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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO C’È L’IDEA PAOLINA DEL TEMPO MESSIANICO, DEL KAIRÒS: IL PRESENTE OPERATIVO…

Lezione N.: 
20

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza  poetica ellenistica  [evangelica e imperiale]       16-17-18  marzo  2011

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO

C’È L’IDEA PAOLINA DEL TEMPO MESSIANICO, DEL KAIRÒS: IL PRESENTE OPERATIVO…

     La scorsa settimana abbiamo riflettuto su una importante scelta intellettuale compiuta da Paolo di Tarso; una scelta intellettuale che ha rivoluzionato la Storia del Pensiero Umano a partire dall’età ellenistica. Paolo prende posizione – questa posizione culturale di Paolo di Tarso non è stata creata da lui, è una posizione culturale che aveva già una sua storia e Paolo vi aderisce facendosene portavoce nel suo Epistolario – a favore della lettura allegorica dei testi biblici. Questa scelta risulta fondamentale per la costruzione del pensiero paolino e, di conseguenza, per la costruzione della dottrina del Cristianesimo.

     Paolo – abbiamo detto la scorsa settimana – definisce una serie di concetti che diventano le “categorie” con le quali noi, oggi, “pensiamo” la realtà: queste “categorie” sono diventate concetti fondamentali nella Storia del Pensiero Umano e anche – come sappiamo – idee-guida per la Storia della Letteratura. Paolo di Tarso costruisce l’idea che c’è una relazione tra le “storie (la cronologia)” raccontate nei testi dei Libri dell’Antico Testamento e il “messianismo”, cioè tutte le “storie” – da Adamo ed Eva, Caino e Abele, Noè e i suoi figli, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè …– non sono altro che “allegorie, metafore, figure, prefigurazioni” del messia, e, a questo proposito, Paolo fa un passo avanti: comincia a considerare queste “storie” come prefigurazioni della risurrezione di Gesù.

     E così Paolo di Tarso definisce il “tempo” che va dalla creazione del mondo fino alla risurrezione di Gesù come una “prefigurazione”, una “figura”, una “allegoria”. Noi sappiamo che per definire questo concetto Paolo utilizza una parola greca molto significativa. Paolo, per definire questo concetto, utilizza la parola “typos”: un termine proveniente dal Glossario pre-ellenistico di Platone e di Aristotele. Nel vocabolario ellenico di Platone e di Aristotele la parola “typos” significa “modello, figura, metafora”.

     Paolo di Tarso spiega la sua posizione culturale, la sua visione intellettuale delle cose, in tutta una serie di brani che sono diventati un “punto di riferimento” fondamentale, un termine “tipico” – inteso in linea con la parola “typos” – per la “lettura cristiana” dei testi dei Libri dell’Antico Testamento. Questa concezione “figurale (o tipica)” – così viene chiamata dalle studiose e dagli studiosi di filologia –, questa concezione “metaforica, allegorica” sostenuta ed elaborata da Paolo di Tarso è, a poco a poco, entrata nella tradizione e, difatti, abbiamo detto (ma vale la pena ripeterlo) che Gerolamo (uno dei famosi Padri del deserto del V secolo) quando traduce (siamo nel 420) dal greco in latino, con un occhio all’ebraico, tutti i Libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, comprese le Lettere dell’Epistolario di Paolo, – questa famosa traduzione, come sapete, è stata chiamata la “vulgata” (come dire resa “nel linguaggio popolare” e il latino cominciava ad assumere, dal punto di vista linguistico, nuovi connotati che lo indirizzavano verso le cosiddette lingue “neo-latine”) – traduce la parola “typoi” con l’espressione “in figura”: ed ecco da dove viene il titolo di “concezione figurale” dato a questa operazione intellettuale avviata da Paolo di Tarso perché “istruttiva” per proporre a tutti, sul territorio dell’Ellenismo, non solo agli Ebrei, “la buona notizia” della risurrezione  di Gesù come “figura (typos)” del compimento dell’attesa e della possibilità del cambiamento. La “concezione figurale” – vale a dire: leggere il testo in modo allegorico – dal VI secolo (siamo già in età medioevale) diventa, in tutta Europa, il modo principale per interpretare, non solo la Sacra Scrittura, ma per interpretare il mondo e tutta la realtà. La concezione “figurale” nel Medioevo dà dei risultati straordinari.

     E ora da qui noi potremmo imboccare il largo e affascinante sentiero della Storia dell’Arte medioevale che si sta aprendo davanti a noi. La Storia dell’Arte medioevale – che produce una enorme quantità di meravigliosi oggetti di ogni tipo che “raffigurano” la “buona notizia” – prende le mosse, trova il suo impulso dottrinale iniziale nell’espressione “in figura” che Gerolamo utilizza nel tradurre i versetti dal capitolo 10 della Prima Lettera ai Corinti che abbiamo letto la scorsa settimana.

     Questa concezione – l’utilizzo delle grandi “figure” contenute nei testi dei Libri dell’Antico Testamento (in particolare dei Libri della Genesi e dell’Esodo) – comincia ad essere chiamata “tipica (secondo il greco ellenistico utilizzato da Paolo di Tarso)” in corrispondenza anche della nascita della filosofia del Cristianesimo: un evento culturale che introduce in quell’immenso territorio che viene chiamato dell’età di mezzo (tra l’antichità e la modernità). Chi studia teologia e chi si dedica all’esegetica – negli albori dell’età di mezzo, dalla fine del V secolo – usa questa concezione per dare forma ad una teoria generale sull’interpretazione allegorica dei testi, sacri o profani che siano, e questa teoria si concretizza – come abbiamo detto – nella produzione dei molti e stupefacenti oggetti che costituiscono il patrimonio della Storia dell’Arte medioevale: questo è un tema che affronteremo quando entreremo nei vasti territori della “sapienza poetica medioevale”: le considerazioni che stiamo facendo ora sono, quindi, propedeutiche per i viaggi futuri e ora mettiamo in serbo alcune risorse cognitive, una serie di tasselli di apprendimento che potremmo utilizzare nei viaggi a venire.

     Paolo di Tarso stabilisce una relazione che viene chiamata “tipica”, cioè una relazione tra ogni evento del passato e il “tempo di Cristo”, il tempo “presente”, che Paolo comincia a definire – come abbiamo letto nel testo della Prima Lettera ai Corinti – il “tempo messianico”. Questo – il concetto del “tempo messianico” nel pensiero di Paolo di Tarso – è un tema che, naturalmente, dobbiamo approfondire e per farlo dobbiamo procedere con calma e con determinazione perché non si tratta di un tema facile.

     Ora, però, prima di proseguire – a proposito di situazioni che avvengono “sotto forma di figure (con l’ausilio della metafora)” – dobbiamo incontrare un personaggio che si chiama Pedro Camacho, un prolifico narratore di storie e costruttore di radiodrammi di successo, che – insieme al secondo protagonista, lo studente di nome Mario che coltiva l’ambizione di diventare scrittore – troviamo nel testo del romanzo, di cui stiamo leggendo l’incipit, intitolato La zia Julia e lo scribacchino di Mario Vargas Llosa.

LEGERE MULTUM ….

Mario Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino

Tre giorni dopo conobbi in carne e ossa Pedro Camacho.

Avevo appena avuto un diverbio con Genaro-papà, perché Pascual, con la sua irrimediabile predilezione per le atrocità, aveva dedicato tutto il bollettino delle undici a un terremoto a Ispahán. A irritare Genaro-papà non era tanto che Pascual avesse scartato altre notizie per riferire, con dovizia di dettagli, come i persiani sopravvissuti agli smottamenti venivano attaccati da serpi che, essendosi squartati i loro nidi, affioravano alla superficie rabbiose e sibilanti, ma quanto che il terremoto fosse successo una settimana prima.

… continua la lettura …

     E così, in modo un po’ burrascoso, entra in scena in questo romanzo il personaggio di Pedro Camacho: entra in scena con un’espressione che troviamo spesso anche nell’Epistolario di Paolo di Tarso: “Non vi serbo rancore, sono abituato all’incomprensione del mondo”.

     E ora – come abbiamo preannunciato la scorsa settimana – dobbiamo soffermarci dinnanzi ad un paesaggio intellettuale nel quale possiamo osservare il capitolo 5 della famosa Lettera ai Romani dove Paolo ci fornisce l’esempio più significativo della sua concezione “figurale” o “tipica”, e questo elemento è destinato a cambiare i connotati della Storia del Pensiero Umano. Paolo – nel capitolo 5 della Lettera ai Romani – prende in considerazione la “figura” di Adamo: commenta, in termini allegorici, in modo “tipico”, i primi tre capitoli del Libro della Genesi e questo primo commento risulta fondante per la “dottrina” e per la “filosofia” del Cristianesimo.

     Intanto bisogna dire che Paolo – anche se non si esprime in modo esplicito – pensa che la “figura” di Adamo non appartenga ad una realtà storica ma bensì ad un quadro allegorico costruito, con la consueta perizia, dagli scrivani d’Israele in esilio a Babilonia. Paolo costruisce un parallelo tra la “figura” di Cristo che ha portato la salvezza – e Paolo è consapevole (perché segue la tradizione degli scrivani d’Israele) di aver compiuto una significativa operazione culturale di tipo allegorico trasformando, con la scrittura, la nebulosa figura del “Gesù della storia” nella luminosa immagine del “Cristo della fede” – in antitesi alla “figura” di Adamo che ha portato l’Umanità alla perdizione: Paolo ri-orienta in modo ancora più universale (ecumenico) il mitico concetto veterotestamentario del “peccato originale”. “Attraverso Adamo – scrive Paolo – il peccato è entrato nel mondo e tutti abbiamo peccato”. Paolo definisce in modo “tipico” la figura di Adamo: Adamo è il “typos (la metafora, l’allegoria)” che prefigura l’immagine dell’uomo peccatore in modo da poter costruire la sua similitudine, in modo da poter definire come “tipica” la figura di Cristo. E nel pensiero di Paolo di Tarso Cristo è il “typos (la metafora, l’allegoria)” che prefigura l’immagine del messia, Cristo è – afferma Paolo – il “nuovo Adamo” che introduce nel mondo la “charis”, la “grazia” di Dio.

     Il capitolo 5 della Lettera ai Romani – così come tutto il testo di quest’opera – ha sempre costituito nei secoli, in modo particolare in età moderna al tempo della Riforma luterana, terreno di scontro sul piano dell’interpretazione; ora, in questo Percorso noi dobbiamo puntare l’attenzione sul concetto di partenza che, come sappiamo, prende il nome di “concezione figurale”.

     È necessario fare un passo per volta sul terreno della Storia del Pensiero Umano – soprattutto quando la si osserva in funzione della didattica della lettura e della scrittura – e, quindi, in questo Percorso dobbiamo imparare a conoscere e a capire il significato e il ruolo del termine “typos” così come lo ha utilizzato Paolo di Tarso nei testi del suo Epistolario. Il termine “typos (la figura, l’immagine, la forma, l’aspetto, la struttura)” – utilizzato da Paolo di Tarso facendo riferimento alla tradizione del pensiero di Platone e di Aristotele sappiamo che Platone utilizza i “typoi”, le grandi figure allegoriche per comporre i suoi famosi “miti”) – non è, per sua natura, un termine dogmatico perché la “figura, l’immagine, la forma, l’aspetto, la struttura”, il “typos” è destinato a cambiare, a fornire molteplici paesaggi interpretativi, non a rimanere immutabile.

     Leggiamo ora un frammento dal capitolo 5 della Lettera ai Romani, non per fare le esegesi (al plurale) del testo (questo è un tema che – come abbiamo detto – va affrontato di volta in volta nelle varie fasi in cui si sviluppa la Storia del Pensiero Umano) ma per prendere atto della collocazione (un esempio di collocazione) della parola-chiave “typos” e poi per riflettere su un’idea fondamentale.

LEGERE MULTUM ….

Paolo di Tarso, Lettera ai Romani  5, 12-15

Il peccato è entrato nel mondo a causa di un solo uomo [il peccato è connaturato con l’Umanità], Adamo. E il peccato ha portato con sé la morte. Di conseguenza, la morte passa su tutte le persone, perché tutti hanno peccato. Prima che Dio facesse conoscere la legge di Mosè, c’era già il peccato nel mondo. Ora, dove non vi è legge, non si dovrebbe neppure tenere conto del peccato. Eppure, da Adamo fino a Mosè, la morte ha sempre dominato gli esseri umani, anche quelli che non avevano disubbidito come Adamo a un ordine di Dio. Adamo era la figura [typos] di colui che doveva venire. Ma quale differenza tra il peccato di Adamo e quel che Dio ci dà per mezzo di Cristo! Adamo da solo, con il suo peccato, ha causato la morte di tutti gli esseri umani. Dio invece, per mezzo di un solo uomo, Gesù Cristo, ci ha dato con abbondanza i suoi doni e la sua grazia [charis].

     Questo frammento significativo fa parte di un brano molto complesso ma il nostro primo obiettivo è quello di identificare la parola “typos” e – con questo esempio – abbiamo preso atto in quale contesto è inserita questa parola. La figura (il typos) di Adamo, così come la propone Paolo di Tarso, assume una connotazione esemplare che serve – per contrasto – a valorizzare la nuova figura (il typos) del messia: il “nuovo messia”, il “nuovo Adamo” corrisponde alla figura di un “liberatore misericordioso” e non di un “condottiero vittorioso (secondo la mentalità del giudaismo più conservatore)”. Inoltre Paolo allude al fatto che Adamo mette in moto la dinamica del “peccato” perché (nascostamente, in modo omertoso) vorrebbe “spadroneggiare” (diventare come un dio) e, quindi, trama attraverso una sorta di trattativa mettendo in antitesi la “grazia” divina con il “male” che è misteriosamente già presente nel giardino dell’Eden (secondo la visione dell’Epopea di Gilgamesh) sotto forma di serpente tentatore.

     Questa considerazione fa venire in mente un poeta che spesso incontriamo nei nostri Percorsi – quest’anno non lo abbiamo ancora incontrato – che si chiama Carlo Alberto Salustri, detto Trilussa. Leggiamo come Trilussa interpreta il rapporto tra Adamo – il quale vorrebbe spadroneggiare (possiede già da principio “un istinto padronesco”) – e il creato che è rappresentato da un Gatto (scritto con la G maiuscola) il quale rivendica la sua indipendenza.

LEGERE MULTUM ….

Trilussa,  Adamo e er Gatto

Appena Adamo vidde er primo Gatto je propose un contratto.

- Senti: - je disse - se m’ubbidirai in tutto quello che me pare e piace,

te garantisco subbito una pace come nessuno l’ha goduta mai.

Però bisognerà che fin d’adesso me tratti co’ li debbiti rispetti

e rimani fedele e sottomesso Accetti o nun accetti?

… continua la lettura …

     Il secondo obiettivo che ci siamo poste e che ci siamo posti nel leggere il brano tratto dal capitolo 5 della Lettera ai Romani è quello di conoscere e di capire quale idea emerge da questi versetti: su questa idea dobbiamo riflettere perché è un’idea compatibile con la natura di questo Percorso che avanza sulla scia della didattica della lettura e della scrittura.

     Abbiamo potuto notare nel brano che abbiamo letto come Paolo voglia rimarcare il fatto che Adamo rappresenta il “passato”, un passato che ormai – secondo Paolo – ha trovato una sua spiegazione. Poi Paolo vuole ribadire che “colui che deve venire” – l’espressione greco-ellenistica con cui Paolo traduce il termine “messia” –, rappresentava il futuro: “rappresentava” perché il futuro ha ormai – secondo Paolo – trovato una sua realizzazione. Infine Paolo vuole affermare che Gesù Cristo è il “presente” perché il “presente” è il tempo della realtà, dell’esistenza, dell’essenza delle cose.

     Paolo di Tarso ha il merito di aver messo in gioco, per iscritto, una categoria speciale: la “categoria del tempo messianico” e questa operazione la realizza facendo la scelta di leggere in modo “allegorico”, “metaforico”, “figurato”, “esemplare”, “tipico” tutti i grandi avvenimenti raccontati dai testi della Letteratura dell’Antico Testamento. Paolo di Tarso ha saputo dare agli avvenimenti e ai personaggi dell’Antico Testamento un respiro universale.

     Per quanto riguarda la “categoria del tempo messianico” in se stessa – come  realizzazione nel “presente” del Regno di Dio sulla terra – dobbiamo dire che noi questa categoria l’abbiamo perduta di vista per via del modo in cui questo concetto paolino è stato poi, nei secoli, tradotto e interpretato, soprattutto nel corso della Storia della Cristianità medioevale che è andata alla conquista del tempo piuttosto che aspirare alla valorizzazione del tempo. La rimozione della “categoria del tempo messianico” proposta da Paolo di Tarso è avvenuta per ragioni di potere e questo complesso argomento lo studieremo a suo tempo percorrendo i territori della “sapienza poetica medioevale”: ora noi dobbiamo ragionare su questo tema nei termini in cui Paolo di Tarso l’ha proposto all’attenzione degli interlocutori del suo tempo.

     Come si articola il pensiero di Paolo di Tarso sul tema del “tempo messianico”? Sappiamo che Paolo di Tarso non ha un pensiero lineare a ben strutturato sui temi che tratta: sono temi molto complessi quelli sui quali esercita il suo ragionamento e propone sempre più di un itinerario di riflessione, e questo fatto rende gli argomenti trattati nei testi dell’Epistolario paolino ancora più interessanti.

     Per Paolo il “tempo messianico” è il “presente”: Paolo non vuole guardare nostalgicamente al passato e neppure vuole confidare fiduciosamente nel futuro: secondo Paolo il “tempo” va vissuto profondamente e intensamente solo nel “presente”. Le studiose e gli studiosi di filologia hanno riflettuto sul modo attraverso il quale Paolo elabora – fondendo insieme cultura ebraica e cultura greca – il linguaggio con cui definisce il concetto del “tempo”. Ancora una volta Paolo attua una significativa ed esemplare integrazione tra la cultura ebraica, che si esprime con concetti “materiali”, e la cultura greca, che si esprime con concetti “ideali e spirituali”.

     Quali sono le parole-chiave che Paolo di Tarso utilizza per definire il concetto del “tempo”? C’è un “tempo” che Paolo definisce con la parola “chronos” (un termine che proviene dalla poetica di Esiodo). Paolo utilizza il termine “chronos” per definire un periodo che – secondo lui – va dalla creazione del mondo fino alla comparsa del messia e, per Paolo di Tarso la comparsa del messia corrisponde non alla nascita di Gesù (di cui lui non sa nulla) ma al momento in cui è stata divulgata la “buona notizia” della sua risurrezione.

     Con la “buona notizia” della risurrezione di Gesù il tempo cambia aspetto: il tempo si contrae in un continuo presente e il tempo “comincia a finire”. E per definire questo “continuo tempo presente” Paolo utilizza un termine, usa un’espressione che assume un valore molto significativo nella Storia del Pensiero Umano: per definire il “tempo presente”, che è il “tempo dell’attesa di Gesù” ma che è anche contemporaneamente il “tempo della piena presenza del messia”, Paolo utilizza il termine “kairòs”. Che cos’è il “kairòs”? Intanto è un termine che ha spaventato molti pensatori che hanno poi – nei secoli successivi – delineato i perimetri della dottrina cristiana privilegiando il passato e il futuro, ma nello stesso tempo ha entusiasmato altri pensatori che, sebbene in minoranza, ne hanno mantenuto vivo il significato.

     Che cos’è il “kairòs”? Il “kairòs” è il “tempo di ora”, o meglio, è il concetto che significa: “ora è il tempo della salvezza”, “ora è il tempo dell’agire, delle scelte, della pienezza”, “ora è il tempo della fine del tempo inteso come chronos, conosciuto come tempo della cronaca, recepito come tempo che passa”. Il “kairòs” – afferma Paolo di Tarso – non è “tempo che passa” ma è “tempo che resta”. Non è difficile da capire questa idea. Quante volte abbiamo detto: “Questa è una situazione nella quale mi sembra che il tempo si sia fermato”. Tutte le volte che abbiamo vissuto un’esperienza simile abbiamo avuto la percezione del “kairòs”. Il “kairòs” – afferma Paolo di Tarso – è un tempo che è ancora nella storia, nel “chronos”, dentro all’orologio (diremmo noi oggi), ma buca già l’eternità, penetra già in quello che Paolo chiama “éskaton”, il “tempo dell’eternità”. Il “kairòs” – afferma Paolo di Tarso – è il periodo che il tempo ci mette per finire perché – sostiene Paolo – quando diciamo “mi è parso che il tempo si sia fermato”, ebbene, è come se avessimo avuto la sensazione di aver come percepito “la fine del tempo”. Quindi il “kairòs” è un tempo che sta dentro il tempo cronologico, che si trova dentro il tempo dell’orologio, ma che ha subito una trasformazione: è – dicono oggi le studiose e gli studiosi di filologia – un tempo di natura psicologica, un tempo che si identifica con noi stessi, con il nostro vivere nel “presente”. Se entriamo nella dimensione del “kairòs” – afferma Paolo di Tarso – abbiamo la percezione di aver fatto finire il “chronos”, il tempo che passa, e di vivere dentro ad un “presente” – perché solo nel presente è la vita – per cui siamo a stretto contatto con il “tempo che resta” e abbiamo la sensazione che il “tempo si sia contratto”.

REPERTORIO E TRAMA ...  per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quando avete avuto la sensazione che il tempo si fosse fermato  ?

Scrivete quattro righe in proposito…

     E ora è necessario andare in ricognizione filologica. Un breve brano ma molto significativo in relazione a ciò che abbiamo detto lo possiamo trovare ancora una volta in quella miniera di idee che è il testo della Prima Lettera ai Corinti. E, a questo proposito, è sufficiente che noi leggiamo tre versetti dal capitolo 7 della Prima Lettera ai Corinti per trovare conferma della riflessione che Paolo ha elaborato. Basta leggere questi tre versetti per capire come la contrazione del tempo (il kairòs, il tempo che resta) abbia – possa avere – una ricaduta pratica sulla vita delle persone tanto da cambiarne, in modo alternativo, la qualità dell’esistenza.

LEGERE MULTUM ….

Paolo di Tarso, Prima Lettera ai Corinti  7, 29-31

Fratelli e sorelle, io vi dico questo: il tempo si è contratto ed è diventato tempo che resta [ho kairòs synestalménos estìn]. Perciò, da ora in poi, quelli che sono sposati vivano come se non lo fossero, quelli che piangono come se non fossero tristi, quelli che sono allegri come se non fossero nella gioia, quelli che comprano come se non possedessero nulla, e quelli che usano i beni di questo mondo come se non se ne servissero. Perché questo mondo così com’è non durerà più a lungo.

     Nel pensiero di Paolo di Tarso il concetto del kairòs, della contrazione del tempo in un continuo presente, è direttamente legato all’idea del cambiamento: questo mondo così com’è non durerà più a lungo.

     Paolo di Tarso si rivela un pensatore molto accorto nel momento in cui conia un efficace catalogo di parole che – sulla scia della riflessione che conduce sull’idea del tempo inteso come kairòs, come tempo che resta– definisce l’aspirazione al cambiamento. Paolo si sforza di determinare un’idea di cambiamento che stia negli schemi di questo mondo, dentro a questo tempo, e dà vita a quella che le studiose e gli studiosi di filologia hanno chiamato metodologia del cambiamento nell’ambito del kairòs, del tempo che resta. Qual è il metodo per riuscire a cambiare stile di vita?

     Paolo di Tarso pensa che il kairòs, il tempo che resta, sia anche un tempo di ricapitolazione. E la prima parola-chiave della cosiddetta metodologia del cambiamentoa cui Paolo di Tarso ha dato vita è proprio la parola ricapitolazione. Questo tempo – scrive Paolo – in cui il messia è comparso è un tempo in cui si ricapitola tutta la storia, in cui si ricapitolano tutte le cose. E la ricapitolazione del passato produce nella mente della persona che vi si dedica – scrive Paolo – una pienezza, un compimento che suscita un’esigenza di cambiamento di stile di vita nel presente.

     Paolo per definire questo concetto utilizza la parola greca pléroma e per tradurre questo termine è necessario imbastire una riflessione. Nel kairòs, nel tempo contratto, nel tempo che resta, – scrive Paolo – si produce una ricapitolazione, una sintesi che ci fa già provare anticipatamente la sensazione che Dio sia tutto in tutti: questa sensazione di pienezza e di realizzazione viene espressa da Paolo con il termine pléroma. Come spiegare questo concetto significativo?

REPERTORIO E TRAMA ...  per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il kairòs è “tempo di ricapitolazione” e quando si ricapitola – pensa Paolo di Tarso – ci si predispone al cambiamento…

Quale di queste parole – riepilogo, riassunto, compendio, sintesi, sommario – mettereste per prima accanto alla parola “ricapitolazione”, scrivetela

Ogni tanto sentiamo il bisogno di ricapitolare e allora provate a ricapitolare la vostra vita scrivendo un catalogo composto di cinque o sei parole significative che rappresentano momenti di “pienezza”…

     Dove troviamo espresso nell’Epistolario di Paolo di Tarso il concetto del pléroma? Leggiamo due frammenti tratti dalla Lettera ai Galati e dalla Lettera ai Romani:

LEGERE MULTUM ….

Paolo di Tarso, Lettera ai Galati  4, 4

Ma Dio quando ci fu la pienezza dei tempi [pléroma ton kairòrì] mandò suo figlio. Egli nacque da una donna e fu sottoposto alla legge.

Paolo di Tarso, Lettera ai Romani  13, 9-10

La legge dice: Ama il prossimo tuo come te stesso. In questo comandamento è ricapitolata la pienezza [pléroma] di tutti gli altri comandamenti, come non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare. Chi ama il suo prossimo non gli fa del male. Quindi chi ama ricapitola la pienezza [pléroma] di tutta la legge: perché la pienezza della legge è l’amore solidale [pléroma un nòmu è agàpe].

     Soprattutto in questo secondo frammento Paolo vuole mettere in evidenza che il kairòs, in quanto tempo dell’attesa, è un tempo operativo e lo è nel segno dell’amore del prossimo, perché l’amore solidale (agàpe) è una pratica di ricapitolazione: basta un gesto di amore solidale (agàpe) per sintetizzare, per dare pienezza (pléroma un nòmu è agàpe) a tutta la legge.

     Paolo di Tarso sul concetto del tempo dell’attesa (il kairòs)elabora un pensiero che, tuttavia, nel corso del Medioevo verrà spinto in secondo piano – e ora anticipiamo uno dei temi che studieremo in futuro quando percorreremo i sentieri del vastissimo territorio della sapienza poetica medioevale –; nel corso del Medioevo la categoria del kairòs è stata spinta in secondo piano (la metterà in primo piano Francesco d’Assisi con il suo stile di vita ma dovrà scendere a compromessi con il potere ecclesiastico), perché nel corso del Medioevo prevale l’interpretazione apocalittica, la linea visionaria, per cui il tempo messianico viene considerato come la fine del tempo, il tempo messianicoviene concepito come se fosse l’ultimo giorno, il giorno della collera, il giorno del giudizio, il giorno dell’assoluzione o della condanna.

     Questo tema, tipicamente medioevale, è complesso e lo svilupperemo a suo tempo; ora, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, ricordiamo soltanto che, a questo proposito, la liturgia partorisce dei testi molto significativi, e tra questi testi c’è quel bellissimo tratto: la sequenza della messa breve dei defuntiche inizia con le parole Dies irae e che tutte e tutti voi conoscete. Citiamo i primi tre versi di questa celebre sequenza perché fanno al caso nostro: Dies irae, dies illa (Giorno d’ira sarà quel giorno). Solvet seclum in favilla (Il tempo si dissolverà nel fuoco). Teste David cum Sybilla (Lo attestano Davide e la Sibilla).

REPERTORIO E TRAMA ...  per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Si può trovare facilmente tutto intero il testo di questa celebre sequenza anche sulla rete: cercatelo e leggetelo perché è molto interessante… 

Quali sono i due versi di questa celebre sequenza che vi piacciono di più: scriveteli…

     Il linguaggio del Dies irae è tipicamente medioevale perché per Paolo di Tarso – e quindi per il Cristianesimo dei primi secoli, dei Padri Apostolici – il kairòs non è la fine del tempo (Solvet seclum in favilla)ma è il tempo della fine: ciò che interessa a Paolo non è l’ultimo giorno, non è l’istante in cui, domani, il tempo finisce (il tempo brucia) ma è il tempo che si contrae e si rivela in tutta la sua pienezza, ora! A Paolo di Tarso non interessa né il tempo cronologico, quello della cronaca, né il tempo apocalittico, quello della fine, a Paolo interessa il tempo che resta: quello che di solito – afferma Paolo – perdiamo a rimpiangere il passato e a sperare nel futuro.

     Le studiose e gli studiosi di filologia, oggi, mostrano un grande interesse per il  recupero di questa particolare categoria del tempo. La categoria del kairòs, del tempo che resta, infatti, oggi viene considerata un’esperienza fondamentale per ricucire il rapporto tra il passato e il futuro, per costituire il rapporto tra la memoria e la speranza. Che significato ha questa affermazione? Il kairòs in che senso è da considerarsi il presente– visto che il presente si presenta come un dato instabile, non catturabile –, e che cos’è il presente, come può essere definito il tempo di ora?

     Una possibile – e affascinante, tanto da catturare l’attenzione delle studiose e degli studiosi di filologia – risposta a questo interrogativo emerge dall’Epistolario paolino: il presente è il punto d’incontro tra la memoria e la speranza; il presente – secondo Paolo – non è il punto d’incontro tra il passato e il futuro perché Paolo allude al fatto che passato e futuro sono termini generici e aleatori infatti il passato non esiste più e il futuro non esiste ancora. Paolo afferma che l’essenza del presente sta nell’incontro tra la memoria e la speranza perché il passato esiste solo se è memoria e solo se è racconto, mentre il futuro comincia ad esistere quando c’è un progetto per cui la speranza assume la sua natura specifica (di sostegno alla fede e all’amore solidale) solo se è supportata da un programma e Paolo coltiva tenacemente la speranza disegnando pazientemente, con la scrittura, un programma di salvezza.

     Il tema del tempo così come lo ha affrontato Paolo di Tarso nel suo Epistolario ha assunto, nel corso dei secoli, nella Storia del Pensiero Umano, una notevole importanza: Montaigne, Pascal, Leibniz, Kant, Hegel, Kierkegaard, Marx, Nietzsche, Heidegger, Kafka, solo per fare alcuni nomi, sono rimasti invischiati nella categoria del kairòs, del tempo che resta, del presente operativo, del punto d’incontro tra la memoria e la speranza, del punto di contatto tra il racconto e il progetto. Il mondo della cultura deve essere grato a Paolo di Tarso – a questo testardo fariseo ellenizzato –, il quale ha sostenuto che bisogna utilizzare non il tempo che passa ma il tempo che resta, il presente operativo, per fare la cosa più utile che si possa fare: studiare, e nello studio è compreso l’esercizio della scrittura. Oggi ci chiediamo spesso: come fare per ricapitolare, per attuare delle valide sintesi in modo da conquistare la pienezza del nostro esistere? Come fare per conquistare il presente?

REPERTORIO E TRAMA ...  per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole – spettatore [spettacolo], testimone [testimonianza], partecipante [partecipazione] – mettereste per prima accanto alla parola “presente”?…

     E allora se il presente è “ricapitolazione”: non ci resta che esercitarci a “ricapitolare”. Come si presenta nella nostra mente il concetto di “tempo”? Si presenta con il nome di “chronos”, e questo è il “tempo che passa” (l’orologio). Si presenta anche con il nome di “éskaton”, e questo è il “tempo che verrà” (il dies irae). E poi si presenta con il nome di “kairòs”, e questo è il “tempo che resta” dove la memoria e la speranza si toccano, dove il racconto e il progetto si danno la mano.

     Quale considerazione possiamo fare di fronte a questa ricapitolazione? Possiamo dire che – secondo il pensiero di Paolo di Tarso – il chronos, il “tempo che passa”, è memoria ma non è più tempo. Poi possiamo dire che – secondo il pensiero di Paolo di Tarso – l’éskaton, il “tempo che verrà”, è speranza ma non è ancora tempo. Inoltre possiamo dire che – secondo il pensiero di Paolo di Tarso – il kairòs, in quanto “tempo che resta”, s’identifica con il racconto e con il progetto: il kairòs (il presente operativo) è il tempo vero e proprio.

     Paolo di Tarso, sulla scia dell’idea del “kairòs” (del presente operativo), compie due grandi operazioni culturali – che risaltano nei testi del suo Epistolario –, la prima operazione culturale (fondamentale nella costruzione dell’identità cristiana) è quella mediante la quale Paolo ha cominciato a costruire la memoria (il memoriale) di Gesù di Nazareth facendo aderire la sua essenza di “rabbi ebraico” a una serie di parole-chiave e le idee-cardine della cultura ellenistica. La memoria di Gesù di Nazareth – nei testi di Paolo di Tarso – cessa di svilupparsi nel chronos, nel tempo storico (Paolo non riesce a sapere quasi nulla su “quel Gesù” e a lui non interessa granché), secondo Paolo il chronos (il tempo che passa) subisce una perdita di senso di fronte alla “buona notizia della risurrezione” di Gesù e subentra la speranza della sua venuta gloriosa, della “para-ousìa”, un fatto che Paolo non pensa di dover collocare nel futuro (nel tempo che verrà) ma nel presente.

     La parola “para-ousìa” la conosciamo – l’abbiamo incontrata all’interno del testo della Prima Letttera ai Tessalonicesi – e ne abbiamo studiato il significato: il Signore, nel momento in cui è risorto, ha già fatto la sua comparsa gloriosa. E proprio prendendo spunto dal significato letterale della parola “para-ousìa” – che letteralmente significa “essere vicini, essere presenti gli uni per gli altri” – Paolo compie una seconda grande operazione culturale, quella di far corrispondere la “buona notizia” della risurrezione (l’anastasia) di Gesù di Nazareth al “tempo presente”, ad un “eterno presente”. La risurrezione di Gesù – secondo il pensiero di Paolo di Tarso – corrisponde al “tempo che resta” e Gesù risorto vive in un “eterno presente”, un tempo che cessa di essere “cronologico”: per Paolo di Tarso il tempo cronologico si risolve nell’assunzione di atteggiamenti liturgici in funzione di rituali che Paolo considera sterili, quindi, il tempo cronologico finisce per non essere operativo in funzione dell’amore solidale (agape). Gesù di Nazareth è nato, è vissuto ed è morto nel “chronos”, nel “tempo che passa”, ma la “buona notizia della sua risurrezione” dà inizio ad un tempo che si contrae in un “eterno presente”, quindi, con l’annuncio di questo evento, il tempo viene qualitativamente trasformato e tutte le persone dovrebbero prenderne atto con un cambiamento di stile di vita. Il “kairòs” è questo “tempo trasformato”: è il tempo che definisce la presenza del “messia”, è il tempo – per dirla in greco – di Gesù che assume i caratteri di “cristos (Unto) kyrios (Signore) soter (Salvatore)”.

     Paolo di Tarso, attraverso la sua scrittura, attua un arduo programma, il programma che porta alla trasformazione della persona del “Gesù della storia (quel Gesù)”, vissuto e morto nel “tempo che passa”, nella figura del “Cristo della fede (il messia)” che, risorto, vive nell’eterno “presente”, in un “tempo operativo” – afferma Paolo –qualitativamente nuovo, il “kairòs”, il “tempo che resta”, che non è il tempo della legge (degli sterili rituali) ma il tempo dell’amore solidale (dell’agape).

     E ora ci avviamo verso la conclusione di questo itinerario incontrando uno scrittore che tutte e tutti noi conosciamo: Cesare Pavese del quale lo scorso anno, nell’agosto 2010, si è commemorato il sessantesimo anniversario della morte. Perché Cesare Pavese ci aspetta sul sentiero di questo itinerario? Cesare Pavese è un scrittore che, con il ritmo della sua prosa, ha saputo ben coniugare il concetto della memoria con quello della speranza e lo ha fatto in modo tragico – nel senso del genere letterario della tragedia – perché, nella prosa di Pavese, la “memoria brucia come una ferita” e la “speranza si rivela sempre illusoria”, ma, tuttavia, questi due concetti sono presenti con tutto il loro peso evocativo.

     Di Cesare Pavese – della sua vita (è nato a Santo Stefano Belbo in provincia di Cuneo il 9 settembre 1908), delle sue opere e della sua morte (avvenuta nella notte tra il 27 e il 28 di agosto del 1950 in una stanza dell’albergo Roma a Torino) abbiamo parlato già tante volte ed è facile trovare notizie su di lui e sulla sua attività di scrittore e, quindi, la Scuola non può far altro che incoraggiare a leggere o a rileggere i suoi racconti, i suoi romanzi (Il compagno, Prima che il gallo canti, La luna e i falò, La spiaggia, Paesi tuoi, Feria d’agosto, Dialoghi con Leucò) e le sue poesie (Lavorare stanca, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi).

     Il romanzo di Cesare Pavese su cui adesso puntiamo l’attenzione s’intitola La bella estate ed è un’opera pubblicata nel 1949. Perché incontriamo Cesare Pavese sulla strada di Paolo di Tarso? Perché Pavese ha composto molti commenti sui testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso quando la Casa Editrice Einaudi – per la quale Pavese ha lavorato – decide di pubblicare l’opera paolina e, nella seconda metà degli anni ’40, che una Casa Editrice laica decidesse di pubblicare le Lettere di San Paolo, faceva notizia nel mondo intellettuale: Pavese si fa esegeta ed è facile pensare che lo scrittore si sia, per molti versi, identificato con lo “scontroso” apostolo perché Pavese, di carattere non era da meno. Pavese è un esperto di Letteratura ellenistica – ha fatto studi classici – e si è impegnato seriamente nel lavoro preparatorio per la pubblicazione dell’Epistolario di Paolo. Quindi non c’è dubbio che Pavese sia stato influenzato dalle tematiche paoline e, in modo particolare, dal tema del “tempo”: si percepisce difatti nella prosa e nella poesia di Pavese la perenne contraddizione tra il chronos, l’éskaton e il kairòs.

     Nella sua scrittura Pavese – e questa è una chiave di lettura da utilizzare – fa sentire alla lettrice e al lettore il disagio per il tempo che passa inesorabilmente, fa cogliere alla lettrice e al lettore l’illusione che accompagna l’attesa vana del tempo che verrà e fa percepire alla lettrice e al lettore l’aspirazione per carpire il tempo che resta in quanto presente operativo. Il disagio per il tempo che passa, l’illusione per il tempo che verrà, l’aspirazione per il tempo che resta sono tratti caratteristici dei personaggi pavesiani.

     Se prendete in biblioteca – è probabile che lo abbiate anche nella vostra biblioteca domestica – il libro intitolato La bella estate vi accorgerete che contiene tre romanzi: La bella estate, che dà il titolo al libro, Il diavolo sulle colline e Tre donne sole. Ci sarebbero molte cose da dire sul fatto che queste tre opere, che potrebbero fare ciascuna libro per conto proprio, siano state messe insieme dall’autore: se utilizzate la rete potete trovare molti commenti in proposito, e poi sul testo de La bella estate c’è una nota dello scrittore che commenta questa scelta.

     Prima di leggere l’incipit, l’inizio de La bella estate la Scuola vi propone di fare un esercizio di ricerca: andate a cercare l’inizio degli altri due romanzi. Il diavolo sulle colline inizia con un enunciato minimo, con una frase corta corta: leggetela, potete anche trascriverla ma si consiglia di leggere almeno le prime tre frasi. Tre donne sole inizia con una frase che ci porta in una città e in una stagione particolare dell’anno: in quale città e in quale stagione? Buona ricerca e buona lettura.

     E ora leggiamo l’incipit de La bella estate dove emerge la parola-chiave “tempo”, nei suoi vari significati:

LEGERE MULTUM ….

Cesare Pavese, La bella estate (1949)

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline. - Siete sane, siete giovani, - dicevano, - siete ragazze, non avete pensieri, si capisce -. Eppure una di loro, quella Tina ch’era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria.

… continua la lettura …

     Continuate voi la lettura di questo libro che contiene tre romanzi brevi e intensi perché Pavese, attraverso i suoi personaggi, soprattutto femminili (le enigmatiche donne pavesiane), racconta la scoperta della città e della società, anche se ciascun personaggio la campagna – la nitida e favolosa campagna di Pavese – la porta sempre dentro di sé quasi – scrive Pavese – come una sorta di peccato originale. In questi tre romanzi lo scrittore racconta di giovanili passioni amorose, di entusiasmi e di sconfitte. In questi tre romanzi l’autore racconta il bisogno baldanzoso che i personaggi hanno di violare la norma, di varcare il limite con la successiva sanzione che colpisce quasi sempre il più inerme e il più incolpevole.

     Abbiamo detto che Paolo di Tarso compie una straordinaria operazione culturale: trasforma il Gesù della storia nel Cristo della fede e, a questo punto, noi incontriamo il tema che hanno cercato di affrontare tutte le studiose e gli studiosi di filologia. Di che tema di tratta? Il tema a cui ci riferiamo è legato ad una serie di interessanti interrogativi: quali notizie arrivano su Gesù di Nazareth nelle ekklesìe? Che cosa si sa di lui? E, in particolare, che cosa sa Paolo di Tarso su Gesù di Nazareth?

     Noi sappiamo che Paolo di Tarso conosce poche cose intorno alla vita, alle opere e alle parole di Gesù di Nazareth, sappiamo anche che Paolo viaggia da una ekklesìa all’altra proprio per raccogliere notizie, testimonianze, documenti, dettagli, elementi biografici credibili, ma non riesce a sapere che poche cose frammentarie: anche quando va a Gerusalemme a parlamentare con quelli (Pietro e Giacomo) che avevano conosciuto direttamente Gesù. E allora che cosa sa Paolo di Tarso della vita, della predicazione e della morte di Gesù di Nazareth?

     Questo che stiamo evocando è un tema vastissimo proprio perché Paolo di Tarso della vita, della predicazione e della morte di Gesù di Nazareth non sa quasi nulla: e allora dove sta il paradosso? E voi sapere quanto i paradossi siano fecondi!

     Cominceremo ad occuparcene nel prossimo itinerario perché il viaggio continua e la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, e ogni persona – a centocinquant’anni dall’Unità della Nazione – deve imparare ad alimentare buone passioni, le passioni del Risorgimento, e a controllarle con giuste ragioni, le ragioni della Resistenza. È tra questi due segmenti che si colloca l’Unità d’Italia e la memoria da condividere.

     Dire viva l’Italia significa oggi liberare l’esecutivo da chi mette palesemente in dubbio l’evidenza di queste passioni e di queste ragioni: non possiamo tacere!

     Dire viva l’Italia significa oggi liberare l’esecutivo da chi ha palesemente fatto impoverire la cultura e la Scuola pubblica in questo Paese: non possiamo tacere!

     Per dare un senso all’Unità della Nazione è necessario promuovere l’alfabetizzazione che è lo strumento primario per favorire la riflessione sulla memoria ancora da condividere.

     Dire viva l’Italia significa anche dire viva quelle italiane e quegli italiani che, da adulti, con passione e con ragione, studiano e che – come voi – studieranno per i prossimi centocinquant’anni…

     Viva l’Italia

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 18, 2011