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NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE, ALLA FINE DEL VIAGGIO, EMERGONO LE INDIGESTE PAROLE-CHIAVE CHE INDICANO LA VIA VERSO IL TERRITORIO DEL “TARDO ANTICO” ...

Lezione N.: 
27

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale  23-24-25  maggio  2012

NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE,

ALLA FINE DEL VIAGGIO, EMERGONO LE INDIGESTE PAROLE-CHIAVE

CHE INDICANO LA VIA VERSO IL TERRITORIO DEL “TARDO ANTICO” ...

     Stiamo per percorrere l’ultimo itinerario di questo viaggio sul territorio della “sapienza poetica ellenistica”. Abbiamo impiegato tre anni scolastici per attraversare l’importante territorio dell’Ellenismo e, in partenza, nell’ottobre scorso, ci siamo domandate e domandati: che cos’è l’Ellenismo? Questa domanda ci si ripropone nel momento in cui stiamo per terminare questo Percorso di studio:  che cos’è l’Ellenismo? Questo quesito [come già sappiamo] presuppone un gran numero di risposte a seconda dell’ottica con cui prendiamo in considerazione questo tema. Sapete che noi dobbiamo rispondere in funzione della natura del nostro viaggio: in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     In quest’ottica l’Ellenismo [e non facciamo altro che ripetere un concetto che già conosciamo] è lo scenario delle più grandi operazioni di integrazione culturale che siano mai state intraprese nel corso della Storia del Pensiero Umano. Quindi dagli argomenti che ci propone la “sapienza poetica ellenistica” noi, oggi, abbiamo molto da imparare nel momento in cui la parola-chiave “integrazione” è all’ordine del giorno: non c’è documento ufficiale o discorso informale che [nel bene e nel male] non citi la parola “integrazione” e, purtroppo, molto raramente la parola “integrazione” viene accompagnata dal termine “alfabetizzazione culturale”. Il fenomeno dell’integrazione non piove dall’alto già confezionato: il fenomeno sociale dell’integrazione dipende da come si sa gestire la “contaminazione culturale [contaminatio]”, e questa gestione è legata alla promozione della buona pratica dell’investire in intelligenza che presuppone l’offerta [da parte della Scuola pubblica degli Adulti] di Percorsi di studio, continui e graduali, che possano stimolare il funzionamento delle azioni dell’apprendimento, perché “apprendimento permanente” e “integrazione” sono due entità umane profondamente legate.

     Nell’anno scolastico 2009-2010 [tre anni fa] abbiamo attraversato il territorio della “sapienza poetica ellenistica” per conoscere e per capire come la cultura greca e la cultura orientale [egizia, babilonese, persiana, indiana, cinese] – sulla scia della spedizione di Alessandro Magno – si siano integrate tra loro dando vita a molte Scuole di cui abbiamo studiato il Pensiero [e questo è l’ellenismo alessandrino].

     Nell’anno scolastico 2010-2011 abbiamo attraversato il territorio della “sapienza poetica ellenistica” per conoscere e per capire come la cultura greca e la cultura beritica [dell’Antico Testamento] – sulla scia del significativo fenomeno della diaspora ebraica – si siano integrate tra loro dando vita, ad Alessandria, alla traduzione in greco dei Libri della Bibbia [il più importante avvenimento culturale dell’Ellenismo] e favorendo la nascita e lo sviluppo della Letteratura dei Vangeli [un avvenimento epocale nella Storia del Pensiero Umano] a cominciare dall’Epistolario di Paolo di Tarso, una delle opere più significative della cultura universale che abbiamo utilizzato come bussola [e questo è l’ellenismo giudaico-cristiano].

     Quest’anno [2011-2012] abbiamo attraversato il territorio della “sapienza poetica ellenistica” per conoscere e per capire come la cultura greca e la cultura latina – sulla scia dell’espansione dell’Impero romano [del concetto di “imperium”] sul territorio dell’Ecumene – si siano integrate tra loro dando vita, nell’ambito di un significativo rapporto di amore e odio, ad uno straordinario apparato intellettuale di carattere letterario e filosofico [e questo è l’ellenismo greco-romano] che, sebbene rappresenti uno degli assi portanti della cultura “occidentale”, continua ad essere praticamente sconosciuto alla stragrande maggioranza [più dell’80%] della popolazione.

     Con l’età di Augusto [è questo il paesaggio intellettuale davanti al quale ci troviamo] l’antica cultura greca e la cultura latina raggiungono il culmine di un processo di integrazione il cui risultato è qualcosa di originale rispetto alle due singole culture: ci troviamo di fronte ad una particolare sintesi intellettuale, ricca di variabili [la cosiddetta “officina dei Classici dell’età tardo antica”] e contenente un prezioso catalogo di parole-chiave e di idee-cardine che indirizzano la Storia del Pensiero Umano oltre l’Ellenismo e oltre l’età antica.

     In questo viaggio di studio abbiamo imparato che a raggiungere il culmine del processo di integrazione tra cultura greca e cultura latina hanno contribuito molti autori che strada facendo, itinerario dopo itinerario, abbiamo incontrato [ed è giusto dire che hanno contribuito anche tutte le donne che, sebbene indirettamente, hanno fatto arrivare – attraverso la “sapienza poetica” – la loro voce per affermare l’esistenza della “questione femminile”, un tema che continua ad essere di stringente – e spesso tragica - attualità].

     L’incontro con il poeta Publio Virgilio Marone ci sta facendo riflettere su una serie di parole-chiave che hanno determinato – e continuano a determinare – la Storia dell’Umanità: la patria, la migrazione, l’esilio. Come sappiamo Virgilio si identifica con i suoi personaggi: Virgilio non crea figure di eroi esuberanti e baldanzosi, dotati di una vitalità prorompente, come quelli di stampo omerico, i suoi personaggi sono approfonditi psicologicamente e, quasi sempre, descritti in modo dolente e meditativo, sono personaggi umani non divinizzati come quelli dell’epica antica, sono uomini e donne che si affacciano su un’epoca nuova che non è più l’epoca antica. Enea è, in trasparenza, una figura che deve essere definita “post-eroica” perché non è un guerriero come Achille o Ettore e neppure ha la personalità astuta e sagace di Ulisse: Enea accetta con rassegnazione il suo destino, con dolore e, con una manifesta impotenza, si sottomette ai voleri del Fato [o del Caso o della Necessità]. Quando è necessario Enea manifesta anche doti di valoroso guerriero ma si pone sempre il problema se sia giusto che un combattente debba compiere – suo malgrado – atti di crudeltà. La sua caratteristica, come sappiamo, è la “pietas”, cioè un sentimento che invita chi lo prova a coltivare il dovere di mantenere la pace, sacrificandosi anche, per raggiungere questo obiettivo, e il “pius” Enea è il riflesso della personalità del poeta stesso che coltiva un sentimento di pietà per i vinti: perché ci dovrebbe meravigliare [perché è una novità] la comparsa di questo sentimento? Perché la mentalità romana [della conquista imperialista] è pervasa dall’idea che Roma è stata chiamata dal destino a dominare il mondo e nel dizionario di chi deve dominare il mondo la parola “pietà” non è prevista: non c’è pietà per i vinti.

     Virgilio si identifica con il personaggio di Enea così come lui lo ha disegnato psicologicamente perché si sente, si è sempre sentito, un “esule”: Virgilio è il poeta che ha fatto emergere maggiormente la condizione esistenziale dell’esilio. Enea, nel Lazio, risulta vincitore ma non supererà mai la condizione psicologica dello sconfitto perché per l’esule il pensiero dell’esilio diventa un’idea indelebile, sempre rappresentativa della sconfitta.

     Virgilio, in vita, acquisisce la fama, diventa un poeta “famoso”, ma continua a domandarsi: «A che vale la mia fama? La fama mi può salvare, forse, da quella sconfitta inesorabile che è la morte [dal trionfo della Morte], la fama può sottrarmi a quel luogo d’esilio eterno che è il mondo degl’Inferi? La fama mi preserva dalle malattie del corpo e dell’anima? La fama – afferma Virgilio – risulta piuttosto una vanità [vanità delle vanità, tutto è vanità] che, molto spesso, ci fa perdere il senso dell’umano [la percezione dell’humanitas] e, poi, la vita stessa non è, forse, da considerarsi un esilio che ci fa pensare ad una “patria” collocata al di là di questa terrena?».

     Nel testo dell’Eneide Virgilio si esprime in modo esplicito sulla natura “malefica” della Fama, scritta con la F maiuscola, perché la Fama diventa una vera e propria divinità alienante che scalza il più autentico senso del sacro. Se apriamo l’Eneide e leggiamo il testo dal verso 173 del IV Libro scopriamo che, dopo la tappa nel Salento, Enea ha fatto rotta verso il Lazio – il suo viaggio in Italia [come sappiamo] si compie quando approda alle foci del Tevere –, ma una tempesta bestiale lo ha sbattuto con i poveri avanzi della sua flotta su una spiaggia della Libia [per Libia si intendeva allora tutto il Nord-Africa, e il tratto di costa nordafricana, dove Enea è stato sbattuto, oggi sarebbe la Tunisia]. Proprio lì si sono insediati da qualche tempo profughi Fenici [provenienti dall’attuale Libano], che stanno edificando sulla sabbia una grande metropoli, che si chiama Cartagine. La regina di questi Fenici, o Punici, è [come sappiamo] la famosa Didone, una vedova [ha preso il posto, alla sua morte, dell’amato marito Sichéo] stupenda tanto per la sua bellezza quanto per la sua cultura [attraente soprattutto per la sua cultura con la quale sa ben governare]. Ora Venere, mamma divina ma ansiosissima di Enea, per garantirsi che i Fenici trattino bene suo figlio [naufrago], con la complicità di Cupido [altra sua creatura divina], che, nel frattempo, ha preso le sembianze di Iulo o Ascanio [il figlio di Enea], ha fatto sì che Didone chieda ad Enea, che è in possesso del fascino dell’esule sventurato [ma anche perché le donne sanno provare compassione], di raccontarle la tragica caduta di Troia e le sue successive peripezie per mare. Enea racconta con grande trasporto i drammatici avvenimenti che lui ha vissuto e Didone [complice Cupido] si innamora perdutamente di lui.

     Però, a questo punto, Giunone, nemica irriducibile dei Troiani [sebbene siano sconfitti ed esuli], pur di distogliere Enea dalla missione fatale di sbarcare in Italia e di gettare le premesse per la fondazione di Roma, negozia con la sua nemica Venere un compromesso basato su una circoscritta convergenza di interessi e, quindi, le due dive montano una piccola scena di una grande commedia: com’è congegnata questa commedia? La regina cartaginese, che spasima d’amore per Enea, lo invita ad una battuta di caccia: ad un certo punto scoppia un temporale [c’è lo zampino di Zeus che qui si chiama Giove pluvio] e i due si rifugiano in una grotta dove si amano con ardore [“con un amplesso tellurico”, traduce Leopardi]. Il fatto è [ed è qui che volevamo arrivare ] che la Fama – scrive Virgilio – divulga subito questa notizia [trasformandola in termini scandalistici] per tutta l’Africa del Nord, e allora, in proposito, leggiamo i versi di Virgilio dal Libro IV dell’Eneide.

LEGERE MULTUM….

Publio Virgilio Marone, Eneide  Libro IV

E la Fama va per le grandi città della Libia, sùbito lei la Fama, il più fulmineo

di tutti i mali [malum quo non aliut velocius ullum]; vive del suo movimento,

e andando guadagna forza; piccola a tutta prima e timida, e già si leva nei venti,

va con i piedi sul suolo e nasconde la testa fra le nuvole; orrido mostro immane, di notte, vola

a mezz’aria fra cielo e terra stridendo nell’ombra, e non chiude occhio alla dolcezza del sonno;

di giorno, si appollaia di guardia al sommo d’un tetto o di un’alta torre,

e atterrisce grandi città, ostinata nel divulgare [verum et fictum] il falso e i suoi veleni non meno del vero.

Euforica, quella volta, assordava la gente di voci assortite, annunciando, a seconda,

l’accaduto e il non-accaduto [facta et infecta]: che era arrivato un Enea, nato di sangue troiano,

al quale la bella Didone si compiaceva accoppiarsi; che si godevan l’inverno, quant’è lungo, in bagordi,

dimentichi dello Stato, arresi a una turpe libidine.

Questo diffonde l’infame mettendolo in bocca alla gente.

     Nel testo dell’Eneide di Virgilio [dal verso 173 del IV Libro] emerge un’affinità tra la Fama, creatura semidivina, e la suprema divinità di oggi: il sistema mediatico dell’informazione. Questa Fama, che Virgilio definisce senza peli sulla lingua “il più fulmineo di tutti i mali [malum quo non aliut velocius ullum]”, mette bene in evidenza il carattere tendenzioso e profanatorio di qualsiasi diffusione di notizie, mette bene in evidenza l’irriducibile alterazione del reale che investe ogni passaggio di informazioni [di bocca in bocca la notizia si modifica], perché – così scrive Virgilio – divulga indifferentemente “il vero e il falso [verum et fictum]” o meglio, attivando più inquietanti interferenze di senso, “fatti e non-fatti” [letteralmente: “facta et infecta”] perché Virgilio è cosciente che la stessa trasmissione dei fatti ne determina una contraffazione e, spesso, una falsificazione.

     Virgilio non è nostro contemporaneo ma i temi che troviamo nelle sue opere invitano noi, persone contemporanee, a riflettere. La contemporaneità di Virgilio, la sua attualità deve essere misurata sulla sua poesia, sulla natura del suo linguaggio, e la sua poesia ci dice, inesorabilmente, che il bacino del Mediterraneo – e alla Fama [che ha assunto la qualifica di una divinità] questa situazione sembra non interessare – è da sempre attraversato da esuli disperati e braccati alla ricerca di una patria appena abbandonata e perpetuamente promessa, alla ricerca di un’identità profonda che non mette radici se non nel futuro e non si purifica se non contaminandosi. Infatti la patria, ogni patria, è anche una patria futura oltre ad essere una patria perduta: per l’esule il concetto di “patria” si confonde con il sentimento della speranza e del rimpianto, e chi di noi non porta nel pensiero una qualche “patria [reale o virtuale]” di cui si sente esule?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Voi quale “patria perduta [terra, stagione, persona, opportunità, sogno, desiderio]” portate nel pensiero?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Virgilio canta con i suoi versi – e noi facciamo questa esperienza nel presente quando, per esempio, ci domandiamo se dobbiamo dare la cittadinanza alle figlie e ai figli dei migranti nati qui –  che la “nostra patria” è giusto diventi anche la patria “perduta e futura” di altri [come si fa a lasciare una persona senza patria, senza diritto di cittadinanza?]: questa riflessione di stampo ellenistico nasce e si sviluppa nella nostra mente da un’idea racchiusa in un poema [l’Eneide] che Gerolamo ha definito l’ultimo dell’età antica e il primo di una nuova epoca [un’epoca di speranza].

     Virgilio vuole distruggere la sua opera, chiede che il manoscritto dell’Eneide venga bruciato. A che cosa serve – si domanda il poeta, attraverso il testo del romanzo La morte di Virgilio di Hermann Broch, del quale, la scorsa settimana, abbiamo letto qualche pagina – aver scritto l’Eneide, se quest’opera è destinata a celebrare il finto splendore dei Cesari? Per questo verrà ricordata? A che cosa serve aver scritto l’Eneide se il protagonista è sceso inutilmente nell’Ade, perché è penetrato nel mondo dell’al di là senza trovarci la “conoscenza” [i morti sono solo tristi e sbigottiti] che è l’unico motivo per cui valga la pena vivere? E a che cosa serve aver scritto l’Eneide se la Parola – la Parola [con la P maiuscola], il Verbum [in latino], il Logos [in greco], che è il vero oggetto dotato di creatività – non è riuscita a rettificare il potere imperiale, a esorcizzare la forza, ad abolire la guerra, a scongiurare l’esilio, a mitigare la passione, a guarire la malattia, a sconfiggere la morte [questi sono i temi dell’Eneide, e i temi in discussione dell’epoca tardo-antica: il nostro viaggio sta per finire e, di fronte a noi, non c’è un confine ma un vasto territorio da attraversare]?

     Dopo un lungo delirio notturno – la cui descrizione, con pazienza, potete leggere nella seconda parte del romanzo La morte di Virgilio di Hermann Broch dove, nel contenuto, si riflette soprattutto sul significato dell’Arte e dove, per quanto riguarda la forma, si assiste ad una sistematica distruzione del modello del romanzo tradizionale e dell’idea che la Letteratura debba produrre per il mercato [questo romanzo è scritto in modo originale ed è composto come se fosse un poema formato da quattro parti intitolate: Acqua-L’arrivo,  Fuoco-La discesa, Terra-L’attesa, Etere-Il ritorno] – Virgilio si arrende e, umanamente, decide di salvare la sua opera perché – nonostante il potere si sia impadronito del suo linguaggio riducendolo in macerie – ritiene che la sua parola poetica possa sopravvivere e sovvertire la ragion di Stato, possa andare oltre la “fama propagandistica che l’imperatore pensa di aver acquisito perché a lui si dedica un poema”; Virgilio coltiva la speranza che dalla sua poesia, in futuro, possa scaturire: “il reale significato della parola, la giusta consolazione della parola, la vera grazia della parola, la salvifica intercessione della parola, la virtù redentrice della parola, la forza di legge della parola, la luminosa rinascita della parola”. Broch sente e denuncia che la “parola” è diventata strumento che istiga alla violenza, e alla sopraffazione, che induce all’esaltazione del peggiore e del depositario degli istinti peggiori: se la “parola” non si coniuga con la consolazione, con la grazia, con l’intercessione, con la virtù redentrice, con la forza della legge, con la rinascita, significa che “la parola non sa più dire la cosa” e questo fatto produce l’estinzione dell’humanitas.

     E ora, in proposito, leggiamo questa pagina da La morte di Virgilio dove lo scrittore esalta la “sapienza poetica” di Virgilio facendo anche l’esegesi del Prologo del Vangelo secondo Giovanni, un capolavoro della letteratura ellenistica tardo-antica.

LEGERE MULTUM….

Hermann Broch, La morte di Virgilio

la pace senza guerra, il viso umano nella pace si scorse nell’immagine del fanciullo in braccio alla madre, unito con lei nel mesto sorriso dell’amore. Questo egli vide, vide il fanciullo, vide la madre, ed essi gli erano così noti che quasi avrebbe potuto chiamarli senza trovare i loro nomi; tuttavia, ancor più familiare del volto e dell’irreperibile nome era il sorriso che legava il fanciullo alla madre, e pareva che in questo sorriso fosse già contenuto l’intero significato dell’infinito accadere, che la legge significante fosse annunciata in questo sorriso - la dolce e insieme terribile magnificenza dell’umano destino, generato dalla parola e già in questa generazione significato della parola, consolazione della parola, grazia della parola, intercessione della parola, virtù redentrice della parola, forza di legge della parola, rinascita della parola, ancora una volta espressa ed esprimibile nelle insufficienti - eppure le sole sufficienti - immagini terrestri dell’umano operare e mutare, in esse annunciato e custodito e ripetuto per sempre.

... continua la lettura …

     Scrive Broch [la scrittura di Broch va letta senza fretta e moltiplicando l’attenzione] che “l’umano destino è generato dalla parola” ma se la parola non sa più dire la cosa [non sa salvare]: quale destino, quale salvezza, quale redenzione, quale grazia, quale legge, quale consolazione ci possiamo aspettare? Se la parola non sa più dire la cosa ci aspetta la solitudine, non ci resta che il vuoto dei valori, ed emerge il vizio [ed è accaduto nella società romana imperiale] di occultare la decadenza.

     Tra gli scrittori latini che reagiscono [che sanno dire la cosa] nel modo più efficace nei confronti della disgregazione dei valori che determina la crisi inesorabile della società romana c’è Quinto Orazio Flacco. Quinto Orazio Flacco lo abbiamo incontrato nel corso del viaggio di tre anni fa quando ad Alessandria abbiamo incontrato il grande poeta elegiaco Callimaco di Cirene [310-240 a.C.], il più famoso dei poeti alessandrini. Orazio si è anche giovato dello stile di Callimaco per ispirarsi e per scrivere le sue opere: le Satire, le Odi e gli Epodi. Chi è Quinto Orazio Flacco?

     Quinto Orazio Flacco è nato a Venosa. Venosa è una bella cittadina della Basilicata, in provincia di Potenza, ed è l’antica colonia romana di Venusia. Quando Orazio vi nasce, nel 65 a.C., da Venusia passava la via Appia, il cui tracciato, poi, fu spostato più a nord dall’imperatore Traiano. Venosa si trova al margine orientale del territorio montuoso del Vùlture, su un pianoro che è il fondo di un remotissimo lago, scavato da una fiumara.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate una visita a Venosa con la guida della Basilicata o utilizzando la rete, perché ci sono dei significativi monumenti da osservare: il castello quattrocentesco, l’abbazia normanna della Trinità, le rovine romane [le terme, l’anfiteatro] dislocate in diversi punti, e non lontano dalla Cattedrale c’è anche la cosiddetta “Casa di Orazio”: questo nome viene tradizionalmente dato ai resti, a forma circolare, di una domus patrizia del II secolo d.C.… 

Fate un’escursione – utilizzando la guida o la rete - a Venosa, buon viaggio…  

     Quinto Orazio Flacco è figlio di un liberto cioè di uno schiavo che è stato liberato, che è diventato cittadino romano e che ha preso il nome della gens a cui appartiene il padrone: spesso i liberti assumevano ruoli importanti nel clan del quale entravano a far parte e questo è successo al padre di Orazio [uno che sapeva fare affari, che ha lavorato come esattore nella vendita alle pubbliche aste: un incarico redditizio anche se socialmente poco stimato] il quale ha ereditato dei beni dalla gens Flacca e, quindi, Orazio ha avuto la possibilità – suo padre voleva che lui studiasse come i giovani patrizi – di essere educato a Roma e ad Atene, dove ha studiato la filosofia e la retorica. Orazio ha studiato con il grammatico Lucio Orbilio Pupillo, da lui definito nelle Satiremanesco [plagosus]”, a causa della bacchetta usata sugli allievi distratti. In seguito ha frequentato a Napoli il circolo epicureo di Filodemo e di Sirone. Ad Atene, per approfondire le sue conoscenze filosofiche e retoriche, ha frequentato le Lezioni di maestri come l’accademico Teomnesto [Scuola di impostazione platonica] e il peripatetico Cratippo di Pergamo [Scuola di impostazione aristotelica].

     Orazio incomincia a scrivere i primi versi ad Atene in lingua greca e aderisce al cosiddetto “movimento repubblicano dei giovani patrizi” che studiavano ad Atene e, dopo l’uccisione di Cesare, si arruola nell’esercito dei congiurati guidato da Bruto e da Cassio, che erano fuggiti in Macedonia, e combatte a Filippi con l’esercito repubblicano. A Filippi, nel 42 a.C., l’esercito repubblicano viene sconfitto dai triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido. Nel 41 a.C. Orazio gode dell’amnistia che i triumviri [molto benevolmente] concedono agli sconfitti e così può rientrare a Roma: l’amnistia però prevede che vengano confiscati i beni familiari a chi ha combattuto nell’esercito dei congiurati e, quindi, Orazio si ritrova povero in canna e senza protezioni politiche e, per sopravvivere, trova un piccolo impiego nell’amministrazione statale, e poi comincia pian piano – secondo la sua vocazione – a farsi conoscere come poeta e riesce ben presto ad entrare nel mondo letterario romano dove diventa amico di Virgilio e di Varo e, quindi, gli si aprono le porte del prestigioso circolo di Mecenate, del quale entra a far parte nel 37 a.C., e dal quale assiste alla scalata al potere di Ottaviano. Orazio muore nell’anno 8 a.C., poco dopo l’amico Mecenate che – sempre molto generoso – gli aveva fatto dono di una bella villa in Sabina, e Orazio è stato sepolto accanto a Mecenate.

     Sebbene Orazio non sia stato mai allineato con le scelte del potere politico imperiale però, per non avere grane – per non fare la fine che ha fatto Ovidio –, ha pensato bene di scrivere un’opera celebrativa su Augusto e sulla grandezza di Roma intitolata Carme secolare, tuttavia Orazio ha sempre mantenuto una sua sostanziale indipendenza di giudizio. Anche a Roma Orazio frequenta la Scuola epicurea [il Giardino di Epicuro], e noi il pensiero originario del fondatore ateniese di questa importante corrente ellenistica lo abbiamo studiato [quest’anno con la complicità di Lucrezio]: il pensiero della Scuola epicurea – in particolare il tema dell’etica – è sempre presente nelle opere di Orazio.

     Orazio viene ricordato come il poeta della “la giusta misura [aurea mediocritas]”, e la “giusta misura” è un concetto epicureo che consiste nel coltivare un ideale di equilibrio: quell’armonia che ci deve essere tra la capacità di rinuncia e la gioia di gustare i piaceri della vita [il buon cibo, l’amore, la serenità campestre, il culto della poesia], sapendo e tenendo ben in considerazione il fatto che la vita fugge e, quindi, bisogna vivere con intensità il presente cogliendo ogni attimo: “cogli l’attimo [carpe diem]”. Ma – secondo Orazio – l’attimo va colto con ordine, e lui, per definire questa idea, usa la parola latina “otium”, una parola-chiave tipica delle Scuole ellenistiche [oggi questo termine ha perso il suo significato originario], che designa il tempo della riflessione e dello studio in funzione della creatività: stare “in otium” significa impegnarsi a riflettere e a studiare per prendersi cura e prepararsi ad investire in intelligenza.

     Orazio, studiando la cultura ellenistica [ormai l’integrazione tra cultura greca e cultura latina si è definitivamente compiuta], ha introdotto nella poesia molti metri lirici greci che hanno contribuito a migliorare e a rendere più colta la lingua latina e, a questo proposito, Orazio ha scritto un’opera importante, un’opera didattica [che è stata studiata durante tutto il Medioevo] che s’intitola Ars poetica [conosciuta anche come Epistola ai Pisoni] che tratta i temi della poesia drammatica ed epica, e nella quale si prospetta l’equilibrio fra il talento naturale della persona e la tecnica [ars] che la persona acquisisce con lo studio e con l’esercizio.

     Orazio ha scritto le Epistole, le Odi, gli Epodi: tutte opere profuse di un garbato lirismo. Sempre lirico, ma un po’ più spregiudicato, è Orazio nelle Satire, quella che viene considerata la sua opera più significativa perché contiene accenti filosofici [epicurei, stoici, scettici] che verranno sviluppati nell’età successiva dalla Scuola filosofica romana.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Delle Satire di Orazio – che trovate facilmente in biblioteca – la Scuola consiglia la lettura: certamente ci vuole un po’ di pazienza ma ne vale la pena per l’attualità che sprigiona da questi testi…

     Nelle Satire, scritte in esametri, Orazio ha fatto tesoro della lezione tenuta dalla prima generazione dell’Ellenismo alessandrino e, in particolare, da Callimaco di Cirene dal quale ha ereditato tanto l’eleganza nella forma quanto lo spirito polemico nel contenuto. Essendo andate perdute tutte le opere di Callimaco [tranne una serie di frammenti] nel viaggio di tre anni fa, attraverso la scrittura di Orazio, ci siamo fatte e fatti un’idea di come potesse essere l’opera satirica di Callimaco e abbiamo letto dal Libro secondo delle Satire di Orazio la settima, che è intitolata Solo il saggio è padrone di se stesso: in questo testo si può prendere atto del fatto che il tempo passa ma certe situazioni, legate all’immoralità privata e pubblica, sembrano ripetersi inesorabilmente.

     Orazio scrive che nel giorno dei Faunali [il 5 dicembre, quando, per un giorno, i padroni e i servi si scambiano il ruolo] uno schiavo, di nome Davo, dice tutto quello che pensa al suo padrone e ne viene fuori – attraverso la satira oraziana – un quadro esemplare di una società in cui regna l’ipocrisia e l’imbecillità. Orazio sostiene che queste due caratteristiche sono ormai così inveterate nella società romana che risultano comportamenti “normali” quelli dettati dall’ipocrisia e dall’imbecillità: è “normale” essere individui ipocriti ed imbecilli piuttosto che persone franche e sagge. Orazio afferma che questa assuefazione ai livelli più bassi della morale è preoccupante e nello stesso tempo si domanda: chi è libero? Forse è più libero lo schiavo del suo padrone perché ha meno possibilità, ha meno occasioni di peccare? E poi Orazio dà una risposta in linea con il pensiero delle Scuole ellenistiche [epicuree, stoiche, scettiche] che cominciano ad influenzare la cultura latina: solo la persona saggia è padrona di se stessa e, a diventare padroni di se stessi, s’impara, ma poche sono le persone che s’impegnano in proposito.

     Adesso però noi leggiamo il testo di un’altra satira che contiene il concetto de “l’aurea mediocritas [della giusta misura]” e dell’otium [il desiderio di arricchirsi spiritualmente] che si oppone al negotium [alla volontà di fare affari per arricchirsi materialmente, una volontà che accentua il vizio dell’avarizia e della grettezza umana]. L’otium – consigliato dalle Scuole ellenistiche e da Orazio – non consiste nel lasciarsi andare, l’otium non corrisponde alla fannullaggine. Per noi oggi la parola “ozio” ha assunto esclusivamente una valenza negativa perché la contemporaneità resta dominata dall’ossessione della produzione e del reddito [un’ ossessione destinata a creare forti disuguaglianze sociali] e, in questo contesto, l’ozio viene etichettato come sinonimo di inattività, di rinuncia, di disinteresse, di orizzonte ristretto e soffocante, ma “l’otium”, secondo le Scuole di Pensiero ellenistiche, è tutt’altra cosa: è la capacità di sapersi ritagliare spazi di libertà dagli impegni di lavoro, dalle cure pubbliche o private, per dedicarsi alla lettura, alla scrittura, alla conversazione, alla contemplazione terrena e spirituale, al piacere consapevole dell’apprendimento permanente, e tutte le persone avrebbero diritto ad uno spazio di questo genere [l’otium] per esercitare il loro dovere di “studiare”, di investire in intelligenza, di “prendersi cura” del proprio intelletto. Scrive Rabelais nel suo famoso romanzo Gargantua e Pantagruel [pubblicato nella sua forma definitiva nel 1552], parafrasando Orazio: «Chi togliesse l’ozio dal mondo, ben presto farebbe perire anche le arti di Cupido», e questo perché l’otium stimola i desideri – d’amore, di conoscenza, di studio – li stimola in modo creativo e al di fuori della logica della competizione e del possesso. Secondo questo pensiero per praticare l’otium bisogna impegnarsi molto perché: “Il disimpegno più assoluto per non essere coinvolti, a tutti i livelli, nella scalata sociale – scrive Orazio – comporta un notevole impegno”.

     E ora leggiamo la prima composizione dal Primo Libro delle Satire di Orazio:

LEGERE MULTUM….

Quinto Orazio Flacco,  Satire  Libro Primo, 1

Come mai, Mecenate, nessuno è contento del proprio mestiere, che se lo sia scelto

o l’abbia avuto dal caso, e invidia chi segue strade diverse? «Che fortunati

i mercanti!», esclama il vecchio soldato, le ossa rotte dai lunghi disagi; «Beati

i soldati!», risponde il mercante, appena la nave è sbattuta dal vento;

«chi ha sorte migliore? Si va, si combatte e nel giro di un’ora arriva la morte o l’allegra vittoria».

Dal cliente svegliato al primo canto del gallo, l’avvocato invidia la sorte

del contadino. Questi, strappato dai campi e portato in città per qualche cauzione,

dichiara che solo è felice chi vive nell’urbe. Ma, in breve, ascolta la conclusione.

Se a questa gente un Nume dicesse: «Va bene, son pronto a darvi ciò che volete:

tu eri soldato, sarai mercante; tu, sin qui avvocato, ora sarai contadino; si faccia

il cambio, voi da una parte, voi dall’altra. Ma che succede? Nessuno si muove?»

Non se la sentono. E potrebbero essere felici. A questo punto, non avrebbe ragione

Giove a sdegnarsi, sbuffare, e proclamare che d’ora in avanti mai più darà retta

ai desideri degli esseri umani? È ora però di concludere la farsa; bando agli scherzi

e parliamo seriamente - ma che c’è poi di male a dire la verità sorridendo? Talvolta,

i buoni maestri danno biscotti ai ragazzi per indurli a imparare l’alfabeto -,

guarda quello là sfiancato sotto l’aratro, l’oste imbroglione e il soldato, e gli audaci marinai

che sfidano le onde; dicono tutti di sobbarcarsi questi disagi per poter ritirarsi

da vecchi al meritato riposo, quando avran messo da parte il necessario per vivere:

come fa la formica, citata ad esempio, piccola e laboriosa, che quanto può

con la bocca trascina e lo aggiunge al mucchietto che va costruendo, tanto esperta quanto attenta al futuro.

Questa, però, come giunge l’inverno, non c’è verso che esca dal buco:

saggia, smaltisce quel che ha messo da parte; te, invece, non ti tolgono

dai tuoi traffici né i bollori dell’estate né il gelo invernale; non c’è fuoco né mare

né spada che ti fermi: finché ci sia un altro più ricco di te. Ma che ti giova occultare là sotto,

tutto tremante, l’oro e l’argento a palate? «Comincialo a spendere, ti ritroverai senza una palanca».

Ma se non lo spendi, che gusto ti dà questa montagna di soldi? Poniamo che il tuo podere produca

centomila sacchi di grano: non per questo il tuo ventre conterrà più del mio; che tu sia uno

schiavo robusto e ti venga affidata la cesta del pane: non per questo avrai una parte maggiore di quello che

non ne ha portato. Ma dimmi, per chi vive nei limiti della natura, che gli importa arare cento iugeri o mille?

«Pure, è tanto piacevole pigliare da un mucchio ben grosso». Purché possa cavare

altrettanto da uno piccino, che senso ha vantare i tuoi granai più dei miei canestri? Sarebbe come, bastando per dissetarti un’anfora

o una tazza d’acqua, tu dicessi: «Ebbene, io preferisco bere da un fiume piuttosto

che da un ruscello». Ma attento, perché questo accade a chi vuol più dell’onesto:

c’è da esser rapiti e trascinati via con la riva nei gorghi rapaci dell’Ofanto.

Chi si contenta di quel che gli basta non beve l’acqua sporcata dal fango, né rischia

la pelle tra le onde. Eppure, quanti ingannati da una falsa passione, dicono:

«I soldi non bastano mai: tanto vali quanto possiedi». Cosa vuoi fargli? Lasciali stare, sono contenti così.

Come quel tale di Atene - di cui si racconta - ricco sfondato

e spilorcio, che si consolava delle critiche della gente dicendo: «Questi mi fischiano,

ma io mi batto le mani, a casa, davanti ai forzieri ricolmi». Non sai a che serve

il denaro, a quali usi si presta? Serve a comprarci il pane, i legumi, un quartino

di vino e le altre cose la cui privazione addolora. A che giova, invece, stare

in guardia, notte e giorno, col respiro sospeso, temendo tranelli di ladri, incendi,

servi che ti svuotino la casa e fuggano? Ti confesso che di questi servigi cercherò sempre di fare a meno.

E se ti ritrovi un giorno a letto, colto dai brividi o dai dolori o da qualche altro accidente, c

hi vuoi che ti assista, ti prepari i decotti, vada a chiamare il medico perché ti risani?

Neppure tua moglie o tuo figlio ti voglion guarito: i vicini, i conoscenti ti odiano.

E stupisci che nessuno ti porti quell’affetto che non sai meritare, proprio tu, che anteponi

il denaro a tutte le cose? E allora falla finita con questa sete di denaro: per avere di più,

devi meno temer la miseria; e ottenuto quanto desideravi, mettiti in pace. Se ti esorto a non essere avaro, non ti invito a far

lo sciupone. In tutte le cose c’è un limite, vi son dei confini: prima e dopo questi,

si è fuori della giusta misura [aurea mediocritas]. Torniamo ora là da dove siamo partiti:

a chiederci perché nessuno, avaro, è contento, e invidia piuttosto la sorte degli altri

e soffre se la capretta di uno ha più latte e non si confronta con tutti quelli - la maggioranza -

che sono più poveri di lui, ma smania per superare questo o quello. Così, per correr che faccia,

si trova sempre davanti uno più ricco di lui, come l’auriga che, partito il cavallo al galoppo,

incalza i cocchi che lo hanno superato, e ignora quello che, indietro, fra gli ultimi arranca. Ecco perché ben di rado riusciamo

a trovare qualcuno che ammetta d’essere stato felice e, finito il suo tempo, se ne vada tranquillo,

come un ospite sazio. Ho concluso: parola di più non aggiungo.

     Orazio conclude affermando: “parola di più non aggiungo”, vale a dire “la parola ha detto la cosa”.

     Manca poco al termine di questo viaggio e cominciamo a capire che stiamo assistendo all’assemblaggio di una serie di temi fondamentali che caratterizzano la fine dell’Età antica. Abbiamo già preso coscienza del fatto che il tema dominante, nel momento in cui stiamo per entrare in contatto con quel territorio che è stato denominato del “tardo antico”, è quello del “trionfo della Morte” [il trionfo presuppone anche l’allegria, quindi non disperiamo!]: Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio [un quintetto significativo] coltivano con grande determinazione questo argomento significativo e suonano [se possiamo usare questa metafora], ciascuno col suo stile, una stessa sinfonia formata da una serie di temi comuni [l’esilio, l’amore e l’odio, il sonno e il sogno, la malattia del corpo e dell’anima, il trionfo della Morte].

     Altro tema predominante [e lo abbiamo citato ora] – messo a fuoco nel momento in cui stiamo per entrare in contatto con il territorio del “tardo antico” – è quello della “malattia [tanto del corpo quanto, e soprattutto, dell’anima]”. La “malattia dell’anima” in Orazio – ma anche negli altri quattro personaggi che abbiamo citato [Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Ovidio] – consiste nel trovare difficoltà ad applicare quella moderazione così insistentemente additata come principio di saggezza e formula per la serenità, ma non è facile applicare l’aurea mediocritas [la giusta misura] o l’aequus animus [l’equilibrio morale]!

     In una delle sue Epistole – Le Lettere [Epistole] di Orazio sono state raccolte in due Libri, il primo ne contiene venti, il secondo tre –, l’undicesima del Primo Libro, indirizzata ad un certo Bullazio reduce da un lungo viaggio in Asia Minore, Orazio critica l’ansia frenetica che spinge i suoi concittadini a spostarsi in terre lontane, alla ricerca di una felicità che consiste invece nell’apprezzare quanto abbiamo vicino, a portata di mano. L’essere umano è preda di una “malattia dell’animo” a cui Orazio dà una definizione quanto mai efficace: “instancabile inettitudine [strenua inertia]”. Un’instabilità, un’irrequietezza insoddisfatta di cui lo stesso Orazio si riconosce vittima perché ciò che rimprovera a Bullazio accade anche a lui, e scrive nell’ottava Epistola: «Seguo ciò che mi ha fatto male, fuggo ciò che credo mi gioverebbe: a Roma amo Tivoli, a Tivoli, mutevole come il vento, amo Roma». Orazio è il primo poeta ad aver confessato, in modo palese, di soffrire di una “malattia dell’animo” che oggi chiamiamo genericamente depressione, alla quale lui dà il nome di “torpore mortale [funestus veternus]”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete fatto l’esperienza di provare un “funestus veternus [il torpore mortale dell’essere depresse e depressi]” e come avete combattuto questa “malattia dell’anima”?...  

Scrivete quattro righe in proposito...

     Ma ora, in proposito, ascoltiamo che cosa scrive Orazio sempre nell’ottava Epistola del Primo Libro inviata a Celso Albinovano.

LEGERE MULTUM….

Quinto Orazio Flacco,  Epistole  Libro Primo, 8  3-10

Dopo tante e belle promesse non vivo né come dovrei né come mi piacerebbe, non perché la grandine mi abbia pestato le viti o il caldo mi abbia bruciato gli olivi, né perché in pascoli lontani mi si sia ammalato l’armento, ma perché, infermo nella mente più che in ogni parte del corpo, non voglio ascoltare nulla né sapere nulla che mi allevii il male, mi urto coi medici fidati, mi infurio con gli amici perché si affannano a togliermi da questa funesta apatia [funestus veternus, da questa depressione].

     È importante constatare come Orazio sappia riconoscere le proprie debolezze e le proprie incoerenze, invitando il lettore a non fare del moralismo ma piuttosto “l’esame di coscienza”, ed è proprio per questa sua capacità di guardare dentro di sé e di mettere a nudo i suoi difetti che Orazio si mostra abile nel tratteggiare i vizi altrui, che sono anche i suoi, e che vorrebbe combattere prima di tutto in se stesso. Oltre alle malattie dell’anima Orazio ci ricorda che ci sono anche i reumatismi del corpo che ci fanno soffrire.

     Virgilio [la scorsa settimana] ci ha fatto incontrare il personaggio di Palinuro, il timoniere di Enea [una delle figure più caratteristiche dell’Eneide]. Se facciamo un’escursione nel Cilento, dopo aver oltrepassato capo Palinuro [e reso omaggio al più famoso tra tutti i timonieri], incontriamo una cittadina [un ex villaggio di pescatori] che si chiama Marina di Ascea. Chissà se le acque del mare di Marina di Ascea [osservatela sulla carta geografica della Campania] sono ancora così salutari come lo erano qualche anno fa?. A questo proposito abbiamo notizia che il medico di Augusto, Antonio Musa, consiglia ad Orazio di andare proprio in questa zona a fare i bagni per curarsi i reumatismi, e troviamo traccia di questa prescrizione in una delle famose Odi di Orazio intitolata Alla nave che però, in realtà, contiene una metafora dedicata al suo mal di schiena [ai suoi dolori reumatici]: questa nave è l’immagine allegorica del suo corpo malandato, dolorante e bisognoso di cure. Leggiamo quest’Ode:

LEGERE MULTUM….

Quinto Orazio Flacco,  Odi

ALLA NAVE

Altri flutti riporteranno al largo la mia nave. Che fai, nave? Guadagna in fretta

il porto. Non ti accorgi che i remi sono infranti, l’albero s’incrina in balìa dei venti,

cigolano le antenne, e senza trinche a stento può resistere alla furia delle onde

la tua chiglia? Non hai vele da issare, non dèi da invocare nella tempesta.

Sei fatta col legno del Ponto, è legno di una nobile foresta ma non serve che vanti

il nome e le origini perché saresti alla mercé dei venti quando Eolo decide di far festa.

L’innocente nocchiero Palinuro, ingannato dal dio Sonno, non si affida più

ai colori della sua tenace veglia. Se puoi, nave, evita le rotte ardite tra le splendenti Cicladi:

ti aspetta il mare tranquillo e salutare della splendente e generosa Velia.

     Le Odi di Orazio sono 103 carmi [Carmina] suddivisi in 4 Libri scritti utilizzando 24 tipi differenti di versi. Nelle Odi il poeta espone il proprio mondo interiore e la sua visione della vita. Gli argomenti principali trattati da Orazio nelle Odi riguardano soprattutto quei temi esistenziali che abbiamo già citato e che corrispondono al glossario delle parole-chiave con cui la Storia del Pensiero Umano esce [diciamo così] dall’Età antica per entrare in una nuova era: l’esilio, l’amore e l’odio, il sonno e il sogno, la malattia del corpo e dell’anima, il trionfo della Morte. Leggiamo, in proposito, la famosa Ode a Torquato:

LEGERE MULTUM….

Quinto Orazio Flacco, Odi

A TORQUATO

La neve si dilegua e tornano l’erba nei campi, sugli alberi le foglie;

muta aspetto la terra e i fiumi in stanca scorrono fra le rive; la Grazia allora gioca

a guidare ignuda la danza delle sorelle e delle ninfe. Non illuderti d’essere immortale,

t’ammoniscono gli anni e i giorni che passano in un attimo. Mitiga il vento il gelo

a primavera e questa la estingue l’estate che fugge, poi quando l’autunno avrà dato

i suoi frutti e le biade, torna l’inverno senza vita. Ma rapida la luna ripara i danni

del cielo: noi quando cadiamo nel buio, dove si trovano il padre Enea, Anco

e il ricco Tullo, non siamo che polvere e ombra. E non sappiamo se gli dèi del cielo aggiungeranno

un domani ai nostri giorni. Tutto ciò che per tua gioia avrai concesso

a te stesso sfugge all’avida mano dell’erede. Al tuo tramonto, Torquato, pronuncerà Minosse su te

chiara sentenza e non ti riporteranno in vita né la stirpe, né la bella parola, né la fede:

mai dalle tenebre infernali Diana libera il puro Ippolito,

né Teseo può spezzare a Pirítoo, per quanto l’ami, le catene del Lete.

     Ovidio ha scritto: «Orazio con i suoi ritmi perfetti affascina le mie orecchie mentre fa suonare i suoi canti raffinati sull’italica cetra». Ed è proprio in compagnia di Ovidio – il quale nella prima parte del nostro Percorso ci ha accompagnate ed accompagnati soprattutto con l’opera intitolata Fasti – che ci avviamo a portare a termine questo terzo viaggio sul territorio della sapienza poetica ellenistica.

     Di Ovidio – nostro compagno di viaggio da oltre un quarto di secolo – sappiamo quasi tutto, ora lo incontriamo nel momento in cui partecipa [con Cicerone, con Lucrezio, con Virgilio, con Orazio] a traghettare la nostra carovana verso una nuova era che non è ancora l’Età di mezzo ma che non è più l’Età antica. Basterebbe dire [ancora una volta] che l’opera di Ovidio intitolata Le metamorfosi è considerata il primo “romanzo” di una stagione intellettuale che si colloca ormai al di là dell’Età antica. In quale stagione compare l’opera intitolata Le metamorfosi di Ovidio?

     Molte e molti di voi sanno – perché erano presenti – che nel dicembre del 2003 questa Scuola ha organizzato una piccola manifestazione culturale per festeggiare i 2000 anni de Le metamorfosi di Ovidio. Esiste un codice medioevale, intitolato Ovidianus 4754, conservato nell’archivio della Biblioteca Vaticana – quindi accessibile a tutti – che contiene un frammento sul quale si legge: «L’opera di Ovidio, Le metamorfosi, è comparsa in Roma, nel periodo del Mundus Cereris, dell’anno 755 dalla fondazione dell’Urbe, corrispondente all’anno 3 dopo la natività del Signore». Che cosa significa questo? Siccome, nel Calendario romano, il “Mundus Cereris” è il periodo che corrisponde all’Autunno [Cerere è la dèa dei raccolti, e in Autunno – nel Mondo di Cerere – si sistema il grano, il foraggio, il vino, l’olio, le castagne, le noci, i funghi], nel “Mundus Cereris”, vale a dire nell’Autunno dell’anno 3 d.C. compare, a Roma, anche un bel prodotto della Cultura, il testo de Le metamorfosi di Ovidio.

     Ovidio ha dato forma a due figure esemplari che hanno rappresentato una chiave di volta, due figure senza le quali la cultura occidentale non sarebbe stata la stessa. Ovidio ci ha lasciato in eredità due grandi idee-cardine esemplari: la prima è quella della “trasformazione”, idea contenuta ne Le metamorfosi. Questa idea si è intrufolata nel mondo della Cultura e lo ha positivamente condizionato e quanti esempi potremmo fare! Tutte e tutti voi avete probabilmente visto il gruppo scultoreo Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini [siamo nel 1625], si tratta di uno dei capolavori non solo della scultura barocca ma anche dell’arte universale. Questo capolavoro si trova nella Galleria Borghese a Roma [potete osservarlo subito in rete] e le studiose e gli studiosi di filologia dicono che, senza Le metamorfosi di Ovidio, non ci sarebbe il barocco, non ci sarebbe la scultura barocca, oggi giustamente rivalutata. Senza Le metamorfosi di Ovidio non ci sarebbero le opere di Shakespeare, o ci sarebbe uno Shakespeare tutto diverso. Probabilmente non ci sarebbe nemmeno il famoso racconto di Kafka intitolato La metamorfosi: lo avete letto?

     Esiste un lungo romanzo di Hemingway che s’intitola Il giardino dell’Eden – cercatelo in biblioteca – che è stato pubblicato, per la prima volta, nel 1990, dopo essere stato devastato dall’editoria, che lo ha tagliato riducendo del 30% il manoscritto originario e, intorno ai tagli operati su questo romanzo di Hemingway, è nata una violenta polemica, ma sappiamo come si ragiona in editoria: la gente legge poco e, se compra, vuol comprare cose brevi [si vuol far cassa più che cultura]! Chi legge questo romanzo di Hemingway nella stesura integrale, depositata a Boston, scopre che, la parte ingiustamente amputata, contiene la storia di una metamorfosi: una storia che comincia con lo stupore della protagonista, Caterina, la quale rimane scioccata di fronte ad una statua di Rodin che si trova al Museo del  Prado a Madrid, una statua ispirata a Le metamorfosi di Ovidio. Si capisce che – in ogni epoca – non si può fare a meno de Le metamorfosi di Ovidio. Perché, non se ne può fare a meno? Il fatto che non se ne possa fare a meno non sorprende. Quello della “metamorfosi” è un mito penetrante, persuasivo, e soprattutto confortante [legato alla speranza di cambiamento]. Il mito della “metamorfosi” ci rassicura: tutto cambia ma nulla muore, nulla scompare nel nulla, nulla si dissolve, nulla si decompone. Scrive Ovidio: «Come può l’essere non essere più una volta che sia stato?». Non può e, difatti, continua ad esistere, solo che si trasforma, e noi dobbiamo essere disponibili a trasformarci, ad evolverci. Solo la “metamorfosi” ci permette di uscire dal bozzolo, di mettere le ali e di volare nel cielo della conoscenza perché la “metamorfosi” e la “conoscenza” sono intimamente legate tra loro. L’opera Le metamorfosi di Ovidio contiene [nelle storie che racconta e nella forma con cui le racconta] un’esaltazione, non banale, non immotivata, dell’inesauribile vitalità dell’intelletto, dell’inesauribile capacità di imparare che ha l’essere umano.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale parola vi fa venire in mente l’espressione “inesauribile capacità di imparare”?... 

Scrivetela...

     Molti racconti de Le metamorfosi li conosciamo [li abbiamo letti insieme in questi anni]: Filemone e Bauci, Apollo e Dafne, Cadmo e Armonia, Cerere e Proserpina, Orfeo ed Euridice, Perseo e Andromeda, tutte le figure [o tutte le posizioni] che assume Zeus, il più grande amatore trasformista della Storia della Letteratura. E Cicno tramutato in cigno e le Eliadi trasformate in pioppi.

     Ovidio, poi, mentre ci racconta le storie delle trasformazioni di questi mitici personaggi, gioca soprattutto con le “trasformazioni delle parole”. Che cosa significa giocare con le trasformazioni, con la metamorfosi delle parole? Prima di tutto significa che l’integrazione tra la cultura greca e quella latina è definitivamente avvenuta: integrazione significa soprattutto contaminazione intellettuale e l’esercizio della contaminazione intellettuale è un esercizio di trasformazione [di metamorfosi] per eccellenza. Ovidio, non si limita a raccontare la trasformazione [in rocce, in alberi, in animali] di una serie di personaggi mitici della cultura greca, ma gioca soprattutto con la trasformazione delle parole per sfruttare i molteplici significati che le parole posseggono. Ovidio, giocando sulla trasformazione delle parole, utilizzando il gioco di parole [secondo una tradizione letteraria che abbiamo studiato nel corso di questo viaggio e che risale agli albori della Letteratura latina], vuole lanciare dei messaggi che vadano al di là delle mura di Roma: mura blindate sotto il potere di Augusto, un potere che, spesso, agisce contro la natura e contro la cultura.

     Ovidio scrive ne Le metamorfosi che la creazione del nostro mondo, non è una creazione “ex nihilo [dal nulla]”, ma è una creazione “ex Nilo” [dal Nilo], il fiume che attraversa l’Egitto. Che cosa c’entra il Nilo? Che significato ha questo metaforico gioco di parole: non “ex nihilo”, ma “ex Nilo”? Gli esseri umani sono chiamati a “creare il mondo” – Ovidio intende dire “chiamati a promuovere cultura” – non “dal nulla [ex nihilo]” ma valutando ciò che c’è già, di bene e di male, nella Natura. Il fiume Nilo – per esempio – con le sue piene regolari, che hanno reso molto fertile quel territorio, ha ispirato agli Egizi il senso dell’ordine, della rettitudine, della giustizia [La parola-chiave Maat], e nel Nilo [ex Nilo] natura e cultura s’incontrano. Le feconde piene regolari fanno del Nilo un fiume ordinato, giusto e retto: l’imperatore romano utilizza la natura e la cultura per fare altrettanto? L’ordine, la rettitudine, la giustizia [queste parole non possono stare separate tra loro] non nascono “ex nihilo [dal nulla]”, ma “ex Nilo”, da ciò che c’è già di buono in Natura. Il concetto dell’ordine, della rettitudine, della giustizia è già presente [ex Nilo] nelle manifestazioni, nelle trasformazioni, nelle metamorfosi della Natura. La “cultura della legalità” – suggerisce Ovidio con il suo gioco di parole – non nasce dal nulla ma dal fatto che l’ordine, la rettitudine e la giustizia sono valori radicati nella Natura e molto spesso l’ordine che scaturisce dal potere imperiale scombussola questo principio. Dicono le studiose e gli studiosi di filologia che i giochi di parole creati da Ovidio ne Le metamorfosi esprimono un profondo disagio, un disagio che nasce da una domanda: perché Augusto, per motivi di potere, va spesso “contro natura”, affossando la cultura della legalità, tanto da sacrificare in modo spregiudicato i suoi amici più cari, sua figlia, sua nipote?  E Ovidio di giochi di parole nel testo de Le metamorfosi ne crea molti, giocando, con l’assonanza di parole come: numen, flumen, fulmen, lumen. O, per esempio, giocando con la parola “populus”. Quanti significati ha la parola latina “populus”? La parola latina “populus” vuol dire “popolo” ma anche “pioppo” e il verbo latino populari, che sembra così innocuo, vuol dire: devastare, saccheggiare, distruggere [e conosciamo questo concetto attraverso Gli anelli di Saturno, che è il titolo di un’ opera del prof. Sebald che conosce bene Le metamorfosi di Ovidio].

     I giochi di parole [lo sapevano già i primi scrittori del  teatro latino] sono giochi pericolosi. Lo scrittore Samuel Beckett, parafrasando [come fa Hermann Broch] il Prologo del Vangelo secondo Giovanni ha scritto: «In principio era il gioco di parole: perché al principio non corrisponde tanto la parola, il logos, ma piuttosto corrisponde un equivoco verbale». Che cosa intendeva dire con questa affermazione Samuel Beckett? Intendeva dire che, per lo scrittore del Prologo del Vangelo secondo Giovanni [uno dei testi fondamentali della cultura occidentale] la Parola, il Logos, non è semplicemente una parola, ma corrisponde addirittura al Figlio di Dio, ad una persona divina, a Gesù Cristo. In principio, quindi – insiste Samuel Beckett – non è la parola, ma è il gioco di parole a caratterizzare la cultura occidentale. Quando si gioca con le parole si trasgredisce sempre un po’. Non abbiamo nessuna difficoltà a capire che Ovidio – giocando con le assonanze delle parole – quando racconta, in versi, la metamorfosi di un “populus [un pioppo]” trasformato in un “populus [un popolo]” che trasforma tutto con un “populari [un devastare]”, intende porre il problema epocale della necessaria riflessione [della doverosa autocritica] sul fatto che il  “populus romanus” è stato anche un popolo di devastatori, un popolo di saccheggiatori e tutte le volte che Ovidio utilizza l’immagine poetica dei “pioppi fluttuanti al vento” ci fa riflettere su come la costruzione dell’impero sia frutto della distruzione che richiama la distruzione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Dove ricordate di aver visto dei pioppi fluttuanti al vento?...

Scrivete quattro righe in proposito ...

     L’aver coltivato la distruzione [populari] ha generato un clima che ha prodotto: l’esilio, la malattia, la voglia di fuggire nel sonno, il trionfo della Morte”, e questi sono i concetti che emergono alla fine dell’Età antica quando l’imperialismo romano raggiunge il suo apice ed inizia una lenta e drammatica decadenza. I temi esistenziali, che emergono alla fine dell’Età antica, su cui riflettere per guardare, con spirito critico, verso una nuova era sono davvero pesanti perché come scrive Hermann Broch nel romanzo intitolato La morte di Virgilio: «L’imperialismo romano non è dotato della leggerezza dell’essere ma bensì della inesorabile pesantezza dell’avere» [Questa citazione ci fa capire perché uno dei più grandi estimatori di Hermann Broch sia stato lo scrittore Milan Kundera autore del romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere].

     Sappiamo che anche il testo de Le metamorfosi di Ovidio contiene una profonda insofferenza per la politica imperialista di Augusto: il fondatore dell’impero romano è stato uno degli uomini di potere più spregiudicati che siano mai esistiti [è il “prodotto di sintesi” di cinque secoli di imperialismo] e il testo de Le metamorfosi contiene una profonda insofferenza per il modo in cui Augusto amministra l’imperium.

     Abbiamo detto che Ovidio ci ha lasciato in eredità due figure esemplari, la prima – e ne abbiamo parlato – è la figura della “trasformazione”, la seconda figura che Ovidio ci ha lasciato in eredità [così come ha fatto Vigilio] è quella dell’esule nel senso del confinato politico che scopre il valore della patria nella propria interiorità e che impara ad identificare come “patria” il luogo [qualunque luogo] in cui si coltiva l’humanitas. Ovidio – e troppe volte lo abbiamo ripetuto – un bel mattino dell’anno 8 d.C. riceve la comunicazione [dalla pretura imperiale] che deve allontanarsi da Roma immediatamente se non vuole che gli succeda qualche brutto incidente: deve partire subito per un luogo che non ha mai sentito nominare, per un villaggio fortificato di nome Tomi situato ai confini dell’impero sulla costa del mar Nero [dell’odierna Romania] a sud del delta del Danubio. Ma tutti i particolari di questo avvenimento li conoscete perché molte e molti di voi avete letto il bel romanzo di Vintila Horia intitolato Dio è nato in esilio. Perché Ovidio è stato mandato in esilio? Forse c’era da aspettarselo: con tutti quei pericolosi giochi di parole! Perché i giochi di parole non sono mai solamente delle licenze poetiche ma sono, quasi sempre, manifestazioni di “dissenso”. Tanto l’opera poetica quanto l’esperienza tragica di Ovidio [l’esilio diventa una vera e propria esperienza di metamorfosi] è un esempio inequivocabile di “dissenso” nei confronti del potere imperiale che non tollera alcuna forma di trasformazione perché tende a cristallizzare la realtà per padroneggiare il destino delle persone. Ma nessuno può imbrigliare il destino – afferma Ovidio – perché il destino coincide con la trasformazione, si identifica con la metamorfosi perenne. La condanna di Augusto trasforma Ovidio nella figura dell’esule per eccellenza: Enea è la metafora dell’esilio, Ovidio è l’esilio personificato che sa dare a questa tragica esperienza un notevole spessore letterario attraverso le opere – i Tristia [Tristezze] e le Epistulae ex Ponto [Lettere dal Ponto] – che scrive a Tomi. Ovidio non tornerà mai più a Roma, muore e scompare a Tomi intorno al 17 d.C., dopo aver saputo trasformare se stesso in una persona consapevole dei propri limiti, e consapevole del fatto che, al di là dei confini dell’impero, c’è un altro mondo.

     Ovidio si rende conto che altre culture affascinanti, altri linguaggi significativi, esistono alla periferia e oltre i confini dell’impero: l’universo mondo non è racchiuso dentro al recinto dell’Impero. Perché Ovidio è stato mandato in esilio? Quale “scelus [scelleratezza]” ha compiuto, quale “error [errore]” ha commesso, di quale “crimen [crimine]” si è macchiato? Il fatto è che Ovidio, fa giocare spesso la parola “crimen [il crimine]” con la parola “lumen [la luce, l’occhio]”. Ovidio domanda provocatoriamente: «È un crimine essere curiosi, è un crimine voler fare luce?». E il voler “fare luce [l’espressione: “Sia la luce!”] non è forse uno degli atti creativi per eccellenza? Nel terzo libro dei Tristia [Tristezze] leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Publio Ovidio Nasone, Tristia

Sono stato condannato perché i miei occhi hanno visto cose - hanno fatto luce

su cose [Inscia quod crimen viderunt lumina] - che non dovevano vedere.

     Ovidio ha visto molte scene che avrebbe dovuto far finta di non vedere, ha sbirciato e ha aperto gli occhi su uno scenario proibito: sui soprusi e sui danni causati dall’imperialismo [ed è questo il tema del significativo esame di coscienza che farà l’imperatore Adriano che incontreremo nel prossimo viaggio sul territorio dell’Età tardo-antica quando, oppresso dall’angoscia, si domanda: «A che cosa è servito aver conquistato il mondo, spargere tutto questo sangue?» e lui sarà obbligato a spargerne ancora]. Ovidio – in sintonia con il suo nome completo: Publio Ovidio Nasone [Publius Ovidius Naso] – ha ficcato il naso dove non doveva [ad ottobre, quando ripartiremo per un nuovo viaggio capiremo in quante situazioni equivoche, vivendo a contatto con la famiglia di Augusto, ha potuto, anche involontariamente, mettere il naso] e Ovidio – nelle sue opere [con il sofisticato metodo del gioco di parole] – ha manifestato la sua disapprovazione nei confronti di un sistema che genera parole-chiave pesanti, parole-chiave indigeste. Ovidio, con la sua “sapienza poetica”, raccoglie idee indigeste e apre la cosiddetta “stagione del dissenso” che andrà manifestandosi nel pensiero [poetico-filosofico] dei personaggi che incontreremo, strada facendo, sul territorio che attraverseremo nel prossimo viaggio per il quale partiremo in autunno.

     Dal punto di vista culturale l’Età antica termina – lasciando spazio ad una vasta area alla quale è stato dato il nome di “Tardo-antico” – con l’inizio della vera e propria crisi [materiale e morale, economica e sociale] dovuta ai modi imposti dall’imperialismo romano: modi che fanno emergere una serie di parole-chiave emblematiche. Il catalogo delle parole-chiave che prende forma alla fine di questo viaggio comincia a manifestarsi – come abbiamo studiato –, soprattutto, nel repertorio delle opere di Cicerone, di Lucrezio, di Virgilio, di Orazio, di Ovidio, i quali fanno emergere il “glossario dei termini” con cui viene a determinarsi l’inizio di un cambiamento epocale perché, con il Percorso di quest’anno siamo arrivate ed arrivati anche al termine di quella che è stata chiamata l’Età antica.

     I concetti e le parole-chiave, piuttosto indigeste, che determinano la fine dell’Età antica sono: l’esilio, il desiderio alienante di sonno per fuggire nel sogno, la vacuità dell’amore, la malattia [soprattutto dell’anima] come condizione per immaginare la discesa agli Inferi e il trionfo della Morte. Il “Tardo antico” inizia quando le persone che leggono, che scrivono, che riflettono, che studiano pensano che questi concetti e queste parole-chiave, generate dalla pesantezza dell’imperialismo romano, debbano essere interpretate con uno spirito di rinnovamento e di cambiamento e allora si comincia a pensare all’esilio come esperienza che insegna ad identificare come “patria” il luogo in cui si coltiva l’humanitas, si comincia a pensare al desiderio di risvegliarsi dal sonno per interpretare il sogno, si comincia a pensare all’amore come gesto materiale di aiuto, si comincia a pensare alla malattia [del corpo e dell’anima] come percorso nel territorio del sacro e si comincia a pensare alla guarigione come tradimento nei confronti di chi soccombe e, infine, si comincia a pensare che il trionfo della Morte possa essere contrastato [con l’anastasia] con la buona notizia della risurrezione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Questi sono i grandi temi esistenziali [indigesti quanto si vuole ma di capitale importanza per dare un senso all’esistenza] che ci portano dentro ad un nuovo territorio che dovremo attraversare con il nostro prossimo viaggio…

     Quando si riparte [quando si dovrebbe ripartire]?

     Si riparte mercoledì 10 ottobre alla Scuola “Francesco Redi” di Bagno a Ripoli [alle 20.30], giovedì 11 ottobre alla Scuola “Primo Levi” di Tavarnuzze-Impruneta [alle 20.30] e venerdì 12 ottobre a Firenze [alle 17.00] ma in quale Scuola non lo sappiamo ancora nonostante ci siano già più di cento iscritti.

     Per questo [per promuovere un Percorso di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura], come è tradizione, è stato preparato – per il ventinovesimo anno di questa esperienza – un pro-memoria [sotto forma di volantino che contiene il come, il dove, il quando e il perché di questa offerta formativa]: prendetelo in considerazione e diffondete le notizie che contiene, e divulgate l’idea che: imparare ad apprendere è un diritto da garantire e un dovere a cui ottemperare.

     Buona vacanza di studio [per leggere, per scrivere, per riflettere] a tutte e a tutti voi!

     Arrivederci ad ottobre, ma c’è ancora un itinerario di carattere conviviale [il 1° giugno a Firenze e il 7 giugno ad Impruneta] nel corso del quale ci sarà la ventottesima Lezione: una Lezione di pochi minuti ma pur sempre una Lezione con Marco Tullio Cicerone come protagonista…

 

 

IN APPENDICE  ...

     Dedichiamo questa ultima Lezione a Melissa Bassi la nostra compagna di Scuola dilaniata da una esplosione sabato mattina davanti all’Istituto Francesca Morvillo Falcone di Brindisi.

     Di fronte a questo fatto ci chiediamo costernate e costernati: Perché la morte violenta degli innocenti? La Scuola non ha una risposta univoca da dare, ma ha tuttavia un compito istituzionale: quello di porre la questione in termini di riflessione esistenziale in modo che ciascuna e ciascuno di noi, che apparteniamo alla comunità educante, possa – secondo la propria esperienza, la propria fede, i propri ideali, la propria rabbia – cercare nei propri pensieri una ragione, un senso, un non-senso, una non-rassegnazione.

     Questo tragico fatto c’insegna – ma perché, mi domando, dobbiamo impararlo in questo modo violento? – che è più che mai necessario ribadire il dettato dell’art. 34 della Costituzione che dice La Scuola è aperta a tutti., ed è, quindi, più che mai doveroso che tutte le cittadine e i cittadini si approprino e frequentino la Scuola.

     Che questa nostra giovanissima compagna di Scuola – la quale è morta in un incomprensibile, intollerabile, ingiustificabile e vile atto di guerra – possa riposare in pace…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 25, 2012