagane, ma nel Cielo tra i cori dei Beati, incoronata da stelle immortali, perché ispiri e illumini il suo canto, e le chiede perdono se, per necessità artistica, aggiungerà alla vera storia della Crociata qualche ornamento e qualche finzione d’amore. ...

Canto l’arme pietose e ‘l capitano

che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo.

Molto egli oprò co ‘l senno e con la mano,

molto soffrì nel glorioso acquisto;

e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano

s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.

Il Ciel gli dié favore, e sotto a i santi

segni ridusse i suoi compagni erranti.

 

O Musa, tu che di caduchi allori

non circondi la fronte in Elicona,

ma su nel cielo infra i beati cori

hai di stelle immortali aurea corona,

tu spira al petto mio celesti ardori,

tu rischiara il mio canto, e tu perdona

s’intesso fregi al ver, s’adorno in parte

      d’altri diletti, che de’ tuoi, le carte.

     Torquato Tasso [che è un ragazzino precoce come sarà Giacomo Leopardi] ha abbozzato il suo poema epico già negli anni della sua giovinezza veneziana iniziando a comporre un’opera intitolata Gierusalemme, dedicata alla prima crociata guidata da Goffredo di Buglione. Questo progetto risulta un po’ impegnativo per un poeta che ha solo quindici anni e, difatti, l’opera rimane ferma al primo canto, ma Tasso ha continuato a riflettere sul tema della composizione di un poema epico [su come fare a scriverlo] producendo un’opera nel 1561 intitolata Discorsi sull’arte poetica, stampata solo nel 1587. Tasso riprende a scrivere il suo poema nel 1564 e lo porta a termine a Ferrara nel 1575 in venti canti di ottave con il titolo provvisorio di Goffredo che. a detta di tutte le studiose e gli studiosi, si presenta come una delle più coerenti opere in versi che sia mai stata scritta tanto per l’impostazione formale che per la trama.

     Il poema di Tasso è stato pubblicato a sua insaputa [nel 1581 mentre è in manicomio] dall’editore Angelo Ingegneri che lo ha intitolato Gerusalemme liberata. Quando Tasso viene scarcerato quest’opera è diffusissima in tutta Europa per via delle numerose edizioni [che arricchiscono altri ma non lui perché non esisteva il diritto d’autore] e Tasso, molto contrariato, rimaneggia la sua opera e la fa pubblicare a Roma nel 1593 con il titolo di Gerusalemme conquistata, ma la Conquistata è un’opera diversa dalla Liberata, è un poema che risponde certamente meglio all’ortodossia religiosa della Controriforma ma, per la sua ampollosità eccessiva, non può eguagliare il capolavoro originario. Per narrare l’intero quadro assai complesso della Gerusalemme liberata ci vorrebbe un Percorso intero, noi adesso accenniamo ad alcuni aspetti della trama dell’opera.

     L’azione si svolge nell’ultimo anno di guerra, quando i crociati, su invito dell’Arcangelo Gabriele, eleggono loro capo Goffredo di Buglione e marciano verso Gerusalemme difesa da Aladino. Al racconto propriamente epico dell’assedio che, fra varie difficoltà, si protrae per circa tre mesi, s’intrecciano “romantiche” storie d’amore fra persone nemiche: tra la principessa Erminia e Tancredi, tra Tancredi e la guerriera Clorinda [che lui uccide in duello non avendola riconosciuta, e di questo episodio ce ne occuperemo la prossima settimana leggendo i versi che lo descrivono], tra la maga Armida e Rinaldo, e altro significativo episodio è quello di Olindo e Sofronia nel canto II.

     Gli ostacoli maggiori alla vittoria cristiana vengono, oltre che dal valore dei guerrieri pagani come Argante e Solimano, dalle forze del demonio che mandano la maga Armida, donna bellissima, ad ammaliare con successo i principali cavalieri crociati [che la seguono nel suo castello], poi dall’incantesimo fatto dal mago Ismeno alla selva di Saron da cui i crociati devono prendere il legname per le loro macchine di guerra, poi da una spaventosa siccità e, soprattutto, dalla diserzione di Rinaldo che, venuto a contesa con Gernando di Norvegia, lo uccide e, per evitare la punizione, abbandona il campo e si lascia incantare dalla bellissima maga Armida che si è innamorata di lui e lo porta in un luogo di delizie nelle Isole Fortunate, ma Goffredo incarica Carlo il Danese e Ubaldo di richiamarlo ai suoi doveri e lui, pentito, torna a combattere.

     Nella battaglia conclusiva Rinaldo uccide Solimano mentre Tancredi combatte contro Argante e lo uccide rimanendo però ferito e a soccorrerlo arriva Erminia [che ormai è una pastorella perché era fuggita tra i pastori per sottrarsi alla guerra, ed è questo uno degli episodi - “Erminia tra i pastori” - più lirici del poema] che, infine, ha almeno la consolazione di poter salvare la vita a colui che ama. Rinaldo si riconcilia con Armida e dalla loro unione discenderà la stirpe degli Estensi [ed ecco il motivo encomiastico dell’opera]. Il poema si conclude con Goffredo che, inginocchiato nel Santo Sepolcro, “sospende l’arme e scioglie il voto”.

     Nei Discorsi sull’arte poetica Tasso afferma che un poema deve rispettare l’unità di tempo e di luogo secondo l’epica classica, deve avere un riferimento storico ma deve anche essere arricchito con molteplici episodi di stampo amoroso e meraviglioso in linea con la tecnica dei romanzi cavallereschi. Il grande merito di Tasso è quello di aver saputo ben miscelare un complesso ed eterogeneo bagaglio culturale utilizzando i migliori oggetti che ha a disposizione: dai poemi epici [Iliade e Odissea] di Omero, all’Eneide di Virgilio, alle opere di Lucrezio [il De rerum natura], di Stazio [la Tebaide, le Silvae, l’Achilleide] e di Lucano [la Pharsalia], alla Commedia di Dante, al Canzoniere di Petrarca, fino al Morgante di Pulci, all’Orlando innamorato di Boiardo e all’Orlando furioso di Ariosto [che abbiamo incontrato lo scorso anno]. Dalla mescolanza di questo straordinario bagaglio culturale nasce la Gerusalemme liberata che è un poema epico ma, soprattutto, è una delicata favola sentimentale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Procuratevi un volume [il numero delle edizioni di quest’opera di Tasso è enorme] che contiene il testo della Gerusalemme liberata, sfogliatelo e leggetene qualche ottava...

Come consiglia di fare Montaigne: pizzicando qua e là…

     I duelli sono all’ordine del giorno e, a proposito di duelli, stiamo leggendo [come sapete] la Novella dell’avventuriero composta da Arthur Schnitzler e pubblicata postuma nel 1937, il quale come sappiamo ha preso spunto da un suggerimento lasciato in margine da Montaigne sulla sua copia personale dei Saggi sull’Esemplare di Bordeaux. Il personaggio con il quale si apre la novella è Anselmo Rigardi, un giovane, nobile e abile spadaccino che come ricorderete si ritrova solo e libero da ogni vincolo famigliare perché i suoi genitori sono morti durante l’epidemia di peste che ha colpito Bergamo nell’anno 1520 decimando la città. Il giovane Anselmo, dopo lo sconforto iniziale, scopre un sentimento nuovo, prova un senso di libertà che non aveva mai conosciuto prima perché non deve più ubbidire ad alcuno e ha la possibilità di abbandonare il suo palazzo ormai malandato [i Rigardi hanno dilapidato nel tempo il loro patrimonio] e può, quindi, col poco denaro che gli resta, avviarsi nel mondo verso l’avventura. E la prima avventura - dopo essersi allontanato da Bergamo - gli accade quando si ferma in una sorta di osteria, dove incontra due giovani d’aspetto losco [l’uno avrebbe potuto essere un cavaliere e l’altro il suo guarda spalle] e, con loro ci sono anche due ragazze [Lorenza e Anita] che, dall’aspetto e dal comportamento, paiono ad Anselmo due donne di malaffare. Anselmo capisce che costoro hanno fatto fuori l’oste e stanno consumando ciò che di commestibile resta nella locanda. Dopo aver conversato per ore con loro Anselmo è costretto a giocare a dadi con il presunto cavaliere e accetta suo malgrado sapendo che dovrà perdere parte delle monete che porta con sé, ma, invece, succede qualcosa di misterioso: Anselmo vince sempre a ogni lancio e guadagna non solo i soldi ma anche Anita che il cavaliere considera di sua proprietà, e quando Anselmo si allontana Anita lo segue senza indugio. Mentre camminano Anita racconta ad Anselmo la sua storia rivelandogli anche che lo stesso mattino aveva sposato il cavaliere. Intanto è scesa la notte e non si vede neppure un casolare dove poter chiedere alloggio ma, a un tratto, sulla strada passa un carretto guidato da uno strano personaggio che, dall’abito nero e dal copricapo a cono, sembra essere un medico o un farmacista o un magistrato. Costui li porta a casa sua, offre loro la cena e una camera da letto dove Anselmo, per la prima volta in vita sua, passa la notte con una donna che, in campo amoroso, risulta molto più esperta di lui. All’alba però, mentre Anita sta ancora dormendo, Anselmo, nonostante l’esperienza sia stata per lui assai piacevole, decide di allontanarsi e di riconquistare la propria libertà, ma appena fuori, si trova di fronte il cavaliere, che si presenta con una nuova dignità rispetto al giorno precedente e, naturalmente, lo sfida a duello. E ora leggiamo.

LEGERE MULTUM….

Arthur Schnitzler, Novella dell’avventuriero

Ma il cavaliere, quasi avesse letto ad Anselmo nel pensiero, disse: «La mia parola, anzitutto, che solo il mio buon fiuto mi ha messo sulle vostre tracce, signor Rigardi. Poi l’assicurazione che non vi è altri nei pressi di cui dobbiate aver paura all’infuori di me - sempre ammesso» soggiunse con un sorriso «che voi conosciate la paura. Infine, perché sappiate con chi avete a che fare, vi rivelerò il mio nome e il mio ceto, che ieri vi ho taciuto per buone o cattive ragioni: Francesco conte Raspighi, l’ultimo della famiglia, e sulla via della gloria o di una morte precoce, proprio come voi. E ora veniamo al dunque». … «Ascolto» disse Anselmo. … «Ieri, signor Anselmo, giocando onestamente, avete vinto mia moglie. Ritengo che siate senz’altro disposto a concedermi la rivincita, come usa tra cavalieri». Anselmo aveva già sulle labbra la risposta: rinunciava ad affidare ai dadi la decisione ed era pronto a restituire la vincita senza combattere. Ma sapeva che Raspighi questo non l’avrebbe proprio accettato, anzi, si sarebbe ritenuto offeso da un’offerta del genere, e così rispose: «Sono pronto, naturalmente, ma vi spiacerebbe dirmi che cosa avete voi da giocare in cambio di Anita?». … «La mia vita» replicò il cavaliere in tutta calma. … «Scherzate,» disse Anselmo «le poste sono troppo diseguali. Una donna, foss’anche la più bella, si può sempre sostituire, la vostra vita invece - ne avete una sola». … «Il fatto è che per me donna e vita hanno lo stesso valore, grande o piccolo che sia, ed è questo che conta». «Ma non per me,» disse Anselmo «per me la vostra vita non vale nulla. E allora che ci guadagnerei se voi non foste più in vita?». … «Niente di meno, Anselmo, che la sicurezza della vostra». … «Non vi comprendo» disse Anselmo il quale capiva adesso sempre più chiaramente che non si trattava affatto di uno scherzo. … «Eppure non dovrebbe essere tanto difficile» ribatté Raspighi. «Se vinco io e mi riprendo Anita, a quel punto noi due siamo alla pari, uomo contro uomo, e a misurarsi saranno le nostre spade». Anselmo corrugò la fronte. «Foste voi, ieri, a proporre come posta Anita, ora non potete chiederne conto». … «Ieri era ieri, oggi è oggi. Se oggi perdo di nuovo oppure mi rifiutate la rivincita, alla quale non posso né voglio costringervi, un minuto dopo non ci sarò più. In ogni caso dovete decidervi». … «E sia! Giochiamo. Ma solo la mia vita contro la vostra, altrimenti non ci sto». Il cavaliere scrollò il capo: «Non accetto regali». … «Niente regali,» confermò Anselmo «saremo subito pari e patta. Se per esempio vi dessi del farabutto?». Uno strano sorriso errò sulle labbra del cavaliere. I suoi tratti si distesero ed egli sembrò più giovane, sembrò per così dire un buon fratello, tanto che Anselmo ebbe quasi la voglia di tendergli la mano. «Solo per compiacervi, signor Anselmo, farò come se credessi che mi considerate davvero un farabutto. Ma vi capiterà di peggio, ammesso che vi capiti d’incontrare ancora qualcuno a questo mondo». E mutata subitamente espressione, ritto in tutta la sua altezza, l’aria da principe, per la prima volta ebbe davvero l’aspetto di un cavaliere.

Due spade volarono simultaneamente fuori dal fodero e dopo il saluto di rito subito lampeggiarono l’una contro l’altra. Per un po’ lo scontro andò avanti senza che nessuno dei due sferrasse il colpo decisivo. Anselmo pensava che ora Anita si sarebbe svegliata, ma nulla si mosse e nessuno si mostrò dietro le tende. Tutt’a un tratto apparve invece sulla porta il vecchio dai capelli bianchi della cui presenza Anselmo s’era scordato: simile a un fantasma nella sua lunga sopravveste mattutina, pareva non capire quel che stava accadendo, seguiva il duello come se si trattasse di un gioco da torneo, finché di colpo comprese che era una questione di vita o di morte.

E allora corse a precipizio lungo tutta la facciata della casa, di nuovo con quelle stolte urla di paura della sera prima quando aveva incontrato Anselmo, e girato l’angolo sparì alla vista. I duellanti non si curarono di lui e continuarono a combattere. Anselmo godeva della propria bravura, per lui era davvero come un gioco e, pur sapendo che tale non era, non riusciva a figurarsi che da un momento all’altro o lui o il rivale sarebbero potuti cadere al suolo feriti o morti. Fu l’altro a cadere. In quel secondo per la prima volta Anselmo fu colto da un brivido di sgomento. Non che temesse eventuali conseguenze, era l’orrore di sapere che il vinto, ancora un attimo prima così vivo, così giovane, quasi un fratello, un secondo dopo sarebbe scomparso per sempre dalla scena del mondo. La spada mortale ancora stretta in pugno, s’inginocchiò accanto al cavaliere dalla cui gola un fiotto di sangue rosso chiaro sprizzava verso l’alto. Istintivamente Anselmo tentò di bloccare con la mano lo zampillo e chiamò Anita come se da lei potesse venirgli aiuto. Il cavaliere aprì gli occhi ed ebbe ancora la forza di dire: «Andate al Tribunale più vicino e riferite che avete ucciso il conte Raspighi. Vi spetta una generosa ricompensa». Quindi afferrò con la sinistra il braccio di Anselmo e soggiunse: «Lo so, non lo farete», e si levò di scatto come tentando di rimettersi in piedi, ma era solo un violento sussulto che attraversava il suo corpo, poi d’improvviso cadde riverso al suolo: era morto. Come indeciso sul da farsi, Anselmo volse lo sguardo verso la casa. Anita era affacciata alla finestra, gli occhi sbarrati, il mantello rosso porpora pressato sul petto. Non gli era chiaro se lei aveva davvero compreso ciò che era accaduto, perciò disse: «Tuo marito è morto». … «Lasciami sola con lui» si limitò a rispondere Anita. Anselmo le si avvicinò, ma lei, le braccia incrociate sul mantello, lo respinse con le palme alzate. «Va’ via» disse. Non c’erano ira o dolore, ribellione o rassegnazione nelle sue parole. C’era soltanto un sapere misteriosamente lucido, il dono di discernere tra ciò che è necessario e ciò che è privo di senso e di valore. Anselmo sentiva che Anita stava guardandogli nel cuore, attraverso il tumulto d’emozioni scatenato in lui dagli eventi delle ultime ore, e qui ella scoprì l’ossessione, il suo solo, invincibile desiderio: voglio proseguire il mio cammino. La casa, il giardino, i fiori variopinti dal lungo stelo, il morto sulla ghiaia, la donna alla finestra e il rosso porpora del suo mantello si spensero nel nulla. Il cielo del mattino s’inarcava infinitamente alto e lontano. L’incredibile silenzio cominciò a suonare. Anselmo si volse e partì.

     Dove andrà, vedremo.

     Nel 1586, dopo sette anni, Tasso viene dimesso dall’ospedale di Sant’Anna e viene accolto dal principe Vincenzo Gonzaga di Mantova, ed è un uomo stanco e prostrato, compromesso nel fisico e precocemente invecchiato che non trova pace da nessuna parte: né a Sorrento, né a Napoli, né a Firenze, né a Roma dove muore il 25 aprile 1595, e adesso terminiamo questo itinerario leggendo un frammento tratto dalle Rime d’amore di Torquato Tasso. Sono circa duemila i frammenti in rima che Tasso ha scritto nell’arco della sua vita travagliata, però nella poesia ha trovato consolazione ed è, quindi, nostro dovere dar voce al poeta.

     Che succede quando la persona amata si allontana, anche momentaneamente, da noi? Tasso lo scrive facendo combinare  - e questa combinazione crea il moderno stile poetico – erotismo, naturalismo, riferimento ai Classici e ironia, ironia perché i baci e i sospiri sono muti, l’amore toglie il fiato, le dolcezze amorose stanno nascoste e solo la scrittura ne materializza l’essenza.

LEGERE MULTUM….

Torquato Tasso, Rime d’amore

Qual rugiada o qual pianto;  

quali lagrime eran quelle

 che sparger vidi dal notturno manto [dal cielo]

e dal candido volto de le stelle?  

[che appare come un manto notturno sopra la terra]

E perché seminò la bianca luna

di cristallini astri un puro nembo

a l’erba fresca in grembo?

[gocce di rugiada sparse come una pioggia sull’erba fresca]

 

Perché nell’aria bruna

s’udian, quasi dolendo, intorno intorno

gir [passare] l’aure insino al giorno?

Fur segni, forse, de la tua partita [partenza],

vita de la mia vita?

 

Nell’aria i vaghi spirti,

han l’onde in mar quïete,

ogni fiume è più tacito di Lete

[il mitico fiume dell’oblio];

profonda valle, alto monte o verde selva

non ode augello o belva;

sol io con vaghi accenti

spargo il mio duolo al cielo, all’onde, ai venti.

 

Tacciono i boschi e i fiumi,

e il mar tranquillo giace,

e negli anfratti i venti han tregua e pace,

e ne la notte bruna

alto silenzio fa la bianca luna:

e noi teniamo ascose

le dolcezze amorose:

amor non parli, amore non respiri;

sìan muti i baci e muti i miei sospiri.

     È difficile considerare Torquato Tasso un pazzo furioso o un matto da legare e, difatti, per Goethe, per Schiller, per Leopardi [e per tante altre persone] e, naturalmente per Montaigne, e anche per noi [credo di poter dire] Torquato Tasso è soprattutto un grande poeta, forse: il più grande poeta “romantico”, insieme a Petrarca [sostiene Montaigne], di tutti i tempi, e lo ritroveremo la prossima settimana.

     Montaigne, mentre soggiorna a Bagni di Lucca [alle terme], apprende di essere stato eletto sindaco di Bordeaux e viene sollecitato a rientrare immediatamente, ma lui non torna subito. Di Montaigne sindaco ce ne siamo già occupate e occupati all’inizio di questo Percorso e sappiamo che ha ricoperto questo incarico dal 1581 al 1585 dando prova di grande abilità diplomatica e quindi passeremo oltre. Alla fine del suo mandato politico sfugge alla peste e poi si rituffa nel suo lavoro creativo finché non compie il suo ultimo viaggio a Parigi nel 1588 che mette a dura prova il suo sangue freddo perché viene a trovarsi veramente in difficoltà: che cosa gli succede?

     Per rispondere a questa e a molte altre domande [c’è anche un altro duello, un duello in versi, al quale dobbiamo assistere mediante la poetica determinazione di Torquato Tasso], dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, e non perdete la prossima Lezione perché la settimana successiva ci sarà come da calendario la pausa di fine febbraio [che cosa dobbiamo festeggiare? Lo diremo tra otto giorni].

            Afferma Torquato Tasso: «La poesia va professata perché esorta l’intelletto di ogni persona al sublime piacere d’imparare» [La poesia, scrive Torquato Tasso, esorta all’apprendimento]. E, per avvalorare questa affermazione con tutta la necessaria determinazione che comporta: la Scuola è qui e il viaggio continua …

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 15, 2019