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IL PUNTO DI PARTENZA DEL SECONDO VIAGGIO NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA: LO STAMPO EVANGELICO ...

Lezione N.: 
1

Prof. Giuseppe Nibbi         Lo sapienza poetica ellenistica [evangelica e imperiale]          6-7-8 ottobre 2010

IL PUNTO DI PARTENZA DEL SECONDO VIAGGIO NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA:

LO STAMPO EVANGELICO ...

     Ben tornate e ben tornati (ad occupare la Scuola)!

     Ben tornate alle persone che frequentano da tempo la Scuola pubblica degli Adulti e ben venute (se ce ne sono) alle persone che sono qui per la prima volta ad intraprendere un viaggio di studio.

     Il settore della Scuola pubblica degli Adulti deve promuovere lo sviluppo dell’Alfabetizzazione funzionale e culturale e quindi offre questo Percorso di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura il quale inizia – deve iniziare, come succede da più di un quarto di secolo (dal 1° ottobre 1984) – con il tradizionale "rituale della partenza": perché? Perché un Percorso di alfabetizzazione culturale e funzionale corrisponde ad un "viaggio di studio" e ogni viaggio – virtuale o reale che sia – ha inizio con l’atto della partenza.

     Questo viaggio di studio e di "cura" (visto che in latino la parola "studium" e la parola "cura" sono sinonimi e l’obiettivo primario per cui una persona deve fare un’esperienza di "studio" è quello di imparare a prendersi cura di se stessa in modo da poter prendersi cura degli altri) – si compone, secondo il calendario dell’anno scolastico 2010-2011, di ventinove itinerari didattici e, quindi, si parte questa sera, all’inizio dell’autunno di quest’anno e l’arrivo è previsto per l’ultima settimana di maggio, per la primavera inoltrata dell’anno che verrà.

     Questo che ci accingiamo a compiere (il 27° della storia di questa esperienza didattica), è un viaggio lungo, e anche faticoso, ma è così che la Scuola pubblica degli Adulti deve tener fede al mandato istituzionale che ha ricevuto: quello di garantire a tutte le cittadine e i cittadini il diritto all’Apprendimento permanente, un diritto che, in questo Paese, – nonostante il dettato costituzionale (l’art.34 della Costituzione) – non è stato ancora sancito per legge. Anzi la Legge 133/2008 (viene chiamata della "riforma scolastica" ma, senza dubbio, impone la peggiore "controriforma" che la Scuola italiana abbia mai subìto dalla Legge Casati del 1860 ad oggi perché è stata costruita esclusivamente con l’intento di eliminare, in tre anni, 57mila insegnanti di cui 1500 nel settore dell’Educazione degli Adulti) – dedica quattro righe all’Istruzione degli Adulti e con due frasi soffoca le norme contenute nell’Ordinanza Ministeriale 455 (predisposta dal Ministero della Pubblica Istruzione nel 1997 anche sulla scia di questa nostra esperienza): queste norme (i Centri Territoriali Permanenti, la fase di accoglienza per la motivazione allo studio, i Percorsi modulari, i Protocolli d’intesa) davano la possibilità a tutte le cittadine e i cittadini, indipendentemente dal loro titolo di studio, di usufruire di percorsi di alfabetizzazione culturale e funzionale.

     Questo nostro Percorso ha perduto, dopo averla conquistata nel 1997, la sua dignità normativa: e allora perché siamo qui? Siamo qui perché credo che questa "esperienza didattica" se la sia guadagnata sul campo la sua dignità istituzionale (e il fatto che le offerte formative di Educazione Permanente siano state abolite per decreto da una parte fa venire rabbia ma dall’altra dimostra come questo esecutivo è solo capace di cadere, tragicamente, nel ridicolo.

     Quindi siamo qui perché gli Organi collegiali hanno deliberato che l’Educazione Permanente è un dovere istituzionale della Scuola pubblica e che questo dovere diventa inderogabile se c’è la richiesta e il consenso da parte delle cittadine e dei cittadini: siete qui, quindi, per rivendicare – animando fattivamente un Percorso di studio – il vostro diritto e per esercitare il vostro dovere all’Apprendimento permanente.

     Itinerario dopo itinerario attraverseremo, come da programma, per la seconda volta il territorio della "sapienza poetica ellenistica", e lo faremo puntando l’attenzione (ora lo diciamo a grandi linee) sui temi riguardanti l’aspetto che è stato denominato di "carattere evangelico", un aspetto che ha creato una significativa Letteratura scritta in greco, e poi punteremo l’attenzione sui temi riguardanti l’aspetto della cosiddetta "l’ideologia imperiale" che ha creato un grande apparato letterario scritto in latino.

     Il viaggio che ci accingiamo a compiere – come tutti quelli che abbiamo intrapreso in questo quarto di secolo – non è facile. Ciò non significa che gli itinerari proposti settimanalmente non siano percorribili: se non fossero percorribili da tutti, indipendentemente dai livelli di scolarizzazione di ciascuna e di ciascuno di noi, questa esperienza di Educazione Permanente non sarebbe stata frequentata annualmente (nel corso degli ultimi due decenni) da circa trecento cittadine e cittadini che hanno sentito e sentono la necessità di misurarsi con ciò che è meno convenzionale proprio perché sanno che le difficoltà intellettuali (il "sapere di non sapere": come c’insegna Socrate attraverso i Dialoghi di Platone) stimolano la curiosità, spingono alla ricerca e risvegliano il desiderio di investire in intelligenza.

     E ora – secondo la natura del nostro Percorso che è "in funzione della didattica della lettura e della scrittura" – accompagniamo la nostra riflessione (il rituale della partenza) con la lettura di un testo che costituisce un tratto d’unione tra l’ultimo Percorso che si è concluso a giugno e questo nuovo viaggio che stiamo per intraprendere: questo testo serve per riportarci sul territorio della "sapienza poetica ellenistica" e per condurci davanti al paesaggio intellettuale che costituisce il nostro nuovo punto di partenza.

     Il trentunesimo e ultimo itinerario dello scorso anno scolastico (la Lezione vera e propria è durata pochi minuti perché è avvenuta, a giugno, nell’ambito del tradizionale itinerario conviviale di fine Percorso) si è concluso con la lettura di un brano: l’inizio di un breve romanzo intitolato Il procuratore della Giudea dello scrittore francese Anatole France.

     Ebbene, quattro mesi fa vi ho detto: «Incontreremo questo scrittore nel corso del tradizionale rituale della partenza del prossimo viaggio di studio, ad ottobre». Ottobre è arrivato ed è arrivato il giorno della partenza, e – come potete constatare – Anatole France è qui, puntuale all’appuntamento. Chi è Anatole France?

     Anatole France (pseudonimo di François Anatole Thibault) è un poeta, un romanziere, un intellettuale impegnato politicamente. È nato a Parigi nel 1844 ed è morto a S.Cyrque sur Loire nel 1924. Nel 1921 ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura perché si è distinto come romanziere a carattere prevalentemente storico: è uno studioso di storia e scrive sorretto da una grande cultura.

     Dal punto di vista filosofico Anatole France ha una visione del mondo improntata allo scetticismo razionalista, animato da forti preoccupazioni sociali. Il pensiero "scettico" – come abbiamo studiato lo scorso anno – è, insieme al pensiero "epicureo" e "stoico", uno dei capisaldi della "sapienza poetica ellenistica". Anatole France è uno di quegli intellettuali francesi che prende posizione e s’impegna per far emergere la verità nell’affare Dreyfus e poi s’impegna, come militante socialista riformista, nella causa del proletariato.

     A giugno abbiamo detto che noi avremmo molte pagine da leggere di questo autore proprio perché ha sempre avuto (come la maggior parte delle scrittrici e degli scrittori dell’800 e del ‘900) un’attenzione particolare per la "sapienza poetica ellenistica": citiamo soltanto i titoli di alcune sue opere: Il giardino di Epicuro (una riflessione sulle Massime capitali di Epicuro), Gli dei hanno sete (un romanzo storico ambientato nel corso della Rivoluzione francese), Baldassarre (è il nome di uno dei re magi, e dà il titolo ad una raccolta di racconti), Il delitto di Silvestre Bonnard (un romanzo che ha come protagonista un filologo che assomiglia ai grammatici alessandrini).

     Questa sera vogliamo, nel preparare la partenza, puntare la nostra attenzione sul racconto intitolato Il procuratore della Giudea che è stato pubblicato nel 1902 per celebrare, in modo critico, l’inizio del nuovo secolo, del XX secolo. Questo racconto è diventato, nel corso degli anni, per le intellettuali e gli intellettuali europei, un’importante opera emblematica: "un apologo – scrive Leonardo Sciascia, che ha tradotto quest’opera – di Scuola scettica (nel senso ellenistico del termine) particolarmente salutare in un momento in cui muoiono le certezze, nello stesso tempo in cui di certezze si muore".

     Che significato ha questa affermazione? Il XX secolo (che, alla fine, è stato chiamato "il secolo breve") ha avuto inizio all’insegna di una grande euforia: tutti capi di Stato, all’alba del 1° gennaio 1900, parlano con uno sfrenato ottimismo dei vantaggi che il "progresso" (questa è la parola magica), attraverso la ricerca scientifica, porterà all’Umanità intera dando inizio ad un’era di felicità, di benessere e soprattutto di pace. Le intellettuali e gli intellettuali che si dedicano ad una "coscienziosa riflessione" sono piuttosto "scettici" e, purtroppo, avranno ragione: il XX secolo si è caratterizzato per una serie di catastrofi micidiali per la storia dell’Umanità: pensiamo al prevalere delle dittature sulle democrazie e alle due guerre mondiali.

     Il racconto intitolato Il procuratore della Giudea di Anatole France, pubblicato nel 1902, appartiene al vasto catalogo di quelle opere che invitano ad una "coscienziosa riflessione" piuttosto che a cavalcare uno sciocco ottimismo di maniera che serviva solo a mascherare menzogne ed ipocrisie.

     I protagonisti di questo racconto sono due: il procuratore della Giudea Ponzio Pilato – il quale diventa un’interessante figura letteraria, insieme a sua moglie Procla, nell’ambito della "sapienza poetica ellenistica" (c’è anche un cosiddetto "Ciclo di Pilato" nella Letteratura dei Vangeli apocrifi) – e Lucio Elio Lamia, il rampollo di una facoltosa famiglia romana. Il testo di quest’opera è un dialogo tra questi due personaggi. Lucio Elio Lamia è un giovane piuttosto scapestrato che viene esiliato dall’imperatore Tiberio perché è coinvolto in uno scandalo a Roma: ha sedotto la moglie di un alto funzionario, Sulpicio Quirino. Elio Lamia, quindi, è costretto, per un certo periodo della sua vita, a soggiornare nei luoghi meno ospitali dell’Impero, quelli riservati agli esiliati: che si trovano vicino ai confini e che sono sprovvisti di quei conforti così cari a chi è abituato a vivere nei lussi della capitale. In Palestina (posto veramente poco ospitale) Elio Lamia conosce Ponzio Pilato che è il procuratore della Giudea: i due diventano amici e, a Gerusalemme, si frequentano assiduamente. Poi Elio Lamia, dopo la morte di Tiberio, viene graziato e torna a Roma e lui e Pilato si perdono di vista. Lamia, dall’esilio sul territorio dell’Ellenismo, ne ha tratto dei vantaggi, non materiali ma culturali e intellettuali e difatti, a Roma, cambia stile di vita: si mette a leggere le opere di Epicuro, studia il pensiero stoico e scrive considerazioni di carattere esistenziale secondo i concetti della Scuola scettica.

     Intanto passano gli anni, i dolori reumatici aumentano, la vecchiaia incombe ed Elio Lamia decide di curarsi e di andare, come gli ha prescritto il suo medico, a fare i fanghi nella bella stazione termale di Baia da dove si vede svettare il Vesuvio. In un caldo pomeriggio, nel corso di una passeggiata, vede passare una lettiga e riconosce Ponzio Pilato. Elio Lamia lo chiama perché Pilato non lo ha riconosciuto: sono un po’ cambiati, sono diventati vecchi entrambi. I due vecchi amici si abbracciano, si salutano cordialmente, e decidono di incontrarsi la sera, a cena. È una cena (sono molto parchi nel mangiare) di ricordi e di memorie, durante la quale i due commensali passano in rassegna tutti gli avvenimenti di quegli anni trascorsi in Palestina, rievocano: le guerre, le rivolte sanguinose degli zeloti, gli intrallazzi politici, gli usi i costumi mediorientali, i personaggi, le donne. Pilato ricorda tutto nei minimi particolari ma solo di un avvenimento – nonostante Elio Lamia, stupito, lo incalzi ripetutamente – non si ricorda più.

     Noi adesso, mentre celebriamo il rituale della partenza, leggiamo questo brevissimo romanzo: un esercizio propedeutico per prendere il passo.

LEGERE MULTUM….

Anatole France, Il procuratore della Giudea (1902)

 Lucio Elio Lamia, nato in Italia da famiglia illustre, era appena adolescente quando andò a studiare filosofia nelle scuole di Atene. Poi si stabilì a Roma e condusse, nella sua casa dell’Esquilino, circondato da giovani un po’ depravati, una vita voluttuosa. Un giorno venne accusato d’intrattenere un’illecita relazione con Lepida, la moglie di Sulpicio Quirino, politico in vista della cerchia consolare: fu riconosciuto colpevole e fu mandato in esilio dall’imperatore Tiberio in persona. Elio Lamia aveva allora ventiquattro anni e, nei diciotto anni che durò il suo esilio, egli viaggiò in Siria, in Palestina, in Cappadocia, in Armenia e soggiornò a lungo ad Antiochia, a Cesarea, a Gerusalemme.

Quando Tiberio morì Lamia ottenne di tornare a Roma, e riuscì anche a recuperare una parte dei suoi beni ma, più che altro, le sventure lo avevano reso saggio per cui evitò di frequentare donne poco raccomandabili, non volle avere nessun impiego pubblico, si tenne lontano da tutti gli onori. Si chiuse nella sua casa dell’Esquilino e cominciò a scrivere quel che aveva visto di interessante nei suoi lontani viaggi: con la scrittura traduceva – come usava dire – le sue pene passate in divertimento delle ore presenti. Mentre passava il suo tempo impegnandosi in questo piacevole lavoro e anche nell’assidua meditazione sui libri di Epicuro, ad un certo punto si accorse, con un po’ di stupore e un qualche rimpianto, che la vecchiaia incombeva.

A sessantadue anni cominciò ad essere tormentato da un dolore reumatico assai incomodo e decise di andare ai bagni di Baia. Questo lido, un tempo caro solo ai gabbiani, era allora frequentato dai romani più ricchi e più avidi di piaceri.

Già da una settimana Lamia viveva solo e senza amici dentro quella folla brillante, quando un giorno, dopo il pranzo, fu preso dalla fantasia e si sentì disposto di salire su per le colline che, coperte di pampini come baccanti, si affacciavano al mare.

Arrivato in alto su un punto panoramico si sedette sul muretto di un sentiero sotto un terebinto, e lasciò che lo sguardo vagasse su quel bel vasto paesaggio. Alla sua sinistra si dispiegavano lividi e nudi i Campi Flegrei fino alle rovine di Cuma. Alla sua destra Capo Miseno spingeva il suo acuto sperone dentro il Tirreno. Ai suoi piedi, verso occidente, poté osservare la ricca Baia che, seguendo la graziosa curva del lido, apriva i suoi giardini, le sue ville popolate di statue, i suoi portici, le sue terrazze di marmo sull’orlo di un mare blu da cui affiorava il gioco dei delfini. Davanti a lui, dall’altra parte del golfo, sulla costa della Campania Felix dorata dal sole che stava per tramontare, splendevano i templi che facevano corona lontana ai lauri di Posillipo e, nella profondità dell’orizzonte, svettava ridente il Vesuvio.

Da una tasca della toga Lamia tirò fuori un rotolo che conteneva il Trattato sulla natura, si distese comodamente per terra e cominciò a leggerlo. Ma le grida di uno schiavo lo avvertirono che doveva alzarsi per far passare una lettiga che saliva per lo stretto sentiero tra le vigne. Come la lettiga, tutta aperta, si avvicinò, Lamia vide, disteso sui cuscini, un vecchio assai corpulento che, la mano sulla fronte, guardava con occhio cupo e sprezzante. Il suo naso aquilino scendeva sulle labbra che erano serrate su un mento prominente e tra possenti mandibole. Di colpo Lamia si accorse di conoscere quel volto. Esitò un momento sul nome. Poi, lanciandosi verso la lettiga con un movimento di sorpresa e di gioia: «Ponzio Pilato!» gridò. «Siano ringraziati gli dèi che mi hanno concesso di rivederti!».

Il vecchio, facendo segno agli schiavi di fermarsi, fissò con sguardo attento ma interrogativo l’uomo che lo salutava.

«Caro Ponzio», continuò Lamia «sono passati vent’anni e devo essere proprio invecchiato se tu non riconosci più il tuo amico Elio Lamia».

A questo nome Ponzio Pilato scese dalla lettiga con un certa difficoltà, data dal peso degli anni e dalla gravità del portamento, e con trasporto abbracciò più volte Elio Lamia.

«Che piacere rivederti» disse «anche se il rivederti mi porta a ricordare i giorni in cui ero procuratore della Giudea, nella provincia della Siria. Ti ricordi? Trent’anni fa ci siamo incontrati per la prima volta, a Cesarea, dove con noia tu sopportavi l’esilio. Io fui assai felice di sostenerti un po’ e tu, per amicizia, mi hai seguito a Gerusalemme, dove gli ebrei erano molto esperti nel procurarmi un’infinita amarezza e un profondo disgusto. Per più di dieci anni, parlando di Roma, ci siamo a vicenda consolati: tu delle tue disgrazie, io della mia carriera».

     Sappiamo che, in partenza, ci sono sempre delle difficoltà da affrontare: la prima difficoltà che tutti conosciamo, che tutti gli anni abbiamo ricordato e che è tipica di qualsiasi partenza per un viaggio impegnativo, consiste nel fatto che, quando ci si mette in cammino, bisogna "prendere il passo", e la nostra introduzione cerca di far sì che ciascuna e ciascuno di noi possa "prendere il proprio passo".

     Siamo viandanti ("viandanti intellettuali, periegeti", come abbiamo studiato nel Percorso dello scorso anno scolastico) con diverse esperienze (di vita, di studio, di relazioni, di nazionalità) e ciascuna e ciascuno di noi deve trovare il suo passo, armonizzandolo, per quanto è possibile, con il passo della comitiva, della carovana, della compagnia. Aristotele – e certamente ve lo ricordate – nel Secondo libro della Politica (327 a.C.) scrive: "La riuscita di un viaggio dipende soprattutto dalla compagnia", e questo è, quindi, un invito ad essere partecipi e solidali.

     A questo proposito avete tra le mani un fascicolo che s’intitola REPERTORIO E TRAMA, uno strumento che serve anche per "tenere il passo" lungo il cammino armonizzandolo con il passo della comitiva.

     Nel momento in cui stiamo prendendo il passo, la Scuola deve raccomandare alle studentesse e agli studenti di essere pazienti, tenaci e determinati proprio perché da quest’anno abbiamo, come cittadine e cittadini, una responsabilità in più: quella di rivendicare e di riconquistare le norme che consentano a tutte le persone che vivono in questo Paese di usufruire del diritto-dovere all’Apprendimento permanente. Voi, queste qualità, queste virtù – la pazienza, la tenacia, la determinazione – le possedete (lo dimostra il fatto che siete qui) per affrontare uno dei nodi cruciali che riguarda la società in cui viviamo: il nodo che concerne l’essenza e la qualità della "comunicazione" come strumento di "studio". Che cosa significa? Significa che tutti – da circa un quarto di secolo in modo massiccio – siamo abituati a vivere in un contesto dove la "comunicazione di base" non favorisce propriamente l’esperienza di "studio" intesa come "cura" della propria anima e del proprio intelletto (a servizio delle dinamiche dell’Apprendimento permanente), e questo fatto si dimostra paradossale perché, siccome la "comunicazione di base" si è ampiamente e positivamente diffusa attraverso utili strumenti (gli strumenti mediatici), dovrebbe, quindi, essere meglio in grado di favorire la diffusione dell’esperienza di "studio".

     E invece, mentre sul piano della "quantità" la comunicazione ha raggiunto livelli altissimi (provocando una confusa indigestione), sul piano della "qualità", nella gestione della comunicazione e dell’informazione – l’80% dei cittadini sono affetti da analfabetismo e sono predisposti all’indottrinamento e alla beotaggine e, quindi, non hanno modo di ribellarsi, cioè di rivendicare il diritto del pubblico alla qualità – è stata utilizzata quasi esclusivamente la regola della tenuta di un basso (di un infimo) livello culturale puntando sulla banalità, sulla superficialità, sulla grossolana spettacolarizzazione, e questo fenomeno ha causato una situazione in cui è aumentato il potere della "dittatura dell’ignoranza". Il primo danno che crea la "dittatura dell’ignoranza" è la perdita della memoria.

     C’è bisogno di fare un commento a questa affermazione? Nessun commento, e se siete qui, questa sera, è anche perché – in quanto cittadine e cittadini responsabili – avete capito perfettamente il pericolo insito in questa grave situazione: la perdita della memoria favorisce il degrado cognitivo e il degrado cognitivo è la prima causa che porta verso l’affievolirsi dei valori costitutivi dell’Umanesimo.

     E adesso – nel celebrare il rituale della partenza – continuiamo a leggere il racconto intitolato Il procuratore della Giudea:

LEGERE MULTUM….

 Anatole France, Il procuratore della Giudea (1902)

 Lamia tornò ad abbracciarlo. «Non hai detto tutto, Ponzio: non hai ricordato che tu hai usato a mio beneficio il credito di cui godevi presso Erode Antipa, e non hai ricordato che mi hai messo a disposizione la tua borsa». «Sì mi ricordo ma non è il caso di parlarne», rispose Ponzio «anche perché, dopo il ritorno a Roma, mi hai mandato, con uno dei tuoi liberti, una somma che mi ripagava con interessi spropositati».

«Credimi, Ponzio, mi sento tuttora in debito verso di te pur avendoti rimborsato del denaro. Rispondimi, piuttosto: gli dèi ti hanno concesso quel che desideravi? Godi di tutta la felicità che meriti? Parlami della tua famiglia, della tua fortuna, della tua salute».

«Mi sono ritirato in Sicilia, dove possiedo delle terre, e coltivo e vendo il mio grano. La mia figlia più grande, la mia prediletta Ponzia, è rimasta vedova e vive con me e governa la mia casa. Ho conservato, grazie agli dèi, il vigore dello spirito. La mia mente non si è indebolita. Ma la vecchiaia non viene mai senza un corteo di dolori e di malattie. Sono crudelmente travagliato dalla gotta. E tu mi hai incontrato perché, a quest’ora, devo andare ai Campi Flegrei a cercare rimedio al mio male. Questa terra che scotta e che la notte emette fiamme, esala acri vapori di zolfo che, dicono, calmano i dolori e sciolgono le giunture. Perlomeno, così assicurano i medici».

«Mi auguro che tu, Ponzio, possa trovare davvero giovamento da queste cure. Ma, a dispetto della gotta e dei suoi morsi brucianti, tu mi sembri appena vecchio quanto me, anche se hai dieci anni di più. Senza dubbio, tu hai più vigore di quanto io ne abbia mai avuto e sono lieto di ritrovarti così forte. Ma perché, mio caro, hai rinunciato prima del tempo alle cariche pubbliche? Perché, lasciando il governo della Giudea, ti sei ritirato in esilio volontario nelle tue terre di Sicilia? Raccontami quello che hai fatto dal momento in cui ci siamo lasciati. Ti ricordi? Tu ti stavi preparando a reprimere una rivolta dei Samaritani quando sono partito verso la Cappadocia, dove speravo di cavare qualche profitto da un allevamento di cavalli e di muletti. Non ti ho più rivisto, da allora. Come andò quella tua operazione? Raccontami, lo sai che tutto quel che ti riguarda, mi interessa».

Ponzio Pilato scosse desolatamente la testa e disse: «Sono sempre stato un tipo attivo, lo sai, e il sentimento del dovere mi ha portato ad assolvere le funzioni pubbliche non solo con diligenza, ma anche con amore. L’odio mi ha però perseguitato senza tregua. L’intrigo e la calunnia hanno spezzato la mia vita quando era in pieno fiore ed hanno fatto inaridire i frutti che sarebbero dovuti maturare. Tu mi domandi della rivolta dei Samaritani. Sediamoci su questa altura. Ti informerò in poche parole: questi avvenimenti sono presenti nella mia mente come se fosse ieri. Un uomo della plebe dalla parola possente, come molti ce ne sono in Siria, convinse i Samaritani a radunarsi armati sul monte Gazim, che per loro è un luogo santo, e promise di mostrare loro i sacri calici che un eroe, una specie di dio locale, di nome Mosè, vi aveva nascosto, negli antichi tempi di Evandro e del nostro padre Enea. Su questa promessa, i Samaritani si ribellarono. Ma, avvertito in tempo, riuscii a prevenirli: feci occupare la montagna da distaccamenti di fanteria e dalla cavalleria feci sorvegliare gli accessi. Queste misure prudenziali urgevano. Già i ribelli assediavano il borgo di Tirataba, ai piedi del Gazim. Li dispersi agevolmente e soffocai la rivolta sul nascere. Poi, per dare con poche vittime un grande esempio, condannai a morte i capi della rivolta. Ma tu sai, Lamia, in che stretta dipendenza mi teneva il proconsole Vitellio che, governando la Siria non per Roma ma contro Roma, riteneva che le province dell’impero si potessero assegnare ai tetrarchi come masserie. I notabili samaritani si gettarono ai suoi piedi piangendo e sputando odio contro di me. A sentirli, nulla era più lontano dalle loro intenzioni che la disobbedienza a Cesare. Io, secondo loro, ero un provocatore, e soltanto per resistere alle mie violenze si erano radunati attorno a Tirataba. Vitellio accettò le loro lamentele e, affidando gli affari della Giudea al suo amico Marcello, mi ordinò di andare a Roma per giustificarmi davanti all’imperatore. Col cuore pieno di dolore e di risentimento, presi il mare. Quando toccai le coste d’Italia, Tiberio, logorato dagli anni e dal potere, morì improvvisamente a Capo Miseno guarda, se ne vede da qui la punta che svanisce tra le brume della sera. Domandai giustizia a Caio [Caligola], suo successore, che aveva intelligenza naturalmente viva e conosceva le cose della Siria. Ma io sono un uomo sfortunato, Lamia Caio teneva allora presso di sé, a Roma, l’ebreo Agrippa: suo compagno, suo amico d’infanzia, che amava. Ora, Agrippa favoriva Vitellio, poiché Vitellio era nemico di Antipa, che Agrippa perseguitava con odio. L’imperatore subì l’influenza del suo caro amico asiatico, e rifiutò persino di ascoltarmi e la ritenni una disgrazia immeritata. Ingoiando le mie lacrime e nutrito del mio fiele, mi ritirai nelle mie terre di Sicilia, dove sarei morto di dolore se la mia dolce Ponzia non fosse venuta a consolare suo padre. Ho coltivato il grano, ho fatto crescere le più ricche messi di tutta la provincia. E la mia vita è ora compiuta. L’avvenire giudicherà tra Vitellio e me».

«Ponzio», rispose Lamia «sono convinto che contro i Samaritani tu hai agito con la tua rettitudine di sempre e nel solo interesse di Roma. Ma non hai, - anche in questo caso, obbedito un po’ troppo al temperamento impetuoso che sempre si manifestava nelle tue azioni? Tu ricorderai che in Giudea, quando, più giovane di te, avrei dovuto essere più ardente, spesso mi capitava di consigliarti clemenza e dolcezza».

«Dolcezza con gli Ebrei!» gridò Ponzio Pilato. «Benché tu sia vissuto tra loro, conosci male questi nemici del genere umano. Al tempo stesso fieri e vili, di una vigliaccheria ignominiosa e di una ostinazione invincibile, essi ugualmente respingono l’amore e l’odio. Io mi sono formato sui precetti del divino Augusto. Al momento della mia nomina a procuratore della Giudea, la maestà della pace romana dominava la terra. Non si vedevano più, come ai tempi delle nostre discordie civili, i proconsoli arricchirsi saccheggiando le province. Conoscevo i miei doveri. Ero attento a usare la saggezza e la moderazione. Gli dèi me ne sono testimoni: non usavo che la dolcezza. Ma a che mi è servito, questo mite comportamento? Tu mi hai visto, Lamia, quando all’inizio del mio mandato scoppiò la prima rivolta. Vuoi che te ne ricordi le circostanze? La guarnigione di Cesarea si era spostata ai quartieri d’inverno di Gerusalemme. I legionari portavano sulle loro insegne l’immagine di Cesare. A vederle, gli abitanti della città se ne sentirono offesi: non riconoscevano la divinità dell’imperatore, come se, dovendo obbedire, non fosse stato più onorevole obbedire a un dio, invece che a un uomo. I sacerdoti della nazione vennero al mio tribunale, pregandomi con altera umiltà di far portare le insegne fuori dalla città santa. Rifiutai per rispetto alla divinità di Cesare e alla maestà dell’impero. Allora la plebe, unendosi al sacerdoti, levò intorno al pretorio urla minacciose. Diedi ordine ai soldati di raccogliere le picche in fasci davanti alla torre Antonia e di andare, armati di verghe, come littori, a disperdere quella folla insolente. Ma, insensibili ai colpi, i Giudei continuarono a urlare e, i più ostinati, buttandosi a terra, offrivano il petto e si lasciavano morire sotto le verghe. Tu fosti allora testimone della mia umiliazione, Lamia. Per ordine di Vitellio, dovetti rimandare le insegne a Cesarea. Non meritavo una simile onta. Di fronte agli dèi immortali, giuro che non una sola volta, durante il mio governo, ho offeso la giustizia e le leggi. Ma ormai sono vecchio. I miei nemici e i miei accusatori sono morti. Morirò invendicato. Chi difenderà la mia memoria?». Gemette e tacque.

Lamia rispose: «È da saggio guardare all’incerto avvenire senza paura e senza speranza. Che ci importa di quello che gli uomini penseranno di noi? Non abbiamo altri testimoni e giudici che noi stessi. Abbi fiducia, Ponzio Pilato, solo nella testimonianza che tu stesso rendi della tua virtù. Contentati della stima che hai di te e di quella dei tuoi amici. Del resto, i popoli non si governano solo con la dolcezza. Quella carità verso il genere umano che la filosofia consiglia, poca parte ha nell’azione degli uomini che governano».

«Lasciamo perdere» disse Ponzio. «I vapori sulfurei che esalano i Campi Flegrei hanno più forza in quest’ora del tramonto. Bisogna che mi affretti ad andare. Ti saluto. Ma voglio approfittare della fortuna di averti rincontrato Elio Lamia, posso invitarti a cena da me, domani? La mia casa è sulla spiaggia al limite della città, dalla parte di Miseno. La riconoscerai facilmente dalla pittura che è nel portico: Orfeo con intorno, incantati dal suono della sua lira, i leoni e le tigri.

«A domani, Lamia» disse risalendo in lettiga. «Domani, riparleremo della Giudea. Arrivederci».

     Il primo danno – abbiamo detto – che crea la "dittatura dell’ignoranza" è la perdita della memoria e la perdita della memoria favorisce il degrado cognitivo, e di fronte al diffondersi del degrado cognitivo le coscienze più attente devono reagire partecipando a costruire una rete che possa dare forma al sistema dell’alfabetizzazione funzionale e culturale attraverso Officine di Apprendimento permanente che si propongano obiettivi didattici.

    Quali obiettivi didattici si propone questo Percorso di alfabetizzazione funzionale e culturale: perché dobbiamo frequentare settimanalmente la Scuola pubblica degli Adulti?

     Il primo obiettivo didattico di questo Percorso, di questo viaggio di studio, è quello di imparare ad ascoltare con attenzione: l’attenzione è una facoltà che si apprende e sulla quale è necessario esercitarsi. Imparare ad ascoltare significa imparare a selezionare le parole, a controllare le idee, a catalogare i pensieri e, quindi, a seguire le varie fasi di un ragionamento progressivo.

     Il secondo obiettivo è quello di incentivare l’esercizio della lettura e della scrittura: la lettura e la scrittura sono due attività fondamentali per la riflessione e per lo sviluppo del processo di apprendimento. L’esercizio della lettura e della scrittura mette in moto l’attività cognitiva che ci permette di imparare. La persona impara – lo sappiamo a memoria ma il tradizionale rituale della partenza c’impone di ripetere (e i riti sono ripetitivi) – attraverso sei azioni fondamentali (e chi vuole usufruire del diritto-dovere all’Apprendimento deve esserne consapevole), le azioni cognitive che ci permettono di imparare ad imparare sono: conoscere, capire, applicarsi, analizzare, sintetizzare e valutare. Ogni itinerario – l’andamento di ogni Lezione che di settimana in settimana percorreremo – si sviluppa sotto forma di "ragionamento progressivo" scandito dalle azioni attraverso cui si sviluppa l’Apprendimento e, di conseguenza (e questo è il compito specifico della Scuola) ci eserciteremo a conoscere, a capire, ad applicare, ad analizzare, a sintetizzare e a valutare.

    Ci eserciteremo a "conoscere": che cosa? A conoscere le "parole-chiave" più importanti (una o due) del repertorio previsto per ogni tappa: senza "conoscere" le parole chiave della Storia del Pensiero Umano non s’impara a leggere.

     Ci eserciteremo a "capire": che cosa? A capire le "idee più significative" che troveremo, strada facendo, sul territorio che attraverseremo: non si impara a leggere senza "capire" le idee-cardine della Storia del Pensiero Umano.

     Ci eserciteremo ad "applicare" e, nel nostro Percorso, "l’applicarsi" corrisponde all’esercizio della lettura e della scrittura. Come sapete queste due attività sono sistematicamente trascurate dalla popolazione: solo il 14% degli Italiani (questo dato complessivo è del gennaio 2010) si dedica – a diversi livelli – alla lettura e alla scrittura e la disaffezione dipende, prima di tutto, dal fatto che l’81% della popolazione, nella fascia tra i 18 e i 65 anni, secondo la ricerca Eurostat, 2008, versa in condizione di grave semianalfabetismo. Il rituale della partenza ci obbliga a ripetere quanto e come ci si debba applicare nella lettura e nella scrittura. Dobbiamo imparare a leggere dieci minuti al giorno e a scrivere dieci minuti al giorno: prendere la buona abitudine di leggere e di scrivere (di applicarci intellettualmente) per dieci minuti al giorno crea, dal punto di vista qualitativo, un buon accumulo di esercizio intellettuale e, di conseguenza, un produttivo investimento in intelligenza non subalterno al potere e al mercato. Per quanto riguarda la quantità, l’esercizio del leggere dieci minuti al giorno del "legere multum" ("legere multum" in latino significa "leggere in modica quantità ma costantemente e con la dovuta attenzione") significa leggere quattro pagine e, quindi, circa 1500 pagine in un anno, vale a dire un certo numero di libri: "Per leggere molti libri (multa) – dicevano i magìsteri alla facoltà delle Arti di Parigi nel 1247 – bisogna leggere poco e bene (multum) quotidianamente". Scrivere quattro righe al giorno, poi, significa riempire per intero il proprio quaderno.

     Ci eserciteremo ad "analizzare": che cosa significa esercitarsi ad "analizzare"? Significa mettere a fuoco e disporre in ordine i pensieri che ci vengono in mente attraverso la "trame" proposte dai repertori del nostro Percorso.

     Ci eserciteremo a "sintetizzare": che cosa significa esercitarsi a "sintetizzare"? Significa "mettere per iscritto" un nostro pensiero, uno di quelli (quello che ci piace di più) che siamo state, che siamo stati capaci di mettere a fuoco e di ordinare: la scrittura e l’esercizio sintetico vanno di pari passo, e bastano quattro righe scritte per materializzare un nostro pensiero. Quattro righe di scrittura autobiografica sono una bella cedola di investimento in intelligenza che serve anche ad allargare e ad allungare la nostra vita.

     Infine dobbiamo esercitarci a "valutare", ad "auto-valutare" l’andamento del nostro cammino intellettuale, e questo dispositivo dell’auto-valutazione è legato allo svolgimento del "compito" che – sebbene facoltativo – la Scuola propone di eseguire invitando ciascuna e ciascuno di voi a dedicarsi all’uso del REPERTORIO E TRAMA da utilizzare, in un tempo che va dai dieci minuti alle due ore, nel corso della settimana, nell’intervallo tra un itinerario e l’altro.

     Il conoscere, il capire, l’applicarsi, l’analizzare, il sintetizzare e il valutare sono le "azioni cognitive" attraverso le quali ciascuna e ciascuno di noi ha la possibilità di cominciare a misurare il proprio "tasso di apprendimento" perché l’intento del nostro viaggio è quello di stimolare il funzionamento dei meccanismi utili per investire in intelligenza senza finalità di carattere speculativo ma con l’obiettivo di gettare le basi perché possa svilupparsi una "comunità educante".

     Probabilmente nel corso del nostro viaggio, durante il quale osserveremo tanti "paesaggi intellettuali" e verremo a contatto con tanti "contenuti" (nozioni, dati, date, luoghi, personaggi, ragionamenti), succederà che – come dicono i manuali di tecnologia dell’apprendimento – «dei contenuti di una Lezione, nella fase del primo impatto (dell’affabulazione), in media, ne perderemo oltre il 70%, mentre circa il 30% rimarrà, in modo più o meno frammentario, nella nostra mente», e questo per tutta una serie di limiti che ciascuna e ciascuno di noi, in quanto essere umano, possiede. Ricordiamoci che l’obiettivo principale in un Percorso di didattica della lettura e della scrittura non consiste nell’immagazzinare contenuti: questo esercizio lo possiamo fare in un secondo momento rileggendoci con calma i testi del REPERTORIO E TRAMA e leggendoci il testo integrale della Lezione che viene inserito sui nostri siti e che possiamo stampare e rileggere ad libitum; ma l’obiettivo principale in un Percorso di didattica della lettura e della scrittura consiste nell’esercitare la mente all’ascolto, alla selezione, alla catalogazione, in modo da imparare ad identificare le forme contenute nella nostra mente.

     E, a questo proposito, è doveroso (come sempre nel tradizionale rituale della partenza) citare ancora una volta il signor Montaigne che nei suoi Saggi (1580-1588) ci ricorda che l’obiettivo dell’Educazione e della Scuola consiste nel favorire la formazione di "una testa ben fatta, piuttosto che di una testa ben piena".

     E così, un passo dopo l’altro, il nostro viaggio – dell’anno scolastico 2010-2011 – sta per iniziare. Voi quest’estate avrete fatto molti viaggi e i viaggi stimolano i ricordi e favoriscono i racconti e, quindi, a questo proposito, facciamo ancora un passo avanti sul testo che stiamo leggendo.

     Siamo invitate e invitati anche noi a cena nella casa al mare di Ponzio Pilato (non è da tutti poter fare questa esperienza): Elio Lamia e Ponzio Pilato sono in vena di ricordi e l’esercizio della memoria alimenta la conversazione.

LEGERE MULTUM….

Anatole France, Il procuratore della Giudea (1902)

 L’indomani, all’ora di cena, Lamia si recò a casa di Ponzio Pilato. Soltanto due letti erano stati preparati per il convito. Senza fasto ma decorosamente, sulla tavola erano piatti d’argento con beccafichi cotti nel miele, tordi, ostriche del Lucrino e lamprede di Sicilia. Ponzio e Lamia, mangiando, si domandavano reciprocamente dei loro mali: ne descrissero minuziosamente i sintomi e si comunicarono i diversi rimedi che erano stati loro prescritti. Poi, rallegrandosi d’essersi incontrati a Baia, esaltarono a gara la bellezza di quella spiaggia e la dolcezza dell’aria che vi si respirava. Lamia celebrò la grazia delle cortigiane che passavano lungo la spiaggia, cariche d’oro e circonfuse di veli ricamati da donne straniere. Ma il vecchio procuratore deplorava un’ostentazione che, per delle inutili pietre e per delle ragnatele tessute da mano umana, faceva passare il denaro dei Romani a popoli stranieri quando non addirittura nemici dell’impero. Vennero poi a parlare dei grandi lavori che erano stati fatti nella regione: del ponte prodigioso fatto costruire da Caio [Caligola] tra Pozzuoli e Baia e dei canali tracciati da Augusto per far sì che le acque del mare si versassero nei laghi Averno e Lucrino.

«Anch’io» disse Ponzio sospirando «ho voluto intraprendere grandi lavori d’utilità pubblica. Quand’ebbi, per mia disgrazia, il governo della Giudea, disegnai il piano d’un acquedotto di duecento stadi che doveva portare a Gerusalemme acque abbondanti e pure. Altezza dei livelli, portata media, inclinazione dei calici di bronzo a cui adattare i tubi di distribuzione: tutto avevo studiato e, con l’aiuto dei tecnici, risolto. Avevo anche preparato un regolamento per la polizia delle acque, affinché nessun privato potesse illecitamente attaccare delle prese. Gli architetti e gli operai erano pronti. Ordinai si cominciassero i lavori. Ma, invece d’essere contenti nel vedere levarsi su archi potenti la via che doveva portare, con l’acqua, maggior salute alla loro città, gli abitanti di Gerusalemme si diedero ad urlare protesta. Riuniti in tumultuose assemblee, gridando al sacrilegio e all’empietà, si gettavano sugli operai e disperdevano le pietre delle fondamenta. Conosci stranieri, Lamia, immondi più di costoro? Eppure Vitellio diede loro ragione ed io ebbi l’ordine di interrompere i lavori».

«È un grave problema» disse Lamia «quello di sapere se agli esseri umani si deve imporre una felicità che non vogliono». Senza aver sentito, Ponzio Pilato continuò: «Rifiutare un acquedotto è follia! Ma tutto quello che viene dai Romani è odioso ai giudei. Noi siamo per loro degli esseri impuri e la nostra sola presenza la considerano una profanazione. Tu sai che rifiutavano di entrare nel pretorio per paura di contaminarsi e che mi costringevano ad esercitare la magistratura pubblica all’aperto, su quel lastricato di marmo su cui tu spesso hai messo piede.

«Ci temono e ci disprezzano. Eppure Roma non è madre e protettrice di tutti i popoli? Tutti i popoli, come bambini, non riposano sorridendo sul suo seno venerabile? Le nostre aquile hanno portato fino ai confini dell’universo la pace e la libertà. Trattiamo i vinti come amici, lasciamo ed assicuriamo ai popoli conquistati i loro costumi e la loro legge. Non è da quando Pompeo l’ha sottomessa che la Siria, prima lacerata dalla discordia di una moltitudine di re, ha cominciato a godere di tranquillità e benessere? E, mentre poteva vendere a peso d’oro i suoi benefici, Roma ha portato via nulla dei tesori di cui traboccavano i templi dei popoli stranieri? Ha spogliato forse la dea madre a Pessinunte, Giove nella Morimena e nella Cilicia, il dio dei giudei a Gerusalemme? Antiochia, Palmira, Apamea, tranquille, nonostante le loro ricchezze, e senza più il timore degli arabi del deserto, innalzano templi al Genio di Roma e alla Divinità di Cesare. Soltanto i giudei ci odiano e ci sfidano. Il tributo bisogna strapparglielo, e ostinatamente rifiutano il servizio militare».

«I giudei» rispose Lamia «sono molto attaccati alle loro antiche usanze. Sospettavano, a torto, ne convengo, che tu volessi abolire le loro leggi e cambiare i loro costumi. Consentimi, Ponzio, di dirti che tu non hai mai fatto nulla per dissipare il loro sciagurato errore. Tu ti sei compiaciuto, magari senza rendertene conto, di eccitare le loro inquietudini, e più di una volta ti ho visto davanti a loro tradire il disprezzo che ti ispiravano le loro credenze e le loro cerimonie religiose. Tu particolarmente li vessavi col far custodire dai legionari, nella torre Antonia, gli abiti e gli ornamenti del loro gran sacerdote. Bisogna riconoscere che, anche se non si sono elevati come noi alla contemplazione delle cose divine, i giudei celebrano misteri venerabili per antichità». Ponzio Pilato alzò le spalle e rispose: «Non hanno una esatta conoscenza della natura degli dèi. Adorano Zeus, ma non gli danno nome, né figura. Non lo adorano nemmeno sotto forma di pietra, come certi popoli dell’Asia. Nulla sanno di Apollo, di Nettuno, di Marte, di Plutone, né delle dèe. Ma credo che anticamente abbiano adorato Venere, se ancora oggi le donne portano colombe all’altare del sacrificio, e tu, come me, hai visto che sotto i portici del tempio ci sono dei mercanti che vendono questi volatili a coppie. Anzi, mi fu riferito un giorno che un pazzo furioso aveva gettato a terra quei mercanti e le loro gabbie. I sacerdoti se ne lamentavano come di un sacrilegio. Credo che l’uso di sacrificare tortorelle sia nato in onore di Venere. Ma perché ridi, Lamia?».

«Rido» disse Lamia «per un’idea piuttosto amena che mi è passata per la mente: che un giorno lo Zeus degli ebrei potrebbe fare il suo ingresso a Roma e perseguitarti col suo odio. Perché no? Ricordati che l’Asia e l’Africa ci hanno già dato tanti dèi. Abbiamo visto sorgere in Roma templi dedicati a Iside e al latrante Anubi. Agli incroci e lungo le strade maestre ci imbattiamo nella Buona Dea dei siriani, portata da un asino. E non sai che, sotto il principato di Tiberio, un giovane cavaliere si fece passare per il Zeus cornuto degli egiziani ed ottenne, sotto quel travestimento, i favori di una dama illustre, troppo virtuosa per rifiutare qualcosa agli dèi? Vedrai, Ponzio: che lo Zeus invisibile degli ebrei un giorno sbarcherà ad Ostia!».

All’idea che un dio potesse venire dalla Giudea, un rapido sorriso passò sul volto severo del procuratore. Poi gravemente rispose: «Come potrebbero i giudei imporre la loro legge santa agli altri popoli, se tra loro si dilaniano per l’interpretazione della legge stessa? Divisi in venti sette rivali, sulle pubbliche piazze, coi loro rotoli in mano, stanno ad ingiuriarsi e a tirarsi l’un l’altro per la barba: li hai visti anche tu, Lamia, e li hai visti tra le colonne del tempio stracciarsi le sudice vesti, in segno di desolazione, intorno a un qualche miserabile in preda a delirio profetico. Non concepiscono che si possa disputare in pace, con animo sereno, delle cose divine: che peraltro sono celate da veli e piene d’incertezza. La natura delle cose immortali resta sempre nascosta, né ci è dato conoscerla. E tuttavia, è da saggi credere alla provvidenza degli dèi. Ma i giudei ignorano la filosofia e non tollerano la diversità delle opinioni. Al contrario, giudicano degni dell’estremo supplizio coloro che professano sulla divinità dei sentimenti contrari alla loro legge. E poiché, da quando il Genio di Roma li sovrasta, le sentenze capitali dei loro tribunali non possono essere eseguite senza la sanzione del proconsole o del procuratore, continuamente pressano sul magistrato romano affinché sottoscriva le loro funeste sentenze, ossessionando il pretorio con grida che chiedono morte. Cento volte li ho visti, in folla, ricchi e poveri d’accordo intorno ai loro ottusi sacerdoti, circondare come in preda a follia la mia sedia d’avorio, tirarmi per i lembi della toga e i lacci dei sandali, per invocare, per esigere da me la morte di un qualche infelice di cui io non potevo giudicare il delitto e che pensavo fosse addirittura meno folle dei suoi accusatori. Tutti i giorni, tutte le ore, ero tenuto, purtroppo, a fare eseguire la loro legge come la nostra: poiché Roma mi impegnava a sostenere le loro usanze, non a distruggerle, a stare su loro con le verghe e la scure. E nei primi tempi, mi provai a far intendere loro ragione, tentai di sottrarre le loro miserabili vittime al supplizio. Ma la mia mitezza li irritava ancora di più, reclamavano la loro preda battendo intorno a me d’ala e di becco, come avvoltoi. I loro sacerdoti scrivevano a Cesare che io violavo la loro legge e queste suppliche, appoggiate da Vitellio, mi attiravano un biasimo severo. Quante volte mi venne voglia di mandare ai corvi, come dicono i greci, gli accusati e i giudici insieme! Non credere, Lamia, che io nutra rancori impotenti e astiosità senili contro questo popolo che ha vinto dentro di me Roma e la pace. Sto semplicemente prevedendo le decisioni estreme cui presto o tardi ci costringerà. Non potendo governarlo, bisognerà distruggerlo. Non c’è da dubitare: ancora non sottomessi, covando la rivolta nei loro animi accesi, essi faranno esplodere un giorno contro di noi un furore di fronte al quale la collera dei Numidi e le minacce dei Parti appariranno come capricci di bambini. Nell’ombra, nutrono insensate speranze e follemente preparano la rivolta e la nostra rovina. Non può essere altrimenti, se aspettano, sulla fede in un oracolo, il principe del loro sangue che dovrà regnare sul mondo. Non si riuscirà mai a domare un popolo simile. Bisogna non farlo più esistere. Bisogna distruggere Gerusalemme dalle fondamenta. Ed è possibile che, per quanto vecchio, mi sarà dato di vedere il giorno in cui le sue mura crolleranno, in cui le fiamme divoreranno le sue case, in cui gli abitanti saranno passati a fil di spada e il sale sarà sparso sulla piazza dove il tempio sorgeva. E in quel giorno, mi sarà infine resa giustizia».

Lamia, a questo punto, si sforzò di riportare il discorso a un tono più dolce.

     Avete sentito quanti riferimenti alla sapienza poetica dell’Ellenismo – tanto di natura imperiale quanto di natura evangelica – si trovano in questo testo!

     Se questa estate avete viaggiato avrete senz’altro incontrato dei frammenti di cultura ellenistica: non è difficile perché – come sappiamo – la "sapienza poetica ellenistica" è molto diffusa in tutte le sue varie forme dalle sponde dell’Atlantico a quelle del Pacifico sul territorio euro-asiatico. E poi – come abbiamo studiato nel corso del Percorso dello scorso anno – è proprio la cultura ellenistica ad aver codificato il concetto di "viaggio": è la cultura ellenistica che ha costruito il catalogo dei motivi fondamentali per cui si viaggia.

     La cultura ellenistica ha costruito il catalogo dei motivi fondamentali per cui si viaggia.

     Si viaggia per "migrare": per motivi di sostentamento e di sopravvivenza, e questo motivo è legato all’idea del "lavoro".

     Si viaggia per "conoscere": per motivi di curiosità e di apprendimento, e questo motivo è legato all’idea dello "studio".

     Si viaggia per "andare in pellegrinaggio": per motivi legati al mito, al rito, alla cerimonia, al racconto, e questo motivo è legato all’idea della "riflessione".

     Si viaggia, quindi, per migrare, per conoscere, per andare in pellegrinaggio: tre motivi di carattere antropologico, più uno – e lo abbiamo ricordato spesso nei nostri Percorsi – di carattere più psicologico. Tutte e tutti noi sappiamo che il "viaggio" non è uno spostamento qualsiasi. Si sa che, oggi, nell’era del turismo, spesso tra la partenza e la meta non c’è nulla: c’è un trasferimento, che viene effettuato spesso in aereo. Ma il viaggio non è uno "spostamento", bensì è quella "situazione" che sta tra la partenza e la meta.

     Il viaggio è una situazione che ci offre un’esperienza particolare: quale esperienza? Il viaggio è – già lo sappiamo, ma è necessario ricordarlo nel momento della partenza – una situazione che ci offre l’esperienza dello "spaesamento". E che cos’è lo "spaesamento"? Lo "spaesamento" è un’esperienza che ci fa uscire dall’abituale, dalle nostre consuetudini, e ci espone di fronte all’insolito. E questa è un’esperienza che sicuramente abbiamo provato e che merita un pensiero scritto: quando sentiamo di trovarci fuori dall’abituale, dalla consuetudine e di fronte all’insolito, allora, siamo in viaggio. Lo "spaesamento" da viaggio è una situazione culturale propulsiva, una situazione culturale che fa venire voglia di ricordare, di documentare, di descrivere i momenti di un’esperienza insolita. Lo "spaesamento" crea memoria, la memoria crea racconto e il racconto crea scrittura e, come abbiamo sentito, il racconto di Anatole France mette bene in evidenza questa situazione: Elio Lamia e Ponzio Pilato riflettono nell’ambito del loro "spaesamento". Ora, ciò che abbiamo detto in ragione dello "spaesamento" dato dal viaggio vero e proprio vale anche e soprattutto per l’esperienza di un viaggio intellettuale che si compone di itinerari culturali strettamente legati all’esercizio della scrittura e della lettura. Quindi la prima proposta di scrittura è d’obbligo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete fatto un viaggio quest’estate: dove ?  Perché, con quale motivazione, avete fatto questo viaggio ?

Scrivete quattro righe in proposito…

     Qualunque sia il viaggio che intraprendiamo di questa esperienza resta sempre qualcosa, ebbene, che cosa resta del viaggio di studio al quale molte e molti di voi hanno partecipato lo scorso anno scolastico? Rimane la forma che voi, attraverso le vostre scelte, attuate mediante un questionario, avete dato al territorio e allo spazio che abbiamo attraversato.

     Nell’anno scolastico 2009-2010 abbiamo attraversato il territorio della "sapienza poetica ellenistica": del primo ellenismo greco e latino, dell’indo-ellenismo, delle Cento scuole cinesi e degli albori della Letteratura ellenistico-evangelica.

     Quali parole-chiave abbiamo scelto per dare forma al territorio e all’ampio spazio che abbiamo attraversato lo scorso anno? Il questionario – al quale hanno risposto 234 persone – ci ha proposto 24 parole-chiave, rappresentative dei temi culturali della "sapienza poetica ellenistica".

     Il primo riquadro, intitolato "parola per parola …," riporta – secondo la grandezza dei caratteri – la quantità di consensi che le parole hanno avuto. Osserviamolo insieme:

parola per parola …

l’amicizia

la rettitudine la passione

la biblioteca il mondo il vangelo

il dovere l’inquietudine la fedeltà  la strada  il viandante

il carattere  l’individualismo l’attesa il piacere l’eremita  il ruolo  la tentazione

il burocrate  il mercenario  il parassita  l’imperturbabilità  l’impassibilità     [ l’adulazione]

     La parola "amicizia" (e sarà contento Epicuro) è quella che ha avuto più consensi" seguita dalle parole "rettitudine, passione, biblioteca", poi si distinguono le parole "mondo e vangelo", e poi ancora le parole "dovere, inquietudine, fedeltà, strada, viandante e carattere", poi le scelte hanno cominciato a diluirsi con le parole "individualismo, attesa e piacere", mentre le parole "eremita, ruolo, tentazione, burocrate, mercenario, parassita, imperturbabilità, impassibilità" sono state scelte poco e, infine, la parola "adulazione" è stata messa tra parentesi per sottolineare il fatto che non è stata scelta da nessuno. Questo quadro raffigura la nostra riflessione collettiva sul pensiero della "sapienza poetica ellenistica" quindi è un punto di arrivo, ma queste parole, e soprattutto quelle che sono state scelte di più "amicizia, rettitudine, passione, biblioteca, mondo e vangelo" fanno anche da battistrada: rappresentano bene il punto di partenza per il nostro viaggio che sta per avere inizio ancora nel territorio della "sapienza poetica ellenistica".

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

4. Oggi, delle 24 parole-chiave del questionario, quale [una sola] scegliereste     ?

Scrivetela …

     Il questionario di fine Percorso chiedeva anche di scegliere e di scrivere tre parole legate al concetto di "qualità della vita" e, a questo proposito, abbiamo seguito la ricerca condotta dall’ISTAT nel 2009. Al campione degli intervistati la ricerca ISTAT sulla "qualità della vita" ha proposto una lista di dieci parole.

     Come hanno risposto gli Italiani? Osserviamo il primo elenco intitolato "idea per idea". Gli Italiani rispondono mettendo al primo posto la "salute" poi il "benessere (scritto tutto attaccato), poi la "stima" e il "lavoro", dopo i "viaggi", il "divertirsi" e "l’immagine" che viene prima della "cultura" e della "solidarietà" e, infine, il "successo". Gli esperti dell’ISTAT rispondono che questo dato, messo insieme ad altri indicatori, mostra una società che ha una "visione piuttosto superficiale (frivola e individualistica) della qualità della vita".

idea per idea …               primo riquadro …

salute benessere

stima lavoro

viaggi  divertirsi

immagine  cultura  solidarietà 

successo

     Ora osserviamo il secondo elenco che riporta le risposte dei nostri tre gruppi:

idea per idea …         secondo riquadro …

cultura 

salute

solidarietà lavoro  

stima  viaggi 

benessere 

divertimento  immagine    successo

 

     Ci vuol poco a capire che c’è una certa differenza tra le scelte effettuate dai campioni di cittadini intervistati dall’ISTAT e le risposte del nostro campione sull’idea di "qualità della vita". Un dato è certo: chi frequenta la Scuola dà risposte in una direzione completamente diversa rispetto al pensare comune misurato dall’ISTAT e influenzato soprattutto – lo dicono gli esperti dell’ISTAT – dalla televisione. La nostra scelta disegna una società dove su tutto si eleva la "cultura" seguita dalla "salute", dalla "solidarietà" e dal "lavoro" e questa scelta rispecchia ciò che gli esperti dell’ISTAT ritengono ideale per la "qualità della vita" difatti le parole alle quali danno più valore sono "salute, solidarietà, lavoro e cultura" e il nostro campione queste parole le ha messe ai primi quattro posti.

     Quale considerazione si può fare? Le persone che frequentano e animano la Scuola lo fanno perché hanno una percezione diversa della "qualità della vita" rispetto alla massa? E la Scuola – l’alfabetizzazione funzionale e culturale – contribuisce a dare una visione più qualitativa delle cose?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Osservate questi dati, fate una considerazione e scrivete quattro righe in proposito

     Il rituale della partenza sta per concludersi e i riquadri che illustrano i risultati del questionario – di cui abbiamo preso visione – hanno determinato il punto di arrivo del Percorso dello scorso anno scolastico e ora indicano anche il punto di partenza del nuovo viaggio che sta per iniziare.

     E allora, con questa immagine nella mente accingiamoci, ancora una volta, ad attraversare il territorio della "sapienza poetica ellenistica". Al termine "Ellenismo" – il primo termine che abbiamo incontrato lo scorso anno in partenza – noi, con il nostro questionario, abbiamo dato un volto.

     A quali parole corrisponde, per noi, il termine "Ellenismo"? Il termine "Ellenismo", secondo le nostre scelte, assume una forma che corrisponde, prima di tutto, alle parole-chiave (sono sei le parole più scelte): "amicizia, rettitudine, passione, biblioteca, mondo e vangelo". Questo quadro lessicale raffigura il nostro punto di partenza, e il primo passo che facciamo consiste nel concludere la lettura del racconto che questa sera ha accompagnato il rituale della nostra partenza:

LEGERE MULTUM….

Anatole France, Il procuratore della Giudea (1902)

 Lamia si sforzò di riportare il discorso a un tono più dolce e disse: «Ponzio io capisco senza difficoltà i tuoi vecchi risentimenti e i tuoi sinistri presagi. Certo, quello che tu hai conosciuto del carattere degli ebrei è da riprovare. Ma io, che vivevo a Gerusalemme da curioso e che mi infiltravo nel popolo, ho avuto modo di scoprire in quelle persone oscure virtù, che tu non hai conosciuto. Ho incontrato ebrei pieni di dolcezza, di costumi semplici e di cuore fedele: da ricordarmi quello che i nostri poeti hanno detto del vecchio di Ebalia. Tu stesso, Ponzio, hai visto morire sotto il bastone dei tuoi legionari degli uomini semplici che, senza dire il loro nome, si sacrificavano a una causa che credevano giusta. Uomini simili non meritano il nostro disprezzo. E parlo così perché in ogni cosa bisogna osservare misura ed equità, poiché confesso di non aver mai sentito viva simpatia per gli ebrei. Le ebree, invece, mi piacevano molto. Ero giovane, allora: le donne di Siria mi davano un gran turbamento dei sensi. Le loro labbra rosse, i loro occhi umidi e nell’ombra splendenti, il loro sguardo intenso mi penetravano fino al midollo. Imbellettate e dipinte, odorose di nardo e di mirra, macerate negli aromi, la loro carne dà un raro e delizioso godimento».

Ponzio ascoltò quelle lodi con impazienza poi disse: «Non ero il tipo da cadere nelle reti delle ebree e, poiché tu mi provochi, ti dirò, Lamia, che non ho mai approvato la tua incontinenza. Se non ti ho fatto ben capire, allora, che ti consideravo in gran colpa per aver sedotto, a Roma, la moglie di un esponente del governo, è stato perché mi pareva tu stessi duramente espiando. Il matrimonio è sacro tra i patrizi, ed è l’istituzione su cui Roma si regge. Quanto alle donne schiave o straniere, le relazioni che si possono annodare con loro avrebbero poca importanza, sé il corpo non si abituasse a vergognose mollezze. Consentimi di dirti che hai sacrificato troppo tempo all’Afrodite dei bordelli, e ciò che sopratutto ti rimprovero è il non aver dato dei figli alla repubblica, come ogni buon cittadino ha il dovere di fare».

Ma Lamia, l’esiliato di Tiberio, non ascoltava più il vecchio magistrato. Vuotata la sua coppa di Falerno, sorrideva a una qualche immagine invisibile sussurrando: «Danzano con tanto languore, le donne di Siria! Ho conosciuto un’ebrea di Gerusalemme che in una bettola, nell’avara luce di una lucerna fumosa, su un logoro tappeto, danzava levando le braccia e agitandole a far suonare i cimbali. Le reni inarcate, la testa rovesciata e come tirata dal peso della sua folta chioma rossa, gli occhi annegati di voluttà, ardente e languente, flessuosa, avrebbe fatto impallidire d’invidia Cleopatra stessa. Amavo le sue danze, il suo canto un po’ rauco e insieme dolce, il suo odore d’incenso, il suo vivere trasognato. La seguivo dovunque. Mi confondevo alla vile ciurmaglia dei soldati, dei saltimbanchi e dei pubblicani da cui era circondata. Un giorno sparì, e non la rividi più. La cercai lungamente nei vicoli malfamati e nelle taverne. Era più difficile fare a meno di lei che del vino greco. Qualche mese dopo che l’avevo perduta di vista, seppi, per caso, che si era unita a un piccolo gruppo di uomini e di donne che seguivano un giovane taumaturgo della Galilea. Si faceva chiamare Gesù il Nazareno, e fu crocifisso non ricordo per quale delitto. Ponzio, ti ricordi vero di quest’uomo?».

Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia, si portò la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo lontano. Poi, dopo qualche istante di silenzio mormorò: «Gesù, hai detto? Gesù il Nazareno? No, non ricordo, non mi dice proprio nulla questo nome, non ricordo».

     Ebbene abbiamo preso il passo leggendo, dall’inizio alla fine, un intero romanzo, seppure molto breve, in linea con la natura del nostro Percorso di alfabetizzazione culturale: un’offerta formativa della Scuola pubblica degli Adulti in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Ponzio Pilato, il procuratore della Giudea, – secondo la significativa allegoria costruita da Anatole France – non si ricorda più di Gesù Nazareno.

     C’è una persona invece che, sebbene non abbia mai incontrato Gesù Nazareno, ha costruito la "memoria" su di lui componendo il primo tassello di quello che è destinato a diventare uno dei più significativi apparati letterari della Storia del Pensiero Umano: la Letteratura dei Vangeli, una Letteratura di stampo ellenistico che ha contribuito a spaccare la storia in due e che ha come primo oggetto un Epistolario, delle Lettere.

     L’autore di questo Epistolario – una delle opere più importanti e significative dell’Ellenismo greco – come sappiamo, si chiama Paolo di Tarso e lo abbiamo già incontrato a primavera.

     La prossima settimana ci troveremo di fronte al primo significativo paesaggio intellettuale del nostro secondo viaggio nel territorio della "sapienza poetica ellenistica" quella cosiddetta di "stampo evangelico": dove si trova questo paesaggio? Si trova – come sapete – nella città di Corinto dove ci aspetta Paolo di Tarso il quale è ansioso di dirci una serie di cose, di sottoporre alla nostra attenzione una serie di temi.

     Anche questo viaggio di studio è cominciato perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona per questo la Scuola è qui, perché possiamo imparare ad alimentare buone passioni e a controllarle con giuste ragioni: buon viaggio

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 8, 2010