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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA SI DISCUTE SUL RUOLO DELLA MAGIA ...

Lezione N.: 
4

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

La sapienza poetica e filosofica del ‘600 agli esordi della scienza    8-9-10  novembre  2017

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AGLI ESORDI DELLA SCIENZA

SI DISCUTE SUL RUOLO DELLA MAGIA  ...

     Ben tornate e ben tornati a Scuola per viaggiare sul territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età moderna nel momento in cui ci troviamo sulle tracce degli esordi della scienza: quando determinate discipline - come, per esempio, l’astronomia e la fisica, e la chimica - cominciano ad aspirare alla loro autonomia.

     E noi siamo consapevoli, già dal Percorso delle scorso anno, del fatto che il termine più rappresentativo dell’Età moderna è la parola-chiave “autonomia” [lo scorso anno abbiamo affrontato i temi dell’autonomia dell’Arte con Michelangelo, Giulio II e Fedra Inghirami; della Politica con Machiavelli; dei Popoli oppressi con Bartolomé de Las Casas; del Vangelo con Erasmo da Rotterdam; della Morale con Tommaso Moro; della Coscienza con Martin Lutero] e quest’anno, come bene sapete, abbiamo preso il passo occupandoci del tema dell’autonomia della Lingua incontrando Ludovico Ariosto.

     Sappiamo che Ludovico Ariosto ha scritto l’Orlando furioso [la prima pubblicazione è del 1516] non solo per far divertire le cortigiane e i cortigiani del suo tempo ma soprattutto per sperimentare l’uso di una Lingua volgare in modo da renderla eloquente come le Lingue classiche, in primis come il Latino che è dotato di un lessico esauriente, di una grammatica ben fondata sulla logica e di una solida sintassi.

     Ludovico Ariosto, sulla questione della Lingua, segue le indicazioni fornite da un personaggio che ancora ci accompagna questa sera, Pietro Bembo, il quale nei dialoghi Asolani e poi, in particolare, nel trattato intitolato Prose della volgar lingua [opere che abbiamo studiato quindici giorni fa] sostiene, come sapete, un’idea che ha condizionato il nostro modo di parlare, di leggere e di scrivere a livello nazionale: Pietro Bembo, seppur veneziano di nascita, ritiene che le scrittrici e gli scrittori italiani, per la composizione di opere letterarie, debbano prendere come modello la Lingua toscana dei tre grandi autori trecenteschi, Dante Alighieri ma, soprattutto, Francesco Petrarca per la poesia e Giovanni Boccaccio per la prosa, e questa idea ha preso campo. Questa sera Pietro Bembo è ancora qui.

     Noi lo abbiamo visto nascere nel 1470 nella sua nobile famiglia veneziana [sua madre Elena è una Morosini], lo abbiamo visto crescere a Firenze in compagnia di suo padre Bernardo, umanista e ambasciatore della Serenissima Repubblica veneta [è Bernardo Bembo - il quale conosce a memoria la Divina Commedia - che ha fatto costruire a Ravenna il Mausoleo di Dante], poi abbiamo accompagnato Pietro Bembo in Sicilia a studiare il greco alla Scuola messinese di Costantino Lascaris e lo abbiamo seguito anche quando è salito sull’Etna insieme al suo amico Angelo Gabriele, poi siamo tornate e tornati con lui a Venezia dove, insieme ad Aldo Manuzio, ha partecipato a fondare l’editoria moderna, mentre a Ferrara lo abbiamo visto fraternizzare con Ludovico Ariosto ed entrare in intima relazione con Lucrezia Borgia, fino a quando, nel 1505  anche per evitare la peste che colpisce Ferrara, si è repentinamente trasferito ad Urbino dove resta fino al 1511. Ma la vita di Pietro Bembo è ancora ricca di avvenimenti che dobbiamo conoscere perché risultano esemplari per capire il clima di un’epoca, il Cinquecento.

     Nel 1512 Pietro Bembo viene invitato a Roma da papa Leone X [Giovanni de’ Medici, il figlio di Lorenzo il Magnifico, il coetaneo di Michelangelo] che gli chiede di entrare a far parte della Segreteria vaticana: lui accetta l’invito, e così, alla corte papale, ha inizio la sua carriera ecclesiastica insieme a quella del suo amico Giulio de’ Medici [il figlio naturale di Giuliano de’ Medici e cugino del papa Leone X, che viene nominato sovrintendente dell’esercito pontificio], Giulio de’ Medici, nel 1523, verrrà eletto papa con il nome di Clemente VII. A Roma Pietro Bembo, più che ad attività di carattere religioso, si dedica a un’intensa attività letteraria e culturale fondando un vero e proprio cenacolo dove s’incontrano molti intellettuali [Christophe de Longueil, Latino Giovenale Manetti, Bernardo Cappello, Giovan Francesco Pico con il quale discute sul tema dell’imitazione dei classici]. Nel 1521, alla morte di Leone X, Bembo, anche per preparare la pubblicazione delle Prose della volgar lingua che avverrà a Venezia nel 1525, si trasferisce a Padova e si ritira nella sua villa [la villa di Treville] «in dolce solitudine »[così scrive] ma, tuttavia, “solitudine” si fa per dire perché è in dolce compagnia della sua amata [amante] Ambrogina Faustina della Torre detta la Morosina, una persona della quale sappiamo poco se non che, a Roma dove i due si sono incontrati, era stata “una bellissima cortigiana” [nata, si presume, nel 1497]. Da questa intensa relazione amorosa sono nati tre figli [Lucilio nel 1523, Torquato nel 1525 ed Elena nel 1528] e si capisce che la Morosina ha inciso notevolmente [e dobbiamo pensare in senso positivo] sulle scelte di Pietro Bembo: è lei che lo spinge a ritirarsi dalla sua funzione pubblica, visto che lui comincia ad avere problemi di salute e a vivere con disagio gli avvenimenti relativi alla Riforma protestante; per giunta la situazione politica internazionale non lo soddisfa anche perché si ripercuote sull’elezione di un papa di compromesso, Adriano VI, il vescovo di Tolosa Adriaan Florenszoon Dedel, originario di Utrecht che era stato il precettore dell’imperatore Carlo V, neppure presente al conclave e che regna per un solo anno. Pietro Bembo decide di ritirarsi a vita privata e allestisce nella sua villa padovana una ricca biblioteca [spendendo un sacco di soldi] nella quale poter accogliere un circolo culturale di cui fanno parte personaggi che danno vita alla cosiddetta “corrente degli ecclesiastici Spirituali” come l’umanista erasmiano Aonio Paleario, il filosofo benedettino Vincenzo Maggi, i cardinali Gasparo Contarini, Giovanni Morone e Reginald Pole, il francescano Bernardo Ochino, l’umanista Marcantonio Flaminio, la marchesa Vittoria Colonna, con la quale Bembo tiene una fitta corrispondenza. Questi personaggi, insieme ad altri, [è coinvolto anche Michelangelo] vorrebbero che, dopo aver archiviato le scomuniche, si aprisse un dialogo costruttivo tra i cattolici e i protestanti in modo da fare insieme una unitaria riforma della Chiesa: costoro rischiano molto e la loro iniziativa - che si svolge principalmente in ambito clandestino - non dà risultati concreti perché le parti si sono ormai irrigidite.

     Nel 1530 Bembo si riaffaccia alla vita pubblica e riceve l’incarico di storico ufficiale della Repubblica di Venezia e l’anno seguente dà alle stampe il primo volume della Historia veneta [Storia di Venezia] e poi pubblica anche la raccolta delle Rime in chiave petrarchesca dedicate alla Morosina. Nel 1539 il papa Paolo III [Alessandro Farnese] lo nomina cardinale e Bembo, dopo aver trascorso quattro anni in stato di profonda costernazione per la morte di Faustina avvenuta nel 1535, ritorna a Roma dove viene ordinato sacerdote [contrariamente non avrebbe potuto prendere la berretta cardinalizia] e, quindi, riveste nuovamente un incarico pubblico in ambito ecclesiastico. Nel 1541 viene nominato vescovo di Gubbio dove rimane fino al 1544 anno in cui diventa vescovo di Bergamo. La diocesi di Bergamo, assai ricca, gli ha consentito, con il cospicuo appannaggio che riceve, di sanare i vari debiti che aveva contratto, prima di tutto per pubblicare le sue opere, poi per comprare Libri e, infine, per concedere a sua figlia Elena una dote adeguata perché nel 1543 potesse contrarre un buon matrimonio.

     Ben presto però Bembo deve rinunciare al governo di questa diocesi sia per l’età avanzata sia per la gotta che lo rende particolarmente sofferente e, di conseguenza, lascia il posto [dopo averne chiesto la nomina a vescovo] al suo segretario che è anche il suo discepolo più caro, Vittore Soranzo, appartenente alla corrente degli ecclesiastici spirituali, che per la sua mentalità riformista, nel 1551, quando Bembo è già morto, viene arrestato e processato per eresia dal Sant’Uffizio [l’Inquisizione era guidata dal cardinale Gian Pietro Carafa del quale anche un papa conservatore come Giulio III, Giovanni Maria Ciocchi del Monte, non condivide i metodi]. Vittore Soranzo se la cava abiurando [per salvarsi nega di condividere una serie di provvedimenti strutturali messi in atto dalla Riforma luterana]: siamo nel delicato periodo della cosiddetta Controriforma [è in corso il concilio di Trento, un tema di cui ci occuperemo a suo tempo].

     Nel 1555 il cardinale Gian Pietro Carafa diventa papa col nome di Paolo IV e intraprende una violenta offensiva inquisitoria contro “gli ecclesiastici Spirituali” e Vittore Soranzo viene nuovamente processato e nel 1558 duramente condannato, ma lui riesce a fuggire per tempo nel territorio della Serenissima Repubblica veneta [era nato a Venezia in una nobile famiglia, come Pietro Bembo] dove viene protetto: la Repubblica veneta nega l’estradizione per reati d’opinione, ma poco dopo Soranzo muore [Soranzo muore il 13 maggio 1558 quando Pietro Bembo era già morto da un decennio e, per sua fortuna, non aveva assistito a questi avvenimenti nei quali avrebbe potuto, come simpatizzante del movimento degli Spirituali, essere coinvolto].

     Pietro Bembo è ancora vivo quando comincia a circolare in Europa il manifesto della corrente degli Spirituali, un libro intitolato Il beneficio di Cristo, che è uno dei più significativi trattati di teologia pubblicati in Europa in Età rinascimentale. Quest’opera sostiene la necessità di una riforma della Chiesa che tragga ispirazione dalla Riforma protestante, ribadendo che la salvezza della persona dipende non dalla mediazione dell’istituzione ecclesiastica ma esclusivamente da Gesù Cristo [ci salva Gesù Cristo con la sua Grazia], sottolineando la convinzione che la salvezza venga dalla fede prima che dalle opere. Questo trattato è stato scritto intorno al 1537  in Sicilia, nel monastero di San Nicolò l’Arena presso Nicolosi [un paese di 7500 abitanti in provincia di Catania a circa 700 metri di altitudine sulle pendici dell’Etna], dal monaco benedettino Benedetto Fontanini da Mantova [Benedetto da Mantova]. Quest’opera è stata pubblicata a Venezia nel 1543, tradotta in inglese, francese, croato e castigliano ha avuto una diffusione molto ampia nonostante sia stata messa all’Indice dall’Inquisizione quando è stata ristampata a cura dell’umanista Marcantonio Flaminio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In biblioteca e sulla rete trovate il testo de Il beneficio di Cristo di Benedetto da Mantova e Marcantonio Flaminio che potete sfogliare, e poi [e lo trovate sempre in biblioteca] potete leggere [e magari lo avete già fatto] il romanzo intitolato Q di Luther Blissett [che è un nome collettivo di quattro autori] nel quale si parla di fatti e personaggi che abbiamo citato e dove [sotto forma di giallo] anche il trattato Il beneficio di Cristo diventa protagonista…

     Dal 1546, per un decennio [fino alla morte] il pittore Jacopo Pontormo [Jacopo Carucci o Carrucci] ha affrescato il coro della basilica di San Lorenzo a Firenze e questi affreschi, che contenevano anche una iconografia di Cristo secondo il trattato Il beneficio di Cristo, sono stati distrutti nel 1738 in seguito al rimaneggiamento del coro.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con un catalogo che trovate in biblioteca e sulla rete andate a far visita a Pontormo [«Artista solitario, tormentato e incontentabile che si distingue da Leonardo, da Michelangelo e da Raffaello, la cui dolente originalità fu cara ai pittori contemporanei», così ha scritto Emilio Cecchi] e andate a visionare la sue opere, troverete un aggancio con i riferimenti che abbiamo fatto…

     Pietro Bembo [che probabilmente fa ancora in tempo a partecipare alla diffusione de Il beneficio di Cristo in complicità con Vittore Soranzo] muore a Roma, all’età di 76 anni, il 18 gennaio 1547 e viene sepolto nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva: la sua lastra tombale è collocata sul pavimento, dietro l’altare maggiore. Anche nella Basilica di Sant’Antonio a Padova si trova un monumento dedicato al cardinale Pietro Bembo, opera del grande architetto Andrea Palladio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida di Roma e navigando in rete fate visita alla chiesa di Santa Maria sopra Minerva per rendere omaggio alla tomba di Pietro Bembo, e poi con una guida di Padova e navigando in rete andate ad osservare nella basilica di Sant’Antonio il monumento dedicato a Pietro Bembo dal Palladio

     Quindici giorni fa abbiamo concluso il nostro itinerario dicendo che spesso e volentieri [fino al 1533] Pietro Bembo soggiornava periodicamente a Ferrara perché era attirato da “il mondo magico della poesia cavalleresca” che il suo amico Ludovico Ariosto stava mettendo a punto, ma il tema della “magia” va oltre la poesia e ha un ruolo in funzione degli esordi della scienza agli albori dell’Età moderna.

     Per quanto riguarda la poesia naturalmente l’elemento magico [a suo modo, perché in poesia la magia è incantesimo, è sortilegio, è prodigio, è fantasia mentre in campo filosofico la magia è una disciplina che incide sul piano teologico, come vedremo], il fattore di stimolo della fantasia, costituisce una componente fondamentale per i poemi cavallereschi che emerge tanto nel testo dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto quanto in quello dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo. Conosciamo, per esempio, gli effetti de “le fonti magiche dell’amore e del disamore” [bisogna fare sempre attenzione a dove si beve!] che costringono Rinaldo e Angelica, che ad esse hanno inconsapevolmente bevuto, a fuggirsi o a rincorrersi a turno l’uno con l’altra. Nel poema dell’Ariosto, così come in quello del Boiardo, tutta la Natura è influenzata da “corrispondenze magiche” secondo un’idea che come vedremo investe il pensiero filosofico rinascimentale, ma per Ariosto queste “corrispondenze” dipendono dal carattere “fisico” della Natura e non da influssi divini [Ariosto sta ben attento a non fare considerazioni di tipo teologico nel testo del suo poema e su questo tema torneremo a riflettere tra due itinerari].

     Poi è frutto di magia [di magia poetica] la comparsa dello spirito dei morti [soprattutto dei caduti in combattimento durante i tornei], e questo genere di apparizioni corrisponde a una metafora di tipo etico: uno spirito appare allo scopo di rimproverare i vivi per qualche azione scorretta che hanno compiuto nei loro confronti in modo [soprattutto se si tratta di cavalieri] da richiamarli alle loro responsabilità, affinché rispettino le volontà e la memoria dei caduti, e nel primo canto del poema ariostesco ci si trova ben presto di fronte a un caso del genere [la magica comparsa poetica dello spirito di un guerriero caduto in singolar tenzone che rimprovera il suo uccisore per non aver mantenuto fede a un patto].

     Ma, prima di incontrare questo caso specifico, bisogna leggere le ottave [dalla 10ª alla 17ª] che precedono questo episodio e, comunque a proposito di magia, nella 12ª ottava che stiamo per leggere viene citato anche un cavallo [un destriero di nome Baiardo] che proprio “per magia” è dotato di anima razionale. Procediamo, quindi, nella lettura del testo del primo canto dell’Orlando furioso tenendo conto del fatto che il nostro obiettivo didattico, come sappiamo, è quello di capire quale sia l’intento compositivo di Ariosto, il quale, oltre a voler narrare con ironia una serie di avventure, vuole soprattutto cimentarsi nell’utilizzo di una Lingua eloquente e autonoma che abbia una sua struttura ben definita: una struttura che possa creare uno stile e che sia il frutto delle idee che Pietro Bembo ha fissato nelle Prose della volgar lingua, idee da noi studiate che Ludovico Ariosto condivide pienamente e s’ingegna a metterle in pratica.

     Due settimane fa abbiamo letto [dalla 5ª alla 9ª ottava del primo canto dell’Orlando furioso] quello che si chiama “l’antefatto” nel quale Ariosto narra, sulla scia dell’Orlando innamorato del Boiardo, come Orlando e Rinaldo - ambedue innamorati di Angelica - se la contendano e, per questo motivo, re Carlo [Carlo Magno] ha consegnato la fanciulla al duca Namo di Baviera, il suo consigliere più fidato, perché la custodisca promettendola a quello dei due paladini che avrà combattuto con maggior merito nell’imminente battaglia contro gli Infedeli. Il fatto è che questa battaglia la vincono proprio gli Infedeli che mettono in fuga i Cristiani, e così Angelica resta sola nel padiglione dove viene custodita perché anche il duca Namo viene preso prigioniero e, quindi, a questo punto, Angelica è libera e fugge. Con la fuga di Angelica dal padiglione dove, per ordine di re Carlo è custodita dal duca Namo, comincia la vera e propria azione del poema Orlando furioso.

     Angelica, dopo la sconfitta subita dai Cristiani contro gli Infedeli, pensa bene di fuggire a cavallo e, appena entra nel bosco, s’imbatte in Rinaldo appiedato [lasciato a piedi dal suo cavallo Baiardo] il quale appena la vede la insegue, ma a difesa della fanciulla interviene un altro cavaliere, il saraceno Ferraù, anche lui innamorato di lei e, mentre i due si battono, Angelica ne approfitta per allontanarsi, per continuare la sua fuga. E ora leggiamo il testo delle ottave, dalla 10ª alla 17ª, con il relativo commento.

     Nella 10ª ottava leggiamo che Angelica, che avrebbe dovuto essere la ricompensa [mercede] del migliore in campo tra Orlando e Rinaldo nella battaglia contro gli Infedeli, si accorge - a causa della sconfitta subita dai Cristiani che si sono dati alla fuga - di essere rimasta sola nella tenda dov’era custodita dal duca Namo, e allora, visto l’andamento degli eventi, sale in sella a un cavallo e al momento opportuno scappa [quando bisognò le spalle diede], presagendo che, quel giorno, la Fortuna sarebbe stata avversa [rubella, ribelle] alla fede cristiana. Angelica entra in un bosco e, per lo stretto sentiero, incontra un cavaliere che avanza a piedi.

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 10

10. Dove, poi che rimase la donzella

ch’esser dovea del vincitor mercede,

inanzi al caso era salita in sella,

e quando bisognò le spalle diede,

presaga che quel giorno esser rubella

dovea Fortuna alla cristiana fede:

entrò in un bosco, e ne la stretta via

rincontrò un cavallier ch’a pié venìa.

     L’11ª ottava ci descrive questo cavaliere che avanza con addosso la corazza, in testa l’elmo, al fianco la spada ed al braccio lo scudo, e corre per la foresta più rapidamente di un contadino [il villan] poco vestito [mezzo ignudo, per essere più rapido nel correre] mentre partecipa a una gara di corsa [al pallio rosso, il palio è il drappo assegnato ai vincitori delle gare di corsa che si svolgevano in occasione delle sagre e delle feste locali, come ancor oggi il Palio di Siena]. Come si comporta Angelica quando vede questo cavaliere appiedato? Angelica, quando lo vede, tira immediatamente le redini per cambiare direzione come se fosse una timida pastorella che, molto rapidamente [mai sì presta], sottrae il piede dal morso di un serpente letale [crudo, crudele].

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 11

11. Indosso la corazza, l’elmo in testa,

la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo;

e più leggier correa per la foresta,

ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo.

Timida pastorella mai si presta

non volse piede inanzi a serpe crudo,

come Angelica tosto il freno torse,

che del guerrier, ch’a pié venìa, s’accorse.

     La 12ª ottava ci presenta questo guerriero attraverso la sua genealogia: Rinaldo [il paladin gagliardo] è il figlio di Amone, signore di Montalbano, al quale poco prima il proprio destriero [il destriero è il cavallo da battaglia che lo scudiero conduce a mano - con la destra, onde dextrarius - dietro al cavaliere, il quale lo monta al bisogno, mentre per cavalcare normalmente usa cavalli comuni detti ronzini], per uno strano caso, è fuggito di mano a Rinaldo e questo cavallo non è un animale comune [c’è qualcosa di magico in lui], si chiama Baiardo, per via del mantello baio, ed è [per magia] dotato di anima razionale e su di esso sono state raccontate, nell’antica Letteratura cavalleresca, storie meravigliose e commoventi [che già il Boiardo fa proprie]. Non appena Rinaldo posa lo sguardo sulla fanciulla, riconosce, nonostante sia lontana, l’angelica figura ed il bel volto che lo hanno imprigionato nelle reti dell’amore [ch’all’amorose reti il tenea involto].

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 12

12. Era costui quel paladin gagliardo,

figliuol d’Amon, signor di Montalbano,

a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo

per strano caso uscito era di mano.

Come alla donna egli drizzò lo sguardo,

riconobbe, quantunque di lontano,

l’angelico sembiante e quel bel volto

ch’all’amorose reti il tenea involto.

     Nella 13ª ottava vediamo Angelica [la donna] che fa voltare indietro il palafreno [il palafreno è il cavallo da parata che montano anche le donne] e per il bosco lo lancia in una corsa a briglia sciolta, e non si cura se la boscaglia sia rada [sgombra] o sia fitta: non va cercando [non procaccia] la via migliore e più sicura, perché pallida, tremante, e fuori di sé [di sé tolta], lascia che sia il cavallo a frasi strada da solo. L’animale vaga da ogni parte nell’inospitale [nell’alta e fiera] foresta tanto che, infine, giunge alla riva di un fiume [a una riviera].

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 13

13. La donna il palafreno a dietro volta,

e per la selva a tutta briglia il caccia

né per la rada più che per la folta,

la più sicura e miglior via procaccia:

ma pallida, tremando, e di sé tolta,

lascia cura al destrier che la via faccia.

Di su di giù, ne l’alta selva fiera

tanto girò, che venne a una riviera.

     Nella 14ª ottava Angelica, in riva al fiume, trova il guerriero saraceno Ferraù tutto impolverato e sudato. Per un grande desiderio di bere e di riposarsi questo guerriero è venuto via dalla battaglia, e poi, contro la sua volontà, si è dovuto fermare lì perché, nella fretta di bere, ha lasciato cadere nel fiume il proprio elmo [che suo proprio non è] e ancora non è riuscito a ripescarlo. Sappiamo, attraverso l’Orlando innamorato di Boiardo, che Ferraù ha ucciso in duello Argalìa, il fratello di Angelica, e ha gettato in un fiume il suo cadavere con tutte le armi perché questo gli era stato richiesto dallo stesso Argalìa prima di morire, ma Ferraù non ha rispettato in pieno la volontà del guerriero caduto poiché ha tenuto per sé come trofeo l’elmo di lui, ed è questo l’elmo che gli è caduto nell’acqua e che non riesce a ripescare.

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 14

14. Su la riviera Ferraù trovosse

di sudor pieno e tutto polveroso.

Da la battaglia dianzi lo rimosse

un gran disio di bere e di riposo;

e poi, mal grado suo, quivi fermosse,

perché, de l’acqua ingordo e frettoloso,

l’elmo nel fiume si lasciò cadere,

ne l’avea potuto anco riavere.

     Nella 15ª ottava Angelica arriva al fiume spaventata, gridando forte e, quando il Saracino [parola araba che significa “orientale”] ode la sua voce, salta sulla riva, la guarda attentamente in viso e subito riconosce che chi sta arrivando, nonostante sia pallida e turbata dalla paura e siano passati molti giorni [sien più dì] dall’ultima volta che ne ha avuto notizia [che non n’udì novella], è senza dubbio la bella Angelica.

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 15

15. Quanto potea più forte, ne veniva

gridando la donzella ispaventata.

A quella voce salta in su la riva

il Saracino, e nel viso la guata;

e la conosce subito ch’arriva,

ben che di timor pallida e turbata,

e sien più dì che non n’udì novella,

che senza dubbio ell’è Angelica bella.

     Nella 16ª ottava veniamo a sapere che Ferraù, essendo di indole gentile [cortese, disponibile] e forse avendo anche lui l’animo infiammato [il petto caldo] non meno dei due cugini [è innamorato anche lui di Angelica come Orlando e Rinaldo], porge a lei tutto l’aiuto che è in grado di darle, come se avesse riavuto l’elmo, temerario e spavaldo, sguaina la spada e corre minaccioso verso Rinaldo, che in realtà non è per niente intimorito perché non solo si sono già visti ma più volte si sono anche scontrati con le armi.

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 16

16. E perché era cortese, e n’avea forse

non men dei dui cugini il petto caldo,

l’aiuto che potea tutto le porse,

pur come avesse l’elmo, ardito e baldo:

trasse la spada, e minacciando corse

dove poco di lui temea Rinaldo.

Più volte s’eran già non pur veduti,

m’al paragon de l’arme conosciuti.

     Nella 17ª ottava comincia quello che potrebbe essere un duello all’ultimo sangue [una crudel battaglia], combattuto a piedi, come si trovano entrambi, con le spade sguainate [coi brandi ignudi]. Non solo le piastre della corazza e la maglia di ferro delle armature ma neanche le incudini [Ariosto usa il maschile, gli incudi] reggerebbero ai loro colpi. E, mentre l’uno si occupa affannosamente dell’altro [Or, mentre l’un con l’altro si travaglia], Angelica costringe il suo cavallo ad affrettare il passo [bisogna al palafren che ‘l passo studi] in modo da spronarlo a correre [che quanto può menar de le calcagna] per il bosco e per l’aperta campagna.

LEGERE MULTUM….

Ludovico Ariosto, Orlando furioso  I 17

17. Cominciar quivi una crudel battaglia,

come a pié si trovar, coi brandi ignudi:

non che le piastre e la minuta maglia,

ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi.

Or, mentre l’un con l’altro si travaglia,

bisogna al palafren che ‘l passo studi;

che quanto può menar de le calcagna,

colei lo caccia al bosco e alla campagna.

     Mentre i due guerrieri si scontrano con ardore Angelica sprona il cavallo e scappa per il bosco e per l’aperta campagna. E noi lasciamo che Rinaldo e Ferraù combattano fino a quando saranno in grado di fare una riflessione su come si stanno comportando in modo controproducente: mentre loro si battono per lei, Angelica ha tagliato la corda.

     A questo punto anche noi dobbiamo dare inizio a una riflessione [come abbiamo detto] sul tema della magia, un tema che, in epoca rinascimentale, va ben oltre la poesia.

     Il tema della magia - una disciplina che si colloca agli esordi della scienza [secondo il titolo del nostro viaggio di studio] - è un argomento di vaste proporzioni all’interno della Storia del Pensiero Umano, un argomento complesso che dobbiamo affrontare con ordine nelle sue linee essenziali. Di che cosa parlano le intellettuali e gli intellettuali rinascimentali quando, agli albori dell’Età moderna, si occupano con notevole interesse di “magia”? Ebbene, è proprio agli albori dell’Età moderna che, in particolare presso l’Accademia platonica fiorentina, si tesse il ragionamento che stiamo per mettere in atto.

     La parola “magia” è di origine persiana [e in Età ellenistica è entrata nel vocabolario greco e successivamente in quello latino], e “i magi” sono i sacerdoti custodi del pensiero di Zaratustra, e il termine iranico “magia” corrisponde alla parola “arte” e i magi zoroastriani praticano quest’arte divinatoria [in chiave profetica, invitando l’individuo a essere responsabile del proprio destino] per dare “una dimensione allo spirito umano” perché l’animo [la capacità volitiva, la mente, l’intelletto] di ogni persona sia in grado di cogliere le suggestioni trascendenti [divine] che sono presenti nella Natura. La magia quindi, nel senso più etimologicamente autentico del termine, va definita come “una dimensione dello spirito”, già ben sviluppata durante l’Età assiale [2500 anni fa] tanto nell’area iranica dove ha predicato Zaratustra, quanto nell’area mesopotamica, dove sono attivi gli astrologi babilonesi, e in quella egizia, dove si sviluppa il culto di Iside e quello Ermetico; inoltre, della “dimensione magica” se ne trova una traccia profonda anche nella Letteratura dell’Antico Testamento per cui nel I secolo il fenomeno della magia entra inevitabilmente, e in modo complesso e contraddittorio, nella Storia del cristianesimo delle origini.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

È considerato “magico” il momento in cui si colgono particolari suggestioni  provenienti dalla Natura… In quale circostanza avete usufruito di un momento di questo genere?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     Il tema della dimensione magica emerge nel Quattrocento, nell’area occidentale della cristianità, in termini ambigui perché questo fenomeno appare con una carica contraddittoria fin dalle origini della Storia del cristianesimo, e nel Rinascimento molti studiosi formulano - nell’ambito della cristianità - un’esegesi favorevole nei confronti de “la disciplina magica” sebbene succeda che questo atteggiamento venga condannato come riprovevole manifestazione di paganesimo dai tribunali ecclesiastici, ma, se si va a indagare, scopriamo che spesso gli stessi inquisitori che perseguono e condannano “la magia” poi la praticano di nascosto [e quando si domanda loro il perché di questo modo di fare dichiarano che stanno studiando questo fenomeno “diabolico” per combatterlo meglio].

     In ogni caso la magia, in Età rinascimentale [agli albori dell’Età moderna, nel territorio su cui stiamo viaggiando], è considerata una vera e propria disciplina, una materia di studio che si colloca agli esordi della scienza perché l’attività che definiamo con il termine “scienza”, da principio, è strettamente legata a “la dimensione magica”, ma procediamo con ordine [che il percorso è accidentato].

     In Età rinascimentale [agli albori dell’Età moderna] la magia è considerata una vera e propria disciplina, una materia di studio, le cui regole - nel contesto di un tormentato contrasto ideologico all’interno della cristianità [su cui dobbiamo riflettere] - sono state tramandate nel corso dei secoli e, in età moderna, come abbiamo detto, sono molti se non tutti gli intellettuali [scienziati, medici, filosofi, scrittori, artisti] che si occupano di questa disciplina.

     Utilizziamo, a questo proposito, la testimonianza di Leonardo da Vinci [che tutte e tutti conoscete] in quanto pittore, e leggiamo che cosa scrive nel suo Trattato della pittura pubblicato postumo a Parigi nel 1651: «Mentre lo scultore [scrive Leonardo pensando a Michelangelo] s’affanna a penetrare nella rozzezza de la materia bruta, il dipintore, come vero mago, cerca le corrispondenze tra l’Anima della Natura e lo Spirito dell’opera sua [e Michelangelo pensa la stessa cosa riguardo allo scultore]».

     Il pittore [o lo scultore] come “un vero mago” [scrive Leonardo] cerca [rende visibili, percepibili] “le corrispondenze” che intercorrono tra l’Anima della Natura [o l’Anima del mondo] e lo Spirito dell’opera creata dall’artista e questo concetto lo si può capire se si osservano le opere di Leonardo: in tutte le opere pittoriche di Leonardo emerge un senso di mistero che crea “una suggestione magica” perché Dio - secondo il pensiero neoplatonico che Leonardo rispetta - ha dato un’Anima alla Natura oltre che a ciascuna persona, e l’Anima personale entra in relazione con il mistero di Dio attraverso la corrispondenza tra l’Anima individuale e l’Anima del mondo, e Leonardo cerca di dare visibilità al manifestarsi di questa relazione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con un catalogo che trovate in biblioteca e navigando in rete andate a osservare le opere pittoriche di Leonardo per intercettare “la magica suggestione” che da esse emana

     Ma Leonardo scrive in nome di un’antica tradizione e sa che quando cita il termine “mago”, da una parte, rischia di essere censurato, però, dall’altra, tutti sanno di che cosa sta parlando, e noi di conseguenza ci dobbiamo domandare: perché c’è questa ambiguità nell’ambito della cristianità occidentale, all’interno della quale nasce e si sviluppa il movimento del Rinascimento, nei confronti della dimensione magica? Nel Rinascimento, con l’emergere di una visione laica della vita [proprio nell’ambito della cristianità] e con l’affermarsi di un forte interesse verso la Natura - che non è ancora un interesse disciplinato dalle regole della scienza - la magia diventa una parte costitutiva del pensiero filosofico, un pensiero che si muove comunque nell’ambito della cristianità. Spesso diventa difficile, nel ‘400 e nel ‘500, distinguere il filosofo dal mago e differenziare lo scienziato dal mago, e siccome tutto ciò che riguarda la cultura avviene nell’ambito della cristianità ci dobbiamo chiedere: che tipo di rapporto s’instaura tra il pensiero magico e la dottrina cristiana [di dura condanna, di grande tolleranza o di strana ambiguità]? Di fronte a questo interrogativo [per conoscere, per capire e per applicarci] noi dobbiamo retrocedere per fare il punto della situazione.

     In Occidente “la dimensione magica” trova una sua collocazione, sul territorio dell’impero romano, in tutte le principali correnti di pensiero: nello Stoicismo, nel Neopitagorismo, nello Gnosticismo, nel Neoplatonismo e nell’Ermetismo [un pensiero che ci verrà spiegato prossimamente dagli studiosi dell’Accademia platonica fiorentina] e poi, inevitabilmente, il fenomeno della magia dal I secolo deve confrontarsi con l’espansione del cristianesimo, e che tipo di rapporto s’instaura? S’instaura un tipo di rapporto interlocutorio e ambiguo ma non è così strano: bisogna riflettere.

     Tra il pensiero magico e la dottrina cristiana delle origini si sviluppa un rapporto interlocutorio, ambiguo [ambivalente] che continuerà a essere tale fino all’Età moderna. Il cristianesimo, in origine, si presenta come un movimento che privilegia gli aspetti sociologici e materialistici della realtà e che rifiuta i culti pagani [influenzati dal pensiero e dalla dottrina magica] e respinge anche l’eccessivo coinvolgimento spirituale [il cristianesimo predica la risurrezione della carne mentre la disciplina magica riguarda la sfera dello spirito]. Il cristianesimo dovrebbe mal tollerare “il fenomeno della magia”: come sarebbe a dire che “la magia dovrebbe essere mal tollerata dal cristianesimo”, perché usiamo il condizionale [dovrebbe essere mal tollerata]?

     La Chiesa delle origini, alla fine del I secolo, sotto la guida di Clemente Romano, il primo papa storicamente attendibile della Chiesa di Roma [le figure dei tre papi precedenti - Pietro, Lino e Anacleto - sono avvolte nella leggenda] tiene un atteggiamento interlocutorio [e ambiguo,  nel senso di ambivalente] riguardo al tema de “la dimensione magica” [chi predica il messaggio cristiano deve tener conto del fatto che si rivolge ai pagani che hanno un’idea positiva della magia]. Intorno all’anno 96, Clemente Romano fonda la “Scuola di scrittura [cosiddetta] ellenistico-clementina”, un laboratorio intellettuale [di straordinaria importanza] che elabora e codifica la dottrina originaria della Chiesa di Roma: con la collaborazione di Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne, gli altri due Padri apostolici [il terzo è appunto Clemente Romano], vengono raccolte, messe in ordine e completate le quattordici Lettere di Paolo di Tarso [che è morto da circa trent’anni e l’Epistolario di Paolo contiene il nocciolo, il Kerigma, dell’annuncio salvifico cristiano], poi vengono scritti i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca [che fanno da introduzione alla Letteratura dei Vangeli che è in via di formazione] e viene scritto [perché diventi il primo catechismo della Chiesa] il testo degli Atti degli Apostoli. Queste opere [che tutte e tutti conosciamo e che abbiamo analizzato in molti dei nostri viaggi] rappresentano la sintesi originaria [clementina] della dottrina della Chiesa di Roma che si pronuncia [è chiamata a pronunciarsi] anche nei confronti del fenomeno della magia e non la condanna né la rifiuta ma enuncia un forte “ammonimento” per dire che su questa complessa materia è necessario fare chiarezza.

     Si capisce - e lo si comprende studiando, in particolare, il testo degli Atti degli Apostoli - che “il tema della magia” si pone, in origine, in modo problematico all’interno delle Chiese cristiane, e questo perché è documentata l’esistenza di “una corrente gnostico-esoterica di tendenza magica” che ha un consistente numero di adepti all’interno dell’eterogeneo movimento che predica la buona notizia, il Vangelo, della risurrezione di Gesù di Nazareth. La corrente cristiana esoterica di tendenza magica manifesta il suo pensiero, soprattutto, nel testo del Vangelo di Filippo.

     Il Vangelo di Filippo è uno dei testi di cultura gnostica [possediamo quattro testi di cultura gnostica: il Vangelo di Tomaso, il Vangelo di Filippo, il Vangelo di Verità e il Vangelo di Maria (Maria Maddalena)]: il Vangelo di Filippo [Filippo è il nome di uno dei sette diaconi - gli aiutanti degli Apostoli - e il racconto dell’istituzione del diaconato lo si trova nel capitolo 6 degli Atti degli Apostoli], e questo testo, come gli altri tre, è stato composto nel corso del II secolo in Egitto dove la cultura magica [ermetica] è molto sviluppata.

     Il Vangelo di Filippo è un’opera complessa che mescola insieme componenti della cultura greca con elementi di natura esoterica cioè mette insieme concetti del pensiero di Platone con norme derivanti dalla tradizione magica dell’antico Egitto [le norme ermetiche] e dell’antica Babilonia per cui «Gesù Cristo è la gnosis, è la Conoscenza [Gnosis] divina fatta persona, è l’idea della Sapienza di Dio discesa nel mondo, è la Via intellettuale che porta a conoscere Dio attraverso un rituale di natura magica». Dio, infatti, secondo il pensiero gnostico che si fonda sulla Filosofia neoplatonica, emana, come se fosse l’Uno di Plotino, dentro la Natura [in forma allegorica] dei segnali intellettuali che il Vangelo di Filippo chiama “congiunzioni” [sizigie] e, di conseguenza, la persona entra in rapporto con Dio intercettando questi segnali [allegorici] e trovando un legame congiungendosi a essi. Il Vangelo di Filippo è anche in sintonia con l’ebraismo ellenistico perché nella Letteratura dell’Antico Testamento esiste un ricco substrato di cultura magica in cui Dio fa la sua parte.

     L’anonimo intellettuale gnostico che, nel II secolo, ha composto il Vangelo di Filippo, ha preso spunto - per giustificare l’operazione intellettuale che ha compiuto - dal testo degli Atti degli Apostoli perché in quest’opera catechistica si racconta, dal versetto 9 al versetto 25 del capitolo 8, che il personaggio di Simon mago [un personaggio che tutte e tutti voi avete sentito nominare], ascoltando la predicazione del diacono Filippo, in Samaria, insieme a tante altre persone [donne e uomini]  «credette e fu battezzato», e il testo del Vangelo di Filippo viene scritto per chiarire che la magia, intesa in senso gnostico [come disciplina che insegna a intercettare e fare propri i segnali - le allegorie, le metafore, i simboli - che Dio emana nella Natura perché la persona possa avvicinarsi a Lui], non è in contrasto con la dottrina cristiana [e su questo tema si presume ci sia un’animata discussione in corso].

     Questa operazione letteraria in chiave gnostica avviene perché la dottrina enunciata dagli Atti degli Apostoli sul tema della magia è interlocutoria [ambivalente]: leggendo con attenzione i versetti dal 9 al 25 del capitolo 8 degli Atti degli Apostoli ci si rende conto che, in primo luogo, la Chiesa di Roma deve fare i conti, al suo interno, con la questione magica per non perdere i vari settori di nuovi credenti abituati ai culti pagani [ed è, quindi, giustificato l’uso del condizionale nelle affermazioni dottrinali pronunciate in proposito]. La figura di Simon mago è simbolica ed è un personaggio che rappresenta una categoria [è un modello creato per la predicazione su un tema assai delicato], egli viene presentato come un personaggio che fa parte della comunità cristiana in quanto “mago”, e non gli si contesta “di essere mago” e «di aver sconvolto molta gente [si legge sul testo degli Atti] con le sue arti magiche tanto da far pensare che in lui si manifesti la grande potenza di Dio» e, quindi, al mago Simone potrebbe anche essere riconosciuto «il merito di aver compiuto delle straordinarie magie», ma non lo si giustifica più quando - dopo che lui ha constatato, stando accanto a Filippo, i prodigi che avvengono in virtù dello Spirito Santo - fiuta l’affare e vorrebbe comprare dagli Apostoli [Pietro e Giovanni] il potere, che loro hanno ricevuto a Pentecoste, di poter imporre le mani su qualcuno in modo che riceva i doni dello Spirito.

     Il testo degli Atti contesta al mago Simone il fatto che faccia confusione e consideri i doni gratuiti dello Spirito Santo come se fossero dei prodigi magici da elargire a pagamento e, di conseguenza, viene duramente rimproverato da Pietro: «Va in malora tu e il tuo denaro [dice Pietro al mago Simone] perché hai pensato che il dono di Dio si possa acquistare con i soldi [ed è invece frutto della Grazia]» e questo è il peccato di Simon Mago. «Tu non hai la coscienza a posto davanti a Dio [aggiunge Pietro] e devi smetterla di pensare ai soldi e prega il Signore perché ti perdoni l’intenzione malvagia che hai avuto di arricchirti, perché, a causa di questo insano proposito, tu sei pieno di male e prigioniero della cattiveria». Il testo degli Atti degli Apostoli non fa dire a Pietro: «Va in malora tu e la tua magia, vai al diavolo perché sei un mago!», ma il testo degli Atti condanna il fatto che Simone voglia fare i soldi con i doni dello Spirito e anche con la magia: questa è la cattiveria, il suo peccato non è la magia, ma è il lucro. E voi sapete che “la vendita dei doni dello Spirito” verrà chiamato “peccato di simonia” [un peccato molto praticato dagli ecclesiastici nel Medioevo e nel Rinascimento i quali però si comportano molto peggio di Simone che, alla fine, si ravvede].

     In conclusione questo brano degli Atti [capitolo 8 versetti 9-25] taglia corto e ci fa capire che, di fronte a questo autorevole rimprovero, il mago Simone si ravvede e, di sicuro, gli viene concesso di rimanere nella Chiesa “in quanto mago”. La dottrina Clementina della Chiesa di Roma rifiuta l’idea che l’opera dello Spirito Santo possa essere considerata “magica” e possa essere esposta sul mercato della magia: le opere dello Spirito sono doni gratuiti e sono frutti dell’Agape, dell’Amore solidale ma, contemporaneamente, nei confronti de “la disciplina magica” e di chi la pratica, gli Atti non esprimono una condanna, e il mago Simone, in quanto tale, rimane nella Chiesa e, quindi, il testo del Vangelo di Filippo può autenticare l’appartenenza alla Chiesa della corrente gnostico-esoterica di tendenza magica.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete con attenzione i versetti dal 9 al 25 del capitolo 8 degli Atti degli Apostoli per rafforzare la vostra conoscenza su questo tema assai delicato

In biblioteca nel volume dei “Vangeli gnostici” e anche navigando in rete trovate il testo del Vangelo di Filippo: sfogliatelo e leggetene qualche riga, è un testo di non facile lettura ma assai suggestivo…

     Noi adesso ne leggiamo un frammento perché c’è un termine significativo [ed è qui che volevamo arrivare] che corrisponde a una indicazione fondamentale nei confronti della direzione che deve prendere il nostro cammino.

LEGERE MULTUM….

Vangelo di Filippo

Davanti alla verità l’essere umano non si trova come di fronte al mondo: vede il sole, pur non essendo il sole, vede il mare pur non essendo il mare, ma se tu hai visto qualcosa di quel luogo, sei diventato quello che hai visto. Egli [Gesù Cristo] parlò del luogo da cui ciascuno è venuto e della regione nella quale ha ricevuto il suo essere essenziale. Il luogo al quale rivolsero il pensiero, quel luogo è la loro radice.

Gesù venne da quel luogo, donde portò del cibo. A chi lo desidera ha dato la vita. Presteranno attenzione alla loro radice. Gesù dissimulò segretamente ogni cosa. Egli, infatti, non si manifestò quale era realmente, ma si manifestò come lo si poteva vedere: grande ai grandi, piccolo ai piccoli, angelo agli angeli, uomo agli uomini. Perciò il suo Logos [la sua vera essenza] si è nascosto a tutti. Alcuni lo vedono credendo di vedere se stessi. La verità non è venuta nuda in questo mondo ma in simboli e in immagini [allegorie]: non la si può afferrare in altro modo se non con la magica disciplina ermetica. Colui che è incapace di ricevere, a maggior ragione è incapace di dare. La fede riceve, l’amore dà. Nessuno può ricevere senza la fede, nessuno può dare senza l’amore. Per questo appunto crediamo, per ricevere veramente: e così possiamo amare e dare.

     «La verità non è venuta nuda in questo mondo ma in simboli e in immagini: non la si può afferrare in altro modo se non con la magica disciplina ermetica»- Leggendo questa frase si capisce perché “la magica disciplina ermetica” abbia destato un vivo interesse tra gli umanisti e, quindi, durante l’Età rinascimentale si capisce perché da Occidente si vada in Oriente alla ricerca dei cosiddetti “testi ermetici” i quali - oltre che dai Vangeli gnostici - vengono citati in molte opere classiche greche e latine.

     Nel corso dei secoli, all’interno della cristianità, il dibattito sul tema della magia continua sulla scia dell’ambiguità originaria che abbiamo messo in evidenza: a volte la dottrina ecclesiastica entra in rotta di collisione con la tendenza magica, altre volte la fa addirittura propria perché è la filosofia rinascimentale, che opera nell’ambito della cristianità, a farla propria, ma siamo appena all’inizio del cammino.

     In che modo la filosofia rinascimentale fa propria “la dimensione magica”? E che cos’è il Corpus hermeticum e perché interessa così tanto ai filosofi rinascimentali: che cosa cercano e che cosa vorrebbero trovare nei testi di questo Corpus [formule magiche per entrare in relazione con la divinità o idee utili per poter capire i misteri della Natura?] e, soprattutto, chi spende un bel mucchio di fiorini per acquisire il Corpus hermeticum e per farlo arrivare in Occidente nell’Accademia di cui ha patrocinato la fondazione?

     E, infine, i nostri due valorosi cavalieri, Rinaldo e Ferraù, che abbiamo lasciato a combattere [e che a quest’ora saranno molto stanchi] che cosa fanno quando si accorgono che Angelica, della quale sono entrambi innamorati, se l’è squagliata? Si domandano che senso abbia continuare a battersi?

     E, a questo punto, Ludovico Ariosto, anche con ironia, coglie l’occasione [e lo fa spesso, come già ha fatto Boiardo] per dare, attraverso i suoi personaggi, una Lezione alle lettrici e ai lettori di tolleranza, di generosità, di rispetto: di “cortesia” [una Lezione di grande attualità]. Scrive Ariosto in un verso che è diventato famoso: «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!» [questo verso ha ispirato molte autrici e molti autori] e come si manifesta la bontà di questi due personaggi che sono due guerrieri e sono nemici e quindi dovrebbero solo odiarsi?  

     Per rispondere a queste domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé, consapevoli che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare: «Prima della scienza era la magia a indicare del saper la via, e sono i magi che per primi della stella seguono la scia».

     La Scuola è qui, e il viaggio continua “sulla scia della magia”…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 10, 2017