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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO CI SONO LE EKKLESÌE CHE DIVENTANO LABORATORI DI CONTIGUITÀ TRA LA CULTURA EBRAICA E LA CULTURA GRECA …

Lezione N.: 
16

Prof. Giuseppe Nibbi      Lo sapienza  poetica ellenistica  [evangelica e imperiale]      16-17-18  febbraio  2011

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO EVANGELICO

CI SONO LE EKKLESÌE CHE DIVENTANO LABORATORI DI CONTIGUITÀ

TRA LA CULTURA EBRAICA E LA CULTURA GRECA

     Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo, finalmente, raggiunto il paesaggio intellettuale che contiene la parola-chiave “ekklesìa”. E adesso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, possiamo domandarci anche quale sia stato il rapporto che, nel I secolo d.C., Paolo di Tarso ha avuto con le “ekklesìe” e che cosa conosca Paolo di Tarso della grande stagione culturale che si sviluppa dentro le “ekklesìe”. Naturalmente Paolo di Tarso, in quanto ebreo della “diaspora” che vive sul territorio dell’Ellenismo e che si muove da una ekklesìa all’altra, conosce molte cose in proposito e noi sappiamo che ci sono alcuni testi, alcune opere letterarie, frutto di questa stagione di contiguità tra la cultura dell’Ellenismo e quella dell’Ebraismo, che dobbiamo prendere in considerazione perché nei testi di queste opere si possono trovare le forme e i contenuti che favoriscono il processo di formazione degli Ebrei della “diaspora” che la pensano come Paolo di Tarso. Ed è proprio studiando le forme e i contenuti di queste opere, scritte nell’ambito delle “ekkiesìe”, che Paolo di Tarso potrà elaborare le sue idee e il suo pensiero.

     Quali temi culturali troviamo in ebollizione – di questa tematica siamo, in parte, già al corrente – nel pentolone (nel laboratorio intellettuale) delle “ekkiesìe”? E quali sono le idee che maturano nei grandi e vivacissimi dibattiti che si svolgono all’interno delle “ekkiesìe (delle assemblee che raccolgono Ebrei e non-Ebrei e che Paolo di Tarso frequenta assiduamente)” dove le tradizioni dell’Ellenismo e dell’Ebraismo si incontrano dando origine ad una nuova cultura che produce una buona coltura? Per sapere che cosa bolle nel pentolone delle “ekklesìe” dobbiamo incominciare la nostra riflessione facendo – a mo’ di ripasso – alcune considerazioni preliminari in modo da prendere il giusto passo.

     Per settimane – e questa è la prima considerazione che facciamo – abbiamo seguito il lungo ed impervio sentiero che ci ha portato dinnanzi al paesaggio culturale che contiene la parola-chiave “ekklesìa”. Sappiamo che “ekklesìa” è una parola greca che significa “assemblea” e, strada facendo, abbiamo studiato come si sono formate nel corso dei secoli queste “strutture” frequentate da Ebrei e non-Ebrei soprannominati “ospiti di riguardo”, in greco “metùentoi”, una parola che traduce il termine ebraico “gher toshav”. Queste “strutture di incontro, le ekklesìe” che non sono propriamente delle comunità ebraiche (perché all’interno delle comunità ebraiche i non-Ebrei non possono entrare), che non sono luoghi di culto pagano (perché in un luogo di culto pagano gli Ebrei non entrano per non contaminarsi), si presentano come “qualcosa di nuovo (un nuovo germoglio)” che affonda però le sue radici nella tradizione, in un antico strato (di coltura) culturale; e difatti queste “strutture di incontro” tra Ebrei e “Gher toshav, ospiti (non-Ebrei) timorati di Dio”, si formano gradualmente (ci vuole circa un secolo) un po’ come se fossero “l’assemblea del popolo riunito davanti a Dio”: si configurano come una struttura leggera che rimanda all’immagine, di un certo peso e di grande suggestione, che proviene dal Libro dell’Esodo. Infatti sappiamo che nel Libro dell’Esodo “l’assemblea del popolo riunito davanti a Dio” corrisponde al termine ebraico “qahal” e la parola ebraica “qahal” – ne abbiamo studiato il senso e la storia di derivazione mesopotamica, strada facendo –verrà tradotta in greco con la parola “ekklesìa”. Quindi, in età ellenistica, dal III secolo a.C., le “assemblee” formate da Ebrei della “diaspora” e da non-Ebrei che si avvicinano, con rispettosa curiosità, alla cultura “beritica (biblica)” prendono il nome di “ekklesìe”.

     Ci sono volute diverse settimane per rincorrere questa parola-chiave e per comprenderne la storia. Ma questi sono i tempi dello studio e della riflessione intellettuale: non ci sono – abbiamo detto e lo ribadiamo – sui sentieri culturali di carattere filologico, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, delle scorciatoie e le “scorciatoie” si possono prendere – sul terreno dello studio – solo se abbiamo acquisito dei “saperi”.

     Gli Ebrei e gli ospiti non Ebrei si riuniscono insieme in “assemblea, in ekklesìa” per cercare nella letteratura greca e beritica (biblica), nella cultura ellenistica ed ebraica, nella Legge della polis e nei comandamenti dell’Antico Testamento, un punto di riferimento che possa dare un senso alla vita, per cercare una risposta di carattere esistenziale. Per inciso: non è casuale il fatto che molte studiose e molti studiosi di Storia del Pensiero Umano abbiano considerato e considerino l’Epistolario di Paolo di Tarso un’opera di filosofia esistenzialista.

     Queste assemblee, le “ekklesìe”, per tre secoli circa, diventano il laboratorio culturale privilegiato dove avviene l’incontro, l’integrazione tra la cultura dell’ebraismo e la cultura ellenistica e sarà all’interno delle “ekklesìe” che, dagli anni 50 del I secolo d.C., comincia a maturare il pensiero del Cristianesimo.

     Perché mai la Scuola pubblica ha proposto (e deve proporre) di studiare la (anche barbosa) storia delle “ekklesìe”, con tutte le cose “spettacolari” che abbiamo intorno (a cominciare dall’alto, dal premier barzellettiere che domina sulla scena culturale del nostro Paese)? La Scuola propone (e deve proporre) di studiare la storia delle “ekklesìe” perché i frutti intellettuali – che maturano in questi laboratori culturali attivi per circa tre secoli sul territorio dell’Ellenismo – sono ben presenti nella mente di ciascuna e di ciascuno di noi e, quindi, dobbiamo, con l’esercizio dello studio, diventarne consapevoli perché gli stessi frutti intellettuali sono presenti – sotto forma di parole-chiave e di idee-significative – nella Storia della Letteratura Universale e nella Storia del Pensiero Umano: come si fa a leggere, a scrivere e a riflettere senza acquisire – almeno in parte – queste competenze? Quindi è doveroso fare un po’ di chiarezza in proposito, è doveroso mettere un po’ di ordine nelle nostre menti, contrariamente, continueremo a vivere ingurgitando volgari “spettacolarizzazioni”, piuttosto che nutrirci dei prodotti della “cultura”. Per nutrirci dei prodotti (dei frutti dell’orto) della “cultura” è necessario promuovere “Percorsi di alfabetizzazione culturale e funzionale (Officine di Apprendimento permanente – Off d’App)” perché le scorciatoie, in questo caso, servono a tutt’altro che a favorire itinerari intellettuali. (Sto divagando? Sto dicendo queste cose – che sapete – anche per costruire una “situazione didattica” secondo lo stile dell’alfabetizzazione culturale e funzionale. Che cosa significa?

     La seconda considerazione che dobbiamo fare – a detta delle studiose e degli studiosi di filologia – è che le “ekklesìe” sono il frutto di “un matrimonio ben riuscito” tra culture e tradizioni diverse che imparano, non senza difficoltà e contrasti, a convivere riuscendo anche (se così si può dire) a volersi bene e a creare le condizioni per la produzione di un inestimabile patrimonio intellettuale. Ma su questa considerazione – nella quale si parla di “un matrimonio ben riuscito” – inseriamo una digressione e riprendiamo, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, il testo del romanzo intitolato Le braci di Sándor Márai: tutte e tutti voi ormai lo conoscete.

     Sappiamo che dobbiamo leggere il testo di questo romanzo fino all’arrivo di Konrad, l’ospite atteso al castello dove lo aspetta il generale che si chiama Henrik. L’autore, però, con grande abilità narrativa – prima che Konrad arrivi e i due protagonisti si rincontrino dopo quarantun’anni di lontananza – ci porta a conoscere la storia del loro incontro e del loro intenso sodalizio giovanile. Sándor Márai vuole mettere in evidenza che la condizione dell’attesa mette in moto la memoria: noi siamo ospiti della nostra memoria. E come facciamo ad ospitare la nostra memoria? Scrivendo quattro righe al giorno di autobiografia, come propone la Scuola.

     E ora leggiamo: abbiamo lasciato Henrik fanciullo e la sua balia Nini in Bretagna, in riva all’Oceano a pensare che “a questo mondo vi era qualcosa in comune fra tutte le cose.”.

LEGERE MULTUM ….

Sándor Márai,  Le braci  (1942)

Di fatti come questi ci si ricorda soltanto più tardi. Trascorrono interi decenni, si passa per una camera buia in cui è morto qualcuno e a un tratto si ode il mormorio del mare, si riascoltano parole antiche. Come se quelle poche parole avessero dato espressione al significato della vita. Ma più tardi c’era sempre stata qualche altra cosa di cui parlare.

… continua la lettura …

     A detta delle studiose e degli studiosi di filologia le “ekklesìe” sono il frutto di “un matrimonio ben riuscito” tra culture e tradizioni diverse che imparano, non senza difficoltà e contrasti, a convivere riuscendo a creare le condizioni per la produzione di un inestimabile patrimonio intellettuale. Ma proseguiamo il nostro cammino con ordine.

     Nel III secolo a.C. molti Ebrei delle comunità della “diaspora” che vivono ad Alessandria, ad Antiochia, a Efeso, a Corinto, a Roma sono molto delusi dagli spettacoli rituali e cultuali (ne giunge eco su tutto il territorio dell’Ellenismo) che si tengono nel Tempio di Gerusalemme caduto in mano a quei sovrani – ai monarchi assoluti dell’Ellenismo i quali pretendono di essere considerati delle divinità – che governano la Palestina come i Tolomei, i Seleucidi e gli Erodiani che con la cultura ebrea, e soprattutto con la Scrittura beritica (biblica), hanno ben poco da spartire. Così, sempre nel III secolo a.C., molti cittadini greci, egizi, siriaci, di cultura pagana, sono molto delusi dagli spettacoli alienanti, programmati appositamente per addormentare le coscienze dagli apparati di potere di tutte le monarchie assolute che si sono formate – dopo la morte di Alessandro Magno (il tema dello smembramento dell’impero di Alessandro lo abbiamo studiato lo scorso anno) – sul territorio dell’Ellenismo.

     Ebbene, è proprio nelle ekklesìe (nelle assemblee dove s’incontrano Ebrei e non-Ebrei) che si raccoglie il dissenso, il disagio, il disgusto dei ceti riflessivi delle varie componenti della popolazione ellenistica. È proprio nelle ekklesìe che un certo numero di cittadine e di cittadini ebrei, greci, egizi, siriaci, che vivono sul territorio dell’Ellenismo, cercano delle risposte di tipo esistenziale, si domandano: ha un senso la condizione umana e c’è una via per dare un significato positivo alla natura umana che sembra orientata verso il male piuttosto che verso il bene?

     Il dibattito che si sviluppa nelle ekklesìe prende forma intorno a quattro domande significative ed inquietanti – che abbiamo già messo in evidenza nel Percorso dello scorso anno – e che coinvolgono, indipendentemente dalla loro appartenenza culturale, tutte le cittadine e i cittadini dell’Ellenismo: come mai nel mondo in cui viviamo domina il male piuttosto che il bene? È possibile trovare una via di salvezza dal male? Il bene ha una sua forza propulsiva? I monarchi assoluti vengono considerati, per ignoranza, come se fossero delle divinità, ma in che cosa consiste il concetto che è stato denominato “Regno di Dio” o “Regno della Giustizia”?

     Le intellettuali e gli intellettuali che frequentano le ekklesìe – esprimendosi in ebraico, in greco, in latino – riflettono soprattutto su queste importanti domande di carattere esistenziale e da questa riflessione nascono significative opere che mettono in evidenza un grande esercizio di investimento in intelligenza che contribuirà in maniera determinante alla diffusione del Cristianesimo ma soprattutto contribuirà allo sviluppo della Storia della Letteratura e del Pensiero Umano.

     Tra i cittadini dell’Ellenismo – delusi, disgustati, a disagio e, quindi, in ricerca – ci sarà, nella prima metà del I secolo d.C., anche Paolo di Tarso, e le Lettere di Paolo di Tarso, che costituiscono il documento-base del Cristianesimo, maturano all’interno del dibattito che si svolge nelle ekklesìe intorno alle domande di carattere esistenziale che abbiamo formulato. Le Lettere di Paolo di Tarso, dal punto di vista letterario e della Storia del Pensiero Umano, vengono considerate dalle studiose e dagli studiosi di filologia, il frutto più maturo derivante dalla contiguità, dall’incontro tra la cultura ebraica e la cultura ellenistica. Di conseguenza ora ci rendiamo conto a che cosa alluda – che tipo di affermazione faccia – Paolo di Tarso, quando, nel testo del suo Epistolario usa l’espressione “ekklesìa”: si riferisce alle assemblee di Ebrei e non-Ebrei diffuse su tutto il territorio dell’Ellenismo nate e cresciute secondo la complessa dinamica che abbiamo studiato nel corso degli itinerari di queste ultime settimane.

     Quindi dobbiamo dire, sulla scia di ciò che affermano le studiose e gli studiosi di esegesi (in particolare quelli dell’Università di Tubinga), che Paolo di Tarso farebbe molta fatica, oggi, a capire il concetto di “chiesa” così come noi lo concepiamo attualmente, rispetto al concetto di “ekklesìa” di cui ha avuto esperienza lui.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Pensando alla parola “chiesa” quale di queste – o quale altra parola – scegliereste per prima: solidarietà, potere, spiritualità, collegialità, autorità, santità, alienazione, comunione, compromesso?… 

Scrivete, basta una parola …

     Le studiose e gli studiosi di esegesi affermano che se oggi Paolo di Tarso leggesse la Lettera di Paolo di Tarso agli Efesini troverebbe delle difficoltà a capire come le sue idee si siano potute evolvere in una determinata direzione. Ma di questo argomento ne parleremo strada facendo: il testo della Lettera agli Efesini – già lo sapete – è deuteropaolino, cioè, non è stato scritto da Paolo ma è stato composto in seguito in funzione di una evoluzione delle cose.

     In virtù di queste considerazioni che abbiamo fatto, noi dobbiamo assumere una mentalità esegetica, cioè da lettrici e da lettori attenti” (“esegeta”, letteralmente, significa “lettrice o lettore che fa bene attenzione a ciò che legge”). Una lettrice diventa attentae un lettore diventa attentoquando è in possesso dei concetti culturali e delle parole-chiave che la Storia del Pensiero Umano ci ha lasciato in eredità e l’eredità si acquisisce anche – c’è chi dice soprattutto – attraverso Percorsi di alfabetizzazione culturale e funzionale.

     E ora, prima di proseguire sul nostro sentiero, – a proposito di didattica della lettura e della scrittura – continuiamo a leggere il testo del romanzo Le braci. La madre di Henrik afferma che l’amicizia tra suo figlio e Konrad è un matrimonio ben riuscito ma Nini non è convinta: perché non è convinta?

     Leggiamo e riflettiamo sulle considerazioni di carattere esistenziale che lo scrittore fa e che sono in sintonia con ciò che abbiamo detto finora.

LEGERE MULTUM ….

Sándor Márai,  Le braci  (1942)

I ragazzi arrivavano insieme tutte le estati, e più tardi trascorsero al castello anche le feste di Natale. Condividevano ogni cosa, dagli abiti alla biancheria intima; al castello occupavano una stanza tutta per loro, leggevano contemporaneamente gli stessi libri, scoprirono insieme Vienna e le foreste, i libri e la caccia, l’equitazione e le virtù militari, i rapporti sociali e l’amore. Nini aveva paura, forse era anche un po’ gelosa.

… continua la lettura …

     La lunga e complessa riflessione che abbiamo fatto nel corso del tragitto che ci ha portate e ci ha portati dinnanzi al paesaggio intellettuale che contiene la parola-chiave “ekklesìa” ci permette anche di capire l’importanza che ha avuto, alla fine degli anni 30 del I secolo, l’arrivo in queste assemblee, diffuse su tutto il territorio dell’Ellenismo, della “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth. Questa “buona notizia” si diffonde attraverso il canale dell’emigrazione, attraverso la rete della “diaspora” ebraica e nella rete della “diaspora” ebraica – come sappiamo – c’è anche Shaul Tarsensis, che poi assumerà il nome di Paolo di Tarso.

     La “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth si diffonde, e si sviluppa come tema culturale, proprio nell’ambito delle ekklesìe e lo sviluppo di questo tema avviene, assai rapidamente, proprio nel corso del serrato dibattito intorno alle domande, di carattere esistenziale, che abbiamo formulato prima (come mai nel mondo domina il male? È possibile trovare una via di salvezza dal male? Il bene ha una sua forza propulsiva? In che cosa consiste il concetto che è stato denominato “Regno di Dio” o “Regno della Giustizia”?) e il contenuto della “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth si propone come valido argomento per dare delle risposte a queste domande.

     Nelle ekklesìe – prima di tutto nella ekklesìa di Antiochia – si formano i primi gruppi che verranno identificati come “cristiani” (così si legge nel testo degli Atti degli Apostoli) e tra queste persone c’è anche Paolo di Tarso. Questi primi gruppi di “cristiani” coltivano pensieri eterogenei perché diffondono la “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth attraverso canali che ideologicamente si diversificano. E quali sono i canali più importanti attraverso i quali arriva nelle ekklesìe la “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth? La “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth arriva sul territorio dell’Ellenismo, nell’ambito delle ekklesìe, attraverso il canale ebionita (abbiamo già studiato il significato di questa parola e il ruolo di un personaggio, citato spesso da Paolo, che si chiama Apollo). Il canale ebionita (gli ebionim – e questo termine lo si trova nella Letteratura dei profeti – sono i poveri, sono i diseredati) divulga la “notizia” di un Gesù visto nella sua dimensione umana: Gesù è un uomo che predica, come i profeti, una rivoluzione sociale e che risorge con il corpo per migliorare materialmente la qualità della vita su questa terra.

     La “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth arriva sul territorio dell’Ellenismo, nell’ambito delle ekklesìe, attraverso il canale gnostico (gnosi, in greco, significa “conoscenza” e, strada facendo, su questa parola avremo molte cose da dire). Il canale gnostico divulga la “notizia” di un Gesù visto come una figura angelica: Gesù è un personaggio di natura divina, è l’incarnazione della “parola” e del “pensiero” di Dio (il Logos), e risorge come puro spirito. La “buona notizia” della risurrezione di Gesù di Nazareth arriva sul territorio dell’Ellenismo, nell’ambito delle ekklesìe, attraverso il canale familista, attraverso la voce – amplificata da persone emigrate sul territorio dell’Ellenismo – del fratello di Gesù, Giacomo, che vive a Gerusalemme. Attraverso l’autorevole voce di Giacomo – “il fratello del Signore” come scrive Paolo nel suo Epistolario – arriva la “notizia” di un Gesù che viene rappresentato come un rabbi ebraico che deve riscattare il suo popolo: una persona adottata da Dio e fatta risorgere da Dio stesso, secondo le Scritture, per ristabilire il Regno d’Israele.

     Questi sono i canali (assai diversificati tra loro) più importanti – ebionita, gnostico e familista – attraverso i quali si diffonde e si sviluppa, nelle ekklesìe, la “buona notizia” della risurrezione di Gesù; ora però, queste “notizie”, queste diverse “icone di Gesù”, sono soggette ad una ulteriore contaminazione – e, a questo proposito, il ruolo di Paolo di Tarso risulta fondamentale nel processo di elaborazione –, le diverse “icone di Gesù” vengono via via ridisegnate alla luce delle idee che, nei fecondi laboratori culturali delle ekklesìe, vengono dibattute. Solo se si tiene conto di questa “eterogeneità e conflittualità culturale” si capiscono le forme e i contenuti delle Lettere di Paolo di Tarso e della Letteratura dei Vangeli in generale.

     Questa iniziale “eterogeneità e conflittualità culturale” è stata ed è sempre presente nel vasto territorio del Cristianesimo: facciamo un esempio che ci possa permettere di eseguire un esercizio di lettura, non di lettura di un testo scritto ma di lettura di immagini. Se si entra nella prima sala delle Galleria degli Uffizi – lo si può fare anche utilizzando un catalogo che troviamo in biblioteca o sulla rete – si possono ammirare tre grandi tavole che rappresentano la “Madonna in trono”. Una è stata dipinta da Cimabue, una da Duccio di Boninsegna e una da Giotto. Se prendiamo in considerazione le Maestà di Duccio e quella di Giotto – indipendentemente dalle considerazioni di carattere artistico che si possono fare su questi due pregevoli oggetti – possiamo facilmente notare come l’immagine della Maestà di Duccio (leggera, aleatoria, dove i corpi si perdono sotto l’abito prezioso) rimandi ad un’icona di carattere prevalentemente spirituale, potremmo dire d’impronta gnostica, mentre l’immagine della Maestà di Giotto (corporea, carnale, di plastica compattezza) rimanda ad un’icona di carattere materiale, potremmo dire d’impronta ebionita o pauperista.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Queste due opere – la Maestà di Duccio e la Maestà di Giotto – sono alla Galleria degli Uffizi nella stessa sala così come, tra il 1290 e il 1310 erano collocate in due chiese fiorentine: siamo in pieno medioevo e la discussione (non indolore) su quale sia il carattere da dare alla “buona notizia” della risurrezione di Gesù è più che mai in corso e, a suo tempo, ne studieremo i connotati…   Fate questo esercizio di osservazione e di lettura…

     Paolo di Tarso non solo partecipa, con grande coinvolgimento – e questo fatto lo si capisce bene leggendo il suo Epistolario – al dibattito in corso nelle ekklesìe di tutte le più importanti città dell’Ellenismo che lui frequenta –, ma è la persona che sente la necessità culturale e il bisogno intellettuale di raccogliere le sue posizioni “per iscritto” e di farle circolare anche perché lo strumento della “scrittura” è il più idoneo a creare forme di mediazione dalle quali possano scaturire contenuti nuovi: senza mediazione – senza il supporto dello strumento della scrittura – i contenuti di un dibattito rischiano di diventare asfittici e improduttivi piuttosto che luoghi di riflessione intellettuale. Paolo di Tarso sente la necessità culturale e il bisogno intellettuale di raccogliere le sue posizioni “per iscritto” e da questa esercitazione – e questo tema lo abbiamo già studiato nel Percorso dello scorso anno e continueremo a studiarlo strada facendo – nasce un “glossario”, un catalogo di parole-chiave che contribuisce a spaccare la storia in due (prima di Cristo e dopo Cristo), in una dimensione temporale nella quale sta vivendo il mondo intero.

     Lo “scrivano” Paolo di Tarso ha un importante ruolo culturale perché è il principale “filologo ellenista” che prepara con la sua scrittura esemplare – di carattere laico, popolare, diretto, aperto, esplicito, spontaneo – il “dizionario di base” con cui divulgare la “buona notizia” e, così facendo, Paolo di Tarso mette a punto il “vocabolario ellenistico” dell’evangelo. L’inventario delle parole, la lista delle espressioni, il catalogo delle idee-cardine che Paolo di Tarso conia diventano gli strumenti utili per la formazione, nei decenni a venire, della Letteratura dei Vangeli (canonica e apocrifa): una Letteratura che, dal I secolo d.C., s’inserisce come una travolgente novità intellettuale sul territorio dell’Ellenismo modificando il modo di pensare e il modo di scrivere delle intellettuali e degli intellettuali.

     Attraverso il significativo e variegato movimento culturale ellenistico che porta alla redazione della Letteratura dei Vangeli – a cominciare dalle Lettere di Paolo di Tarso che ne costituiscono il primo segmento fondamentale – si sviluppa la “dottrina”, la “liturgia” e il “pensiero filosofico” del Cristianesimo e poi, come già sappiamo, si svilupperà, nel campo della cultura greca, una reazione all’invadenza del Cristianesimo, una reazione di stampo orfico-dionisiaco e, a suo tempo, riaffronteremo questo argomento. La chiave di volta per la diffusione del Cristianesimo è la “sapienza poetica ellenistica” e Paolo di Tarso utilizza questa “sapienza” già dai suoi primi scritti per coniare un significativo catalogo di termini comuni – Kyrios, parusìa, anastasis, elpis, pistis, agape, eucaristia – termini mutuati dal glossario dell’Ellenismo e trasformati in eloquenti parole-chiave al servizio di un nuovo modo di scrivere, un modo capace, nel giro di qualche secolo, di condizionare la Storia della Letteratura dell’Occidente.

     Paolo, attraverso la sua formazione culturale, ha capito una cosa importante e, strada facendo, da quando siamo in viaggio (da più di quattro mesi), una cosa essenziale l’abbiamo certamente capita anche noi: è la “scrittura” che fa esistere le cose perché quando un’idea la mettiamo per iscritto siamo più vicine, siamo più vicini all’essenza dell’esistere. Nessuno oggi si ricorderebbe di Paolo di Tarso se non ci fossero le sue Lettere! Dobbiamo, di conseguenza, fare tesoro di questa affermazione e dovremmo seguire il consiglio della Scuola che c’invita a scrivere dieci minuti (quattro righe) al giorno soprattutto con intento autobiografico seguendo le indicazioni di REPERTORIO.

     E ora, in relazione a questo concetto che abbiamo espresso, e in funzione della didattica della lettura e della scrittura, cogliamo l’occasione per fare una digressione incontrando un autore e un testo di cui, in passato, abbiamo già proposto la lettura. Lo scrittore che incontriamo adesso sul sentiero che stiamo percorrendo si chiama Michel Tournier ed è nato a Parigi nel 1924. Questo scrittore è stato apprezzato e tradotto in italiano da Italo Calvino e, tra i testi che Tournier ha scritto – e di cui, poi, se vorrete potrete andare a caccia (è una caccia sempre aperta quella ai libri, una caccia incruenta) –, c’è anche una riscrittura: Tournier, nel 1968, ha riscritto (interpretato) il Robinson Crusoe, il famoso romanzo del naufrago sull’isola deserta scritto da Daniel De Foe nel 1719.

     Il romanzo di Daniel De Foe intitolato Robinson Crusoe ha una grande fama. È stato pubblicato nel 1719 ed ha anche influenzato la Storia della Letteratura successiva e del Teatro e del Cinema. Il romanzo Robinson Crusoe – lo avete letto questo testo? Più i libri sono famosi e più si pensa di averli già letti (è la “sindrome delle sceneggiature” a causa delle numerosissime rappresentazioni che allontanano dalla lettura di un testo, e questo non è un bene) – è un classico che periodicamente va riletto. Fate un esercizio: prendete questo testo in biblioteca – è probabile che sia nella vostra biblioteca domestica – e leggete il capitolo (sono tre pagine) intitolato “Meditazioni”. In questo capitoletto trovate un significativo prospetto sul tema della “condizione umana” che si presenta come un continuo impasto di mali e di beni: questa lettura ricorda l’Epistolario di Paolo di Tarso che Daniel De Foe conosce molto bene

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Provate a comporre un prospetto per mettere a confronto i “mali” e i “beni” della vostra vita attuale…

     Leggiamo l’incipit del capitolo intitolato “Meditazioni” dal romanzo di Daniel De Foe:

LEGERE MULTUM ….

Daniel De Foe,  Robinson Crusoe  (1719)

Avevo una ben triste prospettiva davanti a me: relegato su quell’isola deserta non per mia volontà, ma in seguito a una violenta tempesta, lontano dalla rotta di qualsiasi nave e a centinaia di leghe dai passaggi frequentati da legni mercantili, avevo ragione di credere che il Cielo avesse decretato di farmi finire i miei giorni in desolata solitudine. Pensando a questo, piangevo a calde lacrime e mi chiedevo perché la Provvidenza riducesse a tali estremi le sue creature. Ma subito dopo un’improvvisa considerazione mi faceva riacquistare il dominio su me stesso.

Un giorno, mentre passeggiavo col mio fucile in riva al mare, meditando sulle mie tristi condizioni di vita, mi parve udir la voce della mia ragione che mi rimproverava: «Tu sei in una ben triste condizione, è vero; ma pensa un po’: dove sono i tuoi compagni? Non eravate in undici in quella barca? Dove sono gli altri dieci? Perché non furono salvati loro e tu perduto? Perché fosti proprio tu il preferito? È meglio essere qui, ospite di quest’isola inospitale, o là dove sono gli altri?». E guardai il mare. Le avversità vanno considerate dal punto di vista dei vantaggi che possono seguirne e dalle peggiori condizioni che possono derivarne.

     Continuate voi la lettura di questo capitoletto (sono tre pagine) del Robinson Crusoe intitolato “Meditazioni”: vi aiuterà a svolgere il compito, a comporre un prospetto per mettere a confronto i “mali” e i “beni” della vostra vita attuale. In ciascuno di noi – c’insegna Michel Tournier – c’è un po’ di Robinson ma c’è, forse e in quantità maggiore, anche un po’ di Venerdì.

     Il libro più famoso di Michel Tournier s’intitola Venerdì o il limbo del Pacifico. In questo testo la figura del naufrago Robinson diventa un pretesto per fare una grande riflessione sul ricco sistema di simboli e di miti che quest’uomo del 1759 – che è poi l’uomo contemporaneo – ha nella mente. Tournier il suo Robinson lo colloca circa cento anni dopo rispetto a quello di De Foe. Ospite (e noi non siamo indifferenti nei confronti della parola “ospite”) dell’isola deserta, in solitudine, il naufrago, è costretto a decifrare questi simboli e questi miti, e i risultati dei suoi ragionamenti e delle sue riflessioni lo portano ad agire. Ad agire come? Per sapere questo bisogna leggere il romanzo!

     Questo testo, nel bene e nel male, ci riserva delle sorprese perché lo scrittore rovescia il mito di Robinson e la storia diventa un’appassionante avventura in cui troviamo la suspense, il senso dell’ignoto, il fascino dell’esotismo e la nostalgia per una terra incontaminata: ma che cosa c’entra tutto questo con il nostro Percorso?

     Leggiamo due pagine tratte da questo romanzo e tutto, forse, sarà più chiaro:

LEGERE MULTUM ….

Michel Tournier, Venerdì o il limbo del Pacifico (1968)

Robinson dedicò le settimane successive all’esplorazione metodica dell’isola, e a recensirne le risorse. Noverò i vegetali commestibili, gli animali che potevano essergli di qualche aiuto, le sorgenti, i ripari naturali. Per fortuna, il relitto della Virginia non era stato ancora completamente distrutto dalle intemperie violente dei mesi trascorsi, sebbene già fossero scomparse intere parti dello scafo e del ponte. Il corpo del capitano e quello del marinaio erano stati portati via anch’essi, e Robinson se ne rallegrava non senza provare nello stesso tempo vivi rimorsi di coscienza.

… continua la lettura …

     Leggete questo significativo romanzo: sicuramente in queste due pagine che abbiamo letto ci ha colpito questo frammento che rileggiamo: «Gli sembrava all’improvviso di essersi quasi strappato dall’abisso di bestialità in cui era sprofondato e di rientrare nel mondo dello spirito, compiendo questo atto sacro: scrivere. Da allora aperse quasi ogni giorno un suo libro diventato quaderno per affidargli, non già gli avvenimenti piccoli o grandi della vita materiale - di questo non si curava -, ma le sue meditazioni, l’evoluzione della propria vita interiore, o anche i ricordi che tornavano a lui dal passato e le riflessioni ispirate da quelli. Cominciò per lui un’era nuova - o più precisamente, quella che aveva inizio era la sua vera vita nell’isola, dopo gli smarrimenti di cui provava vergogna e che si sforzava di dimenticare». Paolo di Tarso s’identifica senz’altro con queste parole.

     La prossima settimana riprenderemo il passo sul nostro sentiero specifico: abbiamo detto che Paolo di Tarso, non solo partecipa, con grande coinvolgimento, al dibattito del suo tempo sul tema della “condizione umana” (un tema sempre all’ordine del giorno), ma è una persona che sente la necessità culturale e il bisogno intellettuale di raccogliere le sue posizioni “per iscritto” e di farle circolare: Paolo ha capito che la “scrittura” fa esistere le cose e quando scriviamo “usciamo dall’abisso della bestialità”.

     Il viaggio continua e la Scuola è qui perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, e ogni persona deve imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 18, 2011