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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA SI RIFLETTE SULLA FORZA CENTRIFUGA CHE ALBERGA NELL’ANIMO UMANO ...

Lezione N.: 
10

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

La sapienza poetica e filosofica del ‘600 agli esordi della scienza      17-18-19  gennaio  2018

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA

SI RIFLETTE SULLA FORZA CENTRIFUGA CHE ALBERGA NELL’ANIMO UMANO ...

     Questo è il decimo itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età moderna agli esordi della scienza e la scorsa settimana, attraverso un percorso condotto nel tempo [dal 1545] e nello spazio, abbiamo partecipato al Concilio di Trento, un evento che si è concluso, dopo 18 anni, il 30 giugno 1564 con la bolla Benedictus Deus emanata da papa Paolo IV Carafa.

     Il Concilio di Trento è un grande avvenimento che risulta positivo sotto molti aspetti, per quanto riguarda l’architettura, l’arte figurativa, la musica, la letteratura e sotto la dicitura di “epoca della Controriforma” troviamo molte informazioni in proposito; purtroppo, come abbiamo già avuto occasione di dire, per ragioni più di carattere politico che religioso, il Sant’Uffizio intraprende un’energica azione repressiva nei confronti della libertà di pensiero, un’azione che ha finito per incidere negativamente sull’immagine della Chiesa romana fino ai giorni nostri, tuttavia la repressione non ha comunque impedito agli studiosi [già abbiamo incontrato il seppur prudente Bernardino Telesio] di continuare, nonostante la censura e le condanne, a investire tenacemente in intelligenza. Il Sant’Uffizio - istituzione potenziata nella sua struttura da papa Paolo IV Carafa - tiene sotto rigida sorveglianza i movimenti del pensiero.

     Come sappiamo, nel 1593 l’opera di Bernardino Telesio viene messa all’Indice [lui è già morto] mentre, un altro pensatore meridionale, Giordano Bruno, entra nelle prigioni del Sant’Uffizio e rimane sotto processo per sette anni: ne esce soltanto come sapete  per salire sul rogo nel Campo de’ Fiori a Roma, il 17 febbraio 1600.

     Il mondo di Bernardino Telesio è la tranquilla e periferica, sebbene molto frequentata Accademia di Cosenza, il mondo di Giordano Bruno è l’intera Europa, che percorre, sostando a Ginevra, a Parigi, a Londra, a Wittemberg, a Praga, a Francoforte, a Venezia [e, come vedremo, in molte altre città], sospinto da un impeto [e conosciamo questo termine: l’impetus] che lui chiama “l’eroico furore”. “L’eroico furore” [Giordano Bruno ha scritto un’opera intitolata De gl’heroici furori] è una passione conoscitiva [è un impetus, e questo termine, come abbiamo detto prima della vacanza, assume anche una valenza filosofica oltre che sul piano della fisica e della poesia] che non tollera di essere frenata da nessuna istituzione repressiva.

     Incontrare Giordano Bruno non è cosa facile proprio perché il suo pensiero è animato da una potenza straordinaria [un irrefrenabile impetus conoscitivo] e per poter entrare in dialogo con lui è necessario, da principio, chiarire in ragione propedeutica alcuni presupposti fondamentali, ma prima dobbiamo domandarci: chi è Giordano Bruno? 

     Sull’infanzia e sulla gioventù di Giordano Bruno siamo in possesso di interessanti notizie perché è lui stesso a fornirle durante gli interrogatori a cui viene sottoposto al tempo del processo che ha subito negli ultimi sette anni della sua vita. In molti dei verbali contenuti nel fascicolo depositato presso il tribunale del Sant’Uffizio di Roma [i verbali del processo contro Giordano Bruno sono pubblicati in un volume con il titolo di Le deposizioni] si legge: «Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni da Nola vicina a Napoli dodeci miglia, nato in questa città nell’anno 1548, e più precisamente nella contrada di San Giovanni del Cesco ai piedi del monte Cicala, unico figlio del militare, l’alfiere Giovanni, e di Fraulissa Savolina, e questo è quanto ho inteso dalli miei». Giordano Bruno, quindi, è nato a Nola, città che allora faceva parte del Regno di Napoli che, a sua volta, era compreso nella monarchia spagnola ed è per questo motivo che suo padre, un militare [con l’incarico di alfiere, portabandiera], lo fa battezzare col nome di Filippo in onore dell’erede al trono di Spagna, Filippo II.

     Giordano Bruno, nell’opera intitolata De immenso, un poema filosofico in latino pubblicato nel 1591 che rincontreremo fra qualche settimana in un altro contesto, ricorda con commozione e con nostalgia la sua casa [che oggi non esiste più], una casa modesta, scrive Bruno, ma che sembrava ricca «per il bell’ambiente che la circondava e per la buona aria proveniente dall’amenissimo monte Cicala». Poi Bruno ricorda le rovine del castello del XII secolo dove giocava con gli amici [scrive Bruno: «Si giocava per ore a rievocar la furia d’Orlando»] e ricorda i molti e ben tenuti ulivi della campagna nolana [chissà se qualche pianta di quegli ulivi è ancora viva oggi?], e poi ricorda che alla vista del Vesuvio [Nola è collocata ai margini della piana a nord del Vesuvio] pensava, insieme ai suoi compagni di giochi, che «oltre questa montagna non vi fosse più nulla nel mondo» ma non era convinto di questo e allora «ancora ragazzetto, scrive Bruno, ho deciso di andare in esplorazione fino a Napoli e ne ho tratto l’insegnamento che non bisogna basarsi esclusivamente sul giudizio dei sensi, come diceva il grande Aristotele, perché al di là di ogni apparente limite vi è sempre qualche cosa d’altro». Poi Bruno ricorda che sulla principale piazza di Nola c’era una statua di Augusto perché, quando il 19 agosto dell’anno 14 d.C. si diffonde su tutto il territorio dell’Ecumene conquistato dai Romani il luttuoso annuncio della sua morte, l’imperatore Augusto si trovava a Nola nella villa dei suoi avi dove era andato come ogni anno a trascorrere l’estate [feria Augusti], e Nola, scrive Bruno, era la più bella e opulenta città ellenistica della Campania felix, straordinariamente ricca di storia e di vestigia. Nola è stata fondata nel V secolo a.C. dal popolo degli Ausoni e si chiamava Hjria, poi è stata conquistata dai Sanniti, che l’hanno chiamata Novla [Città accogliente], ed è ben presto entrata in comunicazione con la polis greca di Neapolis [Città nuova, Napoli] della quale ha accolto gli usi e la cultura ellenica.

     Nel 79 a.C. Nola è diventata colonia romana e ha avuto un notevole sviluppo tanto che, in età ellenistica, la lunghezza del suo perimetro era più di cinque chilometri con dodici porte, due anfiteatri, molti templi e molte ville eleganti tra cui quella della famiglia di Augusto che, dopo la sua morte, viene trasformata in un tempio consacrato alla memoria dell’Imperatore [dove si celebra la Feria Augusti, il Ferragosto].

     La città di Nola è stata la sede episcopale [409-431] di San Paolino di Bordeaux [il poeta Meropio Ponzio Anicio nato a Bordeaux nel 354] al quale viene attribuita l’invenzione delle campane che nel Medioevo, in tutta Europa, vengono chiamate “nolae campanae” perché fuse e utilizzate per la prima volta a Nola in Campania.

     Si capisce che Giordano Bruno è molto orgoglioso di essere “un Nolano” e “il Nolano” è diventato anche il suo soprannome principale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In una guida della Campania e navigando in rete fate un’escursione a Nola dove ci sono molti monumenti e un bel Museo da visitare e, inoltre,  Nola è anche la città dei gigli: sapete per quale motivo e che cosa sono “i gigli di Nola”?  Tenete in esercizio la curiosità

     Come avviene la formazione culturale del bambino e del ragazzo Giordano Bruno? Sappiamo molto in proposito e Giordano Bruno ci tiene a sottolineare, di fronte agli inquisitori, il fatto che i suoi maestri operavano tutti, ligi all’ortodossia, all’interno dell’ampio circuito della cultura e della tradizione cristiana.

     Giordano Bruno riferisce [e troviamo queste notizie sui testi dei verbali degli interrogatori, Le deposizioni, e sul testo dell’opera De immenso] di aver imparato, da bambino, a leggere e a scrivere da un prete nolano, Giandomenico de Iannello che poi, constatata la sua volontà per lo studio, lo ha indirizzato alla Scuola di grammatica del maestro Bartolo di Aloia, il quale, a sua volta, vista la sua predisposizione all’apprendimento, lo ha incoraggiato a entrare nell’ordine domenicano, in modo che potesse proseguire gli studi. Infatti Bruno [che ancora si chiama Filippo], a 14 anni, fa richiesta per poter entrare nell’ordine domenicano presso il convento di San Domenico Maggiore a Napoli e, dopo il tirocinio iniziale che supera brillantemente, come vuole la regola, cambia nome e assume quello di Giordano in onore del Beato Giordano di Sassonia, il successore di San Domenico, e anche, scrive Bruno, del frate Giordano Crispo suo insegnante di metafisica, che lo ha affascinato con le sue Lezioni durante il tirocinio iniziale.

     Dal 1562 al 1565 il giovane novizio Giordano Bruno frequenta gli Studi superiori dell’Università di Napoli che ha la sua sede nel cortile del convento di San Domenico ed è gestita dai domenicani, e studia con profitto la letteratura, la logica e la dialettica con il maestro Giovan Vincenzo de Colle detto il Sarnese [perché nato a Sarno, in provincia di Salerno] il quale è un aristotelico di Scuola averroista che insegna a Giordano “il corretto utilizzo dei concetti”, e poi studia la logica [il corso avanzato] con il maestro Teofilo da Vairano, un monaco agostiniano che insegna “l’arte di argomentare e di ragionare secondo i dettami dell’Intelletto” per il quale Bruno ha avuto sempre una grande ammirazione [Giordano afferma che Teofilo è stato il suo più importante insegnante di Filosofia] tanto da farlo diventare il protagonista dei suoi dialoghi cosmologici, come vedremo a suo tempo.

     Vairano Patenòra è una cittadina di circa 6500 abitanti in provincia di Caserta posta nella valle del fiume Volturno [detta valle Patenaria] tra il massiccio del Matese e il parco regionale di Roccamonfina-Foce Garigliano. Tra i vari monumenti di Vairano, oltre all’imponente castello aragonese, alle turrite mura cittadine e alle varie chiese, si può visitare ciò che resta del convento di Sant’Agostino dove ha studiato Teofilo da Vairano. Nella frazione di Vairano Scalo, dove c’è la stazione ferroviaria, si trova l’edificio della Taverna della Catena dove, il 26 ottobre 1860, si ritiene sia avvenuto l’incontro di Teano [che è sulla strada] tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Inoltre, durante il fascismo, in questo edificio, la Taverna della Catena, è stato imprigionato per qualche tempo Antonio Gramsci e qui ha scritto un saggio sul pensiero di Giordano Bruno sul tema de “l’eroico furore”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Cogliete l’occasione [utilizzando una guida della Campania e navigando in rete] per far visita alla cittadina di Vairano Patenòra, buon viaggio...

     Giordano Bruno [e Giordano Bruno è una persona molto esigente sul piano intellettuale] ha sempre stimato tutti i suoi maestri e di queste figure ha messo in evidenza la cosa più importante: che erano delle straordinarie “teste pensanti” capaci di insegnare a “investire in intelligenza con sapienza”. Perché, afferma Bruno, si può anche usare l’intelligenza con furbizia, in modo scaltro, senza rispetto per i valori etici e questa modalità [investire in intelligenza con scaltrezza] procura danni [come scrivono Platone nel dialogo Repubblica e Aristotele ne l’Etica Nicomachea], quindi, afferma Bruno, “l’intelligenza va sempre coltivata con sapienza” seguendo la logica dell’etimologia del termine che deriva dal verbo latino “sapio” [avere sapore] e una cosa che “ha sapore”, che “si assapora con piacere”, è una cosa buona. Giordano Bruno riconosce di aver tratto profitto dal fatto che tutti i suoi primi maestri gli abbiamo insegnato a “investire in intelligenza con sapienza” facendogli sentire il buon sapore che ha l’imparare: il gusto dell’Eros [tanto per evocare Platone].

     Il 16 giugno 1566 Giordano Bruno, all’età di diciotto anni, e a due anni dalla chiusura del concilio di Trento, prende l’abito di frate domenicano, e trent’anni dopo, durante gli interrogatori davanti al tribunale dell’Inquisizione, afferma, con grande coerenza e sincerità, che la scelta d’indossare l’abito domenicano, verso la quale era stato indirizzato dai suoi maestri, non era derivata in lui da un interesse per la vita religiosa o da sentimenti di carattere devozionale ma aveva preso questa decisione per potersi dedicare agli studi di Filosofia usufruendo del vantaggio che gli garantiva l’appartenenza a questo Ordine potente e influente; ma Bruno riferisce anche di essere stato [finché ha portato l’abito domenicano] uno dei monaci [e parla di una minoranza] fedele alla regola perché, dichiara Bruno, non bisogna pensare che un convento fosse esclusivamente un’oasi di pace e di meditazione di spiriti eletti ma era piuttosto, scrive Bruno “un ricettacolo di infiltrati senza alcuna vocazione” e, soltanto dal 1567 al 1570, sono state emesse, afferma Bruno, nei confronti dei frati di San Domenico Maggiore a Napoli diciotto sentenze di condanna per scandali sessuali, furti e perfino omicidi; e non deve pertanto stupire, dichiara Bruno, che io abbia sempre manifestato il mio disprezzo nei confronti della maggioranza dei frati ai quali ho continuamente rimproverato, in particolare, la mancanza di cultura, proprio per il fatto che nel convento di san Domenico Maggiore, afferma Bruno, famoso per la ricchezza della sua biblioteca, non mancava certo, così come in tutti gli altri conventi, la possibilità di studiare, e «dico che, ribadisce Bruno ad esempio, sebbene i Libri di Erasmo da Rotterdam fossero vietati io ho potuto leggerli tutti e trarne giovamento  standomene in una biblioteca deserta e incontrollata a differenza del refettorio, perché agli altri frati, a differenza di me, era più gradito il riempirsi la pancia piuttosto che arricchire la mente».

     L’esperienza conventuale di Giordano Bruno [secondo la sua testimonianza] è stata in ogni caso decisiva perché in convento attiguo all’Università ha potuto compiere i suoi studi guidato da buoni maestri, e ha avuto modo d’incrementare la sua cultura leggendo molti Libri e, più volte, nel corso delle sue deposizioni, fa l’elenco della sue letture: «Nella ricca biblioteca del convento di san Domenico Maggiore [afferma Bruno] ho letto le Opere di Platone, di Aristotele, di Plotino, di Ermete Trismegisto, di Gerolamo, di Giovanni Crisostomo, di Averroè, di Duns Scoto, di Tommaso d’Aquino, di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola, di Nicola Cusano, di Erasmo da Rotterdam e di Raimondo Lullo».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Dalla lettura di quali opere avete tratto vantaggio per la vostra formazione intellettuale? ...

Componete un elenco per iscritto...   

     Nella ricca biblioteca del convento di san Domenico Maggiore dove passa gran parte della sua giornata, il giovane fra’ Giordano Bruno scopre, in particolare, la figura e l’opera di Raimondo Lullo [un personaggio che abbiamo incontrato più volte, e nel corso del viaggio di due anni fa abbiamo anche letto il Libro dell’Amico e l’Amato di Raimondo Lullo].

     Giordano Bruno, nella ben fornita biblioteca del convento di san Domenico Maggiore a Napoli, legge le opere di Raimondo Lullo [nato a Palma di Maiorca, la maggiore delle isole Baleari, tra il 1232 e il 1235, in pieno Medioevo] e scopre che questo singolare personaggio, come abbiamo appreso anche noi a suo tempo, è il principale cultore della “forza centrifuga che alberga per natura nell’animo umano” e che anche Bruno comincia a sentir emergere nel proprio animo: che cos’è “la forza centrifuga” che per natura alberga nell’animo umano? È, prima di tutto, il desiderio di non rimanere chiusi nel proprio ambito [prigionieri della forza centripeta] ma di spaziare [sulle ali della forza centrifuga] sul territorio dell’Ecumene e, difatti, Bruno si compiace del fatto che questo personaggio [e vorrebbe poter assomigliare a lui sul terreno della mobilità] abbia avuto molti passaporti: uno catalano col nome di Rámon Llull, uno castigliano col nome di Raimundo Lulio, mentre per il mondo latino, fuori dalla penisola Iberica, è Raimundus Lullus. Bruno ne rimane affascinato e legge avidamente le sue opere conservate nella ricca biblioteca del suo convento, a cominciare dall’autobiografia intitolata Il libro di Blanquerna [una figura allegorica in cui l’autore s’identifica], che si presenta come un romanzo autobiografico dove Lullo racconta la storia di un cavaliere errante che passa da una vita avventurosa, tipica della cavalleria dell’epoca medioevale, a una vita mistica tutta dedicata alla riflessione filosofica e a coltivare lo spirito di solidarietà [abbiamo detto a suo tempo che questo Libro piaceva molto a Miguel de Cervantes e che il personaggio di Don Chisciotte è anche un po’ figlio di Lullo].

     Giordano Bruno si compiace del fatto che Raimondo Lullo possieda una curiosità smisurata [perché è un impetus che anche lui sente e che, come abbiamo detto, Bruno chiama “eroico furore”] ed è impressionato dal fatto che abbia scritto testi [120 Libri] sui più svariati argomenti: di poesia, di logica, di astronomia, di medicina, di matematica, di geometria, di pedagogia, di filosofia. Bruno, leggendo l’opera di Lullo, lo segue con la mente a Parigi, a Tunisi, a Montpellier, a Barcellona, a Valenza, a Cipro, in Terra Santa, in Armenia e scopre che è stato molte volte anche a Napoli e Bruno comincia ad aver voglia di viaggiare, e capisce che nella riflessione di Raimondo Lullo c’è la ricerca di un pensiero che sia autonomo da ogni singola ideologia particolare [ripiegata sulla centralità] per favorire la nascita di una verità [di una morale] che sia davvero “universale” secondo le regole della Ragione che sono “regole universali”.

     Raimondo Lullo, durante il periodo della Scolastica, all’inizio del Trecento, contesta il fatto [e Bruno condivide il suo pensiero] che i cristiani, gli islamici, gli ebrei, i laici hanno affrontato il tema del rapporto tra la Fede e la Ragione per conto proprio chiusi nei loro apparati, mentre Lullo sente l’esigenza [e Bruno condivide questa idea che è di grande attualità ancora oggi] di “universalizzare” l’argomento e definisce questo suo pensiero, che il giovane Bruno fa proprio, con due termini greci “katolicos” [universale] e “ethos” [stile di vita]: Bruno condivide l’idea che le cittadine e i cittadini del mondo, per quanto riguarda i valori morali fondamentali [l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia], abbiano “uno stile di vita cosmopolita, ecumenico, planetario”. Il fascino che Raimondo Lullo ha esercitato su Giordano Bruno [e su molti altri pensatori nei secoli successivi] dipende dal fatto che è stato il primo “a parlare di teologia e di filosofia” con un linguaggio internazionale che va oltre i confini del greco, del latino e dell’arabo, è stato il primo grande viaggiatore culturale dell’Europa e il primo intellettuale “enciclopedico post-medioevale” e, per gli aspetti della sua personalità e della sua vita, è stato il prototipo dell’umanista moderno: una figura che sa di poter dare “un centro alla forza centrifuga”, e il giovane Giordano Bruno sente il bisogno di seguire questa via.

     Il giovane Giordano Bruno comprende che il percorso intellettuale di Raimondo Lullo è esemplare [emblematico di una nuova mentalità]: non si tratta più di un individuo che entra da bambino in un convento cristiano o in una madrasa araba o in una sinagoga ebraica e segue, in un contesto centralizzato, un corso di studi ben definito, perché Lullo è un laico adulto che fa una scelta consapevole dopo aver preso atto dei propri limiti intellettuali [dopo aver capito di sapere di non sapere, sebbene non sia una persona illetterata], e vuole seguire, pur rimanendo fermamente legato alla fede cristiana, un piano di studi di carattere ecumenico, e Giordano Bruno sente il bisogno di seguire questa stessa via.

     C’è poi un altro tema che Bruno mutua dalla lettura delle opere di Lullo: quello dell’Arte della memoria e, difatti, Giordano Bruno inizia fin da giovane a dedicarsi allo studio dell’Arte della memoria secondo i dettami che Raimondo Lullo mette in evidenza nella sua opera più famosa intitolata Ars generalis [Arte generale o Grande Arte] in cui prescrive di ordinare la memoria come se la nostra mente fosse un edificio [il palazzo della memoria] nelle cui stanze vengono collocati molti mobili, e nei cassetti dei mobili vengono custodite, come se fossero oggetti, le idee. In questo modo - se messe bene in ordine nel palazzo della memoria - le idee possono essere conservate e ricordate. Nel palazzo della memoria dobbiamo imparare [la memoria va esercitata] a muoverci con la fantasia allo stesso modo in cui noi siamo in grado di muoverci, con l’immaginazione, nell’appartamento in cui viviamo e dove sappiamo di aver messo le cose. Naturalmente, per raggiungere questo obiettivo, bisogna esercitarsi come è necessario esercitarsi in tutte le Arti per ottenere dei risultati. Lullo coltiva “la mnemotecnica” perché la memoria diventi uno strumento in funzione della realizzazione di “un’Arte generale del ragionamento”.

     Raimondo Lullo ha composto l’opera intitolata Ars generalis [Arte generale o Grande Arte] dal 1303 al 1308 e in questo trattato - che Bruno studia con passione - codifica dettagliatamente il suo progetto per la creazione di una “logica universale”, cioè di “un’Arte del ragionamento” che si possa applicare a ogni forma del sapere, un’Arte con la quale si possa misurare ogni segmento dello scibile umano. A questo proposito, la fama di Lullo ha attraversato i secoli perché questa sua intenzione ha sempre rappresentato un sogno da realizzare nella Storia del Pensiero Umano [ora ne parliamo con Giordano Bruno ma ne riparleremo a suo tempo con Cartesio e con Leibniz, tanto per fare due nomi, che hanno fatto tesoro del pensiero di Lullo e anche di quello di Bruno].

     Lullo, per dare forma al suo progetto [l’Ars magna, la Grande Arte], inventa una grande “tabella” [un catalogo delle Idee fondamentali] che lui chiama “la macchina del sillogismo” [lo strumento del ragionamento, una macchina che elabora le idee che ci mettiamo dentro per produrre idee nuove] alla quale dà il nome latino di “Arbor scientiae” [l’Albero della scienza]. Questa “tavola generale delle idee” [una sorta di computer ante litteram, e anche Bruno, sulla scia di Lullo, diventa un compositore di tavole simboliche] contiene 18 principi-base, nove in relazione con ciò che è divino [la bontà, la grandezza, l’eternità, la potenza, la saggezza, la volontà, la virtù, la verità, la magnificenza] e nove in relazione ai rapporti umani [il movimento, la causa, la contingenza, la completezza, l’armonia, l’essenza, l’energia, l’azione, la necessità]; a ognuno di questi principi, a sua volta, sono associate 9 idee-chiave che li riguardano per un totale di 180 elementi, e, secondo Lullo, i problemi che l’Intelletto deve affrontare sul cammino della ricerca della verità possono essere trattati e risolti attraverso “il gioco delle combinazioni” attuando delle manovre [delle mosse ingegnose, in chiave algebrica] perché “la macchina del sillogismo” è come se fosse una grande scacchiera. Il gioco delle combinazioni, che avviene dentro “la macchina del sillogismo” [nell’Albero della scienza], è una forma di tecnicismo teoretico applicabile soprattutto, sostiene Lullo, alla Teologia, che cura l’anima, e alla Medicina, che cura il corpo.

     Nel 1587 e nel 1588 Giordano Bruno in piena maturità scrive due opere di commento intitolate Sull’arte combinatoria di Raimondo Lullo nelle quali ne esalta il pensiero ma mette anche in evidenza la difficoltà di far funzionare “la macchina del sillogismo”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

E a proposito di memoria… Quante poesie sapete a memoria?...  Fate l’elenco: ricordate quando le avete studiate...    

Scrivete quattro righe in proposito...

     Il primo viaggio fra’ Giordano Bruno lo ha fatto nel 1569 per andare a Roma in visita al papa Pio V che, essendo un domenicano, viene omaggiato a turno dai rappresentanti dei molti conventi domenicani che ci sono in Italia e nel mondo.

     Essendo uno dei frati più meritevoli, fra’ Giordano Bruno, nel 1569, viene scelto per far parte della delegazione del convento napoletano di san Domenico Maggiore in visita al pontefice Pio V che è l’alessandrino [nato a Bosco Marengo nel 1504] Antonio Michele Ghislieri, un domenicano di umili origini, dalla condotta irreprensibile, fautore della religione dell’innocenza, dell’umiltà e della pietà [per questo è stato fatto santo da Clemente XI nel maggio 1712], ma Pio V è stato anche [e questa è una contraddizione che riguarda quasi tutti i papi della Controriforma] un intransigente persecutore che partecipa a tutte le sessioni del tribunale dell’Inquisizione di cui, prima di essere eletto papa, è stato commissario generale, e qualche settimana prima del suo incontro con i rappresentanti della delegazione del convento napoletano di san Domenico Maggiore il tribunale dell’Inquisizione aveva mandato al rogo insieme ad altri il poeta latino Antonio Paleario sospettato di essere Pasquino e di aver scritto questi versi: «Quasi che fosse inverno, | brucia cristiani Pio siccome legna, | per avvezzarsi al fuoco dell’inferno», e fra’ Giordano Bruno, inginocchiato di fronte al papa che lo benedice, non pensava certo che, trent’anni dopo, sotto il pontificato di un altro papa molto moralista ma poco clemente, avrebbe fatto la stessa fine.

     In questa occasione fra’ Giordano incontra anche il cardinale Scipione Rebiba [non sappiamo se lo conoscesse già, ma è probabile] che, qualche anno prima, era stato al governo della diocesi di Napoli e vuole essere messo al corrente sull’Arte mnemonica perché sa che questo giovane frate è un esperto in materia e ascolta con grande interesse la Lezione che fra’ Giordano Bruno impartisce a lui e a un piccolo gruppo di suoi amici. Il cardinale tributa grandi lodi a fra’ Giordano e gli regala un libro in una preziosa edizione del 1525: la Naturalis historia [Osservazione della natura] di Plinio il Vecchio [un trattato in 37 libri - oggi diremmo capitoli - pubblicato nell’anno 78] che Bruno, al ritorno a Napoli, dopo averlo letto con grande interesse lo dona alla biblioteca del convento. Il cardinale Scipione Rebiba [uno degli ecclesiastici più illuminati di questo periodo] è nato nel 1504 a San Marco d’Alunzio in provincia di Messina [e sappiamo che la Sicilia è una terra culturalmente all’avanguardia in età rinascimentale] dove governa la famiglia Filingeri o Filangieri, di origine normanna, che favorisce lo sviluppo economico e culturale di questo bel paese [anche a San Marco d’Alunzio viene fondata un’Accademia neoplatonica, punto d’incontro di molti studiosi], e la madre del cardinale Rebiba, Antonia Lucia, è una Filingeri [o Filangieri].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida della Sicilia e navigando in rete fate una visita a San Marco d’Alunzio in provincia di Messina situato sulla sommità del Monte Castro di fronte alla costa tirrenica [alle isole Eolie] e con alle spalle la catena dei Monti Nebrodi [siamo nel Parco dei Nebrodi]…

Andate a scoprire perché questo paese [citato a suo tempo da Cicerone nella Orazione contro Verre e da Plinio il Vecchio nella Naturalis historia] fa parte del circuito dei borghi più belli d’Italia, buon viaggio… 

     Fra’ Giordano Bruno viene pubblicamente lodato dal priore di san Domenico Maggiore, padre Ambrogio Pasca, per aver ben rappresentato il convento nell’udienza vaticana. Giordano Bruno nel 1570 viene ordinato suddiacono, diacono nel 1571 e, nel 1572, [secondo i dettami del concilio di Trento] s’iscrive alla facoltà di Teologia e nel 1573 [prima ancora di concludere gli studi teologici] viene ordinato sacerdote [di questo passo volendo avrebbe fatto carriera].

     Nel 1575 si laurea in Teologia con due tesi [una su Tommaso d’Aquino e l’altra su Pietro Lombardo] e, soprattutto [che è quello a cui lui aspira] riceve l’abilitazione per insegnare [acquisisce il magistero] e, quindi, ritiene di dover iniziare a esprimere il suo pensiero: da dove inizia a riflettere, e quali sono le conseguenze della manifestazione delle proprie idee? A queste domande risponderemo nel prossimo itinerario, ora dobbiamo approfondire due situazioni [questa sera analizziamo la prima] relative all’esperienza del giovane Giordano Bruno.

     La prima situazione è in relazione ai giochi dei bambini nolani della metà del ‘500, scrive Bruno nell’opera intitolata De immenso: «Tra le rovine del castello del XII secolo si giocava per ore a rievocar la furia d’Orlando». Veniamo a sapere che le bambine e i bambini nolani della metà del ‘500 giocavano “all’Orlando furioso” e questa citazione ci permette di tornare a puntare l’attenzione sul poema dell’Ariosto e, per prima cosa, noi ci chiediamo: come facevano le bambine e i bambini nolani a conoscere il contenuto del poema dell’Ariosto del quale noi abbiamo letto appena [si fa per dire, appena] il I canto?

     I due grandi poemi cavallereschi titolati col nome d’Orlando Innamorato del Boiardo e l’Orlando Furioso dell’Ariosto, agli albori dell’età moderna, fanno parte dell’immaginario collettivo, l’uno, l’Innamorato, da più di sessant’anni, e l’altro, il Furioso, da più di quaranta, e il motivo per cui gli episodi di queste opere [e un gran numero di ottave] sono diventati molto popolari è dipeso, soprattutto, dall’uso virtuoso che ne hanno fatto le molte compagnie di cantastorie e di teatranti di strada e, di conseguenza, le bambine e i bambini nolani della metà del ‘500 [tra loro c’è anche Giordano Bruno] - come la maggior parte delle bambine e dei bambini europei - “le furie di Orlando e le fughe di Angelica” le vedevano rappresentare e le sentivano recitare in piazza [A proposito di teatro. Il mese scorso è venuta a mancare Laura, che chiamavamo confidenzialmente Laurina. E la sua partecipazione, venticinquennale, all’esperienza scolastica è stata costantemente accompagnata dall’attività teatrale e, quindi, insieme alle altre persone - Arnaldo, Valdemaro, Alberta, Paolo - che ultimamente ci hanno lasciato, Laurina, sulla scia di questo argomento a lei convenzionale, continua a viaggiare insieme a noi].

     Il fenomeno dei cantastorie e dei teatranti di strada [che si è sviluppato soprattutto con l’esperienza dei trovatori provenzali durante e dopo la crociata contro i Catari]  ha attraversato tutto il periodo medioevale e non sempre è stato tollerato dalle autorità e spesso ha subito forme di persecuzione ma, durante il Rinascimento, le compagnie di teatro itineranti sono aumentate in tutta Europa perché richieste dalle varie corti [i signori si vogliono divertire con spettacoli comico-giocosi] e poi hanno ricevuto un impulso anche dall’Enciclica Sul Santissimo Sacramento di papa Giulio II del 1505 che, tra le altre cose, invita a rappresentare teatralmente sulle piazze [e non solo in tempo di quaresima] la Passione di Gesù in lingua volgare [in modo che tutti possano capire] rifacendosi ai testi della Letteratura dei Vangeli; e quindi le compagnie di teatranti si adeguano volentieri e si muovono proponendo un programma religioso di carattere sacro e devoto [e questo è un fatto che aveva un precedente in età medioevale] che apre loro [con l’imprimatur della Chiesa, anche di quella controriformista] spazi più ampi per le loro rappresentazioni perché naturalmente non rinunciano, insieme alle Passioni, a presentare anche un repertorio profano, però, per evitare la censura, con delle recite, considerate più impegnate sotto il profilo letterario [rispetto a canovacci ridanciani che stonano con la messa in scena delle Passioni], e a questo scopo si prestano i testi [che hanno un’impronta colta] dei due poemi cavallereschi in voga ormai da anni che hanno come protagonista Orlando, Innamorato secondo il Boiardo e Furioso secondo l’Ariosto. In particolare [ci dicono le studiose e gli studiosi di Storia del Teatro] ad essere rappresentato dalle compagnie di teatranti di strada come se fosse una vera e propria commedia è il canto I dell’Orlando furioso [che noi abbiamo letto] perché costituisce “una sintesi lirica del poema” nel quale vengono citati tutti i temi e i motivi principali dell’opera a partire dal tema della “fuga” che fa di Angelica la vera protagonista del poema; a quello delle “armi”, rappresentato nei due, seppur brevi, duelli; al tema delle “cortesie”, con Rinaldo e Ferraù i quali, sebbene diversi e nemici tra loro, cavalcano in accordo sullo stesso destriero; al tema delle “meraviglie” e del “favoloso” che si presenta con l’apparizione in chiave etica dell’ombra di Argalìa; e il motivo “idillico” della natura amena che vive secondo regole proprie, e quello “romanzesco” della foresta che fa da sfondo a tutti gli avventurosi incontri dei cavalieri; e poi il tema della “bellezza” impersonato da Angelica, e della “forza dell’Amore” a cui tutti soggiacciono, e della “Fortuna” che regola, con il suo volere irrazionale, le sorti delle persone. Ebbene, tutti questi elementi si trovano già nel canto I dell’Orlando furioso e in più, come abbiamo studiato all’inizio di questo viaggio, c’è il tema della “Lingua”, una Lingua moderna e popolare che mescola insieme, a regola d’arte per quanto riguarda la grammatica e la sintassi vari elementi: il patetico, il commosso, l’aulico, il letterario, senza rinunciare all’ironia, alla satira, allo scherzo e alla battuta proverbiale. E i versi, infine, non suonano mai in modo drammatico e ridondante ma tendono sempre a seguire un’onda musicale e fluente, sulla scia di una narrazione inarrestabile che non si attenua ma non straripa mai.

     La Scuola vi invita a continuare la lettura dell’Orlando furioso e, a questo proposito, potete usufruire della consulenza di Italo Calvino il quale ha sempre dichiarato che l’Ariosto è il suo poeta preferito e, quindi, si propone come guida alla lettura dell’Orlando furioso, non di tutto il poema ma di una consistente parte di brani.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In biblioteca trovate il volume intitolato Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino: utilizzatelo, si legge quasi [perché è un saggio] come un romanzo...

     Ora, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo cambiare registro anche se l’Orlando furioso continua a essere un punto di riferimento sebbene in modo non convenzionale: che cosa significa? Ce lo spiega Giorgio Bassani che nei nostri viaggi abbiamo incontrato più di una volta: quando abbiamo letto il suo romanzo intitolato Il giardino dei Finzi-Contini e quando abbiamo letto Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa perché lui ne ha curato l’edizione.

     Giorgio Bassani è nato a Bologna nel 1916 [è morto a Roma nel 2000] in una famiglia ebrea ferrarese, e difatti sarà sempre legato affettivamente a Ferrara, la città dell’Ariosto. A Bologna Bassani studia e cresce culturalmente acquisendo una formazione laica che s’ispira a “il liberalismo antifascista” di Pietro Gobetti. Nel 1938 la famiglia Bassani subisce le Leggi razziali e Giorgio, che si è laureato nel 1939 discutendo una tesi su Niccolò Tommaseo, deve pubblicare il suo primo libro intitolato Una città di pianura [1940] con lo pseudonimo di Giacomo Marchi. Nel 1942 ha inizio l’attività clandestina di Bassani nella Resistenza. Nel 1943 viene arrestato ma riesce a scappare e da Bologna si trasferisce a Firenze dove opera nell’organizzazione “Giustizia e Libertà”. Intanto tutti i suoi parenti ferraresi finiscono nel campo di sterminio di Buchenwald, e questo evento traumatico ispira la sua produzione letteraria. Dopo la Liberazione si trasferisce a Roma, fa diversi mestieri [lo sceneggiatore cinematografico e perfino l’attore], è redattore di due importanti riviste letterarie, Botteghe Oscure, diretta da Roberto Longhi, e Paragone , diretta da Anna Banti, si dedica al giornalismo e alla consulenza editoriale e a lui si deve [su mandato della casa editrice Feltrinelli] la scoperta e la pubblicazione nel 1958 de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

     La produzione di Giorgio Bassani come scrittore è molto vasta e comprende raccolte di poesia, saggi e, in particolare, racconti e romanzi brevi: con il titolo Il romanzo di Ferrara lo scrittore nel 1974 ha raccolto in un’opera unica tutti i romanzi e i racconti che sono ambientati a Ferrara e che vedono nel bene e nel male come protagonisti i personaggi della comunità ebraica che erano perfettamente inseriti, da secoli, in questa bellissima città. De Il romanzo di Ferrara fanno parte: Gli occhiali d’oro [1958], Il giardino dei Finzi-Contini [1962], Dietro la porta [1964], L’airone [1968], L’odore del fieno [1972], Dentro le mura [1973] e le Cinque storie ferraresi [1956].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

I romanzi di Giorgio Bassani sono in biblioteca, richiedeteli e leggetene qualche pagina

     Adesso puntiamo l’attenzione sulla raccolta intitolata Cinque storie ferraresi per la quale Giorgio Bassani nel 1956 ha ricevuto il premio Strega, e quella sera, dopo la proclamazione al Ninfeo di Valle Giulia, quando l’autore è stato invitato a ritirare il premio, la madrina, la signora Maria Bellonci ha detto che questo riconoscimento era anche un omaggio alla città di Ferrara che in quegli stessi giorni stava celebrando, con un convegno [che anche Bassani aveva partecipato a organizzare], i quattrocento quarant’anni [1516-1956] dalla pubblicazione dell’Orlando furioso e la madrina ha domandato allo scrittore se c’era un nesso, e Bassani ha risposto: «C’è un nesso nel senso che i personaggi e le situazioni di questi miei racconti rappresentano l’altra faccia della medaglia rispetto al poema dell’Ariosto e Lida Mantovani è una Angelica reale che vive le stesse tensioni dell’Angelica poetica ma non fugge e Oreste Benetti è un Orlando che sceglie di privilegiare le cortesie rispetto a tutto il resto e non sarà mai un furioso». Lida Mantovani e Oreste Benetti [chi sono?] sono i protagonisti della prima delle Cinque storie ferraresi della quale stiamo per iniziare la lettura.

     Lida Mantovani è una ragazza che ha appena partorito un bambino di nome Ireneo, e quando, di lì a poco, capisce che il padre, David, se ne è andato abbandonandola per sempre, Lida lascia la stanza nella quale ha vissuto con lui per tornare dalla madre Maria, che abita in via Salinguerra, vicino alle mura di Ferrara. Dopo qualche anno un uomo un po’ più anziano di Lida, un vicino di casa che di mestiere fa il rilegatore, Oreste Benetti, prende l’abitudine di recarsi ogni sera alla stessa ora in visita alle due donne, conversando con loro con grande gentilezza e cortesia. Che intenzioni ha? Iniziamo a leggere.

LEGERE MULTUM….

Giorgio Bassani,  Cinque storie ferraresi   Dentro le mura

LIDA MANTOVANI

Riandando agli anni lontani della giovinezza, sempre, finché visse, Lida Mantovani ricordò con emozione l’evento del parto, e, in ispecie, i giorni che l’avevano immediatamente preceduto. Ogni qualvolta ci ripensava, si commuoveva.

Per oltre un mese era vissuta stesa su un letto, in fondo a un corridoio, e per tutto quel tempo non aveva fatto altro che fissare attraverso la finestra di contro, in genere spalancata, le foglie della grande magnolia secolare che sorgeva giusto nel mezzo del giardino sottostante. Poi, verso la fine, tre o quattro giorni prima che le cominciassero i dolori, d’un tratto aveva perduto interesse anche per le foglie nere e lustre, come unte, della magnolia. Aveva smesso perfino di mangiare. Una cosa, ecco quello che si era ridotta a essere: una specie di cosa molto gonfia e insensibile (sebbene fosse soltanto aprile, faceva già caldo), abbandonata laggiù, al termine di una corsia d’ospedale. Non mangiava quasi più niente. Ma il professor Bargellesi, allora direttore-primario della Maternità, ripeteva che era meglio così.

La osservava dai piedi del letto. Fa proprio caldo, diceva, lisciandosi con quelle sue dita fragili e arrossate il barbone bianco, macchiato di nicotina attorno alla bocca. Se vuoi respirare come si deve, è meglio che ti tieni leggera. E del resto, aggiungeva sorridendo, del resto mi pare che sei grassa abbastanza …”.

Dopo il parto il tempo riprese a passare. Da principio pensando a David (annoiato, scontento, non le parlava quasi mai: rimaneva a letto giornate intere la faccia nascosta dietro un libro oppure dormendo), Lida Mantovani cercò di tirare avanti da sola nella camera ammobiliata del Palazzone di via Mortara dove era vissuta insieme con lui durante gli ultimi sei mesi. Ma poi, di lì a qualche settimana convinta ormai che David non avrebbe più dato notizie di sé, accorgendosi che le poche centinaia di lire che lui le aveva lasciato erano per finire, e siccome, oltre a ciò, il latte accennava a mancarle, si risolse a tornare a casa dalla madre. Fu dunque così che nell’estate di quello stesso anno Lida ricomparve in via Salinguerra, ricominciando ad abitare la stanzaccia dal pavimento di legno polveroso e dai due letti di ferro affiancati in cui aveva trascorso l’infanzia, l’adolescenza, e la prima giovinezza.

Sebbene si trattasse di uno scantinato un tempo adibito a legnaia, accedervi non risultava facile. Una volta penetrati nell’androne d’ingresso, vasto e buio come un fienile, bisognava arrampicarsi su per una scaletta che tagliava obliqua la parete di sinistra. La scaletta conduceva ad una porticina a mezza altezza, superata la soglia della quale ci si trovava a sfiorare col capo un soffitto a travicelli, affacciati di colpo sopra una specie di pozzo. Dio che malinconia si era detta Lida, la sera del suo ritorno, indugiando un attimo, di lassù, a guardare in basso; ma però che senso di pace e di protezione, anche Col bambino in collo aveva fatto adagio adagio in discesa i gradini della scala interna, si era diretta verso la madre che intanto aveva alzato il volto dal cucito, infine si era chinata a baciarla su una guancia. E il bacio, senza che tra loro corresse una sola parola, né di saluto né di commento, le era stato tranquillamente restituito.

Si era presentato quasi subito il problema del battesimo. Non appena resasi conto della situazione, la madre si era segnata. Sei matta? esclamò.

Mentre la madre parlava, proclamando agitata che non c’era un minuto da perdere, Lida sentiva affievolirsi dentro se stessa qualsiasi forza di resisterle. Alla Maternità, quando le erano venuti attorno al letto per prendere il bambino, e le chiedevano festosi che nome intendesse dargli, era stata l’idea improvvisa di non fare niente contro David a imporle di rispondere no, la lasciassero stare, desiderava pensarci sopra un altro poco. Ma adesso, perché mai avrebbe dovuto continuare a farsi degli scrupoli? A che pro avrebbe aspettato ancora? Quella sera medesima il bambino venne portato a Santa Maria in Vado. Fu la madre a combinare tutto, fu lei, in memoria di un fratello morto di cui Lida non aveva mai saputo l’esistenza, a pretendere che si chiamasse Ireneo Recandosi in chiesa, madre e figlia avevano camminato in fretta, come inseguite. Tornarono invece adagio lungo via Borgo di Sotto, dove il gasista del Comune stava accendendo ad uno ad uno i lampioni stradali, svuotate a un tratto di ogni energia.

L’indomani mattina ricominciarono a lavorare. Sedute come una volta, come sempre, sotto la finestra rettangolare che si apriva là in alto, a livello della strada, le fronti chine sul cucito, piuttosto che del periodo di tempo che avevano testé attraversato, per tutte e due talmente amaro, preferivano discorrere, quando capitava, di cose indifferenti. Si sentivano molto più legate di prima, molto più amiche. Entrambe tuttavia comprendevano che il loro accordo poteva durare soltanto così: a patto che avessero evitato qualsiasi accenno all’unico argomento su cui si fondava.

Talvolta, comunque, incapace di resistere. Maria Mantovani azzardava uno scherzo, un’allusione velata. Arrivava a dire sospirando: Eh, gli uomini sono tutti uguali!.

O perfino: L’uomo è cacciatore, si sa. A questo punto, rialzato il capo, si incantava a guardare la figlia. E ricordando contemporaneamente il fabbro di Massa Fiscaglia che venti anni prima l’aveva messa incinta, ricordando la casa colonica, spersa nei campi due o tre chilometri fuori Massa, dove era nata e cresciuta, e da cui, quando anche lei si era ritrovata con una bambina da tirare su, aveva dovuto allontanarsi per sempre, ecco che i capelli unti e arruffati, le grosse labbra sensuali, i gesti pieni di pigrizia dell’unico uomo della sua vita, diventavano anche di David, il signorino di Ferrara, ebreo, va bene, però appartenente a una delle più distinte e più ricche famiglie cittadine (quei signori Camaioli che stavano in corso Giovecca, figurarsi!, in quel gran palazzo di loro proprietà), il quale per tanto tempo aveva fatto l’amore con Lida, ma che lei non aveva mai conosciuto, mai visto una volta sola, nemmeno da lontano. Guardava, scrutava. Magra, affilata, limata dall’ansia e dai patimenti, in Lida le sembrava di rivedere se stessa da ragazza. Tutto si era ripetuto, tutto. Dall’a alla zeta. Una sera scoppiò improvvisamente a ridere. Afferrò Lida per una mano e la trascinò davanti allo specchio dell’armadio. Guarda là come anche noialtre siamo diventate eguali, disse con voce soffocata. E mentre nella stanza non si udiva che il soffio della lampada a carburo, rimasero a fissare abbastanza a lungo i loro visi accostati, appena distinguibili attraverso la nebbia della lastra. Non è, s’intende, che i loro rapporti filassero sempre lisci. Non sempre Lida appariva disposta ad ascoltare senza ribattere.  Un’altra sera, per esempio, Maria Mantovani si era messa a raccontare la propria storia (prima ciò non sarebbe potuto succedere). Alla fine uscì in una frase che ebbe il potere di far scattare in piedi Lida. Se i suoi parenti avessero voluto, aveva detto, lui mi avrebbe sposata. Stesa sul letto, il volto nascosto nelle mani, Lida ripeteva mentalmente queste parole, riudiva il sospiro pieno di rammarico che le aveva accompagnate. Non piangeva, no. E alla madre che le era corsa dietro, e che ansimante le si era chinata sopra, mostrò, rialzandosi, le guance asciutte, uno sguardo carico di disprezzo e di noia. Del resto le sue insofferenze erano rare, e se l’assalivano, l’assalivano senza preavviso, come raffiche tempestose in un giorno di bonaccia.

Lida! esclamò una volta con un riso cattivo (la madre l’aveva chiamata per nome). E come ci tenevi quando andavo a scuola che lo scrivessi sul quaderno con tanto di i greco! Cos’è mai che ti sognavi che diventassi, da grande: una del varietà?” …  Maria Mantovani non rispose. Sorrideva. La sfuriata della figlia la riportava indietro a fatti lontani, fatti di cui lei sola era in grado di valutare l’importanza. Lyda! ripeté dentro di sé, più volte. Pensava alla propria giovinezza. Pensava ad Andrea, Tardozzi Andrea, il fabbro di Massa Fiscaglia che era stato il suo moroso, e sarebbe potuto diventare suo marito. Era venuta a stare in città con la bambina, e lui ogni domenica faceva sessanta chilometri in bicicletta: trenta per venire e trenta per tornare. Sedeva lì, dove adesso sedeva Lida. Le sembrava di vederlo ancora, con la sua giacca di pelle, coi suoi pantaloni di fustagno, coi suoi capelli spettinati. Finché, una notte, mentre tornava al paese, era stato sorpreso a metà strada dalla pioggia e si era ammalato di pleurite. D’allora in poi non lo aveva più rivisto. Era andato a vivere a Feltre, nel Veneto: una cittadina di mezza montagna dove aveva preso moglie e avuto figli. Se i parenti di lui avessero voluto, e se in seguito non si fosse ammalato, lui l’avrebbe sposata. Di sicuro. Che cosa sapeva Lida? Cosa poteva capire? Lei sola era in grado di rendersi conto. Per tutte e due.

Dopo cena, la prima a coricarsi di solito era Lida. Ma l’altro letto, di fianco a quello dove lei e il bambino già dormivano (posta al centro del tavolo ancora da sparecchiare, la lampada a carburo spandeva attorno la sua luce azzurrognola), spesso rimaneva intatto fino a notte inoltrata.

     La prossima settimana andremo avanti a leggere e vedremo comparire anche Oreste Benetti che s’intromette pacatamente nella vita di Lida e Maria Mantovani.

     Nel 1575 Giordano Bruno si laurea in Teologia con due tesi [una su Tommaso d’Aquino e l’altra su Pietro Lombardo] e, soprattutto [che è quello a cui lui aspira] riceve l’abilitazione per insegnare, il magistero, e, quindi, ritiene di dover iniziare a manifestare il suo pensiero. Con Giordano Bruno dobbiamo passare un po’ di tempo insieme perché è una persona che non si lascia sfuggire alcun tipo di esperienza: da dove inizia a riflettere, quali conseguenze hanno le sue affermazioni e, soprattutto, dove lo porta la sua travolgente [furiosa] curiosità, il suo “eroico furore” per la conoscenza?

     Per rispondere a queste domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé, consapevoli del fatto che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare e che bisogna, bisognerebbe sempre coltivare “l’eroico furore per la conoscenza”.

     Per questo la Scuola è qui, e il viaggio continua…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 19, 2018