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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA SUSCITA INTERESSE IL TESTO DEL CORPUS HERMETICUM ...

Lezione N.: 
5

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

La sapienza poetica e filosofica del ‘600 agli esordi della scienza   15-16-17  novembre  2017

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA

SUSCITA INTERESSE IL TESTO DEL CORPUS HERMETICUM ...

     Questo è il quinto itinerario del nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età moderna agli esordi della scienza e sappiamo dall’itinerario della scorsa settimana che la scienza, in Età rinascimentale, è ancora in incubazione ed è strettamente legata al fenomeno della magia perché la magia si presenta come una disciplina, come una materia di studio, come un’attività dedita alla ricerca dei misteri della Natura.

      La scorsa settimana abbiamo studiato - analizzando il capitolo 8 degli Atti degli Apostoli e facendo riferimento al testo del Vangelo gnostico di Filippo - che il tema della magia entra in relazione con la dottrina cristiana in modo ambivalente [ambiguo e interlocutorio] perché la dottrina della Chiesa di Roma rifiuta l’idea che l’opera dello Spirito Santo possa essere considerata “magica” e possa essere esposta sul mercato della magia - poiché le opere dello Spirito sono doni gratuiti [è Grazia, gratis data] e sono frutti dell’Agape, dell’Amore solidale [non si comprano e non si vendono] - ma, contemporaneamente, nei confronti della disciplina magica e di chi la pratica, gli Atti degli Apostoli non esprimono una condanna anche perché, come testimonia il testo del Vangelo di Filippo, con il quale siamo entrate ed entrati in contatto la scorsa settimana, esiste “una corrente gnostico-esoterica di tendenza magica” molto attiva nella Chiesa delle origini in Egitto dove la cultura magica [ermetica] è molto sviluppata. Nel corso dei secoli, di conseguenza, all’interno della cristianità, il dibattito sul tema della magia continua sulla scia di questa ambivalenza iniziale: a volte la dottrina entra in rotta di collisione con la tendenza magica, altre volte la fa addirittura propria.

     Le Chiese cristiane, dal II secolo, conquistano fette sempre più ampie di consenso in tutte le classi sociali e istituiscono, secondo il testo del capitolo 11 della Prima Lettera ai Corinti di Paolo di Tarso, un proprio culto: la Cena del Signore. Ma, nel momento in cui, dopo il concilio di Nicea del 325, il cristianesimo può proclamare la sua superiorità di religione di Stato [è l’imperatore Costantino che la proclama per decreto], il culto della Cena del Signore, gradualmente, si allontana dai gesti semplici e materiali della quotidianità e cessa di essere “una semplice cena domestica” per assumere un carattere liturgico [sacro, religioso] che fa propri molti elementi caratteristici particolarmente suggestivi dei culti magici [del culto di Mitra, di quello di Iside]; quindi, i rituali magici veri e propri vengono confinati in un ambito ristretto e nascosto mentre il rituale della liturgia cristiana si celebra in modo pubblico [nello spazio pubblico delle basiliche romane]. Questa situazione ambigua contribuisce a dare alla magia un senso di mistero che continuerà - nell’ambito della cristianità stessa - ad attirare, nel corso dei secoli, l’attenzione di molti intellettuali [l’interessamento dei filosofi che guardano con curiosità ai misteri della Natura].

     Nel Rinascimento, con l’emergere di una visione laica della vita e con l’affermarsi di un forte interesse verso la Natura - un interesse non ancora disciplinato dalle regole della scienza - la magia diventa una parte costitutiva del pensiero filosofico. Diventa difficile, in questo periodo, nel ‘400 e nel ‘500, distinguere il filosofo dal mago e differenziare lo scienziato dal mago [ce lo ha confermato Leonardo da Vinci la scorsa settimana]. E la parola “mago” e “maga”, nel Rinascimento, non corrisponde, quindi, a una persona con il cappello a cono, con la bacchetta in mano, davanti a un pentolone nel quale bolle la pozione magica: questa è una variante che appartiene al genere letterario della fiaba. Siamo abituate e abituati oggi ad associare le parole “mago e maga” a personaggi  - e lo dicono i tribunali – che, spesso, appartengono alla categoria degli estorsori o degli acchiappa-creduloni e affermiamo questo perché dobbiamo difendere la reputazione di quelle intellettuali e di quegli intellettuali che, nel corso della Storia della cultura rinascimentale, hanno coltivato la disciplina della magia per cercare di penetrare nei misteri della Natura ed è per questo che la magia diventa una parte costitutiva del pensiero filosofico.

     E adesso prendiamo il passo sull’itinerario di questa sera per continuare una riflessione che ci deve portare a osservare i paesaggi intellettuali situati in quella parte del territorio che stiamo attraversando dove - mescolati insieme a quelli magici - troviamo i segni della scienza ai suoi esordi.

     Nel Rinascimento tutte le Scuole di pensiero, a diversi livelli, si occupano di magia e di “arti occulte” e questo interesse, che non è legato a fare le fatture e gli incantesimi, è sollecitato da un interrogativo di carattere filosofico in chiave teologica: l’essere umano, che è un individuo limitato e finito, come può conoscere l’Uno, come può entrare in rapporto con il Tutto infinito, come può mettersi in relazione diretta con Dio?

     I cultori della dimensione magica pensano che nel misterioso organismo della Natura esista “un tramite segreto”, ci sia “un punto di congiunzione” [come si legge nel Vangelo di Filippo] in cui possano incontrarsi l’accidentale con l’essenziale, il finito con l’infinito, l’umano con il divino. Per i filosofi rinascimentali questo punto d’incontro segreto e misterioso tra il divino e l’umano va cercato dentro la Natura attraverso lo studio e l’applicazione delle arti magiche. Che cosa abbiamo letto nel Vangelo di Filippo la scorsa settimana? Nel testo, di cultura gnostica, del Vangelo di Filippo si legge: «La verità non è venuta nuda in questo mondo ma in simboli e in immagini [allegorie]: non la si può afferrare in altro modo se non con la magica disciplina ermetica».  È quindi, comprensibile che “la magica disciplina ermetica” abbia destato un vivo interesse tra i filosofi agli albori dell’Età moderna e, di conseguenza, durante l’Età rinascimentale si capisce perché [da Occidente] si vada [in Oriente] alla ricerca dei cosiddetti “testi ermetici” i quali, oltre che dai Vangeli gnostici [in area cristiana], vengono citati dagli autori di molte opere classiche greche e latine.

     L’interesse per il possesso del “materiale ermetico” [considerato con sospetto dall’Inquisizione e già messo preventivamente all’Indice dal Sant’Uffizio] è grande: si vuol sapere quali rivelazioni [quali formule e rituali magici] ci siano in questi scritti che possano consentire di entrare in comunicazione diretta con Dio per mezzo di un rapporto particolare da instaurare con la Natura nella quale il divino non può non manifestarsi [e questo il Sant’Uffizio non lo tollera e non lo permette perché ci vuole la mediazione della Chiesa per avvicinarsi a Dio]. Questo clima misterioso fa aumentare la curiosità, e alla caccia dei “testi ermetici” sono interessati gli appartenenti a tutte le principali istituzioni intellettuali occidentali e [come sapete già dal viaggio dello scorso anno] la spunta il commerciante più spregiudicato, il promotore e finanziatore dell’Accademia platonica fiorentina: Cosimo il Vecchio, il quale - siccome le filiali dei suoi “banchi” dove si presta denaro sono ormai collocate su tutto il territorio dell’Ecumene [tanto a Occidente quanto a Oriente] - ha buon gioco.

     Cosimo ha buon gioco soprattutto perché ha degli informatori fidati e sa che si potrebbero acquistare, a caro prezzo, anche delle patacche [c’è nel Quattrocento - con lo sviluppo dell’Umanesimo - anche un fiorente mercato di falsi codici antichi gestito dai trafficanti bizantini noti per la loro spregiudicatezza] e un certo numero di compratori europei, finanzieri concorrenti dei Medici, sono stati truffati in molti casi; ma lui, Cosimo il Vecchio, è una persona accorta e  nel 1439 viene a sapere dell’esistenza dei “codici ermetici”, nel corso del concilio di Firenze, che avrebbe dovuto attuare la riunificazione della Chiesa latina di Roma con quella greca di Costantinopoli ma che diventa un fruttuoso incontro tra intellettuali occidentali e orientali: Cosimo viene a conoscenza dai padri conciliari provenienti da Costantinopoli [i neoplatonici Gemisto Pletone e Giovanni Bessarione] dell’importanza dei “testi ermetici” sul piano filosofico e del loro carattere segreto in quanto depositari di misteri magici [lui, in verità, non sa perché gli intellettuali diano così tanto valore a questi testi ma pensa di doversi informare in proposito perché Cosimo aspira a farsi una cultura e a incentivare la cultura come strumento di potere], ma fa finta, mentendo, di non essere interessato ad argomenti poco graditi al Sant’Uffizio ma naturalmente pensa subito di dare inizio segretamente alla ricerca di questo materiale, e la ricerca dura quasi un quindicennio.

    Nell’impresa Cosimo si avvale di una persona di fiducia [che lavora alle sue dipendenze] che è, prima di tutto, competente in campo filologico [e questo esperto ricercatore di codici antichi greci e latini lo ha già fatto entrare in possesso di molte opere classiche tra cui il Corpus di tutti i Dialoghi di Platone in lingua originale] e poi è pratico dell’ambiente culturale di Costantinopoli perché lo frequenta regolarmente: l’uomo di fiducia di Cosimo è un monaco che risiede per gran parte dell’anno in Macedonia e per il resto del tempo sta a Firenze ospite in casa Medici: si chiama Leonardo da Pistoia [Leonardo Candia detto il Macedone]. Leonardo da Pistoia sa dove e come fare ricerca e nel 1453, mentre gli Ottomani stanno assediando Costantinopoli, porta con sé in Macedonia, dopo averlo acquistato per conto di Cosimo il Vecchio e averlo custodito a Tessalonica fino al 1459, un volume manoscritto in greco contenente quattordici Libri,  intitolato Hermetica, e appartenuto all’umanista bizantino Michele Psello, vissuto nell’XI secolo.

     Leonardo da Pistoia ha comprato questo oggetto dagli eredi di Psello che stanno per lasciare Costantinopoli e hanno bisogno di soldi; dopo averlo esaminato con cura e dopo aver raccolto una serie di utili e documentate testimonianze mediante le quali viene a sapere che l’eminente studioso, insegnante di filosofia, storico, teologo e funzionario imperiale bizantino Michele Psello, intorno al 1050, ha raccolto  e ordinato [essendo sparpagliati tra Alessandria, Atene e Costantinopoli] “gli scritti ermetici” [il Corpus hermeticum] rimuovendo, da esperto filologo, gli elementi spuri [le aggiunte non corrispondenti all’autentica tradizione ermetica] e rendendo anche accettabile il Corpus hermeticum ai vertici del patriarcato della Chiesa ortodossa di Bisanzio [che né lodano né condannano quest’opera].

     Non sappiamo quanti fiorini abbia investito Cosimo il Vecchio per far arrivare a Firenze il prezioso codice il Corpus hermeticum, ma lui è soddisfatto e il suo compiacimento non ha prezzo: sa di avere acquisito qualcosa di prezioso che attirerà su Firenze l’attenzione di tutti gli studiosi dell’Ecumene, ma, per ora, dell’affare che ha portato a termine, non fa sapere nulla a nessuno.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il Corpus hermeticum, acquistato da Cosimo il Vecchio nel 1453, è oggi conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze [che possiede una delle principali raccolte di manoscritti del mondo: 11.044 preziosissimi manoscritti, 2500 su papiro] e, se vi fosse concesso, potreste prenderne visione [probabilmente è conservato in microfilm], voi provate a far domanda: sarebbe, senza dubbio, un’esperienza emozionante…

Ma vale la pena anche visitare la Biblioteca Medicea Laurenziana [il vestibolo, lo scalone, la sala di lettura, la tribuna Elci] alla quale si accede dai chiostri della basilica di San Lorenzo, e c’è di mezzo anche il lavoro [svolto malvolentieri] di Michelangelo il quale predispone dal 1519 un progetto [una delle maggiori realizzazioni architettoniche dell’artista] che viene portato a termine da altri importanti architetti [il Tribolo, l’Ammannati, il Vasari] e soltanto nel 1571 la Biblioteca viene aperta al pubblico, approfittatene

     Ma che cos’è il Corpus hermeticum e che cosa ci rivela sul piano filosofico e su quello della magia?

     Sul piano della magia - o, per meglio dire, della teurgia [come capiremo tra poco] - “l’ermetismo” riscuote un grande successo di pubblico [un pubblico costituito da una minoranza di privilegiati] tanto da creare una vera e propria moda e un fiorente mercato che parte da Firenze [e quando c’è di mezzo l’occulto e il proibito, il successo di un fenomeno è assicurato], ma è sul piano della filosofia che il Corpus hermeticum risulta come vedremo un’opera di grande interesse nel senso che procura “una tradizione sapienziale” a una serie di idee coltivate dal pensiero rinascimentale sul tema dei rapporti tra l’Essere umano e la Natura [ci si domanda: la Natura è uno scenario che l’Essere umano osserva dall’esterno come se fosse superiore alla Natura stessa o la Natura è un organismo di cui l’Essere umano fa intimamente parte in quanto prodotto della Natura stessa? Quale è stata l’intenzione del Creatore in proposito e qual è la natura del Creatore?]. Ma procediamo con ordine: che cos’è il Corpus hermeticum?

     Il Corpus hermeticum è una collezione di scritti attribuiti alla saggezza prodotta nell’antico Egitto, e si pensava che questi testi esoterici [segreti, riservati, misteriosi] fossero stati composti addirittura prima di Mosè per opera di un personaggio - di un mago sapiente la cui esistenza è di carattere leggendario [ome quella di Orfeo - che si chiama Ermete Trismegisto [il tre volte grandissimo Ermes], ed è appunto da questo nome che deriva il termine “ermetico” per cui Ermete Trismegisto non è una persona reale ma è molto di più, è un genere letterario che contiene una rivelazione di carattere religioso, di una religione orientata verso la magia.

     La fondazione dell’Accademia platonica da parte di Cosimo il Vecchio avviene proprio per mettere a disposizione degli studiosi uno spazio adeguato e attrezzato in modo che possano investire in intelligenza, e ha finanziato l’istruzione di Marsilio Ficino, il promettente figlio del suo medico, per curarne la formazione [una formazione di eccellenza] in modo da poterne utilizzare le competenze, soprattutto perché sappia tradurre in latino e commentare con la dovuta perizia le importanti opere classiche di cultura greca che Cosimo ha acquistato [con lungimiranza, confidando nell’abilità di Leonardo da Pistoia] nel corso di un quarto di secolo e che custodisce nel suo forziere.

     Marsilio Ficino, coadiuvato da Giovanni Pico della Mirandola e da Agnolo Poliziano, traduce dal greco in latino con la consulenza di Cristoforo Landino, molte Opere, in particolare, i Dialoghi di Platone, le Enneadi di Plotino e poi, sempre nella Villa di Careggi, sede dell’Accademia, termina, nell’aprile del 1463, la traduzione dal greco in latino del Corpus hermeticum.

     Gli studiosi dell’Accademia platonica, [da giugno a settembre del 1463 nella sede estiva dell’Accademia a Camaldoli] dopo aver analizzato con attenzione il testo del Corpus hermeticum, capiscono che “il pensiero ermetico” nasce da un lavoro di sintesi che dà forma a un mirabile compendio, ben costruito soprattutto per merito dell’umanista bizantino Michele Psello alla metà dell’anno Mille, che contiene “una nutrita raccolta di idee sagge” [un’antologia di sapienti affermazioni] tratte, nella sostanza, dai testi di Opere provenienti dalla letteratura orfico-dionisiaca [in particolare dalle Tragedie greche], dalla tradizione pitagorica e dalla filosofia neoplatonica e disposte, nella forma, secondo l’andamento [e il linguaggio] dei rituali magici.

     Il Corpus hermeticum è diviso in due parti che portano il nome di due divinità, la prima, di natura più filosofica, s’intitola Pimander e tratta del tema della creazione, la seconda s’intitola Asclepius [e questa parte già circolava in epoca medievale nella versione attribuita all’autore latino Apuleio, nato intorno al 125 a Madaura (città dell’Algeria), che è l’autore delle Metamorfosi o L’asino d’oro, un’opera - che abbiamo studiato a suo tempo - dove la magia ha un ruolo fondamentale, opera tradotta in italiano per la prima volta da Matteo Maria Boiardo e stampata a Venezia nel 1519]. L’Asclepius è un trattato di magia talismanica nel quale si espongono le pratiche teurgiche dei sacerdoti egizi volte ad animare le statue attraverso l’interazione di forze sovrannaturali: iniziamo a riflettere proprio da questa seconda parte del Corpus hermeticum, quella dotata di maggiore leggerezza e che ha riscosso un gran successo di pubblico da quando, dall’autunno del 1463, comincia, da Firenze, a essere divulgata in un accattivante alone di clandestinità [il divieto dell’Inquisizione fa aumentare l’interesse per quest’opera da parte di un pubblico che rappresenta una minoranza della popolazione, un pubblico di nobili e di alto borghesi, di gente privilegiata che vive nelle città].

     L’Asclepius - la seconda parte del Corpus hermeticum - è un trattato di “teurgia”: che cosa significa? Secondo la dottrina dell’Asclepius gli esseri umani entrano in contatto con la divinità attraverso una disciplina che si chiama “teurgia”. Che cos’è la teurgia e che differenza c’è tra la teurgia e la teologia? La teologia è la disciplina che parla degli dèi e che parla di Dio, mentre la teurgia è una sapienza, è un’arte di natura magica che cerca di evocare gli dèi, di evocare Dio stesso, in modo che la divinità possa entrare in relazione con l’essere umano.

     La prassi dei rituali teurgici diventa di moda nell’Europa rinascimentale e la moda, come abbiamo studiato, parte da Firenze [a Firenze ci sono molti templi teurgici allestiti nei palazzi degli aristocratici e dei ricchi borghesi]. In che cosa consistono i rituali teurgici?

     Il rituale teurgico per eccellenza è “il telestiché”, cioè l’animazione di una statua consacrata della divinità. Il teurgo [il sacerdote], detto “docheus”, svolge un ruolo di medium e in questo rito è necessario l’uso di “un sigofalòs, una trottola magica” che viene fatta girare con un nastro. La trottola [il sigofalòs] ha la forma di un disco, che deve essere d’oro, sul quale è collocato un triangolo d’argento. Il triangolo deve poter ruotare in modo che, quando si ferma, i tre vertici indichino “le formule mistiche” che sono incise sulla superficie del disco. Al centro del triangolo è incastonato uno zàffiro, una pietra preziosa di colore azzurro intenso che costituisce il tramite con il Cielo e rispecchia lo spazio etereo. La trottola magica [il sigofalòs] non può essere fatta ruotare sempre: la sua rotazione coincide con i movimenti delle sfere celesti perché deve attrarre le intuizioni metafisiche, i pensieri delle Entità divine. La rotazione della trottola magica è sincronizzata con il calendario teurgico che scandisce il tempo dell’anno liturgico astrale. Dopo aver assorbito le intuizioni metafisiche, facendo girare la trottola, il docheus entra dentro la statua consacrata della divinità [come se fosse dentro a un’armatura] e, davanti al fuoco sacro, va in estasi ipnotica e svela, ad alta voce, i pensieri delle Entità divine. Le anime dei partecipanti al rito vengono attirate verso la Luce Originaria, e possono congiungersi con l’Intuibile [al Logos, a Dio]. L’anima esce dal corpo [evade temporaneamente dalla prigione materiale] ed entra in comunione con la divinità e poi ritorna nel corpo rinnovata, purificata, divinizzata [potremmo dire “in Grazia di Dio” per chi interpreta la teurgia in termini  cristiani].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Prodotto della tradizione teurgica è “lo spiritismo” che ha avuto larga diffusione… Voi avete mai partecipato a “una seduta spiritica” o ne avete sentito raccontare?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     Per le intellettuali e gli intellettuali rinascimentali le pratiche teurgiche della tradizione ermetica diventano soprattutto un gioco da interpretare con ironia [ironia rivolta verso gli aristocratici e i borghesi ignoranti e creduloni] e, quindi, l’evocazione e l’apparizione degli “spiriti” per le scrittrici e gli scrittori ha principalmente una valenza di tipo poetico e letterario che serve per creare riflessioni sul piano etico. Di questa prassi ne troviamo testimonianza, come sappiamo, già nel primo canto del poema Orlando furioso che stiamo leggendo da quando, dalla seconda settimana di ottobre, ci siamo messe e messi in viaggio.

     Ne “l’antefatto” [dalla 5ª alla 9ª ottava del primo canto dell’Orlando furioso] e poi quando inizia la vera e propria azione del poema [dalla 10ª alla 17ª ottava] Ludovico Ariosto, come sappiamo, narra come i paladini e cugini Orlando e Rinaldo - che sono entrambi innamorati di Angelica - se la contendano e, per questo motivo, re Carlo Carlo Magno ha consegnato la fanciulla al duca Namo di Baviera, il suo consigliere più fidato, perché la custodisca promettendola a quello dei due paladini che combatterà con maggior merito nell’imminente battaglia contro gli Infedeli. La battaglia, però, la vincono gli Infedeli che mettono in fuga i Cristiani, e così Angelica rimane sola nel padiglione dove viene custodita e, di conseguenza, si ritrova libera e fugge a cavallo entrando in un bosco dove s’imbatte in Rinaldo che, abbandonato dal suo prodigioso cavallo Baiardo, avanza a piedi e, quando riconosce Angelica, si mette a inseguirla. Lei, assai spaventata, fugge urlando e viene a trovarsi nei pressi di un fiume sulla riva del quale si è attardato un altro cavaliere per recuperare l’elmo che, mentre beveva assetato, gli è caduto in acqua e non è più riuscito a recuperarlo. Questo cavaliere è il saraceno Ferraù, anche lui innamorato di Angelica, che, appena la vede in difficoltà, si scaglia a sua difesa contro l’inseguitore. Ferraù e Rinaldo - che si conoscono e hanno già combattuto l’uno contro l’altro sul campo di battaglia - cominciano a battersi furiosamente, e Angelica ne approfitta per spronare il suo cavallo e scappare per il bosco e per l’aperta campagna. Rinaldo e Ferraù si scontrano alacremente fino a quando, stremati dalla fatica, si rendono conto che, mentre loro due si battono per lei, Angelica se la batte e, quindi,  si accordano per fare una tregua per poterla inseguirla insieme.

     E ora proseguiamo nella lettura del testo del primo canto dell’Orlando furioso tenendo conto del fatto che il nostro obiettivo didattico è quello di capire l’intento compositivo di Ariosto che vuole cimentarsi nell’utilizzo di una Lingua eloquente e autonoma. Proseguiamo nella lettura per poter mettere in evidenza [secondo il tema che abbiamo trattato] l’apparizione di “uno spirito”, lo spirito di Argalìa, il fratello di Angelica, ucciso in duello da Ferraù nel corso del torneo indetto, a Parigi, da re Carlo. Come sappiamo, il torneo di Parigi - dove compare Angelica a scombussolare la vita di tutti i cavalieri della corte carolingia e di ogni altra provenienza - viene narrato da Matteo Maria Boiardo nell’Orlando innamorato e Ludovico Ariosto, nelle ottave che tra poco leggeremo, allude a questo episodio dando per scontato che, chi legge, conosca il poema di Boiardo [perché l’Orlando furioso dovrebbe essere la continuazione dell’Orlando innamorato].

     La comparsa dello spirito di Argalìa ha una valenza ironica rispetto ai rituali teurgici  di cui abbiamo parlato perché l’intento di Ludovico Ariosto è quello di utilizzare lo stratagemma dell’apparizione di un fantasma per poter esprimere un giudizio di tipo morale - nel segno dell’autonomia [della laicità] della morale - legato al principio etico che bisogna tenere fede ai patti, non si può fare una promessa soprattutto tra cavalieri senza mantenere l’impegno preso [e in questo frangente, allude Ariosto, il fascino della magia e della teurgia non ha rilevanza, ciò che conta è l’Intelletto]. E, anche nelle ottave precedenti a quelle dell’episodio dell’apparizione dello spirito di Argalìa, Ludovico Ariosto, sempre con ironia, coglie l’occasione [e lo fa spesso, come già ha fatto Boiardo] per dare, attraverso i suoi personaggi, una Lezione alle lettrici e ai lettori di carattere etico sul tema della tolleranza, della generosità, del rispetto: in una parola cinquecentesca, sul tema della “cortesia” [e questa è una Lezione di grande attualità].

     Come abbiamo già ricordato al termine dell’itinerario della scorsa settimana, Ariosto scrive un verso che è diventato famoso: «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!» [un verso che ha ispirato molte autrici e molti autori] e come si manifesta “la bontà” di questi due personaggi [Ferraù e Rinaldo] che sono nemici? Il fatto importante - sostiene Ludovico Ariosto - è che la bontà si può e si deve manifestare anche tra nemici, anche tra persone di fede diversa.

     E adesso leggiamo il commento e il testo dalla 22ª alla 31ª ottava del primo canto dell’Orlando furioso.

     Prima di leggere il testo della 22ª ottava del primo canto dell’Orlando furioso dobbiamo riassumere il contenuto delle quattro ottave precedenti [la 18ª, la 19ª, la 20ª e la 21ª] nelle quali si narra che Rinaldo e Ferraù, dopo aver combattuto con ardore, facendo una gran fatica per cercare ognuno di far soccombere l’altro [Poi che s’affaticar gran pezzo invano | i duo guerrier per por l’un l’altro sotto], visto che nell’uso della spada hanno la stessa destrezza, ritengono di dover interrompere il loro combattimento dal momento che Angelica è scappata e li ha piantati in asso. Rinaldo prende la parola e dice a Ferraù: «Che cosa ci hai guadagnato ad avermi fermato, tu credi di ferire me e invece ferisci te stesso perché anche se mi uccidi non riuscirai a far tua la bella Angelica, della quale sei innamorato quanto lo sono io, e questo ragionamento vale anche per me visto che lei sta scappando, e sarà meglio che la rincorriamo insieme prima che diventi irraggiungibile e poi, quando l’avremo fermata, se mai, per sapere di chi dev’essere, ricominceremo a combattere, ma ora, stare qui, per noi non è altro che un danno». Questo discorso a Ferraù non dispiace ed è d’accordo nell’attuare subito una tregua, e così i due cavalieri, scrive Ariosto, dimenticano il loro odio e la loro ira, e Ferraù non lascia a piedi Rinaldo e lo invita caldamente, perché lo deve anche pregare, a montare insieme a lui sul suo cavallo e, dopo che Rinaldo, un po’ riluttante per questa promiscuità, sale, fanno partire il cavallo al galoppo sulle tracce di Angelica. Dopodiché Ariosto fa iniziare la 22ª ottava con un verso che, come abbiamo già detto più di una volta, è diventato proverbiale [Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!], e il poeta non intende dare a questo verso un carattere nostalgico ma vuole proclamare un concetto tipico della filosofia rinascimentale, sul quale ci siamo soffermate e soffermati a lungo nel corso del viaggio dello scorso anno, un concetto scritto sotto forma di affresco anche sul soffitto della Cappella Sistina: l’idea dell’universalismo unitaristico, per cui non ci sono “fedeli e infedeli” ma, nel Mondo creato, ci sono persone che coltivano tutte - ciascuna nella diversità delle proprie tradizioni - il sentimento della humanitas. Rinaldo e Ferraù sono rivali, sono di religione diversa, parlano una lingua diversa, hanno ancora i corpi tutti indolenziti per i duri colpi che si sono inferti durante il combattimento eppure vanno insieme, per boschi oscuri e sentieri tortuosi, senza temersi tra loro, e il cavallo che montano insieme, punto da quattro speroni, galoppa finché arriva a un bivio.

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 22

22. Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!

Eran rivali, eran di fé diversi,

e si sentian degli aspri colpi iniqui

per tutta la persona anco dolersi;

e pur per selve oscure e calli obliqui

insieme van senza sospetto aversi.

Da quattro sproni il destrier punto arriva

ove una strada in due si dipartiva.

     Nella 23ª ottava Ferraù e Rinaldo non sanno quale delle due strade abbia imboccato Angelica poiché su entrambi i sentieri le impronte appaiono fresche e, quindi, recenti. E allora mettono la propria sorte nelle mani della fortuna e Rinaldo va per un sentiero e Ferraù il Saracino per l’altro. Ferraù si aggira [s’avvolse] molto per il bosco e alla fine si ritrova al punto di partenza [sul fiume dove ha perso l’elmo].

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 23

23. E come quei che non sapean se l’una

o l’altra via facesse la donzella

(però che senza differenzia alcuna

apparìa in amendue l’orma novella),

si messero ad arbitrio di fortuna,

Rinaldo a questa, il Saracino a quella.

Pel bosco Ferraù molto s’avvolse,

e ritrovossi al fine onde si tolse.

     Nella 24ª ottava Ferraù si ritrova ancora sulla riva del fiume [la rivera] là dove l’elmo gli è cascato in acqua, e poiché non ha più speranze di ritrovare Angelica decide, per recuperare l’elmo, di entrare nel fiume dalla parte dove gli è caduto e “scende fino alle estreme umide sponde”: ma l’elmo è così ben nascosto nella sabbia che Ferraù si dovrà dare molto da fare per poterlo recuperare.

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 24

24. Pur si ritrova ancor su la rivera,

là dove l’elmo gli cascò ne l’onde.

Poi che la donna ritrovar non spera,

per aver l’elmo che ‘l fiume gli asconde,

in quella parte onde caduto gli era

discende ne l’estreme umide sponde:

ma quello era sì fitto ne la sabbia,

che molto avrà da far prima che l’abbia.

     Nella 25ª ottava Ferraù con un lungo ramo d’albero ripulito dai rami e dalle foglie, con il quale si è costruito una lunga pertica, sonda il fiume, battendolo e pungendolo in tutti i punti del fondale e, mentre con un enorme risentimento e una gran stizza prolunga la sua permanenza in questo luogo oltre il dovuto, vede in mezzo al fiume un cavaliere uscire dall’acqua fino al petto, di aspetto fiero.

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 25

25. Con un gran ramo d’albero rimondo,

di ch’avea fatto una pertica lunga,

tenta il fiume e ricerca sino al fondo,

né loco lascia ove non batta e punga.

Mentre con la maggior stizza del mondo

tanto l’indugio suo quivi prolunga,

vede di mezzo il fiume un cavalliero

insino al petto uscir, d’aspetto fiero.

     Nella 26ª ottava il cavaliere appare, ad eccezione della testa, completamente armato, e ha un elmo nella mano destra: l’elmo che sta cercando invano Ferraù. Il cavaliere si rivolge a Ferraù in tono adirato, e dice: «Sei un traditore [un marrano, che è una parola ingiuriosa usata in Spagna contro gli Arabi e gli Ebrei convertiti solo in apparenza al Cristianesimo], sei un marrano perché non mantieni la parola data! Perché ti dispiace anche di abbandonare l’elmo [perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi] che invece mi avresti dovuto rendere già da tanto tempo?».

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 26

26. Era, fuor che la testa, tutto armato,

ed avea un elmo ne la destra mano:

avea il medesimo elmo che cercato

da Ferraù fu lungamente invano.

A Ferraù parlò come adirato,

e disse: «Ah mancator di fé, marrano!

perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi,

che render già gran tempo mi dovevi?

     Nella 27ª ottava “lo spirito” del cavaliere si presenta e inveisce contro Ferraù dicendo: «Ricordati, pagano, di quando hai ucciso il fratello di Angelica, ebbene, sono io quello [sono Argalìa], e tu mi hai promesso che, insieme alle altre armi, avresti gettato nel fiume, entro pochi giorni, anche il mio elmo [senza tenerlo per te come trofeo]. Ora, la Fortuna ha voluto che si realizzasse il mio volere e non il tuo, ma tu non ti devi dispiacere, devi solo pentirti di non aver mantenuto la parola data».

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 27

27. Ricordati, pagan, quando uccidesti

d’Angelica il fratel (che son quell’io),

dietro all’altr’arme tu mi promettesti

gittar fra pochi dì l’elmo nel rio.

Or se Fortuna (quel che non volesti

far tu) pone ad effetto il voler mio,

non ti turbare; e se turbar ti dèi,

tùrbati che di fé mancato sei.

     Nella 28ª ottava le parole dello spirito di Argalìa, dopo l’ammonimento di carattere morale, riportano in primo piano [e non potrebbe essere diversamente] il contenuto cavalleresco del poema, e lo spirito di Argalìa dice: «Se proprio desideri un buon elmo, trovane un altro e conquistalo con più onore. Un elmo di buona fattura lo porta il paladino Orlando, un altro Rinaldo, forse anche migliore di quello d’Orlando: prima uno [quello che possiede Orlando] apparteneva ad Almonte [figlio del re africano Agolante, ucciso in Aspromonte da Orlando giovinetto che, insieme con l’elmo, s’impossessa anche del cavallo Brigliadoro, della spada Durindana e dell’armatura incantata di Almonte] e l’altro apparteneva a Mambrino [un re pagano che aveva rapito una fanciulla amata da Rinaldo il quale lo uccide in duello e s’impadronisce del suo elmo, ed è l’elmo che crederà di portare Don Chisciotte]: conquistane uno dei due con il tuo valore [dice lo spirito di Argalìa a Ferraù], questo invece, che avevi già promesso di lasciarmi, farai bene a lasciarmelo effettivamente [con effetto]».

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 28

28. Ma se desir pur hai d’un elmo fino,

trovane un altro, et abbil con più onore;

un tal ne porta Orlando paladino,

un tal Rinaldo, e forse anco migliore:

l’un fu d’Almonte, e l’altro di Mambrino:

acquista un di quei duo col tuo valore;

e questo, c’hai già di lasciarmi detto,

farai bene a lasciarmi con effetto».

     Nella 29ª ottava il poeta descrive la reazione emotiva di Ferraù di fronte alla improvvisa apparizione dello spirito [l’ombra] di Argalìa: gli si rizza ogni pelo, il viso gli si scolorisce e la voce gli si strozza in gola e, dopo aver udito le parole accusatorie che lo spirito gli rivolge e aver preso atto che è proprio quell’Argalìa che lui ha ucciso, comincia a rimproverare a sé stesso di non aver mantenuto la parola data [la rotta fede così improverarse], e arde tutto, dentro e fuori, per l’umiliazione e l’ira.

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 29

29. All’apparir che fece all’improvviso

de l’acqua l’ombra, ogni pelo arricciossi,

e scolorossi al Saracino il viso;

la voce, ch’era per uscir, fermossi.

Udendo poi da l’Argalìa, ch’ucciso

quivi avea già (che l’Argalìa nomossi),

la rotta fede così improverarse,

di scorno e d’ira dentro e di fuor arse.

     Nella 30ª ottava Ferraù non ha tempo per cercare un’altra scusa e sa benissimo che Argalìa dice il vero e, quindi, senza controbattere, rimane a bocca chiusa, ma il suo cuore è talmente trafitto dalla vergogna che giura sulla vita di sua madre Lanfusa di non voler indossare più nessun altro elmo se non quello di buona fattura che Orlando, in Aspromonte [in Aspramonte], ha tolto dal capo di Almonte dopo averlo ucciso. Qui Ariosto cita una materia - il fatto che Almonte aveva incoraggiato il padre Agolante ad assalire l’impero di Carlo Magno dalla Calabria - trattata dal poema francese Aspremont, riscritto in italiano con il titolo di Aspromonte da Andrea da Barberino [e, a questo proposito, per saperne di più su Andrea da Barberino e sul suo poema, potete utilizzare l’enciclopedia e la rete].

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 30

30. Né tempo avendo a pensar altra scusa,

e conoscendo ben che ‘l ver gli disse,

restò senza risposta a bocca chiusa;

ma la vergogna il cor sì gli trafisse,

che giurò per la vita di Lanfusa

non voler mai ch’altro elmo lo coprisse,

se non quel buono che già in Aspramonte

trasse del capo Orlando al fiero Almonte.

     Nella 31ª ottava Ferraù si propone di mantenere davvero questo giuramento meglio di quanto non ha fatto con quell’altro prima, e riparte dal fiume di cattivo umore [tanto malcontento] che per molti giorni si tormenta e si consuma [si rode e lima], e ha solo voglia di cercare il paladino [Orlando] in ogni luogo dove ritiene possa trovarlo. Al valoroso Rinaldo, che invece si è incamminato sul sentiero opposto a quello di Ferraù, accade una diversa avventura.

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 31

31. E servò meglio questo giuramento,

che non avea quell’altro fatto prima.

Quindi si parte tanto malcontento,

che molti giorni poi si rode e lima.

Sol di cercare è il paladino intento

di qua di là, dove trovarlo stima.

Altra ventura al buon Rinaldo accade,

che da costui tenea diverse strade.

     Vedremo prossimamente che cosa accade a Rinaldo anche se il poeta tornerà presto a occuparsi della fuga di Angelica.

     E ora noi torniamo ad occuparci del Corpus hermeticum perché la divulgazione e lo studio di quest’opera in Europa dall’autunno del 1463 - una diffusione dovuta alla traduzione in latino di Marsilio Ficino - produce non soltanto il fenomeno pseudo-liturgico dei rituali teurgici [fenomeno di successo, tuttavia superficiale] ma genera significative ricadute intellettuali sul piano filosofico.

     Lo studio del testo del Corpus hermetucum stimola le ricerche di alcuni personaggi che vengono etichettati col titolo di “maghi” perché si presentano come cultori della disciplina magica rinascimentale che prepara il terreno alla nascita della scienza. Tra questi personaggi dobbiamo ricordare lo svizzero Paracelo [1493-1541] che studiando l’ermetismo ha trasformato l’alchimia [la disciplina progenitrice della chimica] in una specie di farmacologia e, sempre su questo terreno, dobbiamo citare gli italiani Fracastoro [1487-1533] e Cardano [1501-1576], e poi il tedesco Agrippa [1486-1533] la cui opera, intitolata Filosofia occulta, ha influenzato il pensiero dei filosofi rinascimentali, in particolare quello di Giordano Bruno [che incontreremo a suo tempo].

     Il pensiero ermetico [in particolare quello che deriva dal Pimander, la prima parte del Corpus hermetucum] - così come lo hanno interpretato Marsilio Ficino e Pico della Mirandola portandolo fuori dalle secche dello sterile liturgismo teurgico - ha prodotto una interessante riflessione sul piano filosofico in chiave teologica, e si sviluppa una teologia che è radicata sul terreno della cristianità ma è eterodossa nelle sue  conclusioni rispetto alla visione teologica ufficiale che proclama un Dio assolutamente trascendente [totalmente distaccato dal Mondo, scisso dalla realtà umana].

     Il Pimander del Corpus hermeticum - che è un compendio di antica sapienza sul tema della creazione [raccogliendo le voci dell’Orfismo, del Neopitagorismo e del Neoplatonismo] - avvalora le idee che la Filosofia rinascimentale ha elaborato anche con l’apporto della disciplina magica per cui l’oggetto di indagine diventa lo stretto e inevitabile rapporto tra Dio e la Natura perché non può non esserci un’intima relazione tra la Natura e Dio che l’ha creata [si pensi al pensiero medioevale di Francesco d’Assisi su questo tema che crea un precedente], e questa affermazione ci porta di riamando in una fase in cui anche la scienza è ormai ai suoi esordi.

     La Filosofia rinascimentale produce un pensiero in cui il rapporto tra Dio e la Natura è considerato molto stretto, tanto stretto che, molti filosofi del Rinascimento, arrivano a negare la distinzione e la differenza tra Dio e il Mondo. Questo pensiero viene chiamato “immanentismo” [Dio che si estende in tutto] e “panteismo” [Dio che è in tutte le cose].

     La Filosofia rinascimentale, con una serie di figure significative che noi incontreremo strada facendo, elabora un pensiero originale secondo cui Dio viene considerato “super omnia, cioè, al di sopra di tutte le cose” ma, siccome in Dio, gli opposti si conciliano, ecco che Dio è anche una realtà “insita omnibus, cioè presente in tutte le cose”. Dio - secondo i filosofi rinascimentali - è un Principio logico [un Logos] che permea e anima tutta la Natura, Dio è l’Anima del mondo. Dio - secondo i filosofi rinascimentali - è una Mente universale diffusa ovunque e presente nell’Intelligenza dell’Essere umano e in ogni singola cosa, quindi, la materia contiene “un vitalismo divino”, una propria intelligenza e una propria spiritualità, e questo fatto giustifica teologicamente la pratica della magia: una disciplina con la quale, attraverso la Natura, si può entrare in contatto con Dio perché tutto è vitale, tutto è divino, e la vita che regola la Natura è la stessa vita di Dio. Come sarebbe stata possibile “l’incarnazione” [la Parola che si fa carne] - pensano i filosofi rinascimentali sensibili al tema della rivelazione di Gesù Cristo - senza un rapporto intimo tra Dio e la Natura? Gli intellettuali che coltivano queste idee e si servono della dimensione magica agiscono all’interno della cristianità e si sentono parte integrante della comunità cristiana e, di conseguenza, viene a determinarsi uno scontro epocale tra la visione trascendente di Dio difesa [a spada tratta] dai membri del Sant’Uffizio - che condannano la magia come fenomeno di carattere immanentista e panteista - e quella immanente di Dio dei filosofi rinascimentali [a cominciare da Marsilio Ficino e Pico della Mirandola già condannati di eresia a suo tempo] i quali ritengono che la magia rappresenti una dimensione dello spirito utile per entrare in contatto con la divinità attraverso la Natura che è stata creata da Dio ed è animata dalla stessa Intelligenza divina.

     La Chiesa, a livello ufficiale, sulla scia dell’ambiguità delle origini [argomento che abbiamo studiato facendo l’esegesi del capitolo 8 degli Atti degli Apostoli, ricordate Simon Mago?], condanna il fenomeno della magia non in quanto tale [le maghe e i maghi possono rimanere nella Chiesa] ma perché ripudia i concetti di immanentismo [di Dio che si estende in tutto] e di panteismo [di Dio che è in tutte le cose]: la teologia ufficiale della Chiesa ribadisce la natura trascendente di Dio, il quale è considerato assolutamente “super omnia, cioè, al di sopra di tutte le cose”, dotato di esistenza propria e nettamente distinto dal Mondo e dalla Natura.

     Il Sant’Uffizio condanna il pensiero immanente e panteista dei filosofi rinascimentali [qualcuno ci rimette la pelle, e si sente odor di bruciato]: Dio, secondo la dottrina ufficiale della Chiesa, non è una realtà “insita omnibus, cioè, presente in tutte le cose” e, di conseguenza, la magia non ha nessuna possibilità di far avvicinare l’Essere umano a Dio. I cultori rinascimentali delle arti magiche [a loro rischio e pericolo] difendono “il pensiero teologico di carattere immanentista e panteista” [Dio si estende in tutto ed è presente in tutte le cose] e utilizzano la Letteratura dei Vangeli per cercare una giustificazione dottrinale al loro pensiero e al loro operato, e sostengono che nella Natura esiste “un segno determinato” che legittima l’incontro tra l’accidentale e l’essenziale, tra il finito e l’infinito, tra l’umano e il divino, e questa indicazione [sostengono] la si può trovare nell’immagine evangelica della “stella cometa”.

     Tutte e tutti noi abbiamo in mente il testo [i primi 12 versetti] del secondo capitolo del Vangelo secondo Matteo [andate a rileggere questo brano] e questo brano lo abbiamo anche negli occhi [grazie soprattutto alle Opere pittoriche della Storia dell’Arte] e lo abbiamo anche nelle mani se facciamo il presepio. Attraverso il testo del secondo capitolo del Vangelo di Matteo, sappiamo che dopo la nascita di Gesù arrivano a Gerusalemme alcuni Magi che vengono dall’Oriente e domandano dove si trovi quel bambino nato da poco, il re dei Giudei, perché in Oriente hanno visto apparire “la sua stella” e sono venuti, facendo un lungo viaggio, a onorarlo. La stella [osservano i filosofi rinascimentali] è un segno, è una metafora, è una figura simbolica ma è anche “un oggetto naturale” che, con le sue caratteristiche, indica la via, rivela la strada che conduce alla divinità. Una divinità che, nel caso del cristianesimo, si è degnata “di sporcarsi di materia, di incarnarsi, di farsi Natura”, e il fatto che, nella Letteratura dei Vangeli, a individuare la stella - che indica il punto d’incontro tra il finito e l’infinito, tra l’umano e il divino - siano stati chiamati i Magi, ha una notevole importanza sul piano del pensiero teologico rinascimentale. Sono i Magi dell’Epifania ad autentificare la presenza della divinità in questo bambino che è realmente, materialmente, naturalmente esule, povero e indifeso.

     I Magi si sono subito mossi dopo aver capito [leggendo i Libri Sacri, i testi ermetici?] che era necessario studiare le forze misteriose della Natura e del Cosmo per scoprire “il segno naturale” [la stella] che risulta fondamentale per indicare la via che porta alla salvezza. Il progetto della salvezza [secondo i filosofi rinascimentali] è scritto nella Natura e lo si legge magicamente nelle pieghe dei fenomeni naturali di cui i maghi sono gli interpreti ed è attraverso il loro studio che hanno acquisito un potere sui fenomeni stessi per cui sono in grado di affermare l’esistenza di “una corrispondenza” tra le qualità della Natura e il progetto di un Dio che s’incarna, che si fa Natura per salvare l’Umanità intera.

     Sappiamo che, nel Medioevo e soprattutto nel Rinascimento, il tema de “L’adorazione dei Magi” viene sviluppato dai pittori [che si sentono un po’ maghi, come scrive Leonardo da Vinci nel trattato Sulla pittura] con grande impegno.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Le raffigurazioni pittoriche de “L’adorazione dei Magi” le trovate sui Cataloghi d’Arte che potete consultare in biblioteca e navigando in rete…   Quale di queste rappresentazioni vi ha colpito particolarmente?… 

Scrivete quattro righe in proposito…  

     Nel Rinascimento il pensiero teologico e il pensiero magico - ispirato alle figure dei Magi e relativo al ruolo dei maghi - produce un’esegesi molto significativa anche dei testi dell’Antico Testamento nei quali il tema della magia è più che mai presente come fenomeno culturale, e sono Marsilio Ficino e Pico della Mirandola - cultori [come sappiamo dal viaggio dello scorso anno] della tradizione ebraica - a produrre per primi un’esegesi molto significativa dei testi dell’Antico Testamento in relazione al tema della magia: come si articola questa esegesi e dove porta? Di questo argomento ce ne occuperemo la prossima settimana consapevoli del fatto che, è parlando di magia, che emergono gli esordi della scienza, e dove emergono?

     Per rispondere a queste domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé, consapevoli che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare.

     I Magi si sono già messi in cammino e hanno iniziato a seguire la Stella, noi, più semplicemente e più umilmente [senza oro, incenso e mirra], possiamo - nel frattempo - seguire la via dell’Alfabetizzazione.

     E, quindi, la Scuola è qui, e il viaggio continua…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 17, 2017