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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA MATURA L’IDEA CHE LA RIFORMA STRUTTURALE E CULTURALE DELLA CHIESA DEVE AVVENIRE “RISALENDO AL VANGELO” ...

Lezione N.: 
24

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

La sapienza poetica e filosofica agli albori dell’età moderna     26–27-28  aprile 2017

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA RINASCIMENTALE ALL’ALBA DELL’ETÀ MODERNA

MATURA L’IDEA CHE LA RIFORMA STRUTTURALE E CULTURALE DELLA CHIESA DEVE AVVENIRE RISALENDO AL VANGELO ...

     Questo è il ventiquattresimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica rinascimentale agli albori dell’età moderna” e il nostro Percorso procede all’interno della Cappella Sistina nella quale siamo entrate e siamo entrati [quattro settimane fa] per osservare le immagini affrescate da Michelangelo sul soffitto di questo famoso edificio.

     Dopo aver osservato la figura del profeta Zaccaria con il volto di papa Giulio II - che ci accoglie all’ingresso sopra la porta principale della Cappella tenendo in mano il Libro omonimo [il Libro di Zaccaria] - abbiamo puntato la nostra attenzione su alcune categorie di figure che rappresentano i punti di raccordo di una struttura portante e che servono soprattutto a garantire “l’unitarietà” dell’affresco. “L’unitarietà” [la possibilità di creare uno spazio comune - un paesaggio intellettuale comunitario - che garantisca a ogni tradizione culturale la propria autonomia] è un concetto rinascimentale di derivazione neoplatonica sottolineato anche, come abbiamo studiato, nel testo del Libro del profeta Zaccaria che, proprio per questo motivo, si trova per primo [nelle mani del papa] all’ingresso della Cappella.

     Successivamente, disposti su i dieci arconi - che danno un aspetto architettonico classico alla volta della Sistina - abbiamo osservato le venti figure degli Ignudi che, seduti nelle più svariate posizioni, reggono i nastri colorati che tengono in tensione i dieci Medaglioni che contengono l’illustrazione di una serie di storie bibliche che alludono, come sapete, ai due Libri dei Maccabei, due testi nei quali risaltano i concetti di “autonomia” [la parola-chiave più rappresentativa agli albori dell’Età moderna, un termine che completa il concetto dell’unitarietà] e di “risurrezione” [la parola-chiave, già evocata dall’ebraismo, che richiama l’idea della necessità della riforma strutturale e culturale della Chiesa perché “rinnovamento” e “risurrezione” sono sinonimi (secondo l’Epistolario di Paolo di Tarso)].

     Come sappiamo, i due Libri dei Maccabei, appartenenti alla sezione deuterocanonica della Bibbia che attira l’interesse esegetico degli Umanisti rinascimentali, raccontano la saga di una famiglia, e il tema della “saga familiare” domina nella Letteratura biblica e, di conseguenza, si rispecchia anche nelle immagini dipinte sul soffitto della Cappella Sistina, difatti le immagini suggestive [che abbiamo osservato la scorsa settimana], contenute nelle quattordici Lunette e nelle otto Vele che corrono tutt’intorno al soffitto della Cappella Sistina, riproducono, nelle Lunette, le figure di singoli capi-famiglia [gli Antenati di Gesù Cristo] e di altre figure che compiono gesti domestici, e nelle Vele sono raffigurate in primo piano una serie di madri con i loro bambini: queste immagini, nel loro complesso, servono ad introdurre il tema della “casata di Davide” che corrisponde al tema degli Antenati di Gesù. Ma questo argomento, che lega le figure di Naason, di Davide e di Gesù Cristo, deve condurre - secondo le intenzioni del committente [il papa], del pittore [Michelangelo] e del consulente librario [Fedra Inghirami] - a porre l’attenzione sull’Epistolario di Paolo di Tarso e sulla dottrina in esso contenuta: su questo tema abbiamo già iniziato a fare l’analisi la scorsa settimana ma dobbiamo replicare la riflessione su questo argomento per poter riprendere il filo del discorso, in modo da conoscere, da capire e da applicarci.

     Come sappiamo, agli albori dell’Età moderna nasce, da parte degli Umanisti rinascimentali, un vivo interesse per l’Epistolario di Paolo di Tarso: Marsilio Ficino quando muore aveva appena cominciato a commentare le Lettere di Paolo [a cominciare dalla Lettera ai Romani], Pico della Mirandola nel Trattato sulla dignità umana cita spesso le Lettere di Paolo, Erasmo da Rotterdam facendo l’esegesi delle Lettere di Paolo elogia “la saggezza di Dio che sta nella follia e la forza che sta nella debolezza”. Gli Umanisti rinascimentali, studiando l’Epistolario di Paolo di Tarso, ravvisano la stridente incoerenza che emerge tra la dottrina paolina di stampo profetico ed evangelico [il termine “vangelo” lo ha creato Paolo] e la mentalità trionfalistica e imperialista assunta dai membri che stanno al vertice della Chiesa i quali introducono spesso nel Corpus del Diritto canonico norme che generano atteggiamenti contrari ai principi del Vangelo [la discriminazione razziale, l’antisemitismo, la giustificazione della tortura per estorcere le confessioni, la vendita delle indulgenze e delle assoluzioni, il privilegio giuridico ed economico per gli ecclesiastici].

     Il dibattito sull’incoerenza - esistente in modo palese tra la dottrina evangelica e profetica di Paolo e la mentalità trionfalistica e imperialista di chi pensa di tutelare in modo autoritaristico l’ortodossia cristiana - trova riscontro nelle immagini affrescate sul soffitto della Cappella Sistina, e allora prendiamo il passo cercando di dipanare intrecci filologici che sono piuttosto complessi da individuare, perché composti con la dovuta circospezione, ma abbastanza semplici da capire, soprattutto ora dopo quasi sette mesi di viaggio.

     Come sappiamo, Michelangelo, nell’ultima Lunetta della parete sinistra del soffitto della Cappella Sistina, ritrae la figura di Naason, figlio esemplare di Aminadab [e sul REPERTORIO... della scorsa settimana, abbiamo visto questa immagine]: Naason, secondo la tradizione del Talmud,  si distingue per la sua fede [in fuga dall’Egitto, prima ancora che le acque nel Mar Rosso si dividano per ordine di Mosè, Naason si è già lanciato in acqua perché ha fede che Dio manterrà la promessa, e Dio mantiene la promessa proprio perché c’è qualcuno che si fida di Lui prima che si compia il prodigio] e Paolo di Tarso lo cita affermando che Davide, discendente di Naason, ne ha ereditato la fede, e che Gesù, discendente di Davide, secondo la genealogia che, in linea con la Lettera ai Romani di Paolo di Tarso, troviamo all’inizio del Vangelo secondo Matteo, coltiva la stessa fede, una fede - scrive Paolo nella Lettera ai Romani - intesa come “l’evidenza delle cose mai viste e delle cose sperate”, ed è sulla scia di questa affermazione che Paolo può affermare che “ci si salva per fede, e le opere vengono di conseguenza” e che “Gesù è stato adottato da Dio per la sua fede, e la risurrezione viene di conseguenza”.     

     Michelangelo, nell’ultima Lunetta della parete sinistra, ritrae il giovane e riccioluto Naason, tutto avvolto da un mantello rosso, in una posizione in cui allunga la gamba destra e solleva il ginocchio sinistro con studiata disinvoltura in modo da formare, con il suo corpo, la lettera greca λ lambda posta in posizione orizzontale, e questa postura corrisponde al fatto che sul leggio, che ha davanti, c’è il volume dell’Epistolario di Paolo di Tarso [e l’ombra Paolo si riflette sulla parete], e il Libro è aperto sulla pagina della Lettera ai Romani che contiene il capitolo 4 [con il tema delle promesse di Dio in relazione alla fede], dove si riesce a leggere [con grande difficoltà, su indicazione del filologo Fedra Inghirami, ma la discrezione è voluta] una sola parola, la parola-chiave “lamprotes”, che significa “l’evidenza”, termine con cui inizia la definizione che Paolo di Tarso dà della fede: “la fede è l’evidenza delle cose mai viste, delle cose sperate” [una definizione gradita a Marsilio Ficino, a Pico della Mirandola e a tutti i componenti della corrente pedagogico-filologica del neoplatonismo quindi anche a Giulio II, a Fedra Inghirami e a Michelangelo].

     Questa definizione è uno dei manifesti del movimento “adozionista” [Dio ha adottato Gesù Cristo come proprio figlio per la sua fede, in modo da poter far vivere, per mezzo di Lui, le cose che non esistono ancora, le cose sperate e non ancora viste]. E questo è il messaggio [un esempio dello stile del “decorar mostrando”] che emerge dalla visione complessiva delle scene affrescate ad arte da Michelangelo nelle Lunette e nelle Vele del soffitto della Cappella Sistina.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se, mediante un Catalogo e navigando in rete, avete osservato i personaggi e le scene affrescate da Michelangelo nelle Lunette e nelle Vele del soffitto della Cappella Sistina, potete dire quale immagine vi ha colpito maggiormente...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Le immagini suggestive dipinte nelle Lunette e nelle Vele del soffitto della Cappella Sistina contengono, nel loro complesso, un pensiero di carattere antagonista rispetto alla “definizione nicena sulla natura di Gesù”. Ebbene, sulla scia di questa affermazione, quale riflessione dobbiamo fare mantenendo lo sguardo rivolto al soffitto della Cappella Sistina?

     La formula imposta da Costantino al concilio di Nicea nel 325 per definire la natura di Gesù Cristo è una sentenza ben costruita [da Osio, Vito e Vincenzo, che sono costretti a compiacere l’imperatore], è un assioma che, dal IV secolo, noi pronunciamo recitando il Credo che conosciamo a memoria: «Gesù Cristo è vero Dio e vero Uomo, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre»: ebbene, questa proposizione è un’efficace formula di compromesso ed è un’espressione filosofica di stampo aristotelico che ha una funzione di carattere rituale e anche istituzionale [perché “Bisogna credere in questa formula se si vuole essere a pieno titolo cittadini dell’impero”, afferma Costantino che ha appena riunificato l’impero romano e vuole evitare prossime divisioni]. Ma dopo Nicea [dopo il 325], all’interno della cristianità, non è mai cessato il dibattito su questo tema delicato, e le domande sono: siamo davvero in grado di definire la natura di Gesù, e abbiamo gli strumenti adatti per definirla questa natura? Lo strumento per eccellenza, di impronta teologica, è la fede [e questa affermazione viene aggiunta al documento niceno da Osio, Vito e Vincenzo per ribadire che, al di là delle formule, la natura di Gesù Cristo rimane un mistero] e, allora, se lo strumento per eccellenza è la fede bisogna affermare [perché non c’è formula che tenga] che “la vera natura di Gesù Cristo [il suo reale rapporto con Dio] è un mistero”: è “un mistero della fede”.

     E “un mistero della fede” non lo si può svelare nella sua essenza semplicemente con una formula di carattere liturgico perché, di conseguenza, avrebbero diritto di entrare nel corpus della dottrina, oltre a quella nicena, anche le altre formule che derivano dalle varie icone di Gesù [quella ebionita, quella gnostica, quella adozionista, tanto per citare le più importanti] che, per giunta, sono accreditate nella Letteratura dei Vangeli [in particolare nell’Epistolario di Paolo di Tarso, nel Vangelo di Matteo, in quello di Giovanni e in quello di Marco] mentre la formula di Nicea è una proposizione ideologica non contemplata nella Letteratura dei Vangeli tanto che è stato necessario inserirla [interpolarla] successivamente d’autorità nei testi del canone della Sacra Scrittura cristiana da una apposita commissione dopo la chiusura del concilio di Nicea [come abbiamo studiato a suo tempo].

     Le immagini contenute nelle Lunette e nelle Vele del soffitto della Cappella Sistina ci fanno capire che il dibattito su questo tema ha ripreso vigore agli albori dell’Età moderna, alimentato dai membri della corrente pedagogico-filologica del neoplatonismo sulla scia del metodo esegetico di Lorenzo Valla che, dal 1449, ha lavorato per tradurre e per mettere in circolo l’Epistolario di Paolo di Tarso per dimostrare come “la dottrina paolina” sia in contrasto con quella trionfalistica e imperialista dei vertici della Chiesa [per giunta Lorenzo Valla - come sapete - ha anche dimostrato la falsità del Documento in cui si dice che Costantino ha donato la città di Roma al papa].

     Le immagini contenute nelle Lunette e nelle Vele del soffitto della Cappella Sistina [in particolare nel pannello affrescato nella Lunetta di Naason] richiamano il modo in cui Paolo di Tarso, nel suo Epistolario, ha descritto la persona di “Gesù risorto” definendolo con l’appellativo di “Cristo della fede” [l’Unto del Signore] secondo una terminologia che è tipica della Letteratura dei Profeti. Questa operazione viene affidata dal papa e da Fedra Inghirami ai pennelli di Michelangelo perché Paolo di Tarso, da circa tre secoli, è stato emarginato da chi detiene il potere di controllo sull’ortodossia perché tutto il pensiero di San Paolo, come abbiamo detto, è in contrasto con l’atteggiamento trionfalistico che i vertici della Chiesa hanno assunto nel tempo.

     Leggiamo, a questo proposito, un brano tratto dal primo capitolo delle Prima Lettera ai Corinti:

LEGERE MULTUM….

Paolo di Tarso, Prima Lettera ai Corinti  1, 17-31

Predicare la morte di Cristo in croce sembra una pazzia; ma qui sta la potenza di Dio. Dio ha ridotto a pazzia la sapienza di questo mondo, e ha deciso di salvare quelli che credono, mediante questo annuncio di salvezza che sembra una pazzia [ricordate Erasmo da Rotterdam?].

C’è chi vorrebbe i miracoli, e chi si fida solo della ragione, noi annunciamo Cristo crocifisso, e per qualcuno questo messaggio è offensivo mentre per altri è assurdo. Ma, per quelli che Dio ha chiamati, Cristo è potenza e sapienza di Dio. Perché la pazzia di Dio è più sapiente della sapienza umana, e la debolezza di Dio è più forte della forza umana.

Guardate tra voi, fratelli e sorelle. Chi sono quelli che Dio ha chiamati? Vi sono forse tra voi, dal punto di vista umano, molti sapienti o molti potenti o molti personaggi importanti? No! Dio ha scelto coloro che vengono considerati insignificanti, per coprire di vergogna i potenti; ha scelto quelli considerati deboli, per buttar giù quelli che si credono forti. Dio ha scelto quelli che nel mondo non hanno importanza o sono disprezzati o considerati come se non esistessero, per far vergognare quelli che pensano di valere molto più degli altri. Così, nessuno potrà vantarsi davanti a Dio. Dio però ci ha uniti a Gesù Cristo ed egli è per noi la sapienza che viene da Dio.   

     Tutta la dottrina di Paolo è in contrasto con l’atteggiamento trionfalistico e imperialista che i vertici della Chiesa hanno assunto nel tempo, quindi, per riformare la Chiesa [e papa Giulio II ne è convinto] è necessario “risalire alla dottrina di Paolo” ma questa è un’operazione non semplice da realizzare [troppi sono gli ostacoli ideologici da superare] però, sul piano culturale, afferma il papa, sul soffitto della Sistina il messaggio che bisogna “risalire alla dottrina di Paolo” può e deve comparire.

     Paolo di Tarso [in tutte le sue quattordici Lettere (sette autentiche e sette apocrife)] - dopo aver valutato i pochi fatti di cui è venuto a conoscenza - considera Gesù di Nazareth come “figlio adottivo di Dio”, e pensa che un figlio adottivo valorizza l’atto della filiazione perché [una volta caduto il mito del legame di sangue] amare una persona adottata comporta un maggior impegno, e poi “il metodo adozionista di Dio” avvalora, scrive Paolo, il fatto che ad ogni persona, se ha fede, è data la possibilità effettiva di diventare figlia e figlio di Dio [come è successo a Gesù].

     Ma, come abbiamo detto poco fa, tutto il pensiero di Paolo è in contrasto, soprattutto, con la svolta trionfalistica e imperialista che, in particolare a partire dal 1198, investe la Chiesa ai suoi vertici per cui la dottrina di San Paolo diventa scomoda: viene solennemente celebrato il suo nome, viene raffigurato insieme a Pietro con le chiavi in mano, viene presentato come se fosse un autoritario bacchettone ma se ne congela l’autentico pensiero, un pensiero che risulta antagonista rispetto all’ideologia del dominio universale del papato in materia spirituale e temporale.

     Mentre Michelangelo affresca il soffitto della Cappella Sistina, San Paolo, colui che, per primo, ha tessuto, con il suo Epistolario [scritto dal 51 al 64], una dottrina su “la buona notizia della risurrezione di Gesù” [il vangelo], e sebbene a Nicea le sue Lettere siano entrate, come parola di Dio, nel canone della Sacra Scrittura, tuttavia, da circa tre secoli, è tenuto in stato di emarginazione [e Giulio II vorrebbe iniziare a rompere questa spirale]. Il pensiero di San Paolo viene emarginato soprattutto da quando Innocenzo III [Lotario dei Conti di Segni, papa dal 1198 al 1216] - dopo aver istituito il Sant’Uffizio e i tribunali dell’Inquisizione per la difesa dell’ortodossia [è il papa della crociata contro i Catari] - proclama “la dottrina del dominio universale del papato in materia spirituale e temporale” e ne attua l’esecuzione pratica. Il papa si autodefinisce “rex regum et dominus dominantium” [re dei re e signore di chi comanda] per cui dichiara che il pontefice, in quanto vicario di Cristo, è la massima autorità terrena e ha il diritto di intervento in qualsiasi questione temporale e politica per cui i sovrani sono vassalli del papa il quale si riserva il potere tanto di eleggerli quanto di deporli.

     Queste dichiarazioni di supponenza [che rendono il papa un monarca assoluto invece che un pastore clemente e misericordioso] risultano fuori luogo, per non dire sconsiderate, alla luce di ciò che scrive Paolo nel primo capitolo della Prima Lettera ai Corinti: «E Dio ha scelto coloro che vengono considerati insignificanti, per coprire di vergogna i potenti; ha scelto quelli considerati deboli, per buttar giù quelli che si credono forti». Paolo, da buon fariseo [conoscitore della Scrittura], sta pensando, mentre scrive ai Corinti, a un personaggio biblico, a un debole pastorello che, armato solo della sua fionda, quando viene a trovarsi di fronte a un gigantesco guerriero con cui deve battersi a difesa del suo popolo, lo affronta e lo butta giù perché ha fede [non ha fede perché ha buona mira ma ha buona mira perché ha fede]. Questo pastorello, destinato a governare come re [Unto del Signore, Cristos in greco], si chiama Davide e quando Paolo, nel suo Epistolario, deve dare una definizione riguardo alla nascita di Gesù [del quale lui materialmente non riesce a sapere quasi nulla] fa riferimento a questo personaggio [Gesù appartiene alla casata di Davide, e Davide è, nella carne, l’antenato più autorevole di Gesù], e Michelangelo, con lo stile del “decorar mostrando”, si fa interprete di questa situazione: ma perché allora [direte voi] non raffigura Davide nelle Lunette? Perché nelle Lunette [su trentatré Antenati di Gesù elencati sui cartigli] ci sono solo due figure che Michelangelo personalizza [Aminadab e Naason] mentre a Davide [sebbene sia citato nei cartigli] vuole riservare un posto esclusivo, così come Paolo ha riservato a Davide, nel suo Epistolario, un posto privilegiato in relazione alla nascita di Gesù.

     Come sappiamo, Michelangelo, nell’ultima Lunetta della parete sinistra, affresca la figura di Naason come simbolo di fede e come elemento di sintesi del ciclo degli “Antenati di Gesù”. Naason viene dipinto mentre fissa il Libro che contiene le Lettere di Paolo di Tarso, aperto sul leggio che ha di fronte, e, come sappiamo, il pittore dispone il suo corpo in una posizione in cui si allunga in modo da formare la lettera greca  λ lambda posta in posizione orizzontale, e la forma di questo carattere è simile alla lettera ebraica גּ ghimel. Le lettere dell’alfabeto, secondo il pensiero della Cabala, hanno un valore simbolico e, in questo caso, la lettera greca λ lambda [e ricordiamoci che Paolo scrive in greco] e la lettera ebraica גּ ghimel - che risultano simili nella forma - veicolano il significato del messaggio. La forma della lettera greca λ lambda, disegnata sul corpo di Naason, viene utilizzata da Michelangelo, come sappiamo, per rappresentare “l’idea della fede” [la definizione della fede data da Paolo di Tarso], e la lettera ebraica גּ ghimel dove la troviamo?

     Michelangelo - rispettando la linea che lega Naason, Davide e Gesù Cristo tracciata da Paolo di Tarso - dipinge la lettera ebraica גּ ghimel sul pannello che raffigura Davide in una insolita posizione [mentre sta per vibrare il colpo di spada che dovrebbe - perché non sappiamo se lo sferrerà (e la scena rimane in sospeso) - tagliare la testa di Golia che è lucido e volta lo sguardo verso i suoi compagni esterrefatti], e questa posizione è funzionale a ciò che Michelangelo vuole rappresentare.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Osservate l’immagine che fa ben capire la situazione filologica: Michelangelo affresca i due personaggi – Davide e Golia – in una posizione che fa emergere la lettera ebraica גּ [ghimel] simile alla lettera greca λ [lambda] ...

Pennacchio a destra della porta: Davide e Golia

     E quali significati contiene la lettera ebraica גּ ghimel, e perché si raccorda con la lettera greca λ lambda che è simile nella forma? La lettera ebraica גּ ghimel rimanda ad alcuni significati che Michelangelo [così come Fedra Inghirami e Giulio II] conosce attraverso l’opera di Pico della Mirandola intitolata Heptaplus [della quale abbiamo studiato il contenuto nelle sue linee generali a gennaio, nel decimo itinerario al ritorno dalla vacanza natalizia]. L’Heptaplus [Sette volte sette] è il più importante trattato rinascimentale sulla Cabala ebraica scritto da uno studioso non ebreo di formazione cristiana e neoplatonica. Quest’opera tratta dell’interpretazione in chiave allegorica del racconto biblico della Creazione.

     Secondo il pensiero della Cabala [e tutti i personaggi che finora abbiamo incontrato in questo viaggio sono interessati a questo pensiero che traspare sul soffitto della Cappella Sistina] Dio [l’Aleph supremo, l’Uno], in principio, ha creato i simboli, e solo quando la persona è in grado di interpretarli con il proprio Intelletto la creazione si realizza, il mistero della creazione si rivela [abbiamo letto la pagina sulla quale Pico della Mirandola nell’Heptaplus riporta la narrazione della Creazione dal Libro della Genesi interpretata secondo il metodo cabalistico]. Appare evidente, a questo punto, il modo in cui Michelangelo crea: dalle sue figure [dalle figure più importanti] fa emergere, secondo lo spirito della Cabala, “il simbolo di natura alfabetica e numerica” proprio perché Dio ha creato l’Universo, pronunciando i numeri [che in ebraico vengono espressi con le lettere dell’alfabeto] dall’Uno al Dieci. E, quindi, procediamo con ordine.

     La lettera ebraica גּ ghimel corrisponde  prima di tutto al “numero Tre” e, come abbiamo appena ricordato, la Creazione del mondo, secondo il pensiero della Cabala [come c’insegna Pico della Mirandola nell’Heptaplus] avviene nel momento in cui Dio, per dare origine all’Universo, pronuncia i numeri dall’Uno al Dieci, e quando Dio dice «Tre» prendono forma le emanazioni del Pensiero, dell’Intelletto e dell’Anima; poi quando Dio dice «Dieci» si manifestano le sue comunicazioni divine al corpo umano [le dieci Sefirot]: Intelletto [Keter, corona], Comprensione [Binà], Sapienza [Chochmà], Energia [G’vurà], Bontà [Chessed], Bellezza [Tiferet], Splendore [Hod], Vittoria [Netzagh], Fondamento [Yesod], Generosità [Malchut, regalità]. La lettera גּ ghimel corrisponde alla comunicazione “G’vurà” che significa “Energia, Forza”. Se Michelangelo fa emergere la lettera greca λ lambda che rappresenta “”la fede [la definizione della fede data da Paolo di Tarso] raffigurandola nella posizione del corpo della figura di Naason nella sua Lunetta e la mette in relazione con la lettera ebraica גּ ghimel che significa “Energia, Forza” - ed entrambe le lettere risultano simili nella forma - costruisce  un messaggio significativo che si può esprimere con queste parole: “la fede è una energia particolare [G’vurà, ג] che trova la sua forza in un paradosso, nell’evidenza [lamprotes, λ] delle cose mai viste e delle cose sperate”.

     In questo messaggio - in linea con la dottrina di Paolo di Tarso - c’è l’indirizzo del progetto riformatore perché se la fede è “l’evidenza delle cose mai viste e delle cose sperate” questo significa che la Chiesa è ricca quando è povera, è forte quando è debole, è potente quando è generosa, è gloriosa quando sparisce come il lievito nella farina ed è fedele a se stessa quando tradisce il trionfalismo e l’imperialismo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste qualità - ricca quando è povera, forte quando è debole, potente quando è generosa, gloriosa quando sparisce come il lievito nella farina, fedele a se stessa quando tradisce il trionfalismo e l’imperialismo - vorreste mettere in primo piano?...

Basta una riga per rispondere, scrivetela...

     Il messaggio contenuto in questa raffigurazione si traduce con queste parole: la riforma strutturale e culturale della Chiesa deve avvenire “risalendo al Vangelo”, in particolare rifacendosi alla dottrina di colui che ha dato forma e contenuto alla parola “Vangelo” [alla buona notizia della risurrezione di Gesù] con il suo Epistolario, Paolo di Tarso, e la figura di Davide, che riassume in sé tutta la trafila degli Antenati di Gesù, richiama questo messaggio [secondo una linea filologica di sviluppo che riguarda le figure di Naason, Davide, Gesù Cristo, Paolo di Tarso].

     E in quale posizione si trova sul soffitto della Cappella Sistina il pannello che raffigura Davide mentre sta per vibrare il colpo di spada che dovrebbe tagliare la testa di Golia?

     Ai quattro angoli del soffitto della Sistina ci sono quattro pannelli che sono simili a quattro grandi ventagli [in corrispondenza dei quali la volta incontra le pareti], e questi quattro pannelli vengono chiamati Pennacchi perché assomigliano a dei drappi triangolari che stanno sospesi, e queste quattro aree sono state tra le più difficili da affrescare a causa della loro forma e della loro posizione, e a causa anche della loro imperfetta superficie concava. Quindi, per sintetizzare ciò che già abbiamo osservato, oltre alla categoria dei Medaglioni, degli Ignudi, delle Cariatidi monocrome, delle Lunette, delle Vele, ci sono anche i Pennacchi.

     A questo proposito Michelangelo [che aveva poca esperienza nella tecnica dell’affresco] si deve essere ricordato [e la memoria - oggi diremmo “fotografica” - a lui non mancava] di quando a Firenze, seppur per breve tempo, aveva partecipato, insieme agli altri ragazzi di bottega, al lavoro di affrescatura dei timpani [o pannelli triangolari piatti] che la ditta del suo maestro, Domenico Ghirlandaio, stava eseguendo nella Cappella Tornabuoni [o Cappella Maggiore] della chiesa di Santa Maria Novella. Per equilibrare la superficie irregolare dei timpani Domenico Ghirlandaio ha inserito al centro dei pannelli delle figure che producono degli ampi effetti verticali, con immagini più piccole da entrambi i lati e, più di vent’anni dopo, Michelangelo, nei quattro angoli del soffitto della Sistina, ricorre allo stesso stratagemma con brillanti risultati tanto che i quattro Pennacchi sembrano una superficie piatta invece che decisamente concava.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Noi siamo fortunati perché, oltre che su un Catalogo che troviamo in biblioteca e sui siti della rete, possiamo andare direttamente a far visita alla Cappella Tornabuoni [dedicata all’Assunta] nel complesso della chiesa di Santa Maria Novella…

     Torniamo all’ingresso della Cappella dove l’immagine del profeta Zaccaria con il volto di Giulio II [immagine che conosciamo] è affiancata dai primi due Pennacchi [i Pennacchi di cima] e, quello che sta sulla destra, contiene il pannello con la figura dell’ultimo atto dello scontro tra Davide e Golia, e i significati che contiene questo pannello li abbiamo descritti, ma c’è ancora una cosa da dire e da fare ricordandoci che il soffitto della Sistina è come se fosse una biblioteca che serve per incentivare la didattica della lettura e della scrittura.

     La figura di Davide, affrescata nel Pennacchio di cima posto sulla destra, deve [secondo il pittore, il committente e il consulente librario] indirizzare la mente di chi guarda verso una riflessione che gli esegeti del movimento dell’Umanesimo utopico stanno facendo mentre puntano l’attenzione sul testo dell’Epistolario di Paolo di Tarso. Paolo sul tema della nascita di Gesù [del quale non è riuscito a sapere nulla] decide di dare una risposta intelletualmente efficace secondo la mentalità della cultura farisea che gli è propria, costruendo una “sentenza” che si basa su un concetto cardine della Letteratura dell’Antico Testamento: un concetto legato alla parola-chiave “tôledôt” che in ebraico significa “genealogia, stirpe, discendenza”.

     Questo concetto lo vediamo espresso in gran parte delle immagini affrescate sul soffitto della Cappella Sistina [nei Medaglioni, nelle Lunette, nelle Vele, nella fascia centrate] perché senza “una genealogia [tôledôt]” non ci sarebbe Gesù, non esisterebbe “il Cristo della fede”, e neppure ci sarebbe speranza di salvezza. E questa “sentenza” diventa molto importante quando prenderà corpo dagli anni 70 il tema delle origini di Gesù nella Letteratura dei Vangeli. La “sentenza” di Paolo sulla nascita di Gesù la troviamo nel testo della Lettera ai Romani al capitolo primo versetto tre, dove sta scritto: «[Io diffondo] la buona notizia che riguarda Gesù Cristo nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne». Paolo, per scrivere queste due righe, compie, prima di tutto, una riflessione sul testo del Libro della Genesi. Nel Libro della Genesi il modello di creazione attraverso “la discendenza [tôledôt]” è quello che è stato messo maggiormente in evidenza dagli scrivani biblici [è attraverso la nostra genealogia che siamo legati al Creatore], e “le genealogie” [e non potremmo essere qui questa sera se non avessimo degli Antenati, una genealogia] nel Libro della Genesi hanno un posto centrale [la trama della Letteratura biblica si sviluppa secondo la trafila delle discendenze: la discendenza di Adamo, di Noè, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Giuseppe, di Naason, di Iesse, di Davide]. L’elemento genealogico viene usato abbondantemente dagli scrivani d’Israele come un ponte gettato tra il mito e la storia, e questo sistema funziona perfettamente per dare ai racconti epici una potenza straordinaria, e il fatto che il mondo sia frutto di “una catena di generazioni divine” è un tema comune a tutti i miti dell’Età assiale della Storia ma nella materialistica cultura ebraica c’è una novità rispetto alle altre mitologie: le genealogie bibliche sono “umane” [a partire da quella mitica di Adamo ed Eva] e tutte le genealogie del Libro della Genesi sono orientate verso una figura storica fondamentale, verso la figura del re per eccellenza, il re Davide, il primo “Unto” [Cristos, in greco] veramente gradito al Signore.

     E Paolo di Tarso capisce che - secondo una tradizione ben collaudata - è  necessario creare un collegamento culturale, un ponte ideale, tra la figura del re Davide e “la persona del Cristo della fede” [Gesù] che deve assumere [pensa e scrive Paolo] il ruolo di “nuovo Adamo”. Paolo sa che il nome del re Davide evoca nella mente di tutti gli Ebrei della diaspora che abitano sul territorio dell’Ecumene un grande scenario intellettuale, e uno scorcio di questo scenario ci viene presentato, in chiave bibliografica, dalla figura dipinta da Michelangelo nel Pennacchio di Davide, e raffigurare Davide significa mettere al centro dell’attenzione [sul soffitto della Cappella Sistina che è come se fosse una biblioteca] i due Libri di Samuele.

     Nel Primo Libro di Samuele gli scrivani raccontano la più grande svolta istituzionale che sia mai avvenuta nella storia del popolo d’Israele: il passaggio dall’epoca dei Giudici [della confederazione tra tribù] alla monarchia [allo Stato unitario, un’aspirazione che nasce nella mente degli scrivani d’Israele quando sono in esilio a Babilonia, perché è lì che cominciano a scrivere i Libri della Bibbia].

     Il personaggio di Samuele è un’allegoria [uno straordinario strumento letterario] creata dagli “scrivani dell’esilio della seconda generazione” e rappresenta il modello ideale del Giudice: i Giudici sono dei liberatori che emergono in determinati momenti di crisi, di difficoltà, di pericolo per salvare l’identità del popolo: «Ce ne vorrebbe uno simile in questo momento»  pensano gli scrivani d’Israele in esilio a Babilonia. Samuele è l’ultimo dei Giudici e diventa un’importante guida politica e religiosa del popolo d’Israele perché: «il Signore [così raccontano gli scrivani dell’esilio della seconda generazione] lo chiama da fanciullo mentre lui dorme nel santuario dove è custodita l’arca che contiene le tavole della Legge [la toràh]», come dire che il Signore rinnova il “patto” [la berit], con Samuele. Quando Samuele è vecchio gli Israeliti gli chiedono di cercare e di consacrare [di ungere] un re.

     Molti dei racconti contenuti nei due Libri di Samuele sono famosi [divulgati dall’Arte, dalla Letteratura, dal teatro, dal cinema] e noi li conosciamo anche senza aver letto i testi che li contengono. Il Primo Libro di Samuele racconta la storia di Samuele stesso e poi la storia [o la tragedia] di Saul, il primo re, e poi la tormentata storia del rapporto tragico tra Saul e Davide, ed è in questo Libro che troviamo il celebre episodio di Davide e Golia tra i più celebrati dalla Storia dell’Arte e della Letteratura. Il Secondo Libro di Samuele racconta [in 24 capitoli] la storia del re Davide [che è anche un grande peccatore capace poi di pentirsi e di fare penitenza] e anche la nascita - in una situazione di grande ambiguità - di Salomone.

     La Scuola deve raccogliere l’indicazione di Michelangelo [e del consulente Fedra Inghirami]: il pannello affrescato dall’artista nel Pennacchio di Davide invita a leggere i primi 17 capitoli [in tutto sono 31] del Primo Libro di Samuele [sono circa una ventina di pagine], e la scena dipinta [il duello tra Davide e Golia] viene narrata nel 17° capitolo che termina con la presentazione del “debole pastorello vittorioso” al re Saul il quale non sa di chi sia figlio questo ragazzo insignificante [lo chiede a Abner che è il comandante del suo esercito e neppure lui lo sa], la domanda di Saul dipende dal fatto che una persona vale per “la genealogia [tôledôt]” di cui è frutto. E quando Saul, geloso di carattere, chiede a Davide di chi è figlio, lui dà una risposta significativa: «Sono figlio del tuo servo Iesse di Betlemme». Una risposta che contiene due elementi-chiave perché i profeti definiscono il messia come “germoglio di Iesse” e “Betlemme” sarà il suo luogo di nascita, e traspare qui, secondo la dottrina esegetica di Paolo di Tarso, la figura di Gesù, del Cristo della fede, una figura che, puntualmente, Michelangelo fa simbolicamente trasparire, attraverso le immagini, sul soffitto della Cappella Sistina.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete i primi 17 capitoli del Primo Libro di Samuele  [si tratta di una ventina di pagine], e poi volendo potete leggere i due Libri di Samuele” [il cosiddetto Romanzo di Davide, formato da una settantina di pagine]… Ora è il momento per fare questo esercizio propedeutico...

     Nel Pennacchio di cima posto a sinistra è raffigurata la vicenda di Giuditta che decapita un generale nemico, l’assiro Oloferne. Tutti e quattro i Pennacchi [i due di cima e i due di fondo] presentano situazioni in cui un nemico spietato e apparentemente invincibile viene annientato da qualcuno che in confronto sembra debole e indifeso: Davide è un pastorello, Giuditta è una donna. Quando Michelangelo era ancora un ragazzo [noi lo abbiamo visto crescere nei primi mesi del nostro viaggio] aveva potuto ammirare nel cortile del Palazzo Medici [dove aveva la fortuna di abitare] le statue di Giuditta e Davide eseguite da Donatello.

     Ma procediamo con ordine e puntiamo l’attenzione sul pannello del Pennacchio di cima collocato a sinistra dove è raffigurata la vicenda di Giuditta che decapita il generale assiro Oloferne. Questa vicenda è narrata nel Libro di Giuditta che appartiene alla sezione dei testi deuterocanonici i quali sono stati scritti - così come i due Libri dei Maccabei - per raccontare la lotta di liberazione degli Ebrei dall’oppressione greco-siriana dei Seleucidi [una lotta vittoriosa che oggi viene celebrata con la festa del Chanukah].

     Il Libro di Giuditta [formato da 16 capitoli] è stato scritto intorno alla metà del II secolo a.C. e racconta una storia che possiede tutte le componenti del romanzo. Giuditta è una bella vedova, una donna indifesa che vive a Betulia una città che il generale assiro Oloferne sta per conquistare nel cammino che lo sta portando verso la distruzione di Gerusalemme. La popolazione è terrorizzata e indice un pubblico digiuno e prega l’Onnipotente di essere liberata da questa terribile minaccia. Giuditta, al contrario, escogita un piano coraggioso: si veste con i suoi abiti più raffinati e sensuali e accompagnata dalla sua fidata ancella, lascia la città e raggiunge l’accampamento nemico. I soldati di Oloferne intimano alle due donne di fermarsi ma Giuditta dice di voler incontrare il generale perché gli deve rivelare delle preziose informazioni che gli permetterebbero di conquistare la città senza colpo ferire. Convinti dalle parole e dall’atteggiamento di Giuditta, i soldati accompagnano le due donne nella tenda del generale, che è rapidamente sedotto dall’avvenenza e dal fascino di Giuditta. Oloferne fa celebrare in anticipo dalle sue truppe la vittoria, e organizza una cena romantica nella sua tenda. Giuditta fa in modo che il generale e le sue guardie del corpo brindino molte volte, troppe volte, all’imminente sconfitta del nemico, finché, ubriachi, perdono i sensi. Dopo aver pregato il Signore di concederle l’energia necessaria [G’vurà], Giuditta decapita Oloferne con la sua stessa spada, mentre è disteso sul letto profondamente addormentato e poi, insieme alla sua ancella, nasconde la testa di Oloferne in un cesto e fa ritorno in città. La testa di Oloferne è un trofeo che fa ritrovare la speranza e la volontà di combattere ai cittadini di Betulia che partono all’attacco degli Assiri [rimasti senza capo] e si liberano ottenendo una schiacciante vittoria.

     I dati storici contenuti in questo Libro sono tutti inesatti perché non è un testo storico ma è un midrash di carattere allegorico con il quale si vuole insegnare ad avere fiducia in Dio: la debole Giuditta ha fatto valere l’energia della sua fede [lambda/ghimel]. Michelangelo dipinge la scena in cui Giuditta, insieme alla sua ancella, trasporta in un cesto la testa, appena tagliata, di Oloferne e se la porta via.

Pennacchio a sinistra della porta: Giuditta e Oloferne

     Basta guardare l’immagine per capire che Michelangelo [con il metodo del “decorar mostrando” realizza un’operazione che siamo in grado di interpretare] fa apparire una lettera dell’alfabeto ebraico che esalta il valore simbolico del messaggio, e la disposizione delle figure sul pannello mostra la lettera ebraica ח [heth] che, in termini cabalistici, secondo l’indicazione dell’Heptaplus di Pico della Mirandola, corrisponde al “numero Otto”. Quando Dio dice «Otto» nel momento della Creazione, momento che corrisponde al peccato originale, smaschera “l’insidia alla concordia” e prendono corpo le parole Tentazione, Lusinga, Seduzione, Bramosia, Capriccio, Corruzione, Cupidigia, Avidità: Giuditta, in virtù della sua fede, sa governare una situazione pericolosissima determinata da queste parole che caratterizzano il comportamento arrogante e pretenzioso del nemico, e lo abbatte.

     Ma “il numero Otto” [corrispondente alla lettera ebraica ח (heth)] svolge anche il suo compito in funzione della didattica della lettura e della scrittura: difatti la protagonista del Libro omonimo [il Libro di Giuditta] entra in scena al capitolo 8: «Una donna di nome Giuditta venne a conoscenza di questi fatti. Giuditta era figlia di Merari, nipote di Oks, pronipote di Giuseppe. Gli antenati di Giuseppe erano …» e se andate avanti a leggere [come la Scuola vi consiglia di fare] vi trovate di fronte a “una genealogia [tôledôt]” e non potrebbe essere diversamente perché è attraverso “la genealogia [tôledôt]” che ci si avvicina a Dio.

     Così come Davide è figlio di Iesse, Giuditta discende da Giuseppe, ed è attraverso “la genealogia [tôledôt]” che la persona eredita la fede.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete il testo del Libro di Giuditta dal capitolo 8 al capitolo 16 dove termina [sono una decina di pagine contenenti un significativo romanzo breve], è un utile esercizio propedeutico perché “la storia di Giuditta” rientra, in chiave metaforica, in molti oggetti d’Arte e in molte opere letterarie…  La prima parte del capitolo 16 contiene Il canto di Giuditta che è una ballata [in versi, composta per essere cantata] che riassume l’impresa, salvifica per il suo popolo, compiuta dalla protagonista…

     Nei due Pennacchi di fondo Michelangelo illustra “l’episodio di Ester e Aman [a destra]” e “di Mosè e il serpente di rame [a sinistra]”, e di nuovo abbiamo un eroe e un’eroina che salvano il popolo da una sicura rovina.

     Nel Pennacchio di fondo che sta dalla parte destra dobbiamo osservare il pannello dell’episodio legato a “la punizione di Aman”, raccontato nel Libro di Ester. Nel canone biblico ci sono ben due Libri di Ester [uno scritto in ebraico che sta nella sezione dei Libri sapienziali e poetici e uno scritto in greco che sta nella sezione deuterocanonica]. Gli Ebrei leggono il Libro di Ester ogni anno in occasione del Purim [le sorti], la festa che, in primavera, celebra la salvezza degli Israeliti che stavano per essere sterminati sul territorio dell’antico Impero persiano dove erano stati deportati. Anche i Libri di Ester non sono opere storiche ma si tratta di midrash allegorici che vogliono infondere coraggio a chi è perseguitato con violenza e senza ragione invitandolo a tentare ogni via umanamente possibile per resistere.

     Nei Libri di Ester si racconta che il re di Persia Assuero [personaggio non ben identificato] governa il suo vasto impero dalla capitale Susa [Shushan] ma non è altrettanto capace di amministrare la sua vita personale, organizza interminabili banchetti e feste [della durata di sette giorni] a cui partecipa anche Vasti, la sua corrotta moglie che, secondo la versione del Talmud, viene fatta giustiziare dal sovrano per essersi rifiutata di danzare nuda per i suoi ospiti [cosa che Vasti faceva regolarmente durante le feste che organizzava lei]. Il re, prima di emettere la sentenza, si è fatto consigliare dai suoi consulenti legali e di governo i quali asseriscono che «la regina Vasti non solo ha offeso il re ma anche tutti gli uomini perché la sua disubbidienza potrebbe incoraggiare qualsiasi donna a mancare di rispetto al marito». Il primo ministro [il gran visir] del re persiano - che governa l’impero in sua vece - è l’ambizioso Aman, che anela a diventare potente quanto il re stesso. Aman consiglia al sovrano, rimasto vedovo, di bandire una sorta di concorso di bellezza per trovare una nuova moglie che sia la più bella donna della Persia. Il concorso viene vinto da Ester che non è persiana ma bensì una bellissima ragazza ebrea e, di conseguenza, viene incoronata regina di Persia, ma a palazzo non rivela a nessuno - tanto meno al re e ad Aman - la sua identità ebraica. Il gran visir Aman un giorno decide di iniziare una campagna di pulizia etnica che prevede lo sterminio degli ebrei e convince il re a promulgare il relativo decreto, ma all’ultimo momento Ester trova la fede e il coraggio di ammettere che lei stessa è ebrea, e viene, quindi, condannata a morte a causa delle malvagie macchinazioni di Aman. Quando il re scopre i giochi politici del primo ministro che voleva “elevarsi al di sopra del sovrano” lo fa impiccare allo stesso albero al quale egli avrebbe voluto far impiccare Ester. Ironicamente, lo spietato Aman - appeso in alto - è stato soddisfatto nel suo desiderio di elevarsi sulla popolazione comune.

     Michelangelo rappresenta Aman nudo e inchiodato [crocifisso, ma la crocifissione di Gesù non c’entra] a un albero secco e contorto anziché impiccato perché un corpo appeso non avrebbe permesso a Michelangelo di mostrare tutta la sua abilità nel raffigurare il corpo umano in tutta la sua plasticità scultorea, ed è perfino riuscito a dare l’impressione che il braccio sinistro di Aman emerga dalla superficie dipinta per invadere lo spazio della Cappella.

     Osservando nel riquadro l’immagine possiamo prendere atto che anche il corpo di Aman è affrescato da Michelangelo in maniera che possa richiamare un simbolo, la lettera ebraica ק [qof], perché?

Pennacchio in fondo a destra: Punizione di Aman

     Pico della Mirandola nell’Heptaplus ci mette al corrente che, secondo la Cabala, la lettera ebraica ק qof richiama la prova che deve sostenere ogni persona nella “battaglia delle due inclinazioni”: tra “la buona inclinazione [yetzer hatov]” e “la cattiva inclinazione [yetzer harà]”. Nel personaggio di Aman c’è l’impulso a fare il Male [la cattiva inclinazione] mentre la figura di Ester rappresenta l’inclinazione a realizzare il Bene: una questione sulla quale, dalle origini dell’Umanità, ogni persona è chiamata a riflettere e ad agire di conseguenza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

I dieci capitoletti del Libro di Ester [sia nella versione ebraica che in quella greca] contengono il testo di un romanzo breve [lungo circa otto pagine]…

Leggetelo perché è un esercizio propedeutico per decodificare certe metafore che si trovano in molti oggetti d’Arte e in molte opere letterarie…   

     E il soggetto del quarto Pennacchio [quello di fondo a sinistra] che cosa rappresenta e da quale fonte deriva?

     L’episodio contenuto nel quarto Pennacchio [di fondo a sinistra] è tratto dal capitolo 21 del Libro dei Numeri in cui si racconta come l’accampamento degli Ebrei - che sono in marcia nel deserto [dopo che Mosè ha ricevuto le tavole della Legge sul Sinai] - viene colpito dal flagello dei serpenti velenosi, col rischio che vengano sterminati prima ancora di arrivare nella Terra Promessa. È stato Mosè a salvare il suo popolo, ponendo su un palo un finto serpente di rame, e Michelangelo rappresenta gli Israeliti mentre alzano lo sguardo verso il simulacro, così da elevare la loro mente verso Dio e salvarsi. Però Mosè, l’eroe dell’episodio, non appare nel dipinto: come mai? Anche nell’Haggadah, il racconto annuale dell’Esodo in occasione della Pasqua ebraica, il nome di Mosè è assente, e il Libro del Talmud dice che l’assenza di Mosè è determinata dalla sua grande umiltà, e anche per sottolineare che la salvezza deriva da Dio e mai da un comune mortale per quanto carismatico possa essere.

     Per questo, anche nella versione di Michelangelo, Mosè non appare ma “l’assenza di Mosè” è un’allusione che ha preso campo attraverso la tradizione cabalistica: Mosè è assente [la sua figura è irrilevante] perché al suo posto c’è, e ci deve essere, la Legge [la torah], e al posto di Mosè bisogna pensare che c’è il Libro del Deuteronomio che significa [deuteros nomos] della “seconda nuova Legge”, o meglio, della “Legge scritta in un secondo momento storico, più recente”.

     Se osserviamo l’immagine di questo pannello notiamo al centro, nella luce, il finto serpente di rame attorcigliato al palo e a sinistra il gruppo degli Israeliti che scelgono la vita guardando in alto procedendo verso la luce divina e a destra quelli che saranno uccisi dai serpenti che procedono verso l’oscurità.

Pennacchio in fondo a sinistra: Serpente di bronzo

     In questo caso Michelangelo sfrutta la forma del serpente per far emergere la lettera ebraica ל lamed che corrisponde al “numero Trenta” e questo simbolo serve per segnalare un’indicazione bibliografica: “l’assenza di Mosè” [chiamato comunque in causa] significa che dobbiamo pensare al Libro del Deuteronomio del quale va letto il capitolo 30 [ל, lamed]. Al termine del capitolo 30 del Libro del Deuteronomio si trova la spiegazione del contenuto del pannello, dice Dio: «Ti ho proposto la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli la vita, perché viva tu e la tua discendenza [tôledôt]».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Andate a leggere l’intero capitolo 30 del Libro del Deuteronomio per cogliere anche la sintesi  del significato dei quattro Pennacchi del soffitto della Cappella Sistina

     Nel testo del capitolo 30 del Libro del Deuteronomio c’è la sintesi del significato dei Pennacchi che è un ammonimento a non seguire la via del trionfalismo e dell’imperialismo, perché è una via che porta a “l’indurimento del cuore” con tutte le conseguenze che questo comporta. I simboli - che abbiamo incontrato e decodificato in questo itinerario nello spazio dei Pennacchi del soffitto della Cappella Sistina - vogliono significare [nell’intenzione del pittore, del committente e del consulente librario] che “la Chiesa deve risalire al Vangelo” e se questo avviene potrà avverarsi anche ciò che si legge nel testo del capitolo 30 del Libro del Deuteronomio dove è Mosè che parla senza comparire.

LEGERE MULTUM….

Libro del Deuteronomio  30  3 e 6

«Il Signore [disse Mosè] vi mostrerà il suo amore e cambierà il vostro destino Cambierà il vostro cuore e quello dei vostri discendenti». …   

     E così - seguendo il filo pittorico di Michelangelo - il cerchio si chiude: siamo partite e partiti dal concetto di “genealogia [tôledôt]” guardando al passato, e l’itinerario termina con “la genealogia [tôledôt]” ma guardando al futuro. E sul soffitto della Cappella Sistina leggiamo un preciso ammonimento: se la Chiesa assume un atteggiamento trionfalistico invece che profetico e un atteggiamento imperialista invece che pastorale non sarà in grado né di salvaguardare il suo passato né di costruire il suo futuro, un futuro che richiama l’enunciato di Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani dove l’Apostolo afferma che “la fede è l’evidenza delle cose mai viste, delle cose sperate” [la fede è far vivere le cose che non esistono ancora (Romani 4, 17)] e questa affermazione richiama una parola-chiave, la parola “utopia”  [l’evidenza delle cose non ancora viste].

     Chi si occupa del termine “utopia” tanto da lasciare il segno nella Storia del Pensiero Umano? Se ne occupa un personaggio che incontreremo la prossima settimana e poi, sul soffitto della Cappella Sistina ci aspettano i Profeti e le Sibille, due categorie di figure che, per loro natura, esistono in base ad un interrogativo strategico: in quale misura, e in ragione di che cosa, l’utopia è “l’evidenza delle cose mai viste”?

     Per rispondere a queste domande, che derivano dall’osservazione dell’affresco dipinto sul soffitto della Cappella Sistina, bisogna procedere sul nostro cammino con lo spirito utopico che lo studio porta con sé, consapevoli che non bisogna mai perdere la volontà d’imparare…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 28, 2017