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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA SI SVILUPPA L’IDEA DI INFINITÀ ...

Lezione N.: 
12

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

La sapienza poetica e filosofica del ‘600 agli esordi della scienza   31 gennaio  1-2 febbraio  2018

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA

SI SVILUPPA L’IDEA DI INFINITÀ ...

     Questo è il dodicesimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età moderna agli esordi della scienza. Siamo sempre in compagnia di Giordano Bruno e, al termine dell’itinerario della scorsa settimana, come ricorderete, abbiamo assistito alla sua fuga precipitosa da Napoli. Nel 1576 fra’ Giordano Bruno si allontana dal convento di San Domenico Maggiore nel quale è entrato da adolescente nel 1562, su consiglio dei suoi maestri.

     Bruno entra nel più importante convento domenicano di Napoli spinto come sappiamo soprattutto dalla passione per lo studio della Filosofia e lì, come desiderava, ha acquisito una buona formazione intellettuale anche perché questo grande monastero, oltre a possedere una ben fornita biblioteca, è la sede dell’Università napoletana e, quindi, il giovane frate domenicano Giordano Bruno, oltre a diventare sacerdote, si laurea in Teologia e consegue nel 1575 il titolo di magister, al quale aspirava particolarmente.

     Per quale motivo fra’ Giordano Bruno si allontana precipitosamente da Napoli e dal convento dove dimora nel quale è considerato da tutti, a cominciare dai suoi superiori, un monaco esemplare? Come sappiamo, la sua precipitosa fuga è determinata da un fatto. Ricorderete senz’altro che all’inizio dell’anno 1576 viene ospitato nel convento di San Domenico Maggiore a Napoli l’influente frate domenicano Agostino da Montalcino il quale una sera, a cena, loda con enfasi l’operato di papa Gregorio XIII suscitando la disapprovazione di fra’ Giordano Bruno che prende la parola per comunicare [sotto forma di Lezione] il suo pensiero critico nei confronti dei decreti dottrinali emanati dal concilio di Trento per il loro carattere dogmatico. Fra’ Agostino da Montalcino, come sappiamo, s’indigna per le affermazioni di Bruno - che ha messo in discussione la formula di compromesso del concilio di Nicea sulla natura di Gesù ribadita dal concilio di Trento - e il mattino dopo corre a denunciare l’accaduto al padre provinciale fra’ Domenico Vita, e costui istituisce contro fra’ Giordano Bruno un processo per eresia e allora scrive Bruno: «dubitando di non esser messo in preggione, me partii da Napoli ed andai a Roma». Quindi prendiamo il passo andando in fuga con Giordano Bruno.

     Nel 1576 fra’ Giordano Bruno lascia il convento di San Domenico Maggiore a Napoli e fugge a Roma dove, fuori dalla giurisdizione dell’Inquisizione napoletana, che non ha emanato alcun ordine di cattura nei suoi confronti, viene ospitato nel convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, il cui priore, fra’ Sisto Fabri da Lucca, diventerà pochi anni dopo generale dell’Ordine ed è colui che nel 1581 censura i Saggi di Montaigne [un personaggio e un’opera che incontreremo strada facendo].

     Sono anni di gravi disordini a Roma: sono aumentate le ruberie e gli ammazzamenti e il papa Gregorio XIII [il bolognese Ugo Boncompagni che regna fino al 1585] non è in grado di mettere ordine in città, e Bruno stesso si trova coinvolto involontariamente in una rissa durante la quale un frate resta ucciso e il suo corpo viene gettato nel Tevere. La magistratura vaticana, in relazione a questo fatto [uno dei tanti casi che quotidianamente insanguinano la città], apre un’inchiesta nel corso della quale Bruno viene a sapere che gli inquisitori napoletani stanno indagando nei suoi confronti e hanno trovato tra le sue carte una serie di appunti da lui presi sulle opere di Erasmo da Rotterdam [che abbiamo incontrato lo scorso anno e sappiamo che il suo pensiero ecumenico era ritenuto pericoloso dalle autorità ecclesiastiche]. Per questo motivo, Bruno decide di allontanarsi da Roma, e reputa anche necessario, per coerenza oltre che per prudenza, lasciare l’abito domenicano perché nella sua mente si è manifestata ormai inequivocabilmente un’indipendenza di pensiero e, di conseguenza, un’insofferenza verso l’osservanza dei dogmi, una repulsione che, secondo lui, non è più compatibile con il suo ruolo ecclesiastico.

     Così, nella primavera del 1576, Giordano Bruno abbandona l’abito domenicano, riassume il nome di Filippo, esce da Roma, s’incammina verso Ostia dove s’imbarca su una nave che naviga in direzione nord-ovest alla volta della Liguria. Nell’aprile del 1576 Giordano Bruno, o meglio, Filippo Bruno sbarca a Genova [una metropoli all’epoca] e si presume che, per mantenersi, abbia fatto per qualche tempo lo scaricatore di porto e poi [è Bruno che c’informa] trova, date le sue competenze in materia, un impiego da catechista nella chiesa di Santa Maria di Castello, secondo le direttive del concilio di Trento che aveva imposto lo studio del catechismo a tutti i cattolici.

     Nella chiesa di Santa Maria di Castello, scrive Bruno piuttosto divertito “si adora come reliquia e si fa baciare ai fedeli la coda dell’asina che cavalcava Gesù quando è entrato trionfalmente a Gerusalemme” e aggiunge che “questa è senza dubbio la coda d’asina più redditizia della storia del commercio di tutti i tempi” [visto che favorisce un’abbondante raccolta di offerte] e, quindi, ritiene opportuno di dover insegnare, nelle sue Lezioni da catechista, che le reliquie alimentano la superstizione e la superstizione è frutto dell’ignoranza e l’ignoranza è nemica della fede: ebbene, quando inizia a impartire queste Lezioni, viene licenziato. Al che Giordano Bruno [o meglio, Filippo Bruno] decide di allontanarsi anche da Genova e s’imbarca su una nave da trasporto che naviga verso il ponente della Liguria e che lo porta a Noli.

     Noli oggi è un pittoresco borgo marinaro in provincia di Savona e allora, nella tarda primavera del 1576, era una Repubblica indipendente. Noi non lo sappiamo con certezza ma si presume che Bruno sia andato a Noli dopo aver saputo che lì cercavano dei maestri competenti e, difatti, trova lavoro come insegnante alle dipendenze della Repubblica nolese e al mattino insegna “grammatica” [a leggere, a scrivere e a far di conto] ai bambini e la sera insegna “cosmografia” agli adulti.

     Che cos’è la cosmografia? La cosmografia, una disciplina utile soprattutto per i naviganti e i pescatori, per gli abitanti di una Repubblica marinara, è quella parte dell’astronomia che fornisce una descrizione del cielo impiegando nozioni di matematica e di fisica, e questa materia è in evoluzione perché l’osservazione del cielo da parte degli astronomi ha messo in evidenza grosse novità [sulle quali dovremo, a breve, puntare l’attenzione strada facendo] che portano alla nascita di una nuova scienza che intende studiare, fuori da ogni interpretazione di carattere mitologico, la struttura dell’universo: la cosmologia.

     Bruno soggiorna circa sei mesi a Noli e, se vogliano giocare con le parole, possiamo dire che si trova bene come “nolano” [dato che è nato a Nola] a vivere da “nolese” [cittadino di Noli] perché in questo fiorente borgo marinaro viene riconosciuta la sua competenza di maestro, maestro laico molto preparato, riceve la cittadinanza, riscuote una buona retribuzione e viene rispettato da tutti; questa tranquillità [nessuno lì indaga su di lui] lo mette in condizione di produrre intellettualmente, e Bruno inizia a scrivere un’opera per mettere in ordine i suoi pensieri e per formulare le ipotesi che la sua mente di filosofo sta partorendo. Possiamo pensare che a Noli Bruno avrebbe potuto raggiungere la maturità e trascorrere un’esistenza dignitosa e serena ma quando termina di scrivere la sua opera  sente la necessità di raggiungere un centro più grande dove poterla pubblicare e farla conoscere [la Repubblica di Noli, per quanto sia fiorente, è pur sempre un sito periferico].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Liguria e navigando in rete fate una visita al borgo marinaro di Noli in provincia di Savona…  Sotto il portico del Palazzo comunale c’è una lapide che ricorda l’avvenimento di cui abbiamo parlato sulla quale c’è scritto: «Giordano Bruno | Prima d’insegnare all’Europa | Le leggi dell’ordine universale | Fu maestro in Noli | Di grammatica e cosmografia»… Buona escursione a Noli…

     Prima di occuparci de “Le leggi universali che Giordano Bruno ha insegnato all’Europa” [a cominciare da un concetto molto significativo che dobbiamo conoscere, capire e sul quale ci dobbiamo applicare] prendiamo spunto da un’affermazione che abbiamo appena fatto: “Bruno avrebbe potuto raggiungere la maturità e trascorrere un’esistenza dignitosa e serena”, ebbene, questa stessa espressione la utilizza Giorgio Bassani nel racconto che stiamo leggendo.

     Come sapete, il racconto che stiamo leggendo s’intitola Lida Mantovani ed è il primo della raccolta intitolata Cinque storie ferraresi pubblicata nel 1956 che ci permette di fare due passi nella Ferrara degli anni Venti del secolo scorso. I personaggi principali di questo racconto, abbiamo detto, Oreste e Lida, rappresentano - a detta dell’autore, Giorgio Bassani - il contrario rispetto a Orlando [che è furioso] e ad Angelica [che è sempre in fuga] e Bassani fa questa affermazione quando riceve il premio Strega nel 1956, proprio nel momento in cui si celebra con un Convegno [del quale anche Bassani è un organizzatore] il 440° anniversario della pubblicazione dell’Orlando furioso. Infatti il principale personaggio maschile del racconto, il rilegatore Oreste Benetti, comincia senza alcuna furia, anzi con grande calma, a frequentare la casa della giovane protagonista [che dà il nome al racconto] Lida Mantovani, una ragazza che ha avuto un figlio, Ireneo, fuori dal matrimonio dopo una relazione con un giovane di nome David, rampollo di una altolocata famiglia della comunità ebraica ferrarese [della quale, come sapete, anche Bassani fa parte e la scelta di dare il nome di David a questo personaggio non è casuale] il quale la abbandona dopo la nascita del bambino perché in casa sua non possono tollerare che lui frequenti una ragazza della condizione sociale di Lida [che è una ragazza del popolo, non una principessa, e non appartenente alla comunità ebraica].

     Lida - dopo un breve periodo di convivenza con David - quando si trova da sola col bambino e senza soldi - torna a vivere con la madre, Maria Mantovani, che la accoglie senza dire neppure una parola perché ha vissuto anche lei la stessa esperienza: da ragazza, come abbiamo letto la scorsa settimana, è rimasta incinta e il fabbro con cui amoreggiava non l’ha sposata.

     Il rilegatore Oreste Benetti comincia a frequentare la casa delle due donne e, sebbene abbia un bel po’ di anni più di Lida, è intenzionato a chiederle se intende sposarlo perché è convinto di compiere una buona azione [Oreste è un buono ma non si rende conto di avere una mentalità, comunque, reazionaria]: ritiene che con il matrimonio Lida potrebbe raggiungere la maturità e trascorrere un’esistenza dignitosa e serena, visto che ha commesso un peccato mortale da cui sarebbe stata assolta solamente il giorno in cui si sarebbe sposata e, quindi, nella sua condizione sul piano sociale ha perso la dignità [siamo alla fine degli anni Venti e il fascismo ha consolidato il suo potere, il matrimonio è obbligatorio e anche Oreste, come tutti gli uomini che hanno compiuto trentacinque anni e sono ancora scapoli, deve pagare la tassa sul celibato] e inoltre, sul piano personale, Lida ha perduto la serenità [sono tempi duri per le ragazze-madri]. Questo racconto, così dimesso, sembra innocuo ma colpisce l’adeguamento, seppur a fin di bene, alle ideologie dominanti. E ora leggiamo.

LEGERE MULTUM….

Giorgio Bassani,  Cinque storie ferraresi   Dentro le mura

LIDA MANTOVANI

Nell’estate del 1928 Lida compì venticinque anni.

Una sera, mentre lei e Oreste Benetti sedevano ai loro posti abituali, divisi come sempre dal tavolo e dalla lampada, a un tratto, con molta semplicità, il legatore le domandò se acconsentiva a sposarlo.

Seria, senza manifestare la minima sorpresa, Lida lo fissò.

Le pareva di vederlo per la prima volta. Considerava con straordinaria attenzione ogni particolare del suo volto, gli umidi occhi nerissimi, la fronte alta e bianca, chiusa da un arco di capelli grigio-ferro tagliati corti, a spazzola, come li portano i militari e certi preti, e si stupiva di trovarsi lì, a prendere nota di tutto questo così tardi, soltanto adesso. Doveva essere sui cinquanta. Almeno.

Di colpo fu presa da un senso di angoscia. Non riuscendo a dire niente, si volse in cerca d’aiuto verso la madre, la quale, alzatasi in piedi, si era accostata al tavolo appoggiandovisi con entrambe le mani. Senonché la smorfia di pianto che già cominciava a piegarle le labbra non fece altro che aumentare la sua confusione.

Cos’è che hai? le gridò rabbiosa in dialetto. Si può sapere che cos’hai?

Si levò su di scatto, si diresse verso la scala, ne fece di corsa i gradini, uscì sbattendo la porta, discese dall’altra parte giù nel portico.

Raggiunta infine la strada, subito si addossò al muro di fianco alla buia cavità del portone spalancato, e guardò il cielo.

Era un magnifico stellato. In distanza si sentiva suonare una banda. Da dove suonavano? si chiese, col desiderio improvviso, spasmodico, di confondersi in mezzo a una folla allegra e scamiciata tenendo un gelato in mano come una ragazzetta qualsiasi. Da San Giorgio, nello slargo a lato della chiesa? Oppure da Porta Reno, magari in piazza Travaglio stessa?

Ma ormai il suo respiro non era più così affannoso. Ed ecco, da dietro, attraverso la parete di vecchio mattone a cui aderiva con tutta quanta la schiena, ecco giungerle la voce bisbigliante di Oreste Benetti. Parlava a sua madre, adesso, tranquillo come se niente fosse accaduto. Quello che diceva? Chi lo sa. Ad ogni modo bastava la sua voce, il pacato, sommesso ronzio della sua voce, a persuaderla alla calma, a invitarla a rientrare.

Quando riapparve in cima al pianerottolo era tornata perfettamente padrona di sé: dei propri pensieri e dei propri gesti. 

Chiusa la porta, discese giù per la scala né troppo in fretta né troppo adagio, badando a non incrociare lo sguardo con quelli del legatore e della madre (durante la sua assenza i due erano rimasti dove si trovavano, lui seduto al tavolo, lei in piedi: ed ora stavano là, zitti, scrutandola in viso con aria interrogativa). Passò accanto al tavolo, si sedette di nuovo al suo posto, si strinse appena nelle spalle. E l’argomento del matrimonio, nelle quasi due ore che l’ospite volle ancora rimanere - come, del resto, nel corso delle altre, innumerevoli serate che seguirono -, non venne più toccato.

Con questo non è da pensare che Oreste Benetti nutrisse qualche dubbio circa la risposta che prima o poi gli sarebbe venuta da Lida. Anzi. Per lui, fin dal primo momento, fu come se Lida avesse già acconsentito, come se fossero già fidanzati.

Ciò risultava evidente dal suo diverso modo di trattarla: sempre riguardoso e gentile, certo, ma con dentro, sotto sotto, una sorta di autorità che prima non c’era. Lui solo, a questo punto - sembrava voler dire -, era in grado di guidarla nella vita.

Secondo lui, Lida come carattere aveva un grosso difetto - era capace di dichiarare esplicitamente, in tal caso non esitando a chiamare a testimone Maria Mantovani con un’occhiata laterale -: quello cioè di star sempre con la faccia girata indietro, a rimasticare cose passate. Perché mai, al contrario, non si sforzava di guardare un poco dalla parte opposta, verso l’avvenire? La superbia è una gran brutta bestia. Come il serpente va a infilarsi dove uno meno sospetterebbe.

Bisogna essere ragionevoli, sospirava a mo’ di conclusione. Bisogna saper mantenere la calma e tirare avanti.

Altre volte, invece, in apparenza contraddicendosi, era proprio lui (seppure per accenni, per allusioni e insinuazioni accuratamente velate: e Lida teneva dietro all’abile, indefesso lavorio del suo cervello senza mai reagire, come ipnotizzata), era proprio lui a riproporle il quadro della sua giovinezza ignara di regole, randagia, e l’urgente necessità di riscattarsene con una maturità migliore, con una esistenza dignitosa e serena.

E a questo proposito, sì, certo - lasciava anche intendere -: siccome l’amava, lui, naturale, capiva, giustificava, perdonava tutto. Il suo sentimento non era però così cieco, fosse ben chiaro, da impedirgli di ricordare (e di ricordarle) che aveva commesso un grande peccato, un peccato mortale da cui sarebbe stata assolta solamente il giorno che l’avesse sposato. Cosa mai si era immaginata? Si era forse sognata che un uomo della sua specie, che fra l’altro, se ne rendeva ben conto, aveva quasi trent’anni più di lei, potesse pensare all’amore al di fuori del matrimonio, del matrimonio cattolico? Un dovere, una missione. Il vero credente non poteva concepire la vita, e di conseguenza il rapporto fra l’uomo e la donna, in maniera diversa.

Avevano comunque tutti e tre i nervi così tesi, stavano di continuo talmente all’erta, che bastava pochissimo perché il precario equilibrio delle loro relazioni entrasse in crisi. Dopo restavano turbati, si tenevano lunghi bronci.

Una volta per esempio, riferendosi a Ireneo, il legatore disse che lui al bambino gli voleva davvero bene: proprio come se fosse suo padre. Tradito dalla foga, si era abbandonato un po’ troppo.

Ma senti, non sei lo zio Oreste, tu? esclamò a questo punto Ireneo, che contava già sette anni, e ogni sera, prima di farsi mettere a letto, aveva preso l’abitudine di mostrargli i compiti. … “Si capisce per quanto Facevo così per dire. Che cosa ti salta in mente!. La confusione del legatore diede d’un tratto a Lida il senso preciso della propria importanza. Mentre, affannato, il brav’uomo continuava a parlare al bambino, lei e la madre si guardarono e si sorrisero.

Ma i momenti di aridità e di cattiveria erano tutto sommato piuttosto rari. A prevenirli o a superarli, in ogni caso, provvedevano i doni. Fin da principio Oreste Benetti ne era stato prodigo. Sebbene avesse fatto capire che dopo le nozze sarebbero andati ad abitare tutti quanti assieme un villino fuori Porta San Benedetto, per l’acquisto del quale lui stava appunto trattando con una impresa di costruzioni, ciò nonostante fece montare l’impianto della luce elettrica e imbiancare le pareti, acquistò alcuni mobili, una stufa economica di ghisa, un quadro, vari utensili da cucina, una coppia di vasi da fiori, eccetera: come se il matrimonio, a cui, era evidente, non smetteva un attimo solo di pensare, non avesse la minima intenzione di affrettarlo. In vita sua non era mai stato fidanzato, nemmeno una volta. Prima da giovane, e poi da uomo compiuto, mai che avesse gustato il piacere inebriante di fare dei regali a una fidanzata. Adesso che questo piacere gli era consentito, voleva che le cose procedessero adagio, per gradi, nel rispetto rigoroso di tutte le regole.

Capitava ogni sera alla medesima ora: alle nove e mezzo in punto. Lida lo sentiva venire di lontano, fin dalla strada. Ed ecco la scampanellata vigorosa che lo annunciava, ecco il suo passo tranquillo su per la scala, dal lato del portico, ecco, di lassù, dall’alto del pianerottolo, il suo saluto, il suo grido giocondo: Buona sera, mie signore!. Cominciava a scendere, infine, seguitando a canticchiare fra i denti l’aria del Barbiere, per interrompersi a metà della scala con una breve tosse educata.

E subito la stanza era piena di lui, del piccolo uomo dai capelli grigi che aveva un po’ del soldato e un po’ del prete, della sua presenza calda, viva, imperiosa.

La scena del suo arrivo era sempre uguale, da anni non cambiava. Sebbene potesse prevederla in ogni particolare, tutte le volte Lida era invasa da una specie di calma stupefazione. Lo lasciava venire avanti, senza nemmeno accennare ad alzarsi.

Ma prima, invece, ai tempi dei tempi? Oh, a quell’epoca, quando una scampanellata altrettanto vigorosa significava che David, chiuso nel suo grosso cappotto blu dal bavero di pelliccia, battendo i piedi sui ciottoli per l’impazienza e per il freddo, la aspettava come d’accordo dinanzi al portone di strada (mai aveva voluto entrare, mai aveva sentito il dovere di presentarsi!), allora, al contrario, le rimaneva ben poco tempo per tirare fuori dall’armadio il soprabito, infilarselo, e quindi, richiuso l’armadio e accostato il viso alla specchiera verticale, incipriarsi in fretta e furia e aggiustarsi i capelli. Non le erano concessi che pochi istanti. E tuttavia ce ne era d’avanzo perché dentro la specchiera, piccola e lustra di capelli tirati indietro sulla nuca (la luce proveniente da tergo la faceva sembrare quasi calva), vedesse apparire e sparire, svelta svelta di là dalle proprie spalle, la testa grigia di sua madre

Cos’è che hai da guardare? si girava di scatto a gridarle. Sai cosa ho da dirti? Ne ho abbastanza: di te e di questa vita.

Usciva sbattendo la porta, a David non piaceva attendere.

     Dobbiamo entrare tra le righe di questo racconto perché - come in tutte le opere di Bassani - c’è qualcosa che traspare e che va oltre la semplice narrazione di una storia la cui trama potrebbe risultare anche banale. Di che cosa stiamo parlando? Giorgio Bassani, come appartenente alla comunità ebraica ferrarese del quale racconta la disgregazione a causa delle Leggi razziali del 1938, conosce bene, e interpreta in modo profondamente laico, la Letteratura beritica [i Libri dell’Antico o Primo Testamento] e li commenta in senso letterario secondo la tradizione del Talmud [una tradizione culturale che abbiamo incontrato anche durante lo scorso viaggio nell’ambito della cultura rinascimentale con Marsilio Ficino e Pico della Mirandola].

     Giorgio Bassani , intervistato dalla rubrica L’approdo] - parlando del primo racconto delle Cinque storie ferraresi intitolato Lida Mantovani - imbastisce un discorso piuttosto complesso [e perché noi non lo dovremmo affrontare visto che riguarda la didattica della lettura e della scrittura?] Bassani riferisce che nella sua mente si agitano pensieri derivanti dal fatto che lui rimugina in continuazione i temi esistenziali contenuti in quel grande apparato letterario che è la cultura biblica,  un atteggiamento che appartiene a un gran numero di scrittrici e di scrittori famosi. E, quindi, puntualizza che al personaggio di David [che dopo aver messo incinta Lida la abbandona al suo destino] ha dato questo nome in riferimento al famoso re d’Israele - il re David, appunto - che più volte si è comportato male non solo con le donne e i loro mariti ma anche nei confronti del suo tragico predecessore, Saul [il primo re d’Israele, un personaggio biblico che tutte e tutti voi conoscete]. Bassani dichiara di aver pensato di ricreare a suo modo il contrasto tra Saul e David, invertendo la situazione rispetto al racconto biblico [in cui Saul è il cattivo e David è il buono], facendo un esercizio esegetico del tutto personale ma in perfetto stile talmudico e questo è un atteggiamento, confessa Bassani, che ha tenuto spesso componendo le sue opere narrative per mettere in evidenza le contraddizioni presenti in molti racconti biblici, e le contraddizioni servono per riflettere. Anche se il carattere e il comportamento di Oreste non assomiglia certo a quello del re Saul, Bassani, con la figura di Oreste Benetti, ha voluto rappresentare l’idea della necessità di rendere giustizia alla figura di Saul [così come, con una tragedia omonima, ha fatto Vittorio Alfieri che rappresenta Saul vittima di un Dio che si comporta da tiranno]: Saul viene soppiantato, come re a causa delle sue presunte infedeltà a Dio, dal giovane David che si assoggetta anche ipocritamente ai voleri della divinità soffocando il suo spirito critico per poter ottenere e mantenere il potere.

     Saul, consacrato re d’Israele dal giudice Samuele, tiene unite le tribù cananee [opera non facile] e alla testa dell’esercito compie azioni coraggiose e “libera gli Israeliti dai loro oppressori” [i nemici che li circondano: Moabiti, Ammoniti, Edomiti, Zoabiti e Filistei], poi cade in disgrazia quando Dio [un Dio piuttosto bellicoso e tirannico], attraverso la voce di Samuele, ordina a Saul, che già li aveva sconfitti, di sterminare gli Amaleciti e di distruggere tutte le loro cose [tutto il loro bestiame] perché avevano sbarrato la strada agli Ebrei quando erano usciti dall’Egitto [ma, nonostante le vittime che questo sbarramento aveva provocato, l’uscita dall’Egitto era andata a buon fine e, quindi, perché infierire?]. Saul, forse in modo un po’ ambiguo, esegue l’ordine divino fino a un certo punto [va bene che non bisogna mettere in discussione la parola di Dio onnipotente ma perché sterminare tutti e distruggere anche quello che c’è di buono?], ma Samuele fa sapere a Saul che Dio non ha gradito la sua disubbidienza e si è pentito di averlo fatto consacrare re: gli preferisce David il quale, nel corso del suo regno, commette molte cattive azioni che Dio, però, perdona sempre [David è abilissimo a trovare delle scuse e a farsi vedere pentito].

     In tutte le opere di Bassani [se ne leggete qualcuna fateci attenzione] c’è sempre, tra le righe, un riferimento alla tradizione della Letteratura beritica [dei Libri dell’Antico o Primo Testamento] che lo scritture interpreta in senso letterario, laico e critico, secondo la tradizione ironica del Talmud, una cultura esegetica che ama ribaltare il significato di certi racconti apologetici anche per mettere in discussione il comportamento divino, e Giorgio Bassani, nel creare il rapporto indiretto tra Oreste, che è una persona religiosa che vuole assumersi delle responsabilità, e David, che le responsabilità se le scrolla di dosso senza che nessuno lo richiami all’ordine, ritiene che le lettrici e i lettori del racconto Lida Mantovani debbano anche [come ha fatto lui scrivendo] pensare al testo del Primo Libro di Samuele.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In tutte le case c’è una Bibbia e, quindi, utilizzatela come strumento di lettura: leggete il capitolo 15 del Primo Libro di Samuele che contiene un testo emblematico [che Giorgio Bassani ha in mente] dove risulta piuttosto incomprensibile la mentalità del Dio degli Eserciti il quale brontola Saul perché vuole compiere dei riti in suo onore ma poi gli impone di annientare completamente un popolo nemico già vinto e siccome Saul non riesce a comprendere un atteggiamento così distruttivo da parte di Dio, e anche da parte di Samuele che dà voce ai comandi divini, viene spodestato  Bisogna esercitarsi a entrare nella pieghe dei testi letterari

     Siamo in compagnia di un altro esperto di Letteratura biblica: Giordano Bruno.

     A Noli Giordano Bruno compone un trattato [la sua prima opera] e, quindi [poiché ha anche messo da parte qualche soldo], decide di partire per farlo pubblicare, e lui aspira a farlo stampare nella città dove questo lavoro lo sanno fare meglio, a Venezia.

     All’inizio del 1577 Giordano Bruno [che è tornato a farsi chiamare Filippo] parte da Noli per Savona, poi raggiunge Torino e da lì, per via fluviale sui battelli che navigano sul Po, arriva a Venezia dove fa stampare il suo primo scritto, un trattato intitolato De’ segni de’ tempi che, però, è andato perduto, ma noi sappiamo che i temi che Bruno affronta in quest’opera sono stati poi da lui sviluppati nelle sue opere successive.

     Sul piedistallo di tutte le numerose statue che, in molte parti del mondo, ricordano la figura di Giordano Bruno leggiamo la seguente dicitura: «A Giordano Bruno, apostolo del libero pensiero». Che cosa significa coltivare il libero pensiero per Giordano Bruno? Il libero pensiero è un atteggiamento [acquisito da Bruno fin da quando era un giovane studente] di repulsione nei confronti del dogmatismo, riguardante, in particolare, i temi ultraterreni. I “misteri della fede”, afferma Bruno, non possono essere risolti con una definizione imposta come vera sulla quale vige l’obbligo di credenza [e su questo tema, in relazione alla formula coniata dal concilio di Nicea sulla natura di Gesù Cristo, abbiamo già riflettuto la scorsa settimana].

     Per esempio, sul tema della Santissima Trinità [la delicata questione che riguarda la natura di Dio], nel corso dei secoli dell’èra cristiana, sono state fatte, afferma Bruno, molte ipotesi da parte di pensatori eccellenti e anche santi [i Trattati sul tema della Santissima Trinità sono moltissimi e su un certo numero di essi abbiamo puntato la nostra attenzione quando, in questi ultimi anni, abbiamo attraversato il vasto territorio della Scolastica medioevale], e tutte queste ipotesi, riguardanti la delicata questione della natura e della forma del Dio cristiano, sono avvalorate dalla sete di Verità di chi le ha formulate con la convinzione però che, in questa vita terrena, è possibile solo tendere alla Verità [la persona non è in possesso di strumenti adeguati per giungere alla Verità assoluta e «Forse la Verità la sapremo solo il giorno del Giudizio universale», scrive Bruno]: l’unica Verità che possiamo proclamare con certezza, afferma Bruno, è che l’essere umano sente fortemente l’esigenza di avvicinarsi alla Verità e, per questo vive una profonda passione conoscitiva che Bruno, come abbiamo già ricordato a suo tempo, chiama “l’eroico furore”: un impeto che non può essere frenato da nessuna istituzione repressiva.

     In linea con questa sua convinzione - con spirito critico nei confronti del dogmatismo - Giordano Bruno inizia a riflettere sui temi collegati ai “misteri della fede” iniziando da quello che [se così si può dire] sta più in alto di tutti: il tema di Dio. Giordano Bruno inizia la sua riflessione affermando che l’intelletto è in grado di formulare ipotesi sulla natura di Dio e ha la possibilità [mediante il linguaggio e la scrittura] di far derivare da queste ipotesi delle definizioni, ma nega che sia possibile rinchiudere in una formula - imposta come vera sulla quale vige l’obbligo di credenza - la vera essenza di Dio. Se si ha la pretesa, afferma Bruno, di chiudere Dio, di imprigionare Dio, mediante una definizione, dentro il perimetro di una verità indiscussa [in un dogma] se ne decreta la fine, e siccome a rigor di logica, afferma Bruno, si può dire che “Dio, così come non ha un inizio, non può avere una fine”, quindi, si può affermare, ribadisce Bruno, che “la principale caratteristica della natura di Dio è l’infinità” : di conseguenza si può sostenere che “Dio è in-finito”, “infinito” non in modo quantitativo [chi è in grado di quantificare l’infinito?] ma in senso qualitativo in ragione del fatto che tutti i suoi attributi [quelli che possiamo pensare] sono provvisti di una qualità suprema [in-finita, che non finisce mai perché è la qualità a condizionare la durata].

     Quante volte ci è capitato di dire “questo oggetto non finisce mai, non ha mai fine perché è di qualità”, perché ha “una qualità in-finita” [che trascende la finitezza].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Possedete un oggetto del quale potete dire che non finisce mai per la sua qualità?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Giordano Bruno c’insegna a dare un senso al concetto di “in-finito” perché questa idea rischia di essere aleatoria, corre il rischio di sfuggire alla comprensione: non è facile gestire con la mente il concetto di “infinito” [quando finiti siamo]! Quando una persona ci chiede: «Mi vuoi bene, quanto mi vuoi bene?» siamo portate e portati, afferma Giordano Bruno, a stabilire delle ipotetiche unità di misura [facciamo dei segni con le mani ...], finché capiamo quanto sia inadeguato procedere in questa direzione, ecco che, sostiene Giordano Bruno, possiamo rispondere “ti voglio bene all’in-finito”, e non perché “il voler bene” duri per sempre, ma perché “il voler bene” non è una questione di quantità, c’insegna Giordano Bruno, ma è un fatto di qualità [non si tratta di stabilire quanto, si tratta di stabilire come].

     Oreste Benetti vorrebbe, agli occhi di Lida, guadagnarsi una stima che non finisce mai, “di qualità in-finita”, proprio in contrasto col fatto che tutta la realtà che li circonda è problematica, effimera, destinata ad avere una fine, più che un fine e, a questo proposito, prima, ai tempi dei tempi, c’era David a dettare le regole che erano diverse da quelle pazientemente imposte da Oreste. E prima Lida usciva sbattendo la porta perché a David non piaceva attendere.

     Proseguiamo quindi nella lettura.

LEGERE MULTUM….

Giorgio Bassani,  Cinque storie ferraresi   Dentro le mura

LIDA MANTOVANI

Lida ancora fremente, aggrappata al braccio di David, si lasciava portare da lui.

Anziché prendere a destra e puntare verso il centro della città, di solito scendevano per via Salinguerra fino a raggiungere i bastioni, e di qui, poi, camminando di buon passo lungo lo stradello che c’era lassù in cima, arrivavano in una ventina di minuti a Porta Reno. Era David a volere così. Siccome aveva fatto pace con la famiglia (per poter staccarsene più tardi a migliori condizioni - diceva -: ma laurearsi, intanto, bisognava pure che si laureasse!), a questo punto valeva la pena che loro due badassero a fare un po’ d’attenzione, evitando se non altro di mostrarsi in giro assieme. Era indispensabile - ripeteva di continuo, magari anche adesso -. Data la situazione, lei stessa doveva convincersi che su certi sbandieramenti (e con questo si riferiva ai primissimi tempi, quando la sera la portava come per sfida a sedersi addirittura nei caffè principali, quello della Borsa compreso, quando proclamava che lui della vita noiosa e ipocrita che aveva condotto fino allora, università, amici, famiglia, ne aveva più che abbastanza ), su certi sbandieramenti ormai occorreva farci sopra una croce. Ma del resto non era più bello? - si affrettava ad aggiungere con un sogghigno -. Non sono proprio i contrasti, i sotterfugi, il più valido incentivo dell’amore? In ogni caso un fatto era sicurissimo: lungo quel sentiero delle mura, nonché, fra qualche istante, al piccolo cinema di piazza Travaglio dove stavano dirigendosi, nessuno di casa e dell’ambiente avrebbe mai potuto incontrarli.

Quantunque tutta intirizzita nel corpo e nell’anima, lei gli si teneva a fianco in silenzio. Senonché, di lì a poco, non appena si ritrovava dentro l’affollata e fumosa sala del Diana, seduta accanto a David con gli occhi fissi allo schermo, subito i nervi le si distendevano. Non di rado i film raccontavano storie d’amore nelle quali a lei pareva di riscontrare molte somiglianze con quella di cui continuava nonostante tutto a sognarsi protagonista: cosa che nei momenti culminanti la induceva non soltanto a guardare dalla parte di David (nella penombra attraversata a mezz’aria dal lungo, azzurro fascio di luce che scaturiva dal proiettore retrostante, ne intravedeva il collo alto e magro, con la sporgenza, giusto al di sopra del nodo della cravatta, del grosso pomo d’Adamo, il profilo scontento, sempre come assonnato, i bruni capelli imbrillantinati un tantino crespi sulle tempie), ma a cercargli la mano, a stringergliela tormentosamente. E David? Pronto come era a rispondere al suo sguardo e a ricambiare la stretta, appariva tranquillo, lui, perfino di buon umore. Però non c’era mai da fidarsi. Infatti, dopo aver lasciato per un po’ che lei gli tenesse la mano, eccolo certe volte ritirarla bruscamente. Si scostava con tutta la persona, oppure, nel caso che non si fosse ancora tolto il cappotto, si levava in piedi per sbarazzarsene. Che caldo! lo sentiva sbuffare. Non si respira. Intimorita non insisteva. Si affrettava a riportare gli sguardi sullo schermo, e d’allora in poi David era laggiù, al centro del grande, grigio rettangolo luminescente che occupava il fondo della sala, intento a accendersi una sigaretta con le mani inguantate, a ballare in smoking, a fissare occhi negli occhi donne bellissime, meravigliose, a premersele contro il petto, a baciarle lungamente sulla bocca Il film la prendeva a un punto tale, insomma, che più tardi, al termine dello spettacolo, quando si ritrovava all’aperto, se David, insinuato un braccio sotto il suo e facendo a un tratto la voce carezzevole, le proponeva per riaccompagnarla a casa il medesimo percorso che avevano compiuto all’andata, ogni volta, come svegliandosi di colpo da una specie di sonno, trasaliva con violenza. … “La strada tanto si allunga di poco! incalzava David.

È tardi, la mamma mi aspetta per mezzanotte, provava a rispondere. E poi fa freddo, sarà tutto bagnato …”.

Come sarebbe stato meglio - intanto pensava -, se fossero tornati verso casa tagliando giù per il centro! Con tutta la nebbia che c’era in giro (in quel paio di ore la nebbia era talmente aumentata che le lanterne gialle dei lampioni non si vedevano quasi più), nessuno, garantito, sarebbe stato in grado di notarli: nemmeno se fossero passati dal Listone, nemmeno se avessero preso per corso Giovecca. Avrebbero camminato adagio lungo i marciapiedi resi viscidi dall’umidità, avvertendo le labbra e le ciglia bagnarsi di goccioline tiepide, stretti l’uno all’altro come due fidanzati veri, regolari, e parlando, se Dio vuole, David soprattutto. Di che cosa avrebbe parlato, lui? Forse del film (che razza di gigione il primo attore! - avrebbe detto -; e anche la diva in fondo quale oca!), o magari di sé, dei suoi studi, dei suoi progetti per il futuro Da ultimo, prima di separarsi, sarebbero perfino potuti entrare in qualche piccolo caffè, uno di quelli dalle parti del Saraceno o di via Borgo di Sotto. Sedutisi in un angolo, David avrebbe ordinato due bicchierini. Dopodiché, nel torpore che sorbendo l’anisetta e pensando al letto e al sonno vicini l’avrebbe invasa, lei si sarebbe sentita, se non proprio felice, per lo meno abbastanza d’accordo una volta tanto con se stessa e con la vita.   Ma invece cedeva. E subito, mentre si allontanavano in direzione delle mura, al primo buio, al primo prato, veniva rovesciata nell’erba. Col mento sopra la spalla di lui, senza abbassare le palpebre, si lasciava andare. Dopo era la prima a rialzarsi. E veniva assalita da un senso d’angoscia, di paura. Come era già lontano! - pensava, mentre si affannava a tirarlo su, a rassettargli l’abito -. Come non gliene importava più niente, ormai! Eppure perché fargliene colpa? Forse non era in grado di immaginarlo, lei, in che modo la serata sarebbe finita? Tutto ogni volta era fin troppo prevedibile. Si avviavano.

Se ne rendeva perfettamente conto. Freddo, distratto, qualsiasi cosa che adesso le fosse venuta da lui non avrebbe potuto che ferirla. Tuttavia lo provocava.

Gli chiedeva per esempio: Com’è che si chiama la tua mamma?. E siccome David taceva, rispondeva lei per lui. Te-re-sa, sillabava.

Non era buffo che lei gli facesse domande talmente inutili, e che fosse poi lei,  staccando le sillabe come una scolaretta interrogata, a rispondere a se stessa?

E Marina, continuava, com’è che si chiama tua sorella Marina?” … Scoppiava a ridere. Quindi ripeteva: Ma-ri-na.

Accelerando il passo sul terreno indurito dal gelo David sbadigliava. Però si decideva a parlare, finalmente. Faceva discorsi strani, difficili, dove qualcosa di vero c’era senz’altro, ma anche - e bastava, per accorgersene, stare attenti al tono che aveva assunto la sua voce - parecchio di inventato. Raccontava in genere di sé, e specialmente di una sua relazione sentimentale con una signorina della migliore società, della quale, senza rivelare il nome, non smetteva mai di vantare, oltre alla bellezza, le abitudini mondane, i gusti raffinati e aristocratici. I loro incontri, i loro contrasti (perché spesso litigavano, a quanto pareva), si svolgevano sempre al centro di ambienti eccezionali: un ballo di beneficenza al Circolo dell’Unione, quello cioè della nobiltà, una rappresentazione di gala al Teatro Comunale, una galoppata in campagna con alla fine tanto di ricevimento in qualche bella villa circondata tutta attorno da un gran parco. Si trattava insomma di un rapporto non facile, ostacolato dalle rispettive famiglie, certo, ma unicamente per via delle religioni diverse: una vicenda comunque dove della cosa che loro due avevano fatto poco prima, sul prato, non si parlava nemmeno per sbaglio Frattanto erano scesi dai bastioni, avevano imboccato via Salinguerra. E se fino a quel momento lei era rimasta a sentire in silenzio, quasi trattenendo il fiato, non appena capiva dai profili delle case e dai lampioni stradali che fra pochi istanti avrebbero dovuto separarsi, ciò le metteva addosso una agitazione nervosa di tale intensità da farle a volte temere di non riuscire a padroneggiarla. Oh, come li odiava, adesso, il proprio paltoncino liso e striminzito, i propri capelli scomposti, appiattiti sulle tempie dall’umidità, le proprie mani volgari, deformate dal lavoro e dai geloni! Ma d’altra parte, che cos’altro poteva fare a questo punto se non vedere di calmarsi? Piccola di statura, senza la minima attrattiva né del fisico né del carattere, siccome la sua sorte era già segnata tanto valeva accettarla fino da ora. Chi lo sa. Se lei fino da ora si fosse messa il cuore in pace, forse David gliene sarebbe stato riconoscente. Forse in futuro lui sarebbe potuto arrivare a trattarla come la vecchia amica alla quale è consentita qualsiasi domanda, in grado di dare qualsiasi consiglio, anche il più scabroso. Era poco? Poco, si capisce. Tuttavia sempre meglio che niente.

Ormai davanti al portone, entravano nel portico. Seppure con la voce ridotta a un bisbiglio, David continuava a parlare. Che cosa stava dicendo? Subito dopo aver preso la laurea - diceva per esempio -, avrebbe piantato non soltanto Ferrara ma l’Italia. Era stufo di vivacchiare in provincia, di marcire in quel buco di città. Quasi di sicuro se ne sarebbe andato in America: e per starci, per stabilircisi definitivamente.

Con chi ci sarebbe andato, in America? - si era azzardata a chiedergli una volta -. Da solo, oppure con la signorina che gli piaceva tanto? … “Da solo, aveva risposto seccamente. Lui non era tipo da sposarsi - aveva aggiunto -. Con nessuna. Adesso come adesso non aspirava che a cambiare aria, già glielo aveva detto. E basta.

Lei non aveva replicato niente. Si era limitata ad annuire nel buio.

Un’altra volta, però - e se ne sarebbe rammaricata più tardi, a letto, quando per il tic-tac della sveglia posta sul comò, e per l’ansimare che sua madre faceva dormendo, non le riusciva di prendere sonno -, un’altra volta, a udirlo fare discorsi del genere, le era venuto da ridere. Gli aveva chiesto: E se restassi incinta?.

Sapeva bene che una simile domanda avrebbe costretto David a trattenersi altri cinque minuti. Ciò che in quei cinque minuti sarebbe stato capace di dire ancora, non importava. Importava che prima di andarsene sentisse il bisogno di darle un bacio.

     La riflessione che Giordano Bruno imbastisce sul tema della natura di Dio lo porta [come abbiamo studiato questa sera] a formulare un’ipotesi: di Dio, afferma Bruno, possiamo dire che “è in-finito” e questa affermazione costituisce l’inizio di una riflessione che porta Bruno a disegnare [a ipotizzare] un particolare quadro teologico e un particolare quadro dell’Universo che lo mette ulteriormente nei guai.

     Giordano Bruno, prendendo spunto dalle più diverse tradizioni filosofiche da lui studiate - il materialismo antico dei presocratici rielaborato da Bernardino Telesio [Bruno è uno studioso dell’Opera di Telesio], il commento di Averroè alla Metafisica di Aristotele, gli studi cosmologici di Niccolò Copernico [che incontreremo a breve], il pensiero di Raimondo Lullo [di cui abbiamo parlato], il pensiero neoplatonico, quello ermetico e quello ebraico della cabala -, utilizzando queste e anche altre tradizioni filosofiche Giordano Bruno elabora un’idea intorno alla quale ruota il suo pensiero: l’idea dell’infinità.

     L’Universo, secondo Giordano Bruno, ha come caratteristica essenziale: l’infinità, e questo concetto [dell’in-finito] lo porta a formulare una serie di ipotesi conseguenti. Se l’Universo è infinito dobbiamo ammettere, afferma Bruno, che la sfera delle stelle fisse, che costituisce una sorta di confine secondo l’astronomia antica, non esiste e, di conseguenza, “ogni punto dell’Universo [ribadisce Bruno come già ha sostenuto Bernardino Telesio, che abbiamo incontrato nel mese di dicembre] diventa contemporaneamente il centro e la periferia”.

     Dobbiamo tenere conto del fatto che Bruno va oltre il pensiero di Niccolò Copernico il quale rivoluziona l’assetto dell’Universo ponendo il Sole al centro del sistema, però Copernico ritiene ancora che l’Universo sia uno spazio limitato [non infinito] e che la sfera delle stelle fisse [che per Copernico è ancora un oggetto esistente] ne costituisca il confine. Bruno difende il sistema copernicano ma critica il concetto di finitezza su cui continua a basarsi questo sistema. È pensabile, afferma Bruno, che nell’infinito Universo si muovano infiniti mondi di cui il nostro rappresenta solo una piccola parte, e Giordano Bruno per dimostrare l’esistenza della “infinità” ricorre a due argomenti, e il primo argomento riguarda la natura del nostro pensiero: il nostro pensiero si esprime, afferma Bruno in linea con la dottrina neoplatonica, in una serie infinita di concetti e di immagini in un vorticoso furore creativo, e a questa realtà interiore deve corrispondere [non può che equivalere] altrettanta infinità nel mondo esterno. Il secondo argomento riguarda Dio, il quale, essendo la causa del mondo ed essendo [per definizione logica] in-finito, non può produrre che un effetto infinito. L’Universo, quindi, ribadisce Bruno, è infinito in quanto prodotto infinito di Dio e consta di infinite parti a loro volta finite e, di conseguenza, scrive Bruno, questo fatto incide necessariamente sulla forma di Dio stesso.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Tra le varie immagini che sono state date di Dio - dall’Arte figurativa, dalla Letteratura, dalla Musica, dal vostro Pensiero - quale vi è rimasta più impressa?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Giordano Bruno formula un’ipotesi complessa sulla natura e sulla forma di Dio [un Dio che, in quanto in-finito, non ha avuto neppure bisogno di creare, e sono gli esseri umani che hanno sentito la necessità di costruire racconti - mitici, epici, fantastici - sulla creazione] e di questo tema ce ne occuperemo strada facendo.

     Giordano Bruno arriva a Venezia mentre è in corso un’epidemia di peste che aveva già fatto decine di migliaia di vittime, anche illustri, come il pittore Tiziano Vecellio [Tiziano muore il 27 agosto 1576]. E così Bruno, che aveva raggiunto Venezia per far stampare la sua prima opera, deve rinunciare, e da Venezia, per evitare il contagio, si sposta subito a Padova. Durante il viaggio da Venezia a Padova conosce alcuni frati domenicani che capiscono subito - dal suo linguaggio, dalla sua cultura e dal suo modo di fare - che è un domenicano anche lui e allora decide, anche per non farli insospettire, di rimettersi il saio e, giunto a Padova si ferma ospite nel loro convento e poi, su consiglio di questi suoi confratelli, parte con uno di loro per Bergamo dove risiede nel convento domenicano di questa città, tenendo una serie di Lezioni, fino all’estate del 1578.

     Nell’estate del 1578 Giordano Bruno decide di rimettersi in viaggio: dov’è diretto? E perché diventa subito un protagonista sulla scena culturale europea? Perché le ipotesi formulate da Giordano Bruno - che abbiamo cominciato a studiare nel corso dell’itinerario di questa sera - riscuotono interesse? Chi sono i suoi sostenitori e perché succede che i suoi sostenitori diventano poi i suoi maggiori detrattori? Che cosa infastidisce del carattere di Giordano Bruno?

     Per rispondere a queste domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé, consapevoli del fatto che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare e bisogna sempre essere animate e animati dall’eroico furore per la conoscenza.

     Per questo la Scuola è qui, e per questo - parola per parola e idea per idea - il viaggio continua…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 2, 2018