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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA CON IL GENERE LETTERARIO DELLA COMMEDIA VENGONO MESSE IN SCENA ANCHE LE MISERIE DELL’EPOCA RINASCIMENTALE ...

Lezione N.: 
11

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

La sapienza poetica e filosofica del ‘600 agli esordi della scienza      24-25-26  gennaio  2018

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA

CON IL GENERE LETTERARIO DELLA COMMEDIA VENGONO

MESSE IN SCENA ANCHE LE MISERIE DELL’EPOCA RINASCIMENTALE ...

     Questo è l’undicesimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età moderna agli esordi della scienza, e la scorsa settimana abbiamo fatto conoscenza con il giovane Giordano Bruno fino al momento in cui è un brillante studente dell’Università di Napoli che, come sappiamo, ha la sua sede nel convento domenicano di San Domenico Maggiore dove Bruno, indirizzato dai suoi primi maestri, è entrato a quattordici anni animato, come dice lui stesso, trent’anni dopo, davanti al tribunale dell’Inquisizione, da una forte volontà per lo studio della Filosofia più che da motivi religiosi o devozionali.

     Come abbiamo detto la scorsa settimana, tuttavia Bruno, durante gli interrogatori davanti al tribunale dell’Inquisizione di Roma, riferisce di essere stato [quando ha portato l’abito domenicano] uno dei monaci [appartenente a una minoranza] tassativamente fedele alla regola nonostante, dichiara Bruno, «il convento non fosse un’oasi di pace e di meditazione di spiriti eletti ma piuttosto un ricettacolo di infiltrati senza alcuna vocazione, e non deve pertanto stupire che io abbia sempre manifestato il mio disprezzo nei confronti della maggioranza dei frati ai quali ho continuamente rimproverato la mancanza di cultura e la loro attitudine a riempirsi la pancia piuttosto che arricchire la mente». Non ci deve stupire, quindi, che Bruno - qualche anno dopo la sua permanenza nel convento di San Domenico Maggiore a Napoli - abbia voluto denunciare con una complessa opera teatrale diventata famosa questa situazione e ora, per parlarne, dobbiamo fare un piccolo salto cronologico [dal 1575 al 1582] in avanti [quando Bruno aveva cominciato a viaggiare, e naturalmente poi torneremo indietro per conoscere e per capire come è arrivato Bruno a Parigi, dove occupa, per giunta, un posto di prestigio].

     Nel 1582 a Parigi, mentre Giordano Bruno sta occupando un posto di prestigio, assegnatogli dal re Enrico III, nel collegio accademico reale di Francia, viene pubblicato il testo della sua commedia in cinque atti intitolata Candelaio. Tra le numerose opere scritte da Giordano Bruno [una quarantina] il Candelaio è quella in cui spiccano maggiormente le caratteristiche del suo linguaggio: un linguaggio poetico di straordinaria eccentricità [e anticonformismo, sono attenti lettori di Bruno molte autrici e autori che abbiamo incontrato in questi anni: Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi, Giorgio Bassani, e ne condividono le scelte letterarie].

     Bruno scrive con un linguaggio popolaresco e colorito in cui inserisce termini in latino, in toscano e in napoletano, scrive con un linguaggio denso di metafore e di allusioni oscene, degne degli Epigrammi di Marziale, nei quali lo scrittore descrive i vizi e i difetti della società in cui vive con spirito realistico senza mai atteggiarsi a maestro di morale. Il linguaggio di Bruno è ricco di sottintesi equivoci ma anche di citazioni classiche e di “storpiature linguistiche” [create ad Arte] che corrispondono all’invenzione di nuove parole [Bruno ha senz’altro anche letto Gargantua e Pantagruel di François Rabelais che nel 1552 è stato pubblicato nella sua forma definitiva, e ne parleremo a suo tempo]. Contemporaneamente a questo linguaggio il Candelaio presenta una trama assai complessa e provocatoria fondata su tre storie principali che si susseguono e s’intersecano: quella di Bonifacio, quella di Bartolomeo e quella di Manfurio, tre personaggi che sono diventati emblematici nella Storia del Teatro.

     La più significativa è la figura di Bonifacio che - anche se nella commedia non rappresenta la figura di un frate - serve a Bruno per denunciare la corruzione della maggioranza dei frati: un problema talmente evidente che non faceva più neppure scandalo. La figura teatrale del candelaio Bonifacio - il principale protagonista della commedia - rimanda esplicitamente a una persona reale, a fra’ Bonifacio da Napoli, personaggio conosciutissimo a Napoli, ex confratello di Giordano Bruno nel convento di San Domenico Maggiore, che è anch’egli “un candelaio” nel senso [e l’uso della metafora inizia dal titolo] che questo termine serve per etichettare, in modo triviale, un omosessuale. Ma Bruno non ha alcuna intenzione di dileggiare fra’ Bonifacio da Napoli per la sua omosessualità, che è un genere come un altro, il fatto è che fra’ Bonifacio, il quale ha fatto voto di castità in quanto domenicano, non si astiene minimamente dall’accoppiarsi con i femminielli [ragazzi giovanissimi che si vendono per fame], anzi fra’ Bonifacio si vanta delle sue azioni e si auto-assolve dicendo che lui li sfama con gli avanzi della mensa del convento, e Bruno è quasi affascinato dal modo in cui fra’ Bonifacio si comporta, senza nessun ritegno e senza che nessuna autorità, religiosa o civile che sia, lo contrasti perché la corruzione è generalizzata in tutti i gangli della società. Il candelaio Bonifacio della commedia è un personaggio virtuale e non è omosessuale perché Bruno non vuole colpire il genere ma si comporta, da eterosessuale, con la stessa ipocrisia della figura reale di fra’ Bonifacio.

     Giordano Bruno scrive il testo del Candelaio a Parigi ma, per essere ancora più esplicito, ambienta la commedia a Napoli, nel cuore della città a due passi dal convento di San Domenico Maggiore dove, come sappiamo, Giordano Bruno ha studiato e ha soggiornato fino al 1576. Le scene della commedia si svolgono presso “il seggio del Nilo”, uno dei distretti amministrativi [detti seggi o sedili o piazze] della città di Napoli.

     Che cosa sono i seggi [o sedili o piazze] di Napoli? Questo è un dato che Giordano Bruno ci tiene a far sapere in Francia: i seggi [o sedili o piazze] erano dal XIII secolo [sono stati aboliti nel XIX secolo dai Borboni] delle istituzioni amministrative della città di Napoli i cui rappresentanti, detti “Eletti”, si riunivano nel convento di San Lorenzo per cercare di pianificare il bene comune della città [il motto era “Ad bene agendum sumus, Siamo nati per fare il bene”]. I seggi erano sette secondo la tradizionale divisione territoriale della città: Capuana, Montagna, Forcella [successivamente aggregato a Montagna], Porto, Portanova, Popolo e Nilo.

     Il seggio del Nilo ha preso questo nome dalla statua di autore sconosciuto del Fiume Nilo eretta nel periodo greco-romano della città, tra il II e il III secolo d.C., dagli immigrati Alessandrini, provenienti da Alessandria d’Egitto, che si erano stabiliti e ben inseriti in quest’area di Napoli e vollero ricordare con questo monumento [che ha una storia significativa] di essere stati accolti con favore dal popolo napoletano. Questa statua si trovava e si trova tuttora in Largo Corpo di Napoli, una delle tante piazzette situate all’interno della vecchia cerchia muraria a pochi metri di distanza da quella di San Domenico Maggiore. Questo spazio che stiamo descrivendo - che Giordano Bruno ha fatto diventare il palcoscenico della commedia il Candelaio - si trova, a sua volta, su una via denominata Spaccanapoli: l’arteria più caratteristica del centro storico di Napoli che ha preso questo nome in quanto, con la sua perfetta linearità, divide nettamente la città antica tra il nord e il sud.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida della città di Napoli e navigando in rete andate a visitare lo spazio del palcoscenico della commedia il Candelaio di Giordano Bruno seguendo le seguenti parole-chiave: “Spaccanapoli”, “Largo Corpo di Napoli”, “Statua del Nilo”, “piazza San Domenico Maggiore”...  Buona escursione nel cuore partenopeo

     E ora ci occupiamo del contenuto della commedia intitolata il Candelaio riflettendo sui temi che l’autore vuole mettere al centro dell’attenzione delle spettatrici e degli spettatori. Non possiamo seguire la trama nei particolari perché è assai complessa e rischiamo di perdere il filo: Giordano Bruno non si preoccupa del fatto che ci sono anche alcune incongruenze nella trama perché l’intreccio narrativo è per lui il pretesto per manifestare delle idee sul tema della sessualità su cui ragionare e, a questo proposito, dobbiamo tirare in ballo un autore che, con le sue opere, ha contribuito a far riflettere Giordano Bruno, ma procediamo con ordine.

     La commedia intitolata il Candelaio è considerata una delle più forti satire della società del Rinascimento: Giordano Bruno mette in discussione, attraverso l’impianto allegorico della sua opera teatrale, il modo di fare letteratura, il modo di occuparsi di filologia, l’arretratezza con cui vengono trattati i problemi scientifici e denuncia l’ipocrisia con la quale si affronta il tema dell’amore e, a questo proposito, sul tema della concezione amorosa, si capisce che Giordano Bruno - oltre ai testi delle commedie - ha letto il Ragionamento e il Dialogo di Pietro Aretino [Pietro Del Tura detto l’Aretino, 1492-1556] due opere pubblicate nel 1534 e nel 1539 [che hanno entrambe avuto un grande successo], con le quali l’autore vuole codificare in modo razionale, secondo la tendenza normativa tipica del ‘500, un ambito scottante dell’attività umana perché non se ne poteva parlare esplicitamente: quello del sesso. Pietro Aretino vuole ragionare sul tema della sessualità uscendo fuori dal livello idealizzato, con cui ufficialmente se ne parla, per trattare l’argomento così come viene vissuto, in modo materiale e grossolano e, di conseguenza, lo scrittore fa condurre il suo Ragionamento e il suo Dialogo da una professionista [che dell’argomento se ne intende], da una prostituta [la Nanna] che ragiona e dialoga con intelligenza e con cognizione di causa a favore della figlia [la Pippa] per ammaestrarla [e forse - scrive ironico l’Aretino - il verbo “ammaestrare” è più appropriato che il verbo “educare”] nel mestiere il più antico del mondo, come si suol dire. Sicuramente Giordano Bruno - oltre ad aver riflettuto - si è molto divertito a leggere queste opere dell’Aretino scritte con un tono di giocosa festosità, scritte in buon toscano secondo i dettami di Pietro Bembo, di cui l’Aretino condivide le tesi linguistiche, tesi che abbiamo studiato a suo tempo.

     Sarebbe riduttivo, e Giordano Bruno ne è ben consapevole, vedere in queste opere solo una sorta di repertorio enciclopedico del sesso e, quindi, soltanto “un catalogo dell’osceno” [questo è il giudizio del Sant’Uffizio] perché Pietro Aretino - rovesciando i modelli dell’amore sublime decantati e mai rispettati neppure dai censori a servizio delle istituzioni, a cominciare dalla Chiesa - intende, con esplicita consapevolezza, mettere in mostra la degradazione morale dilagante nel corso di un’epoca ritenuta speciale a cominciare dal nome che poi riceverà quest’epoca: Rinascimento.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Richiedete in biblioteca Ragionamento e Dialogo di Pietro Aretino e leggete qualche brano di queste due opere [che vengono sempre pubblicate insieme] riflettendo sul significato delle metafore e su quello di molti termini curiosi che trovate spiegato nelle note, necessarie per capire questi testi…   Ci si può anche divertire nel compiere un esercizio filologico insieme a Pietro Aretino...  Approfittatene, e poi, navigando in rete, potete osservare il ritratto esposto nella Galleria Palatina di Firenze di Pietro Aretino dipinto da Tiziano...

     E adesso - dopo aver aperto questa doverosa parentesi esplicativa [e d’ispirazione per Bruno] - dobbiamo procedere con ordine occupandoci del contenuto della commedia il Candelaio.

     Il contenuto della commedia il Candelaio si fonda su tre storie principali che si susseguono e s’intersecano: quella del candelaio Bonifacio [la furbizia], quella dell’alchimista Bartolomeo [la cupidigia] e quella del grammatico Manfurio [l’ignoranza], tre personaggi e tre ruoli che sono diventati emblematici nella Storia del Teatro. In queste tre storie s’inserisce la figura del pittore Gioan Bernardo in cui s’identifica l’autore, e questo personaggio, utilizzando in modo spregiudicato una corte di servi e di furfanti [di lazzaroni], agisce in modo da sbeffeggiare i tre protagonisti.

     Bruno, nell’apparato introduttivo della commedia, si definisce «un achademico di nulla achademia, detto il fastidito, che osserva il mondo quale esso è», e vuole mostrare attraverso il teatro una realtà inficiata dalla violenza e dalla corruzione, rappresentandola con amara comicità, facendo sì che, sulla scena, gli avvenimenti si succedano in una trasformazione continua e vivace: il palcoscenico è a Napoli, città vivacissima, ma si potrebbe allestire, allude Bruno, nel cuore di qualunque altra città europea e questo lo si capisce nell’apparato assai macchinoso che introduce i cinque atti della commedia.

     Secondo Bruno, c’è qualcosa da spiegare al pubblico prima che inizi a dipanarsi la trama e, difatti, l’apparato introduttivo di quest’opera risulta inconsueto e assai articolato rispetto ai canoni della commedia tradizionale rinascimentale [anche nelle commedie di Pietro Aretino - la Cortigiana, il Marescalco, la Talanta, l’Ipocrito, il Filosofo - c’è un ampio apparato introduttivo ma Bruno ne supera abbondantemente le dimensioni]: Bruno rende più complesso il genere della commedia e lo appesantisce allo scopo di far prevalere la riflessione sul divertimento, e più di un autore di Teatro del ‘900 si rifarà a certi elementi dello stile di Bruno alleggerendoli senza tuttavia tradirne la funzione [uno è Bertolt Brecht come vedremo a suo tempo].

     Il Candelaio inizia con una poesia indirizzata ai poeti, segue una dedica alla signora Morgana B. [probabilmente una conoscente di Bruno che non è mai stata identificata], segue “un argumento” [per usare il linguaggio di Bruno] dove l’autore riassume la trama, poi scrive un “anti-prologo” dove Bruno, capovolgendo quanto ha proposto in precedenza, ironizza sulla possibilità di poter rappresentare realmente questa commedia [la censura interverrà a tempo debito], dopo scrive “un [come lo chiama lui] pro-prologo” dove polemizza contro “le false ideologie” [e quando studieremo il suo pensiero vedremo che cosa intende per “false ideologie”] e, infine, compare “un bidello” [dal latino medievale “bidellus” che, a sua volta, deriva dal franco “bidal” che significa “messaggero”] il quale, finalmente, annuncia l’inizio della rappresentazione e legge l’elenco dei venti personaggi necessari per allestire una commedia di settantasei scene complessive.

     Il candelaio Bonifacio, pur essendo sposato con la bella Carubina, confida all’alchimista Bartolomeo di voler conquistare la signora Vittoria che è una prostituta ma lui [vuol farla da furbo] non vuole ricorrere al denaro per accoppiarsi con lei [e finirà per spendere molto di più]. Bartolomeo è un alchimista il quale confida a Bonifacio la sua intenzione di trasformare in oro e in argento i metalli meno nobili [ma la sua cupidigia gli costerà cara]. Mentre il pedante Manfurio è un grammatico al quale Bonifacio commissiona la scrittura di una lettera d’amore da indirizzare alla signora Vittoria, il fatto è che lui - per voler fare il sapiente, che sapiente non è - si esprime in un modo talmente grottesco, con frasi fatte e citazioni latine sciorinate a sproposito, che confeziona un testo che ridicolizza inesorabilmente il mittente, e Sanguino, il servo di Bartolomeo, rimprovera Manfurio con feroce sarcasmo e nelle sue parole riecheggia tutto il disprezzo di Giordano Bruno per il mondo accademico dell’epoca, un mondo nel quale abita, scrive Bruno, «il fior fiore degli ignoranti per i quali è facile navigare nel mare del popolo perché è un mare totalmente insipiente». Nella scena V dell’atto I del Candelaio, Bruno fa dire a Sanguino: «Mastro Manfurio, con questo diavolo di parlare per grammuffo o catacumbaro o delegante e latrinesco, amorbate il cielo, e tutt’il mondo vi burla». Bruno inventa e utilizza termini comici [grammuffo, catacumbaro, delegante, latrinesco] per dare un senso filologico alla burla.

     Bonifacio poi commissiona al pittore Gioan Bernardo un ritratto da inviare alla signora Vittoria e gli ordina che «lo faccia bello» e Gioan Bernardo, prendendolo in giro con un’allusione equivoca sul piano sessuale gli dice: «Ebbene Mastro Bonifacio da candelaio vi farò diventar orefice», Bonifacio non coglie e a dipinto finito si vede bello ma poi, a sua insaputa, il pittore, prima di inviare la tela alla signora, ritocca il ritratto e raffigura Bonifacio “travestito da candelaio” [nel senso triviale del termine]: la signora si diverte alle spalle dello sciocco il quale, non contento perché non riesce a concludere, ricorre anche a Scaramuré, un mago che fa le fatture a caro prezzo.

     La signora Vittoria [e Bruno fa prevalere le donne in intelligenza, specie se sono cortigiane] ragionando sul comportamento di Bonifacio, che giudica ridicolo e stupido, introduce un tema su cui Bruno fa ruotare tutto lo svolgersi dell’azione: il tema del rapporto tra il tempo e l’amore, un tema che non ha mai abbandonato la Storia della Letteratura. Già nell’apparato introduttivo Bruno scrive che «il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annichila [si distrugge]», e alla saggia e scaltra signora Vittoria Bruno fa dire: «chi tempo aspetta, tempo perde» perché il tempo, afferma Bruno, sembra essere sempre a disposizione per fare ciò che ci piace ma, in realtà, il tempo è inesorabile, procede trasformando tutto senza concedere nulla, ma nello stesso momento «il tempo riequilibra le cose e chi sa approfittarne riesce nel suo scopo» e la signora Vittoria, mettendo in atto un piano teatralmente comico e un po’ crudele decide di trarre in inganno lo sciocco Bonifacio per dargli una lezione.

     Nel frattempo l’alchimista Bartolomeo, anch’egli tutto preso dalla propria passione, è in preda alla cupidigia e non ragiona se non in termini di avidità e non riesce a gustare nulla di quello che possiede, e quello del denaro è un altro tema centrale nella commedia: Bonifacio e Bartolomeo sono entrambi «avari, insipidi e goffi» e mostrano, come del resto anche “lo sgrammatico” Manfurio, di essere in fondo degli imbecilli che non conoscono se stessi [«conosci te stesso se vuoi raccogliere saggezza, se così non è raccoglierai tempesta»] e, per questo, conclude Bruno, meritano di essere puniti e, difatti, sono facile preda degli imbroglioni.

     Così, come l’apparato introduttivo della commedia è molto articolato, anche la sua conclusione è composita tanto che possiamo parlare di conclusioni al plurale. C’è una prima conclusione della commedia tutta impostata sul cinismo e sul realismo e Bruno la affida a una battuta dell’ultimo monologo della signora Vittoria: «Che il vento soffi di qua o che poi giri di là sappiate gente che il mondo sta bene come sta» e pronuncia questa sentenza dopo aver portato a termine un piano spietato. Manfurio e Bartolomeo vengono derubati e picchiati più volte, mentre Bonifacio subisce l’inganno dopo essere stato attirato in un falso convegno amoroso nel quale si ritrova davanti Carubina, sua moglie, che naturalmente, indignata, lo maltratta. Ma c’è anche un’altra conclusione connessa alla figura del pittore Gioan Bernardo che appare l’unico saggio della compagnia perché, scrive Bruno, ragiona “da artista” e, in relazione a questo personaggio, il pensiero di Bruno non appare pessimista: se nel mondo tutti avessero «giudizio, diligenza e perseveranza» non ci sarebbe spazio per i truffatori perché costoro tenderebbero inutilmente le loro trame.

     Il mondo descritto dal Candelaio è un mondo miserabile, come quello dell’epoca che Bruno vuole mettere alla berlina, ma l’autore non rinuncia, non vuole rinunciare, a mostrare chiaramente una via di salvezza che consiste nell’usare saggiamente l’intelligenza: il monito è quello di imparare a investire in intelligenza.

     Poi, infine, c’è la conclusione delle conclusioni in cui Bruno vuole giocare con l’ironia e l’originalità [il teatro vive di colpi di scena] perché Carubina, di fronte alla situazione nella quale si è venuta a trovare, pensa e dichiara che tradire un siffatto marito, come quel gaglioffo di Bonifacio, non è perdere l’onore ma è perdere un’occasione e siccome a lei Gioan Bernardo piace e sa che lui la trova attraente possiamo star certi, mentre cala il sipario, che i due coglieranno l’opportunità.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Giordano Bruno mette in evidenza tre parole-chiave: giudizio, diligenza e perseveranza...

In quale situazione avete avuto giudizio, in quale circostanza avete agito con diligenza e in quale occasione avete messo in pratica la perseveranza?...       

Scrivete quattro righe in proposito...

Il testo della commedia il Candelaio non è di facile lettura, tuttavia è possibile, dopo aver richiesto l’opera in biblioteca, leggerne [anche aprendo il libro a caso] qualche brano per misurarsi con la lingua di Giordano Bruno: fare questo esercizio significa sperimentare e, di conseguenza, significa aver giudizio, agire con diligenza e mettere in pratica la perseveranza...

     E ora il passo successivo che dobbiamo fare è inevitabile, ed è Giordano Bruno ad averlo ispirato attraverso uno dei temi presenti nel testo del Candelaio: il tema del rapporto tra il tempo e l’amore che emerge nel racconto di Giorgio Bassani che abbiamo iniziato a leggere la scorsa settimana.

     La scorsa settimana abbiamo iniziato a leggere il primo racconto - intitolato Lida Mantovani, che è il nome della protagonista - della raccolta intitolata Cinque storie ferraresi per la quale Giorgio Bassani nel 1956 ha ricevuto il premio Strega, e abbiamo incontrato quest’opera in relazione al fatto che proprio in quell’anno e in quei giorni a Ferrara, con un convegno [all’organizzazione del quale anche Bassani ha partecipato], si celebrava [1516-1956] il poema di Ludovico Ariosto, e Bassani, nel ritirare il premio Strega, sollecitato da Maria Bellonci, esprime la sua soddisfazione per la vittoria che dedica alla città di Ferrara affermando che i personaggi delle sue Cinque storie, per il loro carattere “dimesso”, rappresentano il rovescio della medaglia, l’antitesi, rispetto ai caratteri “briosi e impazienti” delle donne e dei cavalieri dell’Orlando furioso. I cavalieri del Boiardo e dell’Ariosto scalpitano per amore mentre Oreste Benetti [per esempio], il protagonista del primo racconto delle Cinque storie ferraresi, intitolato Lida Mantovani, pazienta con fiduciosa determinazione.

     Sappiamo che Lida Mantovani è una ragazza che ha appena partorito un bambino di nome Ireneo, e quando, di lì a poco, capisce che il padre, David, se ne è andato abbandonandola per sempre, Lida lascia la stanza nella quale ha vissuto con lui per tornare dalla madre Maria, che abita in via Salinguerra, vicino alle mura di Ferrara. Anche a Maria Mantovani è toccata la stessa sorte: è rimasta incinta nel corso della relazione con il fabbro Andrea Tardozzi che poi non l’ha sposata, quindi, madre e figlia si trovano a vivere un’esperienza comune. Dopo qualche anno un uomo un po’ più anziano di Lida, un vicino di casa che di mestiere fa il rilegatore, Oreste Benetti, prende l’abitudine di recarsi ogni sera alla stessa ora in visita alle due donne, conversando con loro con gentilezza e cortesia. Che intenzioni ha? Il suo proposito è quello di intessere una relazione con Lida e, a questo proposito, vista la sua età, dovrebbe cercare di guadagnare tempo ma invece sembra volerne perdere perché lui vorrebbe essere umanamente accettato, vorrebbe che Lida gli volesse bene e non lo considerasse soltanto come colui che normalizza la sua situazione sociale visto che, in quanto ragazza madre, subisce [siamo negli anni del fascismo] l’emarginazione. Oreste è convinto che l’amore - inteso in modo molto serio come lo intende lui, con una forte connotazione di carattere religioso - ha i suoi tempi nonostante nel suo caso questa convinzione possa risultare controproducente. E ora leggiamo.

LEGERE MULTUM….

Giorgio Bassani,  Cinque storie ferraresi   Dentro le mura

LIDA MANTOVANI

Piuttosto irregolare nell’andamento e col ciottolato mezzo ricoperto d’erba, via Salinguerra è una stradetta secondaria che comincia da un vasto piazzale sbilenco, frutto di una antica demolizione, e termina ai piedi dei bastioni comunali in relativa prossimità di Porta San Giorgio. Siamo dunque in città, anzi nemmeno tanto lontani dal centro medioevale: e basterebbero a confermarlo le fisionomie delle case che fiancheggiano la via d’ambo i lati, tutte per lo più molto povere e di modeste proporzioni, e alcune vecchie decrepite, senza dubbio fra le più vecchie di Ferrara. Eppure, a percorrere via Salinguerra anche oggi, il tipo di silenzio dal quale si è circondati (sentite di qui le campane delle chiese cittadine hanno un timbro diverso, come sperduto), e specialmente gli odori di letame, di terra arata, di stalla, che rivelano la vicinanza di grandi orti segreti, tutto contribuisce a dare l’impressione che ci si trovi già fuori della cerchia delle mura urbane, ai limiti dell’aperta campagna.

Voci tranquille di animali, di polli, di cani, perfino di buoi, remoti scampanii, effluvi agresti: suoni e odori arrivavano anche laggiù, in fondo allo scantinato dove Maria e Lida Mantovani lavoravano per conto di una sartoria maschile. Sedute a ridosso della finestra, immobili e silenziose quasi come le grigie suppellettili retrostanti - come il tavolo, cioè, e le seggiole di paglia, e le lunghe, strette sagome appaiate dei letti, e la culla; e l’armadio, e il comò, e il treppiede del catino con a fianco la brocca dell’acqua e con dietro, a stento visibile, la piccola porta a muro del sottoscala in cui si celavano il cucinino e il gabinetto -, quando alzavano la testa dalle stoffe era soltanto per rivolgersi qualche parola, per controllare se il bambino non avesse bisogno di qualcosa, per guardare fuori, di sotto in su, ai rari passanti, ovvero, a uno squillo improvviso della campanella sospesa in cima al pianerottolo sopra l’angusto rettangolo verticale dell’uscio d’ingresso, per decidere mutamente, previo un rapido scambio di occhiate, quale delle due bisognava che andasse ad aprire

Passarono tre anni. Ed era da credere che molti altri dovessero trascorrerne così, senza mai novità e cambiamenti di rilievo, quando la vita, che sembrava essersi dimenticata delle loro esistenze, a un tratto se ne ricordò nella persona di un vicino: certo Benetti, Oreste Benetti, titolare in via Salinguerra di una bottega di legatore di libri. La strana insistenza con cui la sera dopo cena il vicino aveva cominciato a far loro visita, assunse quasi subito, almeno per Maria Mantovani, un significato inequivocabile. Sì - pensava emozionata -: quel Benetti veniva proprio per Lida Dopo tutto Lida era ancora giovane, molto giovane Di colpo si rivelò viva, energica, addirittura allegra. Senza mai mettere bocca nei discorsi della figlia e dell’ospite, si limitava ad aggirarsi per la stanza, paga, era chiaro, di essere lì, presente ma autonoma, contenta di attendere in disparte il prodursi di un fatto meraviglioso. A parlare nel frattempo era quasi sempre il legatore. Gli anni passati: pareva che non gli interessasse altro. Quando Lida era piccola - diceva -, alta così, gli capitava spesso in bottega. Entrava, veniva avanti, si alzava sulla punta dei piedi per arrivare con gli occhi all’altezza del banco.

Signor Benetti, gli domandava con la sua vocina, me la regali un poco di carta oleata?” … “Volentieri, bimba, rispondeva lui. Potrei sapere però perché la vuoi?

Niente. Mi serve per ricoprire il sussidiario.    Raccontava, e rideva. Sebbene non si rivolgesse a nessuna delle due donne in particolare, i suoi sguardi non cercavano che quelli di Lida. L’attenzione, il consenso, era da lei che li pretendeva. E lei, mentre osservava l’uomo che le stava dinanzi (aveva una testa molto grossa: proporzionata certo al tronco robusto, ma non alla statura), e soprattutto, in mostra sopra la tovaglia, le sue grandi mani ossute, incastrate con forza una dentro l’altra, sentiva che almeno in questo non poteva fare a meno di accontentarlo. Fronteggiandolo con amabilità contegnosa, conversava composta, calma, e insieme, in qualche modo (ne ricavava un piacere insolito, mai provato prima di allora), già sottomessa. Di niente il legatore appariva così consapevole come della propria importanza. Ciò nondimeno andava continuamente a caccia di prestigio.

Una volta, una delle poche che si rivolse alla vecchia, chiamandola per di più col suo nome di battesimo, fu per ricordarle l’anno in cui era venuta a stabilirsi a Ferrara. Lo aveva presente, lei - disse -, il freddo che aveva fatto quell’anno? Lui sì, benissimo. I mucchi di neve sporca erano rimasti lungo i lati delle vie cittadine fino a metà aprile abbondante. Inoltre la temperatura si era abbassata così tanto che lo stesso Po aveva gelato. …  “Persino il Po! ripeté con enfasi, spalancando gli occhi. Gli pareva ancora di vederlo - continuò -, lo spettacolo straordinario del fiume preso nella morsa dei venti gradi sottozero. Fra gli argini ricoperti di neve l’acqua aveva smesso di scorrere: del tutto. Tanto che certi biroccianti, verso sera, invece che servirsi, per passare il fiume, del ponte di ferro di Pontelagoscuro (si trattava in genere di trasportatori di legna da bruciare alle dipendenze di una segheria di Santa Maria Maddalena, e adesso tornavano da Ferrara), preferivano avventurare i carri ormai vuoti attraverso l’immensa lastra ghiacciata. Che matti! Avanzavano adagio, qualche metro davanti ai cavalli, tenendo le redini raccolte in un pugno dietro la schiena, con l’altro pugno spargendo segatura, e intanto fischiando, gridando come dannati. Per quale motivo fischiavano e gridavano? Chi lo sa. Forse per far coraggio alle bestie, forse per farlo a se stessi. Oppure per riscaldarsi, semplicemente. …  “Ricordo che quel famoso inverno, disse una sera col tono rispettoso che sempre assumeva quando parlava delle persone e delle cose della religione (orfano dall’infanzia ed educato in Seminario, aveva conservato per i preti, per i preti in blocco, una venerazione di tipo filiale), ricordo che quel famoso inverno il povero Don Castelli ci conduceva ogni sabato pomeriggio a Pontelagoscuro a vedere il Po. Non appena usciti da Porta San Benedetto rompevamo le righe. Cinque chilometri andare e cinque tornare: non era mica il giro dell’orto! Eppure a Don Castelli guai a nominarglielo, il tram. Sebbene, data l’età, il fiato lo tirasse coi denti, sempre davanti a tutti, lui, sempre in testa al gruppo con la sua brava sottana svolazzante e con l’umile sottoscritto a fianco Un vero santo, altroché, e per l’umile sottoscritto un vero padre!.

Avevo appena avuto la bambina, interloquì a bassa voce Maria Mantovani, in dialetto, approfittando del silenzio seguito alle parole del legatore. In città mi sentivo persa, proseguì in italiano, si può dire che ancora non conoscessi nessuno. Ma a casa d’altra parte com’è che facevo a tornarci? Voi lo sapete, Oreste: in campagna è soprattutto la mentalità a essere differente. Sembrava che Oreste Benetti non l’avesse nemmeno udita. … “Un freddo così non c’è stato dopo che nel diciassette, fece meditabondo.  Quindi, con un lampo negli occhi: No, macché, cosa dico mai! soggiunse, alzando la voce e scuotendo il capo. Neanche da paragonare. Nell’inverno del diciassette faceva invece un caldo, sul Carso! Certe notizie sarebbe meglio domandarle alla gente che marcava visita, a certi imboscati che sappiamo bene (sottolineò in tono sarcastico queste ultime parole), che loro, il fronte, non l’hanno visto neppure in cartolina. Raccogliendo l’allusione insolitamente brutale ad Andrea Tardozzi, il fabbro di Massa Fiscaglia che era stato riformato a causa della pleurite e che per questo non aveva fatto la guerra (nel ‘10 si era trasferito a Feltre, là dalle Alpi, dove aveva messo su famiglia ), Maria Mantovani, offesa, si irrigidì. E per quella sera, ricacciata a fantasticare da sola, nel suo angolo, sulle infinite cose della propria vita che potevano essere e non erano state, non disse altro.  Quanto al legatore, una volta che avesse stabilito le distanze che gli premeva stabilire, tornava subito a comportarsi con tutta la gentilezza, tutta la cavalleria della sua natura. Normalmente era di sé e del proprio passato che raccontava in prevalenza. Fino ai venti, venticinque anni, gli era andata abbastanza male - sospirava -, sotto ogni punto di vista. In seguito però era sopraggiunto il lavoro, il mestiere, il suo mestiere, e da allora in poi tutto era cambiato da così a così. Noi artigiani, soleva dire non senza fierezza, fissando Lida dritto negli occhi. Mai distratta, Lida sosteneva quieta il suo sguardo. E lui le era grato, lo si vedeva, che sedesse sempre là, dall’altro lato del tavolo, così silenziosa, così tranquilla, così attenta a corrispondere anche nel modo di fare al suo segreto ideale femminile.

Coi suoi discorsi il legatore faceva spesso venire la mezzanotte. Esauriti gli sfoghi personali, si metteva a parlare di religione, di storia, di economia, eccetera, lasciandosi anche andare a frequenti, amare considerazioni - espresse tuttavia sottovoce, si capisce -, circa la politica anticattolica dei fascisti. Nei primi tempi, senza cessare di ascoltarlo, Lida muoveva con la punta del piede la culla dove Ireneo dormì fino all’età di quattro anni. Più tardi, quando fu cresciuto un poco di più ed ebbe un lettuccio tutto suo (cresceva gracile: verso i cinque anni venne colpito da una lunga malattia infettiva che, oltre a indebolirne in modo permanente la salute, influì senza dubbio sulla grave fiacchezza e incertezza del suo carattere), si alzava ogni tanto dalla seggiola e, avvicinatasi al bambino che dormiva, si chinava a posargli una mano sulla fronte.

     Abbiamo incontrato Giordano Bruno a Parigi nel 1582 quando è stato pubblicato il testo della commedia il Candelaio e il fatto che si trovava a Parigi ci fa pensare che, come lui aspirava a fare, abbia cominciato a viaggiare ma, particolare che lo avvicina al personaggio di Angelica, il verbo viaggiare si presenta per Giordano Bruno in relazione con il verbo scappare  perché è costretto, molto spesso sarà costretto ad allontanarsi repentinamente da un luogo: perché deve fuggire? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare indietro, all’anno 1576, per poter descrivere l’antefatto e il fatto che determina la sua prima fuga, quella che provoca un cambiamento nel suo stile di vita.

     Per poter imbastire la riflessione che vogliamo fare dobbiamo ancora una volta tornare, anche in questo viaggio sul tema relativo al concilio di Nicea del 325 [ma il primo concilio della cristianità, come sapete, ha continuato nei secoli e continua tuttora a far parlare di sé], e voi sapete che i Documenti di questo concilio, che contengono il cosiddetto Simbolo niceno, il Credo, presentano un paradosso: al concilio di Nicea [per volere dell’imperatore Costantino che lo ha organizzato e lo presiede, e il vescovo di Roma, il papa Silvestro, manda i suoi rappresentanti a Nicea ma non partecipa al concilio], viene affrontata la spinosa questione riguardante la natura di Gesù Cristo [in che modo Gesù Cristo è figlio di Dio?], una questione che viene risolta [per volere imperiale, Costantino lo pretende] con una formula di compromesso. Ma un tema di questa portata di carattere ultraterreno non può, alla luce stessa della fede, essere risolto con una formula, anche perché nei tre secoli precedenti le Chiese cristiane, disseminate sul territorio dell’Ecumene da Oriente a Occidente, hanno dato risposte diversificate sul tema della natura di Gesù [si è pensato che Gesù fosse o un rabbi ebraico quindi solo un uomo, o un essere superiore solo di natura divina, o un Uomo e un Dio contemporaneamente, o la parola di Dio che si è fatta carne, o carne di un essere umano che si è fatta parola di Dio, o la prima creatura angelica, o la metafora della sapienza di Dio, o il figlio di Dio per filiazione diretta, o il figlio adottivo di Dio ...e potremmo continuare a enumerare icone di Gesù Cristo]; tuttavia, nonostante questa pluralità di definizioni, le comunità cristiane sono rimaste in comunione tra loro perché il collante era dato, non dalla definizione sulla natura di Gesù, ma dal realizzare l’agape fraterna, dal perseguire l’amore solidale perché qualunque sia la natura di Gesù Cristo è questa, secondo la Letteratura dei Vangeli, la via che porta verso la salvezza [fare il Bene in nome di Gesù]. Il dettato del concilio di Nicea imposto da Costantino nel 325 ha fatto sì che si rompesse la comunione tra i vescovi e ha creato la disunione tra i fedeli con relativo intervento repressivo da parte dell’imperatore per imporre l’ortodossia [l’unità dell’impero]. Ma che cosa c’entra Giordano Bruno con questa questione? Procediamo con ordine partendo dall’antefatto: il concilio di Trento, come abbiamo già studiato due itinerari fa, sul tema della natura di Gesù ricalca e impone la formula di Nicea e chi non dichiara di credere a questa indiscutibile “verità” viene perseguito.

     Le varie fasi dei lavori del concilio di Trento [al quale abbiamo partecipato di ritorno dalla vacanza natalizia] si sono svolti durante la giovinezza di Giordano Bruno: il concilio di Trento inizia nel 1545 e Bruno nasce nel 1548, e quando questo importante avvenimento si conclude, il 30 giugno 1564, Bruno è un ragazzo che, entrato nell’ordine domenicano, sta iniziando a dedicarsi con passione allo studio, e tutti i suoi primi maestri, pur mantenendo un atteggiamento di grande prudenza, sono piuttosto critici nei confronti delle decisioni dottrinali che il concilio ha preso, secondo loro i decreti conciliari hanno dato più forza e più ordine alla religione [al culto, alla devozione, ai riti] ma non hanno dato un maggior impulso alla fede dei cristiani per farli “risalire al Vangelo” [in nome dell’uguaglianza, della giustizia, della pace, della solidarietà e della misericordia]: i cristiani si sono definitivamente divisi in cattolici e protestanti e in seno alla cristianità si coltiva l’inimicizia. Quando nel 1575 fra’ Giordano Bruno inizia a insegnare, i decreti del concilio di Trento sono in vigore da un decennio e Bruno lamenta il fatto che questo avvenimento si sia dimostrato fallimentare in quello che era il suo intento perché, sebbene sul piano disciplinare siano stati presi provvedimenti per la moralizzazione del clero, l’auspicata riforma della Chiesa si è trasformata in “una controriforma” che ha prodotto un pernicioso clima di paura nei confronti dell’Inquisizione. Invece di provocare l’apertura di un vivace dibattito, di far sviluppare una feconda discussione sui temi della dottrina in modo che i cristiani, afferma Bruno, prendano davvero coscienza di essere cristiani, il concilio ha prodotto decreti che impongono la credenza di dogmi formulati senza un confronto [ma in alternativa ai protestanti, anch’essi - afferma Bruno - non disposti a dibattere], tutto è avvenuto per diciotto anni senza un reale scambio di vedute e  senza un utile dibattimento che avrebbe dovuto coinvolgere tutti i credenti.

     A questo proposito il magister fra’ Giordano Bruno critica il fatto che, come primo provvedimento di carattere dottrinale, l’assemblea dei vescovi al concilio di Trento abbia riaffermato, come verità indiscutibile, il cosiddetto “Simbolo niceno” [la formula del concilio di Nicea del 325 sulla natura di Gesù Cristo, che viene definito «vero Dio e vero Uomo, generato e non creato, della stessa sostanza del Padre, omoousios»]: Bruno ritiene che il concilio di Trento non abbia colto l’occasione per “liberare”, afferma Bruno, il tema della natura di Gesù dal vincolo di una formula di compromesso voluta in modo autoritario dall’imperatore Costantino in nome della ragion di Stato e, quindi, la formula secondo Bruno è discutibile non indiscutibile.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Voi conoscete una formula [matematica, culinaria, magica, chimica ...] che, secondo voi, non può essere messa in discussione?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Questo è l’antefatto contenente il pensiero critico del magister fra’ Giordano Bruno sull’operato del concilio di Trento e questo suo parere sarebbe rimasto all’interno delle mura del convento di San Domenico Maggiore a Napoli se all’inizio dell’anno 1576 non fosse successo un fatto.

     All’inizio dell’anno 1576 viene ospitato nel convento di San Domenico Maggiore a Napoli l’autorevole frate domenicano Agostino da Montalcino il quale una sera, a cena, comincia a tessere le lodi di papa Gregorio XIII [il bolognese Ugo Boncompagni che ha regnato dal 1572 al 1585] per il modo con cui ha organizzato e gestito il Giubileo dell’anno precedente [del 1575], naturalmente Bruno, che non riesce a tacere, interviene nella conversazione ricordando che però a questo papa bisogna imputare il fatto di aver gioito [di aver cantato il Te Deum, celebrato funzioni di ringraziamento, allestito luminarie] quando è giunta a Roma la notizia che a Parigi, la notte tra il 23 e il 24 agosto del 1572, la notte di San Bartolomeo, su ordine del re Carlo IX e della regina madre Caterina de’ Medici, sono stati massacrati, per rappresaglia, circa tremila protestanti. Bruno sostiene che queste manifestazioni papali di giubilo per un massacro non possono essere approvate e non si può comprendere questo zelo sanguinario contro i seguaci della Riforma che sono pur sempre cristiani anche loro. Al che, piccato, fra’ Agostino da Montalcino risponde che questa è la giusta applicazione della controriforma, e fra’ Giordano Bruno ribatte che il compito del concilio di Trento era quello di ripristinare la comunione tra i cristiani non facendo lo stesso errore commesso a Nicea e, a questo punto, fra’ Giordano Bruno tiene una vera e propria Lezione su quello che chiama [così lo chiamavano i suoi maestri] “il paradosso di Nicea”. Il refettorio è gremito e la tensione diventa altissima. Giordano Bruno sa [perché è ferrato in materia] che la formula imposta da Costantino al concilio di Nicea nel 325 per definire la natura di Gesù Cristo è una sentenza ben costruita che è stata messa a punto dai rappresentati di papa Silvestro: da Osio, vescovo di Cordoba e dai presbiteri Vito e Vincenzo. Questi tre saggi agiscono in modo da compiacere l’imperatore e anche tutte le varie componenti dei vescovi presenti a Nicea. La formula che mettono a punto è un assioma che, dal IV secolo, noi pronunciamo recitando il Credo [e che conosciamo a memoria]: «Gesù Cristo è vero Dio e vero Uomo, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre», ebbene, questa proposizione è tanto un’efficace formula di compromesso quanto un’espressione filosofica di stampo aristotelico che ha una funzione di carattere rituale e anche istituzionale, perché Costantino, che ha appena riunificato l’impero romano e vuole evitare prossime divisioni, afferma che: “Bisogna credere in questa formula se si vuole essere a pieno titolo cittadini dell’impero”, quindi, per lui il concilio di Nicea è legato alla ragion di Stato. Ma a Nicea c’è una corrente che conserva una posizione alternativa e considera una forma grave di ipocrisia quella di risolvere il problema della natura di Gesù con una formula di compromesso: tanto vale che ogni Chiesa mantenga fede all’icona di Gesù che ha elaborato nel tempo e che ha ormai dato origine a una specifica tradizione di quella Chiesa, e tradizioni diverse possono stare benissimo in comunione tra loro.

     Il sostenitore di questa posizione si chiama Ario [256-336], è il vescovo di Alessandria, e in questa comunità cristiana si fa riferimento alla dottrina trinitaria formulata dal filosofo Origene, compagno di Plotino alla Scuola neoplatonica di Ammonio Sacca fino al 244. Secondo Ario - che al Concilio di Nicea difende con impeto le sue tesi sostenuto da ventidue vescovi - Gesù Cristo è “la prima creatura di Dio Padre” ed è, quindi, un “dio minore” rispetto al Padre, un “dio di seconda categoria” [come sostiene Origene rifacendosi anche al versetto 28 del capitolo 14 del Vangelo secondo Giovanni dove Gesù dice: «Il Padre è più grande di me»]: il Padre è il Dio potente [più grande] che adotta il Figlio che è un Dio più fragile. Ario sostiene la tesi che il “Padre” è Dio a pieno titolo mentre il “Figlio” è la prima delle sue creature e, quindi, secondo Ario, il Figlio non può essere della stessa sostanza del Padre [omoousios] ma può assomigliare al Padre [i figli non sono uguali ai padri ma gli assomigliano, sono simili], il “Figlio” deve secondo Ario essere definito “omoiousios” [dal termine “omòios” che significa “simile, somigliante”]. Bruno, mentre tiene la sua Lezione di fronte a fra’ Agostino da Montalcino sconcertato afferma che anche la formula di Origene ripresa da Ario ha una dignità intellettuale che va rispettata. Tra le due definizioni [omoousios, della stessa sostanza e omoiousios, somigliante] c’è la differenza di una sola “i” [un solo iota] e le due formule, sostiene Bruno di fronte a un  fra’ Agostino da Montalcino scandalizzato, potrebbero benissimo [filosoficamente] convivere in comunione  [è questa la volontà che manca alla Chiesa, afferma Bruno].

     Ario e i ventidue vescovi che sostengono la sua tesi non ci stanno ad accogliere il compromesso del “Simbolo niceno” voluto da Costantino perché lo ritengono una forzatura anacronistica e, di conseguenza, l’imperatore dà inizio alla repressione armata e, naturalmente, quelli che ormai si definiscono gli Ariani si difendono perché nella base hanno un buon seguito e inizia, e si diffonde, un violento conflitto religioso che dura a lungo, e la stessa cosa, afferma Bruno, sta succedendo in Europa dopo il concilio di Trento tra cattolici e protestanti: dilaga la guerra di religione.

     Dopo Nicea [dopo il 325] all’interno della cristianità non è mai cessato il dibattito su questo tema, e fra’ Giordano Bruno conclude ponendo a fra’ Agostino da Montalcino, ormai sull’orlo di una crisi di nervi, le due questioni fondamentali che il concilio di Trento avrebbe dovuto affrontare piuttosto che liquidare il problema con un dogma: siamo davvero in grado nel corso di questa vita terrena di definire la vera natura di Gesù se, ribadisce Bruno, la ragione umana ha solo la possibilità di fare delle ipotesi sulla realtà ultraterrena? Giordano Bruno dichiara che, frequentando la facoltà di Teologia, ha avuto modo di studiare i Documenti del concilio di Nicea e di prendere atto [e si domanda come mai i padri conciliari a Trento abbiano ignorato questo fatto] che Osio, Vito e Vincenzo hanno voluto puntualizzare che la questione della natura di Gesù non può essere risolta con una formula, per quanto esaustiva possa essere, perché lo strumento per eccellenza, di impronta teologica, è la fede, e questa affermazione l’hanno messa per iscritto alla fine del documento che contiene gli Atti del concilio di Nicea per ribadire che, al di là delle formule, la natura di Gesù Cristo rimane un mistero e, di conseguenza, se lo strumento per eccellenza è la fede, bisogna affermare che “la vera natura di Gesù Cristo è un mistero” [il suo reale rapporto con Dio]: è “un mistero della fede” [che ci verrà rivelato nella vita ultraterrena].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

C’è un mistero ultraterreno che vorreste conoscere?...

Scrivete quattro righe in proposito, Giordano Bruno c’invita a formulare delle ipotesi...

     Fra’ Agostino da Montalcino è indignato per le affermazioni di Bruno e il giorno dopo porge denuncia al padre provinciale fra’ Domenico Vita, e costui istituisce contro fra’ Giordano Bruno un processo per eresia e allora scrive Bruno: «dubitando di non esser messo in preggione, me partii da Napoli ed andai a Roma». Bruno, nell’inverno del 1576, raggiunse Roma e, a questo punto, iniziano le sue peregrinazioni e non è facile tenergli dietro: quali scelte è costretto a fare e quali idee comincia a partorire la sua mente vulcanica?

     Per rispondere a queste domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé, consapevoli del fatto che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare. Giordano Bruno sostiene con energia la necessità di fare sempre i conti con la Storia e l’opportunità di fare sempre i conti con la Memoria coltivando l’eroico furore per la conoscenza.

     Per questo la Scuola è qui, e il viaggio, parola per parola e idea per idea, continua…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 26, 2018