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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA SI ESTENDE LA PIAGA DEL CONFESSIONALISMO RELIGIOSO ...

Lezione N.: 
13

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

La sapienza poetica e filosofica del ‘600 agli esordi della scienza  7-8-9  febbraio  2018

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI  DELLA SCIENZA

SI ESTENDE LA PIAGA DEL CONFESSIONALISMO RELIGIOSO ...

       Questo è il tredicesimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età moderna agli esordi della scienza. Siamo in compagnia di Giordano Bruno che, come ricorderete al termine dell’itinerario della scorsa settimana, abbiamo seguito a Venezia da dove, però, a causa dell’epidemia di peste che ammorbava la città è ripartito quasi subito per raggiungere - rimettendosi anche l’abito da domenicano - prima Padova poi Brescia e dopo Bergamo dove ha soggiornato nel convento dei domenicani tenendo anche una serie di Lezioni su Tommaso d’Aquino finché, nell’estate del 1578, decide di ripartire ancora: per dove?

     Da Bergamo, nell’estate del 1578, Giordano Bruno decide di andare in Francia: passa per Milano, per Torino da dove, attraverso le Alpi, entra in Savoia e, nel cuore dell’inverno, si ferma nel convento domenicano di Chambéry. Giordano Bruno, ospite nel caldo convento di Chambéry, che è un grande e confortevole [per l’epoca] edificio immerso nella neve alpina, s’informa con grande interesse [sappiamo che è una persona molto curiosa] su ciò che è successo in Francia negli ultimi decenni [allora le informazioni circolavano molto lentamente e Giordano cerca notizie di prima mano] e i suoi confratelli savoiardi sono ben felici di metterlo al corrente e di dare giudizi su ciò che è successo e succede in Francia.

     Giordano Bruno viene a sapere che il re Enrico II, che i suoi confratelli savoiardi considerano causa di molti mali, non aveva né la cultura né la perspicacia di suo padre, il geniale Francesco I da cui aveva ereditato il trono nel 1547. Giordano Bruno viene a sapere che Enrico II era dipendente da una schiera di consiglieri tra cui la moglie, la molto potente Caterina de’ Medici, che gli ha dato dieci figli, e l’amante, l’attempata Diane de Poitiers che a corte si comportava come se fosse lei la regina [di Caterina de’ Medici e di Diane de Poitiers potete scorrere la biografia utilizzando l’enciclopedia, la rete e la biblioteca]. La debolezza di Enrico II [Giordano Bruno viene a sapere dai suoi confratelli savoiardi] è uno dei motivi per cui la Francia era scivolata nel caos perché le varie fazioni rivali hanno sfruttato la situazione per dare inizio a una lotta per il potere che non ha giovato al Paese transalpino. Lo scontro ha coinvolto tre famiglie in particolare: i Guisa, i Montmorency e i Borboni, e le ambizioni private di queste famiglie si sono mescolate con le tensioni religiose nate e cresciute in Francia con la Riforma protestante. In fatto di religione [viene a sapere Giordano Bruno dai suoi confratelli savoiardi] Enrico II è stato molto più repressivo di suo padre Francesco I che aveva introdotto delle restrizioni solo nel 1534 in seguito a una campagna di propaganda protestante particolarmente aggressiva condotta dal riformatore francese [Jean Cauvin o Calvin] Giovanni Calvino, che ha dovuto lasciare la Francia per trasferirsi in Svizzera stabilendo il suo quartier generale a Ginevra dove ha dato vita [nel bene e nel male] a un significativo esperimento politico e dove è morto nel 1564. Queste notizie interessano molto a Giordano Bruno perché sa che l’esperienza calvinista ginevrina è tuttora in corso e lo incuriosisce molto.

     Il calvinismo [viene a sapere Giordano Bruno dai suoi confratelli savoiardi] aveva soppiantato il luteranesimo che era più moderato diventando la forma prevalente di protestantesimo in Francia, e si distingueva per essere un movimento che rappresentava una seria sfida all’autorità del re e della Chiesa. I calvinisti venivano addestrati in un’Accademia speciale a Ginevra [una Scuola molto valida] e poi rispediti in Francia per convertire gli abitanti con argomentazioni molto convincenti e anche con l’obiettivo di destabilizzare lo Stato. A un certo punto, tra il 1550 e il 1560, i seguaci di Calvino [e questo Giordano Bruno già lo sapeva] sono diventati noti col nome di “ugonotti” e questa parola deriva probabilmente da un gruppo precedente di riformatori, il ramo familiare degli Eidgenossen o “confederati”, che erano stati esiliati in Francia. Il fatto è [viene a sapere Giordano Bruno dai suoi confratelli savoiardi] che, a partire dal 1550, in antagonismo al calvinismo si era diffuso un movimento cattolico molto aggressivo e meno intellettuale, a cui è stato dato il nome di “lega”, il cui scopo non era quello di contrastare gli “eretici” [così venivano chiamati i calvinisti] a colpi di argomentazioni ma quello di eliminarli fisicamente. Questi “leghisti” consideravano come un nemico qualunque re francese che avesse mostrato un briciolo di tolleranza nei confronti dei protestanti e, col passare dei decenni, questo movimento integralista ha acquistato sempre maggiore forza.

     Enrico II [viene a sapere Giordano Bruno dai suoi confratelli savoiardi] ha ceduto facilmente alle pressioni della “lega” e ha introdotto delle severe leggi contro l’eresia, istituendo a Parigi perfino “un parlamento” dedicato esclusivamente “ai crimini religiosi”. A partire dal 1557 la blasfemia contro i Santi, la pubblicazione di libri proibiti e i sermoni illegali diventano tutti crimini punibili con la morte [Giordano Bruno, nell’inverno del 1578 ospite gradito nel caldo convento di Chambéry, non immagina certo che, in un altro contesto, sarebbe toccata anche lui, ventidue anni dopo, una medesima sorte] anche perché il calvinismo prende campo e a questo movimento aderiscono molti importanti personaggi tra i quali Antonio di Borbone re di Navarra che mira a diventare re di Francia sfruttando le guerre di religione.

     Sotto il regno di Errico II, che dura fino al 1559, la Francia [viene a sapere Giordano Bruno dai suoi confratelli savoiardi] comincia a essere gravata da tutta una serie di problemi che si sono trascinati nel tempo: oltre al sanguinoso conflitto religioso [le guerre civili insanguinano la Francia dal 1562 fino al 1598], lo Stato soffre per un’inflazione fuori controllo che colpisce soprattutto le fasce più povere della popolazione. Gli affitti sono saliti alle stelle a beneficio dell’aristocrazia terriera che reagisce acquistando nuove proprietà, facendo aumentare la superficie del latifondo improduttivo. La crisi economica rende la vita insicura e questo alimenta l’estremismo, ma, infine, i confratelli savoiardi di Giordano Bruno ribadiscono - in autentico spirito domenicano - che “è stata l’Umanità ad attirarsi addosso tutte queste miserie coi suoi peccati” e non se ne sarebbe liberata finché non si fosse affidata all’unica vera Chiesa del Signore. Ma, secondo lo stile che ormai ha acquisito [basato sulla formulazione di continue ipotesi su cui ragionare], Giordano Bruno, al quale l’abito domenicano sta sempre più stretto, invita i suoi confratelli savoiardi a riflettere ponendo loro un interrogativo inquietante: «Voi dite che ci si deve affidare alla vera Chiesa, e qual è, secondo voi, in questo momento, la vera Chiesa?».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia [che trovate in biblioteca] e navigando in rete raggiungete la cittadina di Chambéry che dal 1232 è stata la capitale del ducato di Savoia e potete visitare il Castello, e poi potete percorrere la “Strada dei tre Colli” che è un itinerario paesaggistico e d’Arte molto interessante fino ad arrivare alla località di Saint-Pierre-de-Chartreuse a tre chilometri dalla quale si trova la celebre “Grande Chartreuse” la casa madre dell’ordine certosino fondata nel 1084 da San Bruno...

Giordano Bruno, curioso com’è, vi ha fatto visita, fatelo anche voi...

     La domanda provocatoria con la quale Giordano Bruno invita a riflettere i suoi confratelli savoiardi ci fa capire che ha deciso di rimettersi in cammino e, difatti, prima che finisca l’anno 1578 Giordano Bruno raggiunge Ginevra: sa che in questa città c’è un gran fermento creato dalla riforma calvinista [ed è curioso in proposito] e sa che nella città Svizzera è emigrata anche una numerosa colonia di italiani passati al protestantesimo d’impronta calvinista.

     Prima di occuparci dell’esperienza ginevrina piuttosto turbolenta di Giordano Bruno, dobbiamo anche dire che lui compie una vera e propria impresa nell’intraprendere un viaggio da Chambéry a Ginevra durante il freddissimo inverno del 1578, una stagione, a detta delle cronache dell’epoca, caratterizzata da violente tempeste di neve e da temperature bassissime [nelle pause tra un tempesta e l’altra], ma la curiosità spingerà sempre in varie occasioni Giordano Bruno a mettere a repentaglio la propria vita.

     E, a questo proposito, dobbiamo dire che anche “l’inverno del 1929 - così come quello del 1903 e del 1917 - fu eccezionalmente duro” e questa informazione ci viene data da Oreste Benetti, il protagonista [che tutte e tutti voi conoscete] del primo racconto, intitolato Lida Mantovani, della raccolta Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani.

     Sappiamo che Lida Mantovani è una ragazza che ha avuto un bambino di nome Ireneo nel corso di una relazione con David, un ricco giovane rampollo appartenente alla comunità ebraica ferrarese. Lida, quando viene abbandonata definitivamente da David, è costretta a lasciare la casa nella quale ha vissuto con lui per tornare dalla madre Maria [anche lei ragazza madre e, quindi, madre e figlia sono accomunate dalla stessa esperienza] che abita in via Salinguerra, vicino alle mura di Ferrara e, aiutata da Lida, si mantiene lavorando di cucito per conto di una sartoria maschile. Dopo qualche anno, un vicino di casa, un uomo un po’ più anziano di Lida, che di mestiere fa il rilegatore, Oreste Benetti, prende l’abitudine di recarsi ogni sera alla stessa ora in visita alle due donne, conversando con loro con gentilezza e cortesia, poi provvedendo anche a rendere più vivibile la loro casa, poi facendo molti regali a Lida e relazionandosi in modo positivo con Ireneo che lo chiama zio. Che intenzioni ha Oreste? Ha intenzione di chiedere a Lida se lo vuole sposare convinto di poter fornire alla ragazza l’occasione di riscattarsi socialmente oltre che economicamente e ritenendo anche [essendo lui molto religioso] di poterla far uscire, col matrimonio, dalla condizione di peccato mortale nel quale lei si trova. Oreste, dopo aver dichiarato la sua intenzione, chiede a Lida - che, in verità, non sa che cosa dire - di non rispondergli subito, ma di pensarci bene perché lui è disposto ad aspettare pazientemente e vorrebbe essere accettato per quello che è più che per quello che fa.

     E, ora, sulla scia de “il duro inverno del 1929”, andiamo avanti a leggere.

LEGERE MULTUM….

Giorgio Bassani,  Cinque storie ferraresi   Dentro le mura

LIDA MANTOVANI

L’inverno del 1929 fu eccezionalmente duro. Per trovarne un altro che potesse paragonarglisi - asseriva Oreste Benetti -, bisognava risalire a quello famoso del 1903, quando perfino il Po era gelato; o anche, magari, a quello del ‘17. Prese a nevicare verso Natale, e seguitò neve e neve fino alla Befana. Il freddo comunque era ben lontano dall’aver raggiunto le punte straordinarie che avrebbe toccato nei mesi successivi. Anzi, subito dopo la Befana ci fu un breve intervallo di sole, di tepore quasi primaverile, e la neve già si scioglieva.  

Ci sarà da fidarsi? si domandava Maria Mantovani. Dal letto, dove attorno ai primi di dicembre era stata costretta per colpa di una influenza che le avrebbe poi lasciato alcune linee di febbre e una brutta tosse, la vecchia ascoltava lo sciacquio prodotto lungo via Salinguerra dal passaggio di qualche veicolo. No, non c’era da fidarsi - finiva col rispondere a se stessa, gli angoli delle labbra piegati sotto la coperta in una smorfia amara -. Quel caldo, e tutta quella nebbia che veniva su dalla campagna, e aveva l’aria di bagnare tale e quale come la pioggia.

Per prima cosa, non appena entrato (entrava senza suonare: era stata Lida, da tempo, a fornirlo di una chiave), Oreste Benetti si sbarazzava del pastrano fradicio, attaccandolo a un chiodo sporgente dalla porta d’ingresso. Discendeva poi la scala, tutto allegro. Infine, dopo essersi seduto come sempre a un capo del tavolo, cominciava a parlare. Da un paio di mesi, cioè da quando Ireneo era stato ammesso come internista al Seminario, l’argomento principale dei suoi discorsi era diventato quello del ragazzo. Naturalmente - diceva -, per arrivare a una decisione ci sarebbe voluto del tempo. Tuttavia, secondo il suo modesto avviso, valeva la pena di riflettere fin da adesso su ciò che Ireneo avrebbe potuto fare da grande. Le tre classi del ginnasio inferiore: quelle in ogni caso sarebbe stato opportuno che le finisse. Ma dopo? Ritirarlo dalla scuola e metterlo subito a lavorare da qualche parte, no, d’accordo. Una volta però che avesse preso la licenza media inferiore, una scelta fra i vari indirizzi di studio si sarebbe imposta. Una sera, arrivando, annunciò non senza solennità che quel pomeriggio stesso era passato dal Seminario. Fattosi ricevere da Don Bonora, il prefetto succeduto ormai da vent’anni al povero Don Castelli, gli aveva chiesto di Ireneo. …  “Cosa vuole che le dica, si era limitato a rispondere dapprincipio Don Bonora. Siamo appena agli inizi: all’analisi logica e a quella del periodo. Il latino vero e proprio dobbiamo ancora affrontarlo…”.   Lui allora aveva provato a domandargli che cosa pensasse di Ireneo come carattere. Al che il sacerdote, seppure continuando a esprimersi con grande prudenza e delicatezza, aveva replicato che sì, effettivamente, il carattere del ragazzo gli dava alquanto da pensare. Era presto, si capisce - aveva soggiunto -, per poter formulare su di lui un giudizio definitivo! Che si trattasse ad ogni modo di una natura un po’ fiacca, un po’ svogliata, su questo, purtroppo, non gli pareva che ci fosse da dubitare. …  Il legatore strinse le labbra. Quindi, d’un tratto, passò a parlare della stagione. Per me non ne siamo ancora fuori, disse, alzando gli occhi al soffitto, fiutando l’aria con diffidenza. Il peggio deve ancora venire.    E Maria Mantovani, stesa sul suo letto in fondo alla stanza, si affrettò ad annuire, sorridendo in silenzio per conto proprio. Oreste Benetti aveva ragione, la stretta più forte dell’inverno doveva ancora venire. All’inizio della terza decade di gennaio, infatti, il cielo di nuovo si chiuse, la temperatura si abbassò, e in un’atmosfera sconvolta a ogni istante da raffiche brutali riattaccò a nevicare furiosamente. Pareva di essere in alta montagna. Ridotte a sentieri, ad angusti camminamenti conservati sgombri a fatica dalle squadre avventizie di spalatori che il Comune aveva prontamente ingaggiato, le strade, specie quelle secondarie, non consentivano passaggi altro che alle persone. Siccome, poi, fin da principio e un po’ dovunque, i bastioni cittadini erano divenuti meta quotidiana di una folla entusiasta di improvvisati sciatori, in maggioranza studenti, a un dato momento fu deciso dalla Federazione fascista di promuovere appunto lassù, e precisamente lungo quel tratto delle mura che va da Porta San Giorgio a Porta Reno, addirittura delle gare. Col risultato che via Salinguerra, per solito così deserta e silenziosa, si ritrovò trasformata da un giorno all’altro in una arteria piena di movimento e di strepito. …  Di colpo lo stato di Maria Mantovani si aggravò. La febbre ricominciò a salire, il respiro le si fece affannoso. Venne chiamato un medico, che subito, dopo un rapido esame, dichiarò trattarsi di polmonite. Se c’era pericolo? Altroché se ce n’era! - confermò il dottore, rispondendo a una precisa domanda dell’ometto di una certa età, forse un parente, dal quale era stato convocato -. Le condizioni generali della malata, che, soltanto a guardarla, apparivano abbastanza precarie, non lasciavano presagire niente di buono. Prevista, temuta, si annunziò la crisi del quinto giorno. …  Maria Mantovani non staccava gli occhi dalla finestra. Di là dai vetri, attraverso i quali la luce diurna stentava a filtrare, scorgeva la neve cadere fitta, a vortice. Sforzava l’udito. Via Salinguerra risuonava fiocamente di grida allegre, di passi precipitati. Cos’è che stava succedendo, fuori? - si chiedeva -.

La città sembrava in festa. Ma perché mai ogni voce, ogni suono, le giungevano da tanto lontano? … “Non ci sento bene, si lagnò. Non ci sento più. È come se avessi dell’ovatta nelle orecchie. Nevica, rispose piano Lida, che sedeva di fianco al letto. Per questo ti sembra così La vecchia ebbe un piccolo riso astuto.  Non è mica per questo, mormorò, scuotendo il capo e abbassando le palpebre.

Dopo un paio di ore prese a rantolare. Bisognava pensare al prete. E difatti il legatore, rapido a dileguarsi, riapparve di lì a poco insieme col parroco di Santa Maria in Vado.

Frattanto la stanza si era riempita di gente.  Si trattava in massima parte di donnette del vicinato, da nessuno avvertite eppure presentatesi spontaneamente. In che modo erano entrate? - Lida non poté fare a meno di chiedersi -. Possibile che Oreste (Oreste, già - rifletté -: così, col suo nome e basta, prima d’allora non le era mai venuto di chiamarlo ), possibile che Oreste avesse trascurato di tirarsi dietro la porta di casa? Comunque fosse andata, più tardi, quando, al termine della mezz’ora successiva, il prete si fu accomiatato, le vicine non abbandonarono la stanza. Rimasero tutte: raccolte sotto la finestra coi loro scialli in testa e bisbigliando giaculatorie.  Rigido al centro della camera, Oreste Benetti teneva le mani giunte.

Non appena il rantolo cessò, fu sollecito a venire avanti e a curvarsi sul capezzale. Leggere e esatte, le sue mani provvidero a chiudere gli occhi sbarrati di Maria Mantovani, a incrociarle in cima al petto le braccia scheletriche, per poi, da ultimo, con qualche tocco sapiente, passare ad aggiustare le lenzuola in disordine e la coltre scivolata quasi per intero sul pavimento. Durante tutto questo tempo Lida non aveva fatto un solo gesto, un solo movimento. Ma anche dopo, una volta scomparse alla sua vista le grosse mani operose di colui che ben presto, oramai lo sapeva con certezza, sarebbe diventato suo marito, anche dopo rimase là, seduta di fianco al letto, a fissare il profilo di cera di sua madre. Le palpebre socchiuse, il naso che appariva d’un tratto più grande, più forte, le labbra accennanti a un vago, assurdo sorriso felice: quella fisionomia fin troppo familiare le si rivelava di colpo diversa, tale come se solamente adesso lei fosse in grado di coglierne tutte le particolarità. Non si saziava di guardare la faccia di sua madre. E sentiva intanto che qualcosa di vecchio, di acre, di duro, le si veniva adagio adagio sciogliendo dentro. Si coprì il volto con le mani e si mise a piangere in silenzio. Alla fine rialzò il capo, girando gli occhi pieni di lacrime verso il legatore. Lasciatemi stare, disse sottovoce. Anche voi, Oreste, soggiunse annuendo, andate via anche voi. Va bene, cara, va bene…”  balbettò l’altro intimidito. Le vicine già partivano. Dopo essersi accodato a metà scala al loro gruppo, Oreste fu l’ultimo a raggiungere il pianerottolo e, richiudendo la porta, l’ultimo a sparire.

Col gomito puntato nella coltre e con la guancia appoggiata alla mano, Lida, rimasta sola, pensava alla madre, a se stessa, alle loro due storie. Ma pensava a David, soprattutto: a David, e alla stanza del Palazzone di via Mortara dove, al principio di una lontana primavera, era andata a vivere insieme con lui. Era successo così.

Una sera, sul finire dell’inverno (di quel medesimo inverno durante il quale, data la noia e l’insofferenza che trasparivano da ogni gesto e da ogni parola di David, lei si aspettava da un momento all’altro che lui le dicesse: Basta, Lida, sarà meglio che d’ora in avanti non ci vediamo più, e in questa attesa si consumava), una sera uguale a tante altre David le aveva proposto di punto in bianco di mettere su casa assieme, come una coppia di operai qualsiasi, nel Palazzone di via Mortara. Si era deciso a rompere definitivamente coi suoi - aveva aggiunto -, e questo per farsi una nuova esistenza. Avrebbero abitato in una mansarda, una bella, poetica mansarda all’ultimo piano, con vista, oltre che su tutta la città, sulla campagna fino ai monti di Bologna. Lui per mantenere la famiglia sarebbe entrato in zuccherificio

E lei? Che cos’altro poteva fare, lei, se non rispondere subito di sì come quell’altra volta, la primissima, quando, incontratisi per caso in un locale all’aperto di Borgo San Giorgio (lei a quell’epoca contava poco più di sedici anni: non era che una ragazzetta, insomma, in tutto e per tutto), avevano fatto coppia fissa l’intera serata, e poi, verso mezzanotte, erano finiti in un prato delle mura? Una volta di più non si era posta nessun tipo di domanda, lei, non aveva esitato un attimo solo. Qualche sera dopo era uscita di casa con un fagottino sotto il braccio che sua madre, pur senza osare, al solito, di farne parola, aveva certamente notato, e ciao. Che pazzia, si capisce! Eppure soltanto più tardi, molto più tardi, quando, dopo aver partorito, era tornata a stare da sola nella camera del Palazzone, e il bambino non smetteva di piangere, e lei si sentiva il petto ogni giorno più vuoto di latte, e non le erano rimaste che poche lire, soltanto allora aveva cominciato a svegliarsi dal lungo sogno ad occhi aperti che fino a quel punto era stata la sua vita. …  Ma lui, David, chi era? - si chiedeva adesso, dopo tanti anni -. Che cosa cercava, che cosa voleva veramente?

Al Palazzone, in una camera del piano di sotto, abitava la famiglia di un infermiere dell’Arcispedale Sant’Anna. Si chiamavano Mastellari, e erano in tutto sei persone: l’infermiere, sua moglie, e quattro bambini. …  La mattina, quando scendeva con la brocca ad attingere acqua in cortile, non era raro che lei si imbattesse nella signora Mastellari. … “Cos’è che fa suo marito? le aveva domandato una volta quest’ultima. L’operaio?” …   “Sì. Per adesso è disoccupato, ma presto entrerà in zuccherificio, aveva risposto lei, tranquilla, senza nemmeno lasciarsi sfiorare dal dubbio che David, uno studente, un figlio di signori, e non importa se in ritardo con la laurea e se in rotta con la famiglia, in zuccherificio non sarebbe entrato mai.

Un operaio, figuriamoci! E tuttavia quale era la cosa a cui sembrava che David aspirasse di più, se non quella di diventare un operaio qualsiasi? Non lo ripeteva di continuo?   Bastava che parlasse, in realtà, e tutto allora diventava semplice, facile, possibile. Sposarsi? Lui il matrimonio l’aveva sempre considerato una buffonata - era capace di cominciare a dire -, una delle più tipiche e nauseanti pagliacciate borghesi. Visto però che alle nozze lei in fondo ci teneva - soggiungeva subito, sorridendo -, stesse tranquilla: al massimo dentro un anno, quando lui avesse trovato lavoro, la posizione in Municipio avrebbero senz’altro potuto regolarla. Sicuro. Lui l’avrebbe sposata, non aveva nessuna difficoltà a prometterglielo. Messo di fronte alla sua più che legittima e comprensibile aspirazione di risultare finalmente sua moglie.     I pomeriggi, quei torridi pomeriggi estivi, li passava in genere disteso, quasi sempre dormendo. Il suo respiro era così lento, così pallida la sua guancia sotto una barba di parecchi giorni, che lei, talvolta, seduta accanto al suo letto esattamente come adesso accanto al letto di sua madre, non resisteva alla tentazione di prenderlo per un braccio, di dargli una strattonata. Cosa? bofonchiava lui, con le palpebre che non ce la facevano ad aprirsi. Quindi, giratosi dal lato del muro (la giacca del pigiama, dietro, appariva tutta intrisa di sudore), tornava a sprofondare nel suo sonno.

Non appena cenato di solito uscivano. In cerca di un po’ di refrigerio, avevano preso l’abitudine di fare venir tardi a Porta Mare. Quel chilometro piuttosto abbondante che separava il Palazzone da Porta Mare valeva la pena di affrontarlo. Poco oltre la barriera del Dazio c’era un chiosco di gelati con davanti una decina di tavolini; e i gelati, fino da bambina, come sapeva anche David, le erano sempre piaciuti moltissimo. A prendere per via Fossato di Mortara si arrivava sulle mura in pochi attimi. E era stato appunto lassù in cima ai bastioni, che lei una di quelle sere aveva smesso a un tratto di camminare. Senti, credo proprio che avrò un bambino, aveva detto con molta calma, posando una mano sul braccio di David. Sul momento lui non era sembrato sorpreso. Nessun gesto, da parte sua, nessuna parola.

Poco più tardi, tuttavia, dopo che avevano raggiunto il solito chiosco, e lei stava lì, col petto appoggiato contro l’orlo del banco di zinco e con gli occhi abbagliati dalla luce della lampada ad acetilene le aveva chiesto gentilmente: E tu come lo vuoi? Di limone o di cioccolata?” … Senza accennare a sedersi lui aveva esclamato a un certo punto: Stasera fa un caldo piuttosto insopportabile, sbuffando Figurati che su in montagna appena fa notte debbono mettere i maglioni. Si riferiva alla sua famiglia, evidentemente, che dai primi di luglio si era trasferita a Cortina d’Ampezzo.

Dov’è che sono andati a stare, i tuoi? lei aveva trovato la forza di chiedere. In una casa?” …  “No, al Miramonti. Immagina una specie di castello,si era messo subito a spiegare, con intorno un bosco che sarà grande sei o sette volte il parco di casa Finzi-Contini, quello là in fondo ai Piopponi, sai, giusto sotto la Mura degli Angeli, e almeno una dozzina di volte il Montagnone …”.

Chi era, David? Che cosa cercava? Che cosa voleva? Perché? A queste domande non c’era risposta, non ce ne sarebbe stata mai. D’altronde era tardi. Qualcuno, probabilmente Oreste, stava bussando ai vetri. Bisognava alzarsi, spingersi magari fin sulla soglia del portone di strada, dirgli che poteva rientrare.

     Ancora una volta Giordano Bruno depone l’abito domenicano, si veste, come lui scrive “di cappa, cappello e spada” e chiede il permesso di soggiorno per poter abitare a Ginevra dichiarando, come vuole la prassi, di aderire [ma la sua è un’adesione puramente formale] alle idee del calvinismo. Giordano Bruno ritiene che Giovanni Calvino [Jean Cauvin o Calvin] sia stato un importante protagonista della Riforma protestante, ha letto la sua opera, il libretto intitolato Istituzione cristiana [e di questo scritto ce ne siamo occupate e occupati nel viaggio dello scorso anno] e lo ha trovato interessante soprattutto perché ha stimolato in lui lo spirito critico: Giordano Bruno non trova convincenti le tesi di Calvino ma vuole verificare personalmente, da persona curiosa qual è, quali siano i risultati della loro applicazione pratica e naturalmente avrebbe voluto intavolare una bella discussione con Calvino stesso se lui non fosse morto ormai da quattordici anni, nel 1564. Per poter conoscere e capire l’esperienza ginevrina piuttosto turbolenta di Giordano Bruno, noi dobbiamo riprendere le tesi di Giovanni Calvino e ricordare anche i principali tratti caratteristici della sua figura.

     Giovanni Calvino [Jean Cauvin o Calvin] è nato a Noyon, nella regione francese della Piccardia, nel 1509 e non abbiamo molte informazioni sulla sua giovinezza, sappiamo che è stato a studiare a Parigi ricevendo una vasta ed eterogenea formazione intellettuale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia e navigando in rete fate un viaggio a Noyon [una bella cittadina di circa 14 mila abitanti] per visitare la Cattedrale di Notre-Dame che è stata edificata a partire dal 1145 in uno stile di transizione tra il romanico e il gotico, buon viaggio…

     Giovanni Calvino è un intellettuale che ha il gusto dell’analisi e della costruzione logica, e non ha il carattere passionale di Martin Lutero.

     Nel 1533, dopo aver coltivato interessi filologici seguendo le idee dell’Umanesimo e di Erasmo da Rotterdam, sulla scia di Lutero abbraccia l’idea della “sola fides et sola Scriptura” [ci si salva per fede, la fede è un dono che riceviamo da Dio e che Dio ci concede solo se Lui vuole, e la Sacra Scrittura è la sola e fondamentale struttura della Chiesa]. Nel 1536 pubblica a Basilea un libretto scritto in latino con la sintesi del suo pensiero intitolato Istituzione cristiana. Quest’opera, nel 1541, la traduce in francese, in una lingua “popolare” che diventa un modello come per i tedeschi è diventata un modello la lingua usata da Lutero per tradurre i Libri della Bibbia.

     Nel libretto intitolato Istituzione cristiana ci sono le idee del pensiero “calvinista”. Calvino ritiene che ci sia un’unità stretta tra il Vecchio e il Nuovo Testamento e che il concetto di Dio ci viene dal Vecchio Testamento: un Dio concepito come Essere onnipotente e imperscrutabile perché, secondo Calvino, il concetto di Dio così fortemente improntato all’Amore che troviamo nella Letteratura dei Vangeli è troppo sentimentalistico. Dio è onnipotente e, se vuole [la volontà di Dio è indecifrabile], predestìna la persona alla salvezza rendendola partecipe dei meriti di Gesù Cristo.

     C’è un’idea teocratica nel pensiero di Calvino: se per Lutero Dio è soprattutto fonte di “misericordia”, per Calvino è principalmente fonte di “giustizia”, e la persona  acquista fiducia nella propria salvezza credendo nei meriti di Gesù Cristo con la fede, mentre i meriti umani [le opere buone compiute con la convinzione di avere un premio] sono insignificanti e inefficaci di per sé [spesso sono frutto di ipocrisia].

     Il pensiero di Calvino è improntato al pessimismo, e lui ritiene che l’essere umano si trovi in uno stato “di depravazione” e che non possegga alcuna virtù innata, per questo bisogna dare alla propria condotta di vita una forte impronta di severità. Le opere buone del cristiano, sostiene Calvino, si esprimono nel lavoro che è un dovere sacro e, di conseguenza, il buon successo ottenuto dalla persona nel suo lavoro è una prova evidente del favore di Dio nei suoi confronti. L’impegno terreno della persona, sostiene Calvino, deve essere vissuto secondo un ferreo catalogo di regole morali e il premio dei risultati ottenuti con il lavoro è il guadagno di denaro, e il denaro guadagnato onestamente [solo quello guadagnato onestamente e senza il contributo dell’astuzia della ragione, sostiene Calvino] ha una valenza morale che deve essere accresciuta dal fatto che il denaro non va usato per l’acquisto di beni superflui ma va investito per produrre lavoro perché il lavoro procura l’abbattimento della miseria nella società. Il successo negli affari, sostiene Calvino, è una prova della benevolenza divina rivolta alle persone che hanno intrapreso le loro attività, investendo il loro capitale, con l’idea di favorire il bene comune, e il sociologo tedesco Max Weber [1864-1920] nel 1905 ha scritto un’opera significativa, intitolata L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in cui dimostra come la natura del capitalismo, in origine, sia il frutto della morale calvinista.

     Calvino, esule dalla Francia a causa dei decreti repressivi emanati dal re Enrico II contro i protestanti, ha potuto mettere in pratica le sue idee a Ginevra dove gli viene offerto il governo della città dopo l’abbattimento del principato ecclesiastico: Ginevra era una di quelle città governate da un principe che, automaticamente, assumeva anche il ruolo di vescovo; Ginevra diventa “la città santa” [con una Costituzione di carattere teocratico] del calvinismo [lo scorso anno - ed è probabile che ve ne ricordiate - abbiamo detto che, se la Repubblica dello Spirito Santo disegnata da Savonarola avesse funzionato, Firenze sarebbe diventata la Ginevra d’Italia]. Il centro della vita culturale di Ginevra è l’Accademia di Studi calvinisti [che potremmo definire una Scuola di economia politica che assume il ruolo di Università], fondata nel 1559, che aveva ben 1500 alunni, e molti di loro sono diventati i missionari in Europa delle idee calviniste.

     Per un certo periodo,  la morale calvinista ha favorito lo sviluppo della solidarietà sociale e Ginevra, quando Giordano Bruno vi arriva, nell’inverno del 1578, è una florida città priva di disoccupazione dove la miseria è stata quasi abbattuta ma l’assenza di Giovanni Calvino comincia a farsi sentire.

     A Ginevra Giordano Bruno va a trovare il marchese napoletano Galeazzo Caracciolo che ha aderito al calvinismo ed era fuggito dall’Italia nel 1552, e la comunità italiana esule a Ginevra fa riferimento a lui. Il marchese Caracciolo introduce Giordano Bruno nell’ambiente ginevrino e lui [che è tornato a farsi chiamare Filippo] trova subito lavoro come correttore di bozze in una tipografia e il 20 maggio 1579 s’iscrive all’Università come «Filippo Bruno nolano, professore di teologia sacra».

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Con la guida della Svizzera e navigando in rete fate un viaggio a Ginevra: in questa bella città [di circa 200 mila abitanti] - posta sulle rive del Lago Lemano dove riconfluisce nel fiume Rodano - ci sono numerosi monumenti da visitare tra cui “l’Auditorio di Calvino” e “il Muro dei Riformatori”… Sebbene Ginevra sia stata denominata “la Roma protestante”, tuttavia, oltre a edifici di culto nati con la Riforma, sono molte le chiese cattoliche [come la Cattedrale di San Pietro], c’è poi una basilica russa cristiano-ortodossa e ci sono due grandi sinagoghe a disposizione della numerosa comunità ebraica oltre a un’imponente moschea sede di un importante centro di studi islamici…

Fate visita ai monumenti di Ginevra, oggi città interconfessionale, buon viaggio...

     Giordano Bruno, il 20 maggio 1579, s’iscrive all’Università di Ginevra come «Filippo Bruno nolano, professore di teologia sacra» e questa esperienza non lo soddisfa affatto per cui, in agosto, durante un’assemblea alla facoltà di Filosofia, prende la parola e accusa pubblicamente i professori di essere dei pessimi insegnanti, noiosi e incompetenti, e definisce “pedanti” [nel senso più dispregiativo che ha questo termine] i pastori calvinisti presenti nelle varie facoltà per controllare che si rispetti l’ortodossia. Bruno, con questo suo intervento, vuole certamente farsi notare, vuole dimostrare l’eccellenza della sua preparazione filosofica [che è sicuramente superiore] e delle sue capacità didattiche [che sono di grande qualità] ma interviene, soprattutto, perché ha ormai maturato un’idea che vuole divulgare: c’è una piaga che si sta estendendo in Europa, ed è il confessionalismo religioso.

     Giordano Bruno, il 24 agosto 1579, durante un’assemblea alla facoltà di Filosofia dell’Università di Ginevra alla quale è iscritto, prende la parola e accusa i professori e i pastori calvinisti [i quali controllano che insegnanti e studenti rispettino l’ortodossia calvinista] di diffondere la piaga del confessionalismo religioso: né la Chiesa cattolica di Roma [afferma Bruno], né quella luterana di Germania, né quella anglicana inglese, né quella calvinista di Ginevra possono affermare e pretendere di essere “la vera Chiesa”. Bruno considera un fatto deleterio quello di imporre l’obbligo di aderire per forza a una confessione religiosa [il confessionalismo] perché ciò pregiudica l’autonomia di pensiero della persona e va contro gli statuti universitari che richiamano gli insegnanti a impegnarsi nella loro attività didattica per formare lo spirito critico degli studenti;  è, quindi, un male che una persona debba essere cattolica in Italia, calvinista in Svizzera, anglicana in Inghilterra e luterana in Germania perché le venga riconosciuto il diritto di cittadinanza: questo fatto pregiudica [sostiene Bruno con fermezza] lo sviluppo della convivenza pacifica alimentando il dramma delle guerre di religione combattute vergognosamente da ogni fazione in nome di Gesù Cristo che si è manifestato [si è fatto epifania, afferma Bruno] per essere il punto di unione per tutti. L’ideologia confessionalista, afferma Bruno, fa aumentare la superstizione e fa nascere la diceria su “la comparsa della figura dell’Anticristo” nelle file degli avversari che per questo devono essere annientati senza pietà, e dà inoltre alimento alla inqualificabile tragedia della caccia alle streghe [in questi anni in Europa sono state sommariamente processate e uccise sul rogo circa cinquantamila povere donne accusate di essere in combutta con il demonio].

     Oltre a denunciare questa situazione Bruno, nella medesima assemblea [anche se sa che si sta mettendo nei guai], decide di tenere una vera e propria conferenza in perfetto stile interlocutorio per commentare i punti più controversi del pensiero di Giovanni Calvino [i punti su cui Bruno avrebbe voluto discutere con lui se non fosse morto]. Il calvinismo si basa, afferma Bruno, su un principio noto come “depravazione totale”, secondo il quale [sostiene Calvino] gli esseri umani non possiedono alcuna virtù innata e sono dipendenti dalla grazia divina per qualunque cosa, dalla loro redenzione alla decisione stessa di convertirsi al calvinismo: ebbene [si domanda Bruno], come si può pensare che la persona non sia dotata, che Dio non l’abbia dotata, di alcuna responsabilità personale? E come si può pensare, afferma Bruno, che tutto sia preordinato e non sia possibile [come sostiene Calvino] alcun compromesso visto che la mente umana è predisposta - è stata predisposta da Dio - proprio a fare dei compromessi e degli accordi, dato che senza stipulare accordi [afferma Bruno] la vita umana è in pericolo costante? Come si può pensare, afferma Bruno, che l’unica relazione possibile con Dio sia la sottomissione assoluta per avere in cambio [come sostiene Calvino] il dono dell’invincibilità quando sappiamo, afferma Bruno parafrasando Pico della Mirandola, che vincere non fa diventare più virtuose le persone? Come si può pensare, afferma Bruno, che la persona possa ottenere il sostegno di Dio rinunciando alla propria volontà [come sostiene Calvino] quando il nostro amore verso Dio consiste proprio nel manifestare la nostra volontà di fare il Bene? Calvino, afferma Bruno, sostiene che il successo negli affari, con il relativo guadagno di denaro, è una prova della benevolenza divina nei confronti delle persone che hanno creato attività imprenditoriali con l’idea di favorire il bene comune: l’idea è giusta, afferma Bruno, purtroppo, però, quelli che accumulano gradi ricchezze - e così è sempre successo nei secoli - si dimenticano di essere stati beneficati da Dio, si credono un Dio loro stessi e, quindi, afferma Bruno, continuerà a valere la massima evangelica che dice: “è più facile che un cammello [una fune] passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli”.

     E Bruno ha avuto ragione perché Calvino [che, secondo Bruno, era animato da buone intenzioni, condivisibili] non è diventato il teologo dell’etica capitalista perché il capitalismo ha fondato [salvo rare eccezioni] la sua ideologia sullo sfruttamento della manodopera, e l’idea che gli affari si fanno [e si trova soddisfazione a farli] solo in funzione del bene comune è stata soppiantata dalla logica del profitto.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Che genere di attività vorreste intraprendere in funzione del bene comune?...

Scrivete quattro righe in proposito, fatevi imprenditrici e imprenditori...

     Al termine della conferenza Giordano Bruno viene immediatamente arrestato per diffamazione, viene processato per direttissima e condannato, e se vuole evitare la galera deve firmare una ritrattazione e lasciare immediatamente la città. Il 27 agosto 1579 Giordano Bruno [col nome di Filippo] firma la ritrattazione e lascia Ginevra. Si trasferisce brevemente a Lione per poi passare a Tolosa, città sede di un’importante Università [nella quale la maggior parte degli insegnanti sono domenicani, e lui si rimette l’abito].

     Giordano Bruno, all’inizio dell’autunno del 1579, in fuga da Ginevra, viene assunto come lettore all’Università di Tolosa [caposaldo dei domenicani in Francia] dove, per quasi due anni, insegna a leggere e a commentare l’opera De anima [Sull’anima] di Aristotele e compone un trattato di arte della memoria, rimasto inedito e andato perduto, intitolato Clavis magna [La grande chiave utile ad aprire la porta della conoscenza], e questo scritto si rifà all’Ars magna [La grande arte] di Raimondo Lullo [un tema di cui abbiamo già parlato a suo tempo].

     Nel 1581, a causa della guerra di religione [del deleterio scontro confessionalista] fra i cattolici e gli ugonotti, Bruno lascia Tolosa per Parigi dove viene assunto come lettore alla facoltà delle Arti e tiene un corso di Lezioni su “gli attributi di Dio nelle opere di Tommaso d’Aquino” e, in seguito al successo che hanno le sue Lezioni, racconta Bruno, un giorno viene chiamato dal re Enrico III. Enrico III di Valois [si chiama Alessandro ma tutti lo chiamano Enrico] è il figlio secondogenito di Enrico II e di Caterina de’ Medici che è succeduto al fratello Carlo IX morto nel maggio 1574 [Enrico III regnerà fino al 1° agosto 1589 quando, a Saint-Cloud, verrà pugnalato da un monaco]. Giordano Bruno sa che Enrico III è una persona intelligente e colta ma ha delle tare fisiche e qualche problema psichico, sa che è religioso fino alla superstizione e, contemporaneamente, è piuttosto depravato nei costumi [ha sposato Luisa di Lorena ma lui preferisce la compagnia dei suoi favoriti, detti i mignons]. Enrico III si trova a dirigere un regno diviso tra protestanti intransigenti e cattolici fondamentalisti per cui cerca [come si suol dire] di dare un colpo al cerchio e uno alla botte ma spesso gli uni e gli altri gli si rivoltano contro.

     Giordano Bruno va in udienza da Enrico III conscio che deve agire con prudenza e si tranquillizza quando il re gli domanda se la memoria di cui lui fa uso sia un fenomeno naturale oppure sia frutto della magia, e Bruno, piuttosto divertito, risponde che l’arte della memoria non dipende dalla magia ma bensì dalla scienza perché la tecnica mnemonica è una disciplina che s’impara e, se il re vuole, lui è disposto a dargli delle Lezioni, ed Enrico III lo assume, scrive Bruno, come “lettor royal straordinario e provvisionato” [ben pagato]. A questo punto Giordano Bruno si mette subito al lavoro perché, con il salario regio che riceve, può provvedere alla pubblicazione di alcune sue opere, che ha in mente di scrivere, sul tema della disciplina mnemonica.

     A Parigi Giordano Bruno, dal 1581 al 1583, vive nell’ambito della corte [membro del collegio accademico reale di Francia] e dà alle stampe le sue prime opere pervenuteci che sono tre scritti composti in latino sul tema della memoria: De umbris idearum [Le ombre delle idee], l’Ars memoriae [L’arte della memoria] e il Cantus Circaeus [Il canto di Circe]. Vi ricordo, inoltre, che nel 1582, durante questo periodo parigino, fa anche pubblicare il testo della commedia intitolata Candelaio, un’opera di cui, come ben ricorderete, ci siamo già occupate e occupati [in prima istanza alla fine di gennaio] per riflettere sulla singolare Lingua volgare di Giordano Bruno.

     L’opera intitolata Cantus Circaeus [Il canto di Circe, su cui dobbiamo puntare l’attenzione], è composta da due dialoghi. La protagonista del primo dialogo è la maga Circe, uno dei personaggi-chiave dell’Odissea, che, risentita dal fatto, scrive Bruno, che gli umani si comportano come animali, opera un incantesimo trasformando le persone in bestie, mettendo così in luce la loro autentica natura. Nel secondo dialogo il protagonista è un tecnico della memoria - che Bruno chiama Borista [ed è lui stesso] - il quale insegna come si fa a imparare a memoria il dialogo precedente trasformando il testo in un territorio che viene via via suddiviso in un maggior numero di spazi [una sorta di mappa della memoria] in ognuno dei quali c’è un oggetto significativo che rappresenta l’immagine relativa ai concetti espressi nello scritto, perché sono i concetti che devono essere ricordati. Il Cantus Circaeus è uno dei più significativi trattati di mnemo-tecnica nel quale Giordano Bruno si comporta da filosofo perché introduce le tematiche morali che riprenderà nelle sue importanti opere successive.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A quali metodi ricorrete per ricordare le cose?...   

Scrivete quattro righe in proposito, ricordatevelo...

     E anche Lida non poteva certo essersi dimenticata di Oreste, in fondo ormai c’era soprattutto lui nei suoi pensieri in termini positivi rispetto a David che non aveva mai capito che cosa volesse da lei. Leggiamo per concludere ancora una pagina da:

LEGERE MULTUM….

Giorgio Bassani,  Cinque storie ferraresi   Dentro le mura

LIDA MANTOVANI

Oreste, stava bussando ai vetri. Non poteva certo essersene dimenticata, in fondo c’era lui nei suoi pensieri. Oreste era rimasto a parlare con le vicine dell’accaduto e soprattutto ad ascoltarle. Ma poi il crocchio si era trasferito in istrada e disperso, e lui, ormai solo, aveva cominciato a camminare avanti e indietro dinanzi al portone. Sentiva urtarsi dentro se stesso due sentimenti opposti, due contrastanti necessità.

Da un lato gli premeva di correre a chiudere bottega, e ciò per poter subito provvedere con la dovuta diligenza a quanto la morte di Maria Mantovani imponeva. Il pensiero di Lida bastava però a trattenerlo. Più volte, chinandosi, e accostando il viso alle lastre appannate della finestra, aveva tentato di guardare dentro la stanza. Laggiù, a fianco del letto di destra distingueva una piccola figura curva, e immobile. Cos’è che fa? borbottò a un certo momento con impazienza affettuosa, già da marito. … 

Scendevano le prime ombre della sera, aveva smesso di nevicare ma il freddo mordeva. Dalle finestre delle case attorno trapelavano interni di cucine di tinelli illuminati. Bisognava spicciarsi, concludere qualcosa. Infine, quando si fu chinato un’ennesima volta a scrutare nella stanza, si decise a battere ai vetri con le dita. Stette quindi in ascolto, finché non gli parve di udire il passo di Lida su per la scala interna. A questo punto fu svelto a infilare il portone. Un attimo avanti che lei abbassasse la maniglia e aprisse si trovava già in cima al pianerottolo.

Il dorso appoggiato allo stipite della porta e abbandonando gli occhi nei suoi Lida lo fissava in silenzio. Che lui la proteggesse: nell’atteggiamento di lei non c’era altra richiesta. …  “Dio santo, non vorrete mica passare tutta la notte cosi! disse sottovoce quasi con ruvidezza. Poi, sempre bisbigliando, e senza varcare la soglia, cominciò a esporle quello che intendeva fare. Lui doveva correre via a chiudere bottega, e non sarebbe stato di ritorno che fra un paio di ore almeno. Prima di passare da bottega, tuttavia, si sarebbe fermato un minuto a casa della signora Bedini. Dato che era stata proprio lei a mettersi a disposizione, le avrebbe chiesto senz’altro di venire. … “A fare che? esclamò, prevenendo una possibile obiezione da parte di Lida Diamine, a farvi compagnia a farvi un po’ di cena Oppure, magari, soltanto per pregare!.  Alla parola cena Lida aveva scosso il capo in segno di diniego. Ma l’argomento successivo fu più forte di ogni sua resistenza. Chinò gli occhi, e lui la guardò sorridendo. … “Dunque mi raccomando, ammonì, non state a chiudere la porta col catenaccio. Anzi, lasciatela socchiusa. Intesi?” … E strettale la mano, sparì di corsa giù per la scala.

Durante la notte la temperatura precipitò. La tenue luce rosa che l’indomani mattina si fece strada a fatica attraverso i vetri incrostati di ghiaccio era una luce proveniente da un sole distante, perduto in un cielo d’un azzurro vago, nebbioso, un sole che non scaldava. Oreste (che aveva pregato per lunghi tratti della notte) ad ogni modo si sentiva piuttosto contento, non provava il minimo imbarazzo ad ammetterlo: contento per il fatto di avere indovinato esattamente ogni cosa.

     Nell’aprile 1583 Giordano Bruno [anche a causa dei disordini in corso per questioni religiose] lascia Parigi e parte per Londra dove è ospitato dall’ambasciatore di Francia Michel de Castelnau insieme al quale fa visita diverse volte alla regina Elisabetta, poi viene chiamato a insegnare all’Università di Oxford e, dopo aver sostenuto una serie di dispute intellettuali con i professori oxfordiani, su richiesta di un gruppo di studenti, decide di tenere un ciclo di Lezioni sulle teorie copernicane. Ma il suo soggiorno dura poco: a Oxford non gradiscono le novità come ha testimoniato vent’anni dopo, nel 1604, l’arcivescovo di Canterbury George Abbot, che era presente alle Lezioni di Bruno: «Quell’omiciattolo italiano [scrive sarcastico l’arcivescovo] intraprese anche, sollecitato da studenti facinorosi, il tentativo di far stare in piedi l’opinione di Copernico, per cui la terra gira e i cieli stanno fermi; mentre in realtà era la sua testa che girava e il suo cervello che non stava fermo».

     Anche gli arcivescovi anglicani sono soggetti a prendere delle cantonate e noi, invece [studentesse e studenti facinorosi], approfitteremo dell’occasione e le tesi di Copernico [che abbiamo già citato molte volte in questo viaggio] ce le faremo spiegare da Giordano Bruno procedendo con lo spirito utopico che lo studio porta con sé, consapevoli del fatto che di “quell’omiciattolo italiano il cui cervello non stava fermo” ci sono, in barba all’arcivescovo di Canterbury dell’epoca, statue e targhe che lo ricordano in quasi tutte le città europee, e sono simboli che ammoniscono a coltivare “l’eroico furore per la conoscenza”  … e, per questo, la Scuola è qui e siccome, per fortuna, “la Terra gira e il nostro cervello non sta fermo”, il viaggio continua perché non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 9, 2018