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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO C’È LA SENTENZA PAOLINA SULLA NASCITA DI GESÙ …

Lezione N.: 
24

Prof. Giuseppe Nibbi       La sapienza  poetica ellenistica  [evangelica e imperiale]       13-14-15  aprile 2011

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO

C’È LA SENTENZA PAOLINA SULLA NASCITA DI GESÙ …

     Nel nostro viaggio di attraversamento del territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico” – un viaggio che stiamo compiendo dall’ottobre scorso in compagnia di Paolo di Tarso che, come sappiamo, è l’autore del più significativo Epistolario della Storia del Pensiero Umano – siamo arrivati, strada facendo, anche a vivere e a celebrare il tempo pasquale.

     Nell’itinerario della scorsa settimana ci siamo domandate e ci siamo domandati: che cosa significa – secondo il pensiero di Paolo di Tarso – che “Gesù ha la forma di Dio (os en morfe Teon os en morfé Teon)”? Per Paolo di Tarso Dio ha avuto l’idea – e questa affermazione ci fa capire che ci troviamo di fronte ad un ragionamento di Scuola platonica – di donare (eucharizein) al rabbi Gesù di Nazareth una forma spirituale (come se si configurasse con la suprema idea del Bene) come se fosse suo figlio adottivo. Quindi abbiamo capito che nella dottrina del Cristianesimo delle origini la prima riflessione sulla “identità” di Gesù è legata ad una mentalità di tipo “adozionista”. Gesù Cristo, secondo la Letteratura ellenistica di stampo evangelico delle origini (dagli anni 50 agli 70) è “figlio di Dio per adozione” e questo concetto viene espresso nell’Epistolario di Paolo di Tarso – in particolare, come abbiamo studiato la scorsa settimana leggendo un brano del secondo capitolo della Lettera ai Filippesi – e poi nel testo del Vangelo secondo Marco in quella meravigliosa “sentenza” iniziale (che abbiamo letto e commentato) dove si descrive “il battesimo di Gesù”.

     Nelle ekklesìe si sa pochissimo della vita di Gesù e quel poco che si sa corrisponde alla vita di una “persona qualunque (quel Gesù)”. E, come ogni altra persona qualunque, Gesù – in modo “consequenziale” – è stato un figlio e questo problema dell’essere figlio comporta l’interrogarsi sulla sua nascita. Nelle ekklesìe non si conosce la data di nascita di Gesù e Paolo di Tarso nel suo Epistolario di questa notizia non se ne occupa: fa solo un accenno alla nascita di Gesù con grande “intelligenza consequenziale (tipica dello scrivano Paolo di Tarso)” per i risvolti significativi che, poi, questo accenno ha avuto e, strada facendo, ce ne occuperemo. La Letteratura dei Vangeli (canonica e apocrifa) difatti, qualche decennio dopo, svilupperà in chiave mitica il tema che emerge nell’accenno fatto da Paolo sulla nascita di Gesù: un accenno che possiede già una forte carica allegorica.

     I racconti della Letteratura dei Vangeli pongono l’avvenimento della nascita di Gesù in primavera inoltrata, e, allora, il 25 dicembre – questa data che sta nel cuore dell’inverno – da dove viene fuori a proposito della nascita di Gesù? Abbiamo aspettato la Pasqua per farci questa domanda?

     La Letteratura del Vangeli, soprattutto dagli anni 90, costruisce sulla nascita e sull’infanzia di Gesù, una serie di testi mitici e leggendari di straordinaria bellezza (che tutte e tutti noi conosciamo attraverso l’immagine del presepe e attraverso le innumerevoli opere create dalla Storia dell’Arte) e, a questo proposito, dobbiamo ancora una volta citare il testo del Vangelo Deuterolucano che comprende – come ormai ben sapete – i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca: chi non li ha letti faccia questo esercizio! Questi testi, che narrano della nascita e dell’infanzia di Gesù, non hanno la caratteristica di essere storici, ma bensì sono “apologetici”, e, quindi, non fissano date, e i riferimenti storici in essi contenuti sono molto incerti e frammentari.

     La situazione temporale in cui la Letteratura dei Vangeli racconta la nascita di Gesù viene collocata – abbiamo detto – nella primavera inoltrata: ci sono le greggi e i pastori all’aperto, c’è un censimento in corso in cui la gente si deve spostare – ci sono anche i Magi in viaggio – quindi la stagione più adatta è la primavera. E allora come mai noi celebriamo la nascita di Gesù il 25 dicembre? Come si è arrivati a stabilire questa data?

     Prima di occuparci dell’accenno – dell’unico accenno – che Paolo di Tarso fa nella Lettera ai Romani a proposito della nascita di Gesù è bene chiarire – a grandi linee – come, in seguito nel corso della Storia della Cristianità, sia stato affrontato questo tema: questo tema non è stato affrontato in relazione alla Storia della salvezza ma soprattutto in funzione della conquista di quel valore potentissimo che è il chronos, il tempo che passa.

     Noi abbiamo studiato in questo Percorso che Paolo di Tarso (in particolare nella Lettera ai Romani) svaluta il chronos, il tempo che passa, in nome del kairòs, il tempo che resta, ma con il tempo (se vogliamo giocare con le parole) la Chiesa – diventata ormai istituzione di potere – tende ad impossessarsi soprattutto del chronos (del tempo regolato dal calendario, dall’orologio) e, quindi, pretende di governare il tempo della Storia e così il processo di conquista del “tempo che passa”, del chronos, mette in secondo piano lo sviluppo dell’idea del “tempo che resta”, del kairò.

     Chi ha fissato – e quando è stato fissato – l’anno di nascita di Gesù di Nazareth, o meglio, l’anno di nascita di Gesù Cristo? A fissare l’anno di nascita di Gesù di Nazareth (ma sarebbe meglio dire di Gesù in quanto “Cristo della fede”) – molte e molti di voi già lo sanno – è stato il monaco sciita, Dionigi il Piccolo. Il monaco Dionigi il Piccolo (il “piccolo”, ò micròs, perché era basso di statura) – vissuto tra il 500 e il 555 – è uno scienziato, è un matematico che ha completato gli studi sulle “tavole dei cicli pasquali” di Cirillo di Alessandria (370-444), un intellettuale alessandrino che si è occupato, secondo il calendario lunare, di stabilire la data variabile per la celebrazione della Pasqua cristiana (l’anniversario liturgico della risurrezione di Gesù distinguendolo dal calendario ebraico). Dionigi il Piccolo basa il suo lavoro di ricerca sui testi dei Vangeli, in particolare sui dati contenuti nel testo del Vangelo secondo Luca che, come sappiamo – e lo sa bene anche Dionigi – non sono dati storici, quindi è consapevole di costruire un’ipotesi. Oggi sappiamo che questa ipotesi è approssimativa nel senso che dovremmo spostare un po’ indietro l’anno di nascita di Gesù, ma non sappiamo esattamente di quanto (tra i quattro e i sette anni).

     Secondo i calcoli di Dionigi – e con i mezzi a disposizione che aveva ha comunque lavorato bene – Gesù di Nazareth sarebbe nato 753 anni dopo la fondazione di Roma, perché gli anni, al tempo di Dionigi, nel VI secolo, si continuavano a contare dalla data “mitica” della fondazione di Roma (ab Urbe condita). Al tempo di Dionigi a Roma gli anni si contavano dalla fondazione di Roma e, quindi, siamo nel 1285 dalla fondazione di Roma, quando Dionigi il Piccolo, dichiara che, secondo i suoi calcoli, Gesù sarebbe nato nel 753 dopo la fondazione di Roma. E allora facciamo i conti così come ha fatto Dionigi il Piccolo. Siccome – afferma Dionigi – oggi siamo nell’anno 1285 dopo la fondazione di Roma, con una semplice sottrazione (1285, che è l’anno in corso dalla fondazione di Roma, meno 753, che è l’anno, dalla fondazione di Roma, in cui Gesù di Nazareth può essere nato) otteniamo il numero 532 che – afferma Dionigi – risulta essere l’anno corrente dopo la nascita di Cristo (Post Christum natum). Quindi dall’anno 532 (dopo la nascita di Cristo) la data della fondazione di Roma viene affiancata a quella della nascita di Cristo, della nascita del “Cristo della fede” (derivata dalla Letteratura dei Vangeli e dalla Tradizione) perché per risalire alla data di nascita di Gesù di Nazareth (di quel Gesù) Dionigi non ha dati.Sarà papa Gregorio Magno (540-604) a fissare il calendario dalla nascita di Gesù Cristo abolendo il computo degli anni dalla fondazione di Roma: ormai il Cristianesimo aveva conquistato il tempo storico e il kairòs, il concetto paolino del “tempo che resta”, passa in secondo piano rispetto al chronos, al “tempo che passa”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale avvenimento storico, culturale o di costume che vi piace ricordare è concomitante con l’anno della vostra nascita?… 

Scrivetelo…

     Nei romanzi il tempo – affermano lo studente Mario e lo scrittore di radiodrammi Pedro Camacho, i quali si dedicano entrambi all’esercizio della narrazione – tende ad essere un tempo che resta: quando ci dedichiamo alla lettura, infatti, entriamo nel tempo del racconto dove il tempo che passa viene narrato come se fosse un tempo che resta.

     Mario e Pedro Camacho – come sapete – sono i protagonisti principali del romanzo di Mario Vargas Llosa intitolato La zia Julia e lo scribacchino del quale abbiamo letto un certo numero di pagine. La scorsa settimana, a proposito del tempo, abbiamo letto fino a quando Mario – che si è intrattenuto a conversare con Pedro Camacho fino a tardi (a volte il tempo che passa sfugge di mano) sull’arte dello scrivere – non è tornato a casa in tempo per accompagnare al cinema la zia Julia: come farà per farsi perdonare? Utilizzerà anche una sentenza e, a questo punto, cogliamo l’occasione per dire che il tempo del genere letterario della sentenza è il kairòs, è il tempo che resta. E il tempo dell’altro mondo, il tempo degli spiriti, che tipo di tempo è: è un tempo che passa o è un tempo che resta? E che cosa c’entrano gli spiriti? E il tempo dell’amore è un tempo che resta e che riesce davvero a fermare il tempo che passa?

     Ora leggiamo:

LEGERE MULTUM ….

Mario Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino

Arrivai a casa dei nonni alle undici di sera; stavano già dormendo. Mi lasciavano sempre da mangiare in forno, ma questa volta, oltre al piatto con un impanata, riso e uova fritte - il mio invariabile menù - c’era un messaggio scritto con lettere tremolanti: «Ha telefonato tuo zio Lucho. Che hai piantato in asso Julita, che dovevate andare al cinema. Che sei un discolo, che le telefoni per scusarti: il nonno». Pensai che scordarsi dei bollettini e di un appuntamento con una signora per lo scriba boliviano era troppo. Mi coricai a disagio e di cattivo umore per il mio involontario sgarbo.

… continua la lettura …

     E adesso andiamo a rievocare l’operato di papa Gregorio Magno.

     Papa Gregorio Magno (540-604) nel 555 “dopo Cristo ”(post Christum natum) stabilisce che l’anno solare abbia inizio il 25 dicembre, anche perché il 25 dicembre era già stato scelto nel IV secolo dalla comunità cristiana di Roma come data di nascita di Gesù. Per quale motivo, a Roma, papa Silvestro I – ma, ancora prima del papa, bisognerebbe dire l’Imperatore Costantino –, dopo il Concilio di Nicea, nel 325, sceglie questa data, il 25 dicembre, come data di nascita di Gesù? Questa data viene scelta per tre validi motivi.

     Il primo motivo per cui viene scelta la data del 25 dicembre per celebrare la nascita di Gesù è per creare una coincidenza con il “solstizio d’inverno”. In questo momento dell’anno – dopo il 21 di dicembre – la luce del sole ricomincia a crescere sulla terra, il tempo della luce, dopo essere calato, riprende gradualmente ad allungarsi e a Roma, in questi giorni, si celebrava, così come in tutto il territorio dell’Impero romano, la festa del “Sol invictus”, del sole che non viene vinto dalle tenebre e si rendeva onore all’imperatore che, come il sole, illuminava con la sua presenza tutta la Terra abitata.

     Il secondo motivo per cui viene scelta la data del 25 dicembre per celebrare la nascita di Gesù è per metterla in corrispondenza con la festa del dio solare Mitra: dal culto di Mitra, la chiesa romana primitiva assimila molti elementi di carattere rituale.

     Il terzo motivo per cui viene scelta la data del 25 dicembre per celebrare la nascita di Gesù è per metterla in accordo con le parole del profeta Malachìa. Nel Libro di Malachìa – che è l’ultimo libro del canone dell’Antico Testamento – al capitolo 3 versetto 20 leggiamo: «Ma per quelli che riconoscono la mia autorità, la mia giustizia sorgerà come il sole che non viene vinto dalle tenebre, e i suoi raggi porteranno la guarigione. Voi sarete liberi e salterete di gioia come vitelli che escono dalla stalla».

     Con la scelta del 25 dicembre per celebrare la nascita di Gesù, quindi, la Chiesa di Roma assembla – con grande arguzia intellettuale – tre elementi che si compenetrano: uno di natura istituzionale, uno legato ai culti pagani e uno legato alla cultura dell’ebraismo.

     Il primo elemento è quello della festa dello Stato romano (la festa del “Sol invictus”) e questo è l’elemento di raccordo istituzionale, perché il Cristianesimo – dopo secoli di “disobbedienza civile” – comincia ad avvicinarsi ai rituali di Stato e tende a farsi Stato.

     Il secondo elemento è di carattere strettamente religioso e riguarda la festa di una grande e importante divinità pagana, Mitra: con l’avvicinamento al culto di Mitra il Cristianesimo comincia a sovrapporsi a tutti i culti pagani che si celebrano a Roma e a tutti gli altri culti pagani – soprattutto d’impronta orfico-dionisiaca – che si celebrano sul territorio dell’impero.

     Il terzo elemento, che riguarda una profezia ebraica tratta dal Libro di Malachia, costituisce il fondamentale raccordo con la Letteratura dell’Antico Testamento: il Cristianesimo, sebbene cominci a presentarsi ormai come una “nuova religione” tuttavia non può – e non potrà mai – fare a meno della cultura dell’ellenismo, né di quella del paganesimo e, soprattutto, non potrà mai fare a meno della cultura dell’ebraismo.

     (Tra parentesi dobbiamo ricordare che questo concetto viene espresso nei grandi affreschi rinascimentali come La Scuola di Atene di Raffaello e quelli della Cappella Sistina di Michelangelo: ma questi sono altri viaggi, fatti e da fare).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete qualche ricordo legato al “solstizio d’inverno”, alla notte più lunga dell’anno?

Scrivete quattro righe in proposito…

     La data di nascita di Gesù Cristo (la data di nascita del “Cristo della fede”) è stata, quindi, stabilita nel IV secolo amalgamando insieme tutti gli elementi necessari per dare più slancio culturale possibile a questo evento. Nelle ekklesìe, nel corso del I secolo, non si conosce la data di nascita di Gesù e Paolo di Tarso nel suo Epistolario di questa notizia non se ne occupa: fa solo un accenno alla nascita di Gesù con grande “intelligenza consequenziale (tipica dello scrivano Paolo di Tarso di formazione farisea)” ma è un accenno non casuale e ben circostanziato dal punto di vista culturale che avrà dei risvolti significativi sul piano della Letteratura ellenistica di stampo evangelico e, strada facendo, ce ne occuperemo.

     Dobbiamo dire che nelle ekklesìe, nel corso del I secolo, le notizie su Gesù di Nazareth sono scarsissime e sembra che ci sia una sorta di reticenza su questo argomento: per esempio – nel momento in cui l’aspetto esteriore delle persone di potere comincia ad avere un ruolo importante – non circola nessuna notizia sull’aspetto fisico di Gesù e, difatti, Paolo di Tarso non fa alcun accenno a questo tema che emergerà diversi secoli dopo. E così nelle ekklesìe, nel corso del I secolo, non si ha alcuna notizia fondata dell’appellativo “nazareno”, né del luogo di nascita di Gesù, né dell’identità dei suoi genitori.

     Paolo di Tarso – e lo sappiamo dal suo Epistolario – ha avuto però dei contatti (per la verità assai burrascosi) con la “famiglia” – con un rappresentante (il più autorevole) della “famiglia” di Gesù (Giacomo, il fratello del Signore) –, ma questo è un altro tema che svilupperemo strada facendo: è un tema molto interessante e molto delicato perché Paolo pensa esplicitamente e provocatoriamente a come sia stato possibile che il “Signore” sia potuto emergere da un ambiente così poco consono, ma poi se ne fa una ragione affermando che le vie, attraverso cui Dio comunica con l’Umanità, sono imprevedibili.

     Noi sappiamo – e ce lo dicono le studiose e gli studiosi di filologia – che questi “dati” (il luogo e le circostanze della nascita di Gesù, la storia dei suoi genitori e della sua famiglia) vengono elaborati dalla successiva generazione di scrivani, tra gli anni 70 e gli anni 90, quando, assemblando e ampliando le “sentenze” – comprese quelle contenute ed estrapolate dall’Epistolario di Paolo di Tarso –, vengono scritte le prime stesure dei testi della Letteratura ellenistica di stampo evangelico.

     Che cosa sa Paolo di Tarso della nascita di Gesù? E quello che sa – se qualcosa sa – lo sa perché se ne parla nelle ekklesìe oppure è lui che fa delle ipotesi investendo in intelligenza?

     Nei testi delle Lettere di Paolo di Tarso troviamo solo delle tracce di carattere allusivo sulla nascita di Gesù, e sono elementi di natura apologetica: Paolo vuole ribadire che Gesù è come se fosse “figlio adottivo di Dio” e quindi ne vuole esaltare la figura “umana” – Paolo aborrisce all’idea che si possa considerare Gesù come una specie di “semi-dio” alla maniera della cultura pagana – e vuole proclamare che Gesù è “normalmente nato da una donna” e, poi, per la sua condotta esemplare in quanto “rabbi ebraico”, è stato “particolarmente amato e adottato da Dio”. L’idea che Paolo di Tarso coltiva – all’interno della ridda dei probabili “si dice” e “non si dice” sulla storia di “quel Gesù” – è che “questo rabbi” abbia avuto “una vita come le altre”, ed è proprio questo aspetto di presunta normalità che, secondo Paolo, dà valore alle esperienze forti che ha dovuto affrontare: la passione, la morte, la risurrezione. Questa idea lega strettamente l’esperienza terrena di Gesù a quella di ogni altro essere umano.

     A questo proposito era necessario dare una risposta nei confronti dell’appellativo con il quale, nel corso del I secolo, ci si riferiva a Gesù nelle ekklesìe sul territorio dell’Ellenismo: “quel Gesù”, un appellativo che faceva riferimento a qualcuno di “non ben identificato”. Paolo decide di dare una risposta culturalmente efficace – secondo la mentalità farisea che gli è propria – costruendo una “sentenza” sul tema della nascita di Gesù che si basa su un concetto cardine della Letteratura dell’Antico Testamento: un concetto legato alla parola-chiave “tôledôt” che in ebraico significa “genealogia, stirpe, discendenza”. Questa “sentenza” paolina si configura come una traccia – come tutte le “sentenze” prodotte da Paolo è un’impronta, un’orma, un indizio, un segnale – che, così come tutti i dettagli, diventa molto importante quando prenderà corpo il tema delle origini di Gesù nella successiva Letteratura dei Vangeli.

     Dove è collocata, nell’Epistolario di Paolo, questa “sentenza” sulla nascita di Gesù, sulla nascita (come se fosse una specie di carta d’identità) del Cristo della fede? Questa “sentenza” la troviamo nel testo della Lettera ai Romani al capitolo primo, versetto tre, dove sta scritto: «(Io diffondo) la buona notizia che riguarda Gesù Cristo nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne». Facendo questa affermazione che tipo di riflessione fa Paolo di Tarso mentre pensa alla nascita di Gesù di Nazareth? Paolo di Tarso quando pensa alla nascita di Gesù – della quale non sa nulla se non che questo rabbi è nato “secondo la carne” per vivere una vita come le altre – compie, inevitabilmente, prima di tutto, una riflessione sul testo del Libro della Genesi quello che in ebraico s’intitola (dalle parole con cui comincia) Bereshìt che, letteralmente, significa In principio. Paolo di Tarso ragiona sul fatto che se la risurrezione di Gesù è un “nuovo inizio” che porta oltre l’Ebraismo tradizionale, la nascita di Gesù può essere considerata un “principio” che è ben ancorato alla tradizione dell’Ebraismo proprio per poterlo riformare dalle fondamenta. E siccome gli scrivani che mettono a punto il testo del Libro della Genesi collocano le origini del popolo d’Israele alle origini stesse del mondo e all’azione del suo creatore è logico pensare – secondo la mentalità farisea di Paolo – che anche la figura di Gesù Cristo vada fatta avvicinare all’idea del “principio (Bereshìt)”.

     Paolo di Tarso – che ha studiato nelle Scuole farisee di interpretazione allegorica del testo beritico (le Scuole che s’ispirano al pensiero del rabbi Gamaliele I) – è al corrente del fatto che gli scrivani dell’ultima stesura del testo del Libro della Genesi hanno portato a termine il loro programma culturale con l’invenzione letteraria dei Patriarchi (Abramo. Isacco, Giacobbe), dei “mitici padri fondatori” e, dal punto di vista formale, hanno realizzato questo progetto con la composizione di una complessa serie di “genealogie”. La “genealogia” – sappiamo che cos’è una “genealogia”: tutte e tutti noi ne abbiamo una se no non potremmo essere qui – è uno dei modi con cui viene rappresentata la creazione.

     Paolo di Tarso sa bene che nel Libro della Genesi la “genealogia” – come forma letteraria che descrive la creazione – ha un posto centrale. L’elemento genealogico viene usato abbondantemente dagli scrivani d’Israele come un ponte gettato tra il mito e la storia, e questo sistema funziona molto bene per dare ai racconti epici una potenza straordinaria. Nella mente di Paolo di Tarso comincia a prendere forma un’idea di carattere genealogico a proposito della nascita di Gesù: come si sviluppa questa idea?

     Dobbiamo ricordare (questo è un argomento che abbiamo trattato nel Percorso dell’anno scolastico 2007-2008 quando abbiamo studiato la formazione dei testi della Letteratura beritica, dei Libri dell’Antico Testamento) che a differenza delle genealogie divine, con cui iniziano e su cui si fondano i racconti delle origini di molte religioni primitive e antiche, le genealogie del Libro della Genesi sono cataloghi di esseri umani, non di dèi: e questo, per l’evidente motivo che il Dio unico della fede ebraica non ha origine, dal momento che si presenta come “Colui che è e che sarà”. Queste genealogie, di conseguenza, perseguono uno scopo ben preciso: quello di raccordare, di legare insieme – sulla base di un computo cronologico certamente fantasioso ma pur sempre fondato sul tempo umano – la storia dei Patriarchi con quella del progenitore Adamo. Si dà così forma letteraria ad un procedimento, caro alle tribù nomadi e alle società patriarcali, secondo il quale si cerca di fissare nell’archivio mobile della memoria collettiva – grazie a quel potente amplificatore vivente che è la tradizione orale – l’albero genealogico della propria stirpe come fattore fondamentale di identità sociale. Sono questi gli elementi culturali attraverso i quali prende forma nella mente di Paolo di Tarso l’idea che lo porta a costruire la sua “sentenza” di carattere genealogico sulla nascita di Gesù.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Qual è il vostro antenato più antico di cui voi avete memoria?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     Paolo sa bene – perché ha studiato nelle Scuola d’impostazione farisea – da dove si deve cominciare, secondo la tradizione, a leggere il testo del Libro della Genesi. Paolo sa – ed è consapevole che lo sappiano anche tutti gli Ebrei della diaspora, di tutte le correnti di pensiero, che incontra nelle ekklesìe – che per cominciare a conoscere e a capire il Libro della Genesi è necessario puntare l’attenzione, prima di tutto, sul capitolo 5. Perché bisogna puntare l’attenzione sul capitolo 5 del Libro della Genesi quando ci si accinge a leggere il testo di questo Libro?

     Il capitolo 5 del Libro della Genesi è stato scritto dagli scrivani (quelli del codice Priester, ma ora non possiamo riprendere questo tema) per fare il riassunto dei capitoli precedenti in chiave genealogica. Il capitolo 5 del Libro della Genesi è una “genealogia (tôledôt)”, è la prima genealogia, e racconta ancora una volta (perché già è stata raccontata più di una volta nei capitoli precedenti) la creazione dei progenitori. La “genealogia” del capitolo 5 del Libro della Genesi unisce insieme il personaggio di Adamo con quello di Noè (due personaggi che non passano inosservati) e ha dunque la funzione di raccordare la “sequenza del Principio” (i primi quattro capitoli del Libro della Genesi), con la “sequenza del diluvio” (dal capitolo 6 al capitolo 11 del Libro della Genesi).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La Scuola vi invita a fare questo utile esercizio: andate ad osservare sul testo del Libro della Genesi questa struttura formale, è il primo passo da fare quando ci si dedica alla lettura di questo testo a cominciare dai primi 11 capitoli…

     Il testo del capitolo 5 del Libro della Genesi lo conosciamo tutti: in esso troviamo il riepilogo della “creazione dell’uomo” e poi l’elenco dei “discendenti del primo uomo”. Qui troviamo un catalogo di nomi di personaggi mitici che tutte e tutti noi abbiamo spesso sentito menzionare: questi personaggi sono molto probabilmente i protagonisti di saghe antiche tramandate oralmente (filastrocche, ballate, canzoni di gesta) che gli scrivani non possono riportare perché hanno troppo materiale a disposizione. Salvano il dato, sproporzionato, dell’età dei personaggi ma sappiamo che gli “archi di tempo” sono uno strumento genealogico fondamentale che rappresentano una dimensione temporale mitica. Le studiose e gli studiosi di Storia della lingua ci suggeriscono che la “genealogia”, assumendo la forma di una “filastrocca” (ricordiamoci che la Letteratura beritica viene scritta innanzi tutto per essere cantata oltre che per essere letta), utilizza i numeri in senso poetico, in funzione del ritmo da dare al verso.

     Rileggiamo, insieme a Paolo di Tarso, questo brano mentre lui sta elaborando la sua sintetica “sentenza” sulla nascita di Gesù:

LEGERE MULTUM ….

Libro della Genesi  5, 1-32

Quando Dio creò l’uomo, lo fece simile a sé. Lo creò maschio e femmina, li benedisse, e quando furono creati pose loro il nome Uomo [gli scrivani del codice Priester utilizzano il termine “geber” che significa “uomo adulto e capo famiglia” e, per estensione, questo termine significa anche “famiglia nucleare, coppia”].

Questo è l’elenco dei discendenti del primo uomo [qui compare il termine “Adamà” che significa “terra”].

Adamo all’età di centotrent’anni generò un figlio simile a lui, a sua immagine. Lo chiamò Set [Set significa “concesso al posto di”]. Dopo la nascita di Set, Adamo visse altri ottocento anni ed ebbe ancora figli e figlie. Adamo visse novecentotrent’anni, poi morì.

Set all’età di centocinque anni generò Enos. Dopo la nascita di Enos, Set visse altri ottocentosette anni ed ebbe ancora figli e figlie. Set visse novecentododici anni, poi morì.

Enos all’età di novant’anni generò Kenan. Dopo la nascita di Kenan, Enos visse altri ottocentoquindici anni ed ebbe ancora figli e figlie. Enos visse novecentocinque anni, poi morì. 

Kenan all’età di settant’anni generò Maalaleel. Dopo la nascita di Maalaleel, Kenan visse altri ottocentoquarant’anni ed ebbe ancora figli e figlie. Kenan visse novecentodieci anni, poi morì.

Maalaleel all’età di sessantacinque anni generò Iared. Dopo la nascita di Iared, Maalaleel visse altri ottocentotrent’anni ed ebbe ancora figli e figlie. Maalaleel visse ottocentonovantacinque anni, poi morì.

Iared all’età di centosessantadue anni generò Enoc. Dopo la nascita di Enoc, Iared visse altri ottocento anni ed ebbe ancora figli e figlie. Iared visse novecentosessantadue anni, poi morì.

Enoc all’età di sessantacinque anni generò Matusalemme. Enoc visse sempre come piace a Dio. Dopo la nascita di Matusalemme, Enoc visse altri trecento anni ed ebbe ancora figli e figlie. Enoc dunque visse come piace a Dio per trecentosessantacinque anni, poi scomparve perché Dio lo portò via con sé.

Matusalemme all’età di centottantasette anni generò Lamech. Dopo la nascita di Lamech, Matusalemme visse altri settecentottantadue anni ed ebbe ancora figli e figlie. Matusalemme visse novecentosessantanove anni, poi morì.

Lamech all’età di centottantadue anni generò un figlio che chiamò Noè. «Questo figlio, – disse, – ci consolerà [il termine “noè” in ebraico richiama il verbo “consolare”] nella durissima fatica di lavorare la terra maledetta dal Signore».

Dopo la nascita di Noè, Lamech visse altri cinquecentonovantacinque anni ed ebbe ancora figli e figlie. Lamech visse settecentosettantasette anni, poi morì.

All’età di cinquecento anni Noè generò Sem, Cam e Iafet.

     Il Libro della Genesi si apre su di uno scenario caotico e informe, che è caratteristico delle cosmogonie antiche e arcaiche, in cui l’azione plasmatrice di un Essere supremo – il quale agisce come un demiurgo, un artefice (un artigiano, un vasaio) – si esercita nei confronti di una materia primordiale, la quale viene identificata con le acque del caos, dominate dalle tenebre. Su questa materia informe e disordinata aleggia lo “spirito di Dio (rūha ‘elohim)” con la sua capacità plasmatrice, con la sua potenza ordinatrice.

     Paolo di Tarso sa che la creazione, dunque, non avviene dal nulla (“ex nihilo”, secondo la traduzione di Gerolamo). Nel Libro della Genesi – e Paolo di Tarso lo sa bene – l’atto della creazione si presenta come un’opera di “ordinamento”, come la “messa in ordine” di una materia caotica e tenebrosa: le “tenebre (Stn)” coesistono, insieme alla materia, con l’Artefice divino e si sono amalgamate con la materia stessa (il Male è strutturale e anche l’Essere supremo, da  principio, deve farci i conti). Paolo di Tarso è convinto del fatto che gli scrivani con la loro straordinaria operazione intellettuale (prima a Babilonia durante l’esilio e poi dopo l’esilio con il genere letterario della tendenza cronachistica) abbiano voluto mettere in evidenza il fatto che l’Essere supremo dà “ordine” alle cose – che già esistono, avvolte dalle tenebre – agendo per “portare alla luce” le regole, le norme di buona convivenza, in modo che l’essere umano possa avere gli strumenti per costruire una società “salvata” che è già, in origine, insidiata dalle “tenebre”, da forme di prevaricazione, di disonestà, di corruzione, che sussistono “in principio”, e contro le quali (pensa Paolo di Tarso) bisogna continuare a battersi. L’obiettivo degli scrivani d’Israele – all’atto della composizione del racconto mitico sulla creazione che inaugura la narrazione di tutta una serie di fallimenti – è, quindi, di carattere normativo, e questo fatto “giustifica” gli insuccessi dell’Essere supremo il quale ha plasmato una creatura la quale deve imparare, a sue spese,  che, se vuole essere libera, deve apprendere il rispetto le regole, deve maturare lo “spirito di servizio” e deve potenziare il proprio “senso del dovere”: non basta avere la Legge, è necessario saper incarnare lo spirito della Legge.

     Paolo di Tarso – da buon esegeta fariseo di impronta ellenistica – intuisce perfettamente dove è necessario collocare (“far nascere” culturalmente) la figura del Cristo della fede – che assume i contorni del nuovo Adamo – e, quindi, nella trama delle sue Lettere troviamo una serie di “sentenze” utili per il raggiungimento di questo obiettivo esegetico: la figura del Cristo della fede è, da principio, “un’idea nella mente di Dio (la prima idea ordinatrice)” e questo fatto “illumina di luce spirituale (questa è una terminologia di carattere ellenistico)” tutta la Scrittura.

     Come pensa e come opera in questo senso Paolo di Tarso? Paolo di Tarso è perfettamente consapevole del fatto che i racconti mitici sulla “creazione” si sviluppano – e questo è utile da sapere in funzione della didattica della lettura e della scrittura – secondo quattro modelli operativi: la creazione avviene in seguito ad una lotta tra dèi o tra un dio e un mostro primordiale )qui c’è tutta la mitologia antica che dà forza letteraria al racconto), la creazione avviene per opera di un demiurgo (di un vasaio che plasma, e qui c’è anche qualcosa di ellenistico da sfruttare culturalmente), la creazione avviene mediante la parola([e questa è una chiave molto importante da utilizzare), e poi la creazione avviene attraverso la nascita, cioè tramite la “discendenza”. Questi quattro motivi sono tutti presenti nel testo del Libro della Genesi, anche se, apparentemente, non è facile individuarli perché questi elementi sono stati combinati e fusi insieme alla perfezione dalle varie Scuole di scrittura beritica per sottolineare l’unicità e la potenza dell’azione creatrice dell’Essere supremo.

     Gli scrivani d’Israele per aumentare l’efficacia della loro narrazione raccontano in tutti i modi possibili la creazione. Il modello di creazione attraverso la “discendenza (tôledôt)”, attraverso la “stirpe”, è quello poi messo maggiormente in evidenza dagli scrivani dell’ultima stesura del Libro della Genesi. Il fatto che il mondo sia frutto di una catena di generazioni divine (di “tôledôt”) è un tema comune tanto ai miti sumeri quanto a quelli orfici raccolti nella Teogonia di Esiodo: abbiamo affrontato questi argomenti molte volte nei nostri viaggi. In Egitto, poi, il mito della creazione è visto esclusivamente come un succedersi ciclico di generazioni divine. Nella materialistica cultura ebraica c’è una novità rispetto alla mitologia sumero-babilonese, egizia e orfico-dionisiaca: le genealogie sono “umane” e le genealogie mitiche del Libro della Genesi sono orientate dagli scrivani verso una figura storica fondamentale che rappresenta l’inizio della massima potenza (anche se non durerà molto) del Regno d’Israele: la figura del re per eccellenza, il re Davide, il primo “Unto” gradito al Signore.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il personaggio del re Davide è molto conosciuto tanto che il suo nome è molto diffuso: tra i nomi dei personaggi discendenti di Adamo (sono tredici nomi) citati nel capitolo 5 del Libro della Genesi che abbiamo letto, quale scegliereste?…

Scrivete il nome del personaggio presente nella prima genealogia della letteratura beritica che vi piace di più…

     Paolo di Tarso capisce che – secondo una tradizione scritturistica ben collaudata – è  necessario creare un collegamento culturale, un ponte ideale, tra la figura (il nome) del re Davide e la persona del Cristo della fede. Così nasce la efficace “sentenza” paolina sulla nascita di Gesù: è appena un accenno ma questo enunciato minimo diventa un anello forte (dove il nome gioca un ruolo fondamentale). Questa “sentenza” paolina che riguarda la nascita di Gesù è – abbiamo detto – appena una traccia (come tutte le “sentenze” prodotte da Paolo) che diventa, però, molto importante quando prenderà corpo nella successiva Letteratura ellenistica di stampo evangelico (e lo constateremo, strada facendo). Abbiamo già detto che questa “sentenza” la troviamo nel testo della Lettera ai Romani al capitolo primo versetto tre, dove sta scritto: «(Io diffondo) la buona notizia che riguarda Gesù Cristo nato dalla stirpe di Davide, secondo la carne». Paolo di Tarso sa benissimo che il nome del re Davide evoca nella mente di tutti gli Ebrei della diaspora che fanno riferimento alle ekklesìe uno scenario intellettuale molto preciso: quale scenario? Di questo complesso (e straordinario) paesaggio culturale ce ne occuperemo tra quindici giorni, dopo la vacanza pasquale.

     Per introdurre la conclusione di questo itinerario dobbiamo dire che Paolo di Tarso, nel testo di questa sua “sentenza”, favorisce l’accostamento – ma lo stile della “sentenza” ha questa caratteristica – di due elementi contrastanti: un elemento mitico, fortemente evocativo e ben consolidato dal punto di vista letterario, contenuto nel nome di “Davide” e un elemento realistico che emerge nel tono dimesso con cui si comunica che Gesù è “discendente di Davide secondo la carne”, come dire che Gesù, nonostante sia di stirpe regale, ha vissuto una vita come le altre scandita dal calendario liturgico giudaico sul quale, in quanto rabbi, apporta delle “modifiche” che possono sembrare alternative rispetto alla Legge di Mosè ma alle quali Paolo – utilizzando le pochissime notizie che possiede, più consequenziali che reali, – dà un tono di “normalità”, compresi gli eventi della passione, della morte e della risurrezione. L’idea di “normalità”, secondo Paolo, sta nel fatto che Gesù di Nazareth, “discendente di Davide secondo la carne”, vive una vita come le altre e questo fa sì che ogni persona possa “vivere a imitazione del Cristo della fede”.

     E Una vita come le altre è anche il titolo del libro con il quale concludiamo questo itinerario e con il quale celebriamo la Pasqua. Questo è, tutto sommato, un libro di “passione (nel senso pasquale del termine)” perché la “passione”, spesso, si annida nella normalità della vita di tutti i giorni.

     Colpisce il fatto che questo libro sia stato scritto da Alan Bennett. Alan Bennett è uno scrittore – uno dei più importanti scrittori del teatro contemporaneo europeo – che abbiamo già incontrato più di una volta e che ci ha presentato le sue opere esilaranti. Nell’anno 2007 ci siamo divertite e divertiti a leggere La sovrana lettrice che ha come protagonista – non espressamente nominata – la regina d’Inghilterra: un testo che esalta, in modo spassoso, l’esercizio, disatteso dalla stragrande maggioranza delle popolazioni europee – della lettura. Qualche anno fa (nel 2001) abbiamo presentato Nudi e crudi un ironico testo teatrale – con il quale Bennett è emerso sulla scena internazionale – che merita di essere letto (o visto a teatro) così come tutte le opere di Bennett che trovate in biblioteca.

     Alan Bennett è nato nel 1934, quindi – anche se risulta essere “uno degli eterni ragazzi dispettosi del teatro contemporaneo (come dicono le commentatrici e i commentatori)” – è ormai una persona matura, una persona che con questo romanzo autobiografico si misura, finalmente, con se stessa. Le sue piece teatrali e i suoi romanzi sono pieni di aneddoti, di situazioni ed equivoci che Bennett ha “prelevato” dalla sua multiforme esperienza personale, ma in quest’ultimo romanzo siamo su un piano diverso: qui la vita non è più ispirazione ma è diventata materia narrativa. Mi sono un po’ meravigliato quando ho appreso della pubblicazione di questo testo di carattere autobiografico e mi sono anche consolato pensando che Bennett abbia sentito, finalmente, il bisogno di dedicarsi all’autobiografia. L’autobiografia è un’attività che, come alfabetizzatore, ho sempre – in questi ultimi trent’anni – cercato di promuovere e quindi non ho approvato le parole dette dallo scrittore con cinismo che ho letto in un’intervista di qualche anno fa: «Non mi dedicherò mai a quell’attività disdicevole che è lo scrivere di sé». Bennett ha cambiato idea e ha deciso di scrivere di sé, e meno male che lo ha fatto perché è uno straordinario narratore, e in questo romanzo ci mette tutta la sua passione, la sua intelligenza, e soprattutto la sua onestà intellettuale.

     Bennett parla della sua famiglia, che è una famiglia ordinariamente normale, “tragicamente” normale, e la sua narrazione giunge alla mente della lettrice e del lettore in modo reale, vivido, pulsante, anche perché il contenuto di questo romanzo riguarda da vicino l’esperienza di molte e di molti di noi e io mi ci sono riconosciuto e ho anche potuto capire meglio il senso che ha il degrado della condizione umana. Perché il testo di questo romanzo diventa un commovente viaggio interiore al quale Alan Bennett si sottopone. Che cosa è successo di “tragicamente” normale nella sua famiglia che lui non sapeva e che lo costringe a riflettere?

     Il romanzo inizia in un istituto psichiatrico dove l’anziana madre di Bennett è stata ricoverata per una grave forma depressiva, così almeno viene definita questa sua malattia. E c’è un tema di carattere generale che emerge da questo racconto e che invita tutte e tutti noi alla riflessione: come si distingue la malattia mentale dalle manie, dalle fobie, dal silenzio, e dall’infelicità che investe – visto l’allungamento della vita umana – una consistente fascia di persone anziane, creando tante situazioni di “passione”, nel senso pasquale del termine, ma di passione senza risurrezione?

     Bennett in questo romanzo cambia tonalità, forse, rispetto agli scritti esilaranti e comicamente feroci che gli hanno dato la notorietà, ma continua ad avere sempre lo stesso sguardo acuminato e instancabile. Uno sguardo dolente, poco caritatevole soprattutto verso se stesso e le sue manchevolezze. L’umorismo non manca neppure in questo testo: è sotto traccia, è come se fosse sospeso in ogni pagina ed è uno strumento di interpretazione insostituibile delle tragedie – delle tante “passioni” (e siamo nella settimana di “passione”) – con le quali nel corso della vita, normalmente, ci dobbiamo misurare.

     Ora leggiamo:

LEGERE MULTUM ….

Alan Bennett  Una vita come le altre

C’è un bosco, il canale, il fiume, e sopra il fiume la ferrovia e la strada. E la prima campagna vera e propria che si incontra a nord di Leeds, e tornando a casa in treno ci passo spesso. Però adesso guardo. Ci sono passato per anni senza guardare perché non sapevo che fosse un posto, che vi fosse accaduto qualcosa che lo aveva reso un posto, e tanto meno un posto che mi riguardasse. Sotto il bosco l’acqua è profonda, scura, e a volte c’è un ragazzino che pesca o una coppia che porta a passeggio un cane. Dev’essere un luogo di interesse panoramico. Probabilmente lo era anche allora.

… continua la lettura …

     Fra quindici giorni, di questo romanzo, continueremo a leggerne qualche pagina.

     Nel corso di questo itinerario abbiamo incontrato Gregorio Magno, papa dall’anno 590, “stabilizzatore del tempo cristiano” e autore di una famosa opera intitolata Dialoghi. Papa Gregorio, nel secondo Libro dei suoi Dialoghi, scrive la regola di San Benedetto, una regola che ha dato il via al movimento delle abbazie, uno straordinario movimento che ha salvato l’Europa (ha fatto risorgere l’Europa) dal terribile degrado creato dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente. La regola di San Benedetto – come sapete –  si sintetizza nel famoso enunciato: “prega, lavora e studia (ora, labora et cura)”. A proposito dello “studio” Gregorio scrive: «Bisogna studiare quattro ore al giorno perché studiare è cominciare a risorgere». Questo ammonimento di Gregorio ci fa capire che “studiare (curare la propria anima, il proprio intelletto)” è un gesto pasquale per eccellenza.

     La Scuola è il luogo dello “studio (studium et cura)” e, tra quindici giorni (27-28-29 aprile) questo viaggio di studio, sulla scia della sapienza poetica ellenistica di stampo evangelico, continua.

     Lo “studio” è anche uno dei presupposti fondamentali per dare – così come ha fatto Paolo di Tarso – una voce e un corpo all’indignazione, ed è anche un presupposto fondamentale per attuare concretamente la “liberazione” delle persone dall’ignoranza e dall’indifferenza: quest’anno la festa della Liberazione coincide con il Lunedì di Pasqua. La Risurrezione e la Liberazione, quest’anno, sono appaiate.

     A tutte voi e a tutti voi: buona Pasqua di “studio” e Viva il 25 aprile…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 15, 2011