Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale 16-17-18 maggio 2012
NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE
C’È IL SENTIMENTO DI PIETÀ [PIETAS] PER I PERDENTI ...
Anche questo viaggio [il 28° di questa esperienza didattica] – che ci ha permesso, quest’anno, di attraversare il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” – sta per concludersi: questo è il penultimo itinerario.
Siamo arrivati ad una chiave di volta di questo viaggio perché il fenomeno che caratterizza la cosiddetta “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”, e che è legato al processo di integrazione tra la cultura greca e la cultura latina [come abbiamo studiato], si complica ancora di più perché altre idee, provenienti da significativi movimenti culturali che investono in intelligenza – i movimenti filosofici post-ellenistici, il movimento [filo-traduzionista e contro-traduzionista] che traduce i Libri dell’Antico Testamento in greco, il nascente movimento della Letteratura dei Vangeli – ebbene, le idee provenienti da questi significativi movimenti di pensiero [idee, in parte, da noi già studiate in questi anni, e in parte ancora da studiare prossimamente] intervengono a condizionare ulteriormente l’incontro tra la cultura ellenica che si esprime in greco e quella romana che si esprime in latino, e con la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C. la lingua greca e la lingua latina sono destinate a rappresentare due dei più importanti apparati comunicativi della Storia del Pensiero Umano: due ricchi e fecondi dispositivi culturali che spesso saranno solidali tra loro [si abbracceranno amorevolmente] ma altrettanto spesso rappresenteranno fenomeni intellettuali contrastanti [e si respingeranno con odio]. Ma dobbiamo procedere con ordine per non ingarbugliare la grossa matassa che è andata formandosi seguendo il filo di questo Percorso, ma voi capite che stiamo già guardando oltre: già si palesa la prospettiva di partire [dopo la pausa estiva, all’inizio dell’autunno] per un nuovo viaggio.
Con le opere di Cicerone, di Lucrezio [li abbiamo incontrati], di Virgilio [lo stiamo incontrando], di Orazio [lo incontreremo prossimamente], di Ovidio [lo rincontreremo] il clima culturale e, di conseguenza, la mentalità nell’ambito della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” cambia sensibilmente i propri connotati e questo cambiamento lo si misura anche attraverso il testo di un poema che s’intitola Eneide e che viene considerato [l’annotazione è di Gerolamo] “l’ultimo poema dell’età antica e, contemporaneamente, il primo poema di una nuova era” che sta iniziando e che porta la Storia del Pensiero Umano al di là dell’Ellenismo verso un altro territorio, verso nuovi paesaggi intellettuali, verso l’Epoca post-antica.
L’Eneide è l’opera più famosa di Virgilio, e con Virgilio – e con le due importanti opere intitolate Bucoliche e Georgiche – abbiamo già fatto conoscenza nell’itinerario della scorsa settimana. Publio Virgilio Marone è tornato in auge recentemente tra le studiose e gli studiosi di filologia come autore dell’Eneide, perché l’Eneide, in questo momento, risulta essere un’opera che tocca argomenti di stringente attualità, ed è proprio per questo motivo che il prof. Vittorio Sermonti [che molte e molti di voi conoscono per il suo commento, parola per parola, della “Divina Commedia” di Dante] ha deciso di tradurre questo poema e di presentarlo come se fosse un romanzo contemporaneo perché le canoniche traduzioni dell’Eneide sono tutte piuttosto datate e utilizzano un linguaggio ormai desueto, soprattutto una lingua che, praticamente, non parlava nessuno [forse la traduzione più vivace è quella di Giacomo Leopardi eseguita da adolescente: lui si divertiva così!]. Pensiamo alla più famosa traduzione dell’Eneide – sulla quale ancora oggi si studia questo poema –, la traduzione di Annibal Caro, che è di per sé un capolavoro letterario, perché traduce Virgilio in versi sciolti molto musicali in una lingua cinquecentesca di stampo rinascimentale.
Annibal Caro è nato nel 1507 in una modesta famiglia a Civitanova Marche, ha studiato a Firenze dove ha servito come precettore in casa Gaddi diventando segretario di monsignor Giovanni Gaddi. A Firenze Annibal Caro ha frequentato i personaggi più famosi del suo tempo, da Giorgio Vasari a Benvenuto Cellini [che lo cita con simpatia nella sua “Vita”], poi si è trasferito a Roma ed è stato a servizio di Pier Luigi Farnese, il figlio del papa Paolo III e, in veste di diplomatico, ha viaggiato instancabilmente per l’Europa presso tutte le Corti più importanti [è entrato in buoni rapporti con l’imperatore Carlo V], poi [quando Pier Luigi Farnese è stato assassinato] è stato a servizio del cardinale Alessandro Farnese, ma nel 1563, stanco e disgustato per la grave situazione politica europea, si ritira dalla scena e va a vivere a Frascati in una casa vicina a quella [il Tusculanum] che era stata di Cicerone, e lì si dedica allo studio, alla scrittura e alla traduzione di testi classici tra cui l’Eneide: termina la traduzione del poema nel 1565 e l’anno dopo, nel 1566, muore.
Il prof. Vittorio Sermonti ha deciso di tradurre l’Eneide con il linguaggio del romanzo contemporaneo perché le vicende raccontate dal poema virgiliano affrontano temi su cui è utile e doveroso riflettere oggi alla luce di ciò che sta accadendo: temi legati alla parole-chiave “patria, esule, migrante”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quali altre tre parole vi fanno venire in mente i termini “patria, esule, migrante”?…
Scrivetele...
Ma procediamo con ordine.
Abbiamo già detto che nell’estate del 29 a.C. Ottaviano torna dall’Asia, dopo la vittoria di Azio, e un mal di gola lo costringe per qualche tempo a star fermo ad Atella [avete fatto – con la guida della Campania – un’escursione ad Atella? Approfittatene, siete ancora in tempo]. Sappiamo che ad Atella Virgilio, alternandosi nella lettura, per quattro giorni di seguito, con Mecenate, fa conoscere le Georgiche ad Ottaviano. Probabilmente è in questa la circostanza che Virgilio comunica a Mecenate e ad Ottaviano di voler comporre un poema che possa celebrare l’impero di Roma. Virgilio infatti aveva cominciato a pensare all’Eneide al cui testo lavorerà per undici anni, fino alla morte.
Nel comporre quest’opera Virgilio procede assai lentamente: la prima stesura forse è stata in prosa e la versificazione procedeva con un ritmo di una decina di esametri ogni mattina, che il poeta giornalmente andava rifinendo e limando come “un’orsa – lui diceva – che lecchi i suoi orsacchiotti per raddrizzar loro il pelo”. Nel 19 a.C. la composizione del testo del poema è quasi terminata, ma nelle intenzioni di Virgilio l’opera non è certo pronta per la pubblicazione: Virgilio è molto pignolo, è un gran perfezionista, è un vero e proprio cultore della “parola [del Logos, in greco, del Verbum, in latino]” e non è soddisfatto del suo lavoro.
A questo proposito Virgilio intraprende anche un viaggio in Grecia, come ci attesta un’ode di Orazio: Virgilio si reca in Grecia per osservare personalmente molti luoghi citati nel suo poema – in particolare nel Libro III, che contiene la narrazione delle peregrinazioni di Enea – per constatare se i “luoghi” sono in sintonia con le “parole”, per capire se geografia e poesia sono in sintonia. Ad Atene Virgilio s’incontra con Augusto che dall’Oriente sta tornando a Roma, e si lascia persuadere, data anche la sua non buona salute, a ritornare con lui in Italia. E, mentre il poeta Sesto Properzio [umbro di nascita e autore di 92 Elegie], dopo aver letto l’Eneide nel Circolo di Mecenate, si lascia prendere dall’entusiasmo e comincia ad annunciare che è stato composto un poema più grande della stessa Iliade, Virgilio sbarca a Brindisi in pessime condizioni di salute tanto che è in fin di vita.
La sensazione di non star bene lui l’aveva avuta ancor prima di partire e aveva infatti raccomandato all’amico Vario Rufo [Vario Rufo e Plozio Tucca sono i suoi esecutori testamentari] di bruciare il manoscritto dell’Eneide, non ancora rifinita, se gli fosse capitato qualcosa [si quid sibi accidisset]. Ora, in punto di morte, rinnova questa preghiera, ma nessuno degli amici presenti alla sua agonia trova [per fortuna] il coraggio di esaudirla: nessuno ha il coraggio di bruciare l’Eneide. Virgilio si spegne il 21 settembre del 19 a.C. a poco più di cinquant’anni, il suo corpo viene [come sappiamo] da Brindisi trasferito a Napoli e viene sepolto sulla via di Pozzuoli.
Naturalmente la morte di Virgilio, e ciò che questo fatto rappresenta in chiave metaforica, è un avvenimento che ha stimolato la riflessione di molte scrittrici e di molti scrittori nei secoli [numerose, come sappiamo, sono le biografie su Virgilio] ed è doveroso citare a questo proposito – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – un famoso romanzo che s’intitola La morte di Virgilio del quale la Scuola non può non favorire la conoscenza, in primo luogo perché è uno dei capolavori della Letteratura del ‘900 [e bisogna sapere che esiste] e in secondo luogo perché non è un testo di facile lettura [e non possiamo non dobbiamo e non vogliamo sempre ripiegare sulle cose facili].
La morte di Virgilio è il titolo di un corposo romanzo composto dallo scrittore austriaco Hermann Broch [1886-1951], che è stato pubblicato nel 1945 contemporaneamente a Zurigo scritto in tedesco e negli Stati Uniti scritto in inglese.
Hermann Broch nasce a Vienna in una famiglia di origine ebraica di industriali tessili e fino a quarant’anni lavora per la più importante compagnia industriale tessile austriaca presieduta da suo padre, ma nel 1928 decide di cambiare stile di vita, comincia a scrivere e a studiare, per questo torna all’Università per dedicarsi soprattutto allo studio della matematica, della filosofia, della psicologia e, contemporaneamente, inizia a lavorare come giudice conciliatore e in un ufficio statale per combattere la disoccupazione che cominciava ad essere una preoccupante piaga sociale: Broch s’impegna nella città in modo frenetico per cercare di risolvere i tanti problemi che affliggono le famiglie degli operai e trova molti momenti di felicità in questa sua “fraterna partecipazione al destino delle persone più bisognose” e coltiva l’idea di conciliare i valori dell’Ebraismo e del Cristianesimo. Inizia a studiare anche l’antropologia e la sociologia orientando, con preoccupazione, il suo interesse verso la psicologia delle masse, la disciplina che comincia ad interessarlo maggiormente nel momento in cui, in politica, va sempre più affermandosi il populismo che condurrà la Germania e poi l’Austria alla perniciosa svolta autoritaria.
Nell’anno 1928 Hermann Broch aveva iniziato a scrivere un grande romanzo [una trilogia, perché sono diventati tre libri], che porta a termine nel 1932, intitolata I sonnambuli che è un grande quadro della Germania guglielminiana [1888-1918], un testo molto utile per capire gli avvenimenti che hanno portato al primo conflitto mondiale, è un trittico che descrive tre momenti molto significativi della storia tedesca legati agli anni 1888, 1903 e 1918 [Ci sarebbero molte cose da dire su quest’opera ed è probabile che la rincontreremo in futuro, adesso si può ricordare che in un’inquadratura del film del 1961 intitolato La notte di Michelangelo Antonioni, Monica Vitti tiene in mano il primo volume de I sonnambuli di Hermann Broch perché il regista vuole accentuare il tema della solitudine, della disgregazione dei valori, del vuoto dei valori, del Wert-Wakuum, del vizio di occultare la decadenza].
Hermann Broch vive anche a stretto contatto con l’ambiente culturale viennese di Musil, di Rilke, di Kafka, di Mann, di Canetti, e frequenta il Circolo di Vienna, uno dei più importanti laboratori intellettuali mitteleuropei dove s’incontrano scrittrici, scrittori, pittori, musicisti e tutte le persone che, in questo critico momento storico, vorrebbero, attraverso le Arti, cambiare la tragica situazione politica e sociale che si va profilando: Broch scrive tra il 1930 e il 1934 una serie di novelle e il romanzo Il tentatore. Nei suoi articoli Broch critica la Vienna che si presenta come la capitale europea del Kitsch [del pessimo gusto], dell’abile imitazione banalizzatrice dell’arte «che – scrive Broch – è una pseudo-arte priva di ogni vero valore [un’arte da vendere sul mercato]». Broch critica la Vienna capitale del “decorativismo estetizzante” di cui il prodotto di maggior successo è il genere musicale dell’operetta che si presenta nel suo assoluto “vuoto di valori” proclamando «un falso principio “dell’arte per l’arte” che – scrive Broch – sta ad un passo dal principio “gli affari sono affari” con cui si giustificano le imprese economiche più immorali, e a un passo dal principio “la guerra è guerra” che giustifica l’assassinio in massa degli inermi». «L’estetismo amoralistico di Nerone – scrive Broch in un articolo antinazista – preannuncia l’attivismo estetizzante [il rituale delle adunate di massa] e privo di umani valori di Hitler».
È inevitabile che, dopo l’occupazione dell’Austria da parte dei nazisti nel 1938, l’ebreo cinquantenne Hermann Broch venga arrestato e lui, chiuso nell’angusta cella di una prigione, da cui è convinto di non poter uscire vivo, fa il suo esame di coscienza e si scopre colpevole di essersi troppo occupato della propria età, del genere del “romanzo”, dello studio psicologico-sociale della propria generazione e della generazione precedente, trascurando di ascoltare la voce più intima della sua anima, e lo scrittore ripensa a Virgilio perché aveva già scritto un racconto intitolato Il ritorno di Virgilio che aveva letto alla radio di Vienna [un atto estremo di resistenza alla capitolazione dell’Austria] nel 1937. Hermann Broch si riconosce in Virgilio che, in punto di morte, pensa di dover dare alle fiamme il manoscritto dell’Eneide e pensa di doversi preparare, con una riflessione di carattere letterario, ad affrontare, con ferma consapevolezza, l’inevitabile esperienza della morte, narrando a se stesso l’ultima giornata di vita di Virgilio.
Per tutta una serie di coincidenze fortunate Broch viene provvisoriamente rilasciato [la seconda guerra mondiale non è ancora iniziata: qualche mese dopo non sarebbe stato così fortunato] e riesce a fuggire [dopo essersi nascosto in Tirolo] a Londra e poi negli Stati Uniti. Ormai ha concepito il romanzo La morte di Virgilio, comincia a scriverlo e si sforza di portarlo a termine. Questo romanzo – pubblicato alla fine della seconda guerra mondiale – è anche naturalmente una risposta contro l’imperialismo sempre risorgente che ha condotto la Germania e l’Europa alla distruzione. Broch imbastisce la sua riflessione, che ha forti connotati autobiografici, sull’importanza che [come sappiamo] ha avuto la figura [divenuta leggendaria] di Virgilio nel Medio Evo e dal ruolo che la sua poesia [la sua “sapienza poetica”] ha avuto nella Storia del Pensiero Umano. La morte di Virgilio è un ampio romanzo con una trama elementare perché è tutto intessuto su un grandioso monologo del poeta latino, un monologo condotto in terza persona sullo stile di James Joyce [anche di Sandor Màrai]. L’Ulisse di Joyce si risolve in una giornata così come La morte di Virgilio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Cercate in biblioteca il romanzo intitolato La morte di Virgilio di Hermann Broch in modo che ne possiate leggere qualche pagina in primo luogo perché è uno dei capolavori della Letteratura del ‘900 e, quindi, bisogna sapere che esiste, e in secondo luogo perché non è un testo di facile lettura e questo fatto ci permette di misurarci con la difficoltà: non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo sempre ripiegare sulle cose facili …
Naturalmente, del testo di quest’opera – che viene considerata un “romanzo lirico” perché l’autore coltiva una prosa incentrata sulla “sapienza poetica [con un continuo rimando al mito]” – ne leggiamo insieme qualche brano.
Hermann Broch descrive l’arrivo di Virgilio a Brindisi reduce dal suo viaggio in Grecia: è il 21 settembre del 19 a.C.. Virgilio è ospite sulla nave di Augusto e viene accolto dal giubilo della folla e salutato con enfasi dai dignitari della corte, ma l’atmosfera pesante e afosa della stagione estiva e il brulichio della città lo agitano e lo deprimono. Virgilio è ammalato – non è stato un bel viaggio il suo, ha sofferto anche il mal di mare [che è anche la metafora di un intimo malessere esistenziale] – e viene colto da un profondo smarrimento interiore: la sua fama, lo splendore dell’accoglienza che gli viene riservata a corte gli sembrano cose vane [vanità delle vanità: Broch conosce bene la Letteratura dell’Antico Testamento e la Letteratura dei Vangeli] e gli appaiono come realtà fuggitive perché un’ombra di morte gli annebbia l’anima. Virgilio è accompagnato da un giovane di nome Lysania – che è l’immagine tanto di lui bambino quanto del fanciullo [citato nella IV ecloga delle Bucoliche] che deve venire a salvare il mondo – che lo guida e lo protegge fra la folla plaudente fino a raggiungere, in portantina, il palazzo imperiale. Nelle ore successive Virgilio riceve la visita di Lucio Varo e Plozio Tucca con i quali discute animatamente di varie questioni, soprattutto di Arte e di Letteratura, manifestando infine il suo proposito di dare alle fiamme il manoscritto dell’Eneide perché, dopo aver fatto un severo esame di coscienza Virgilio ritiene di avere trascurato i suoi compiti e i suoi doveri di cittadino che, invece di lottare per la giustizia, ha dedicato tutto il suo tempo all’arte e alla poesia [è Broch che si confessa per aver lasciato l’Europa e per non aver contrastato con più forza e con più mezzi il nazismo: come è successo a molti altri resistenti o ebrei si sente in colpa per essersi salvato]. Dopo una visita del medico di corte Charondas, arriva al letto del malato anche Augusto: Virgilio è convinto che il suo poema sia riuscito poeticamente, però teme che sia deficitario nell’esprimere l’humanitas e teme che la sua opera venga considerata un’esaltazione dell’imperialismo. Augusto riesce a convincere Virgilio a non bruciare la sua opera ma a fargliene dono, gli dice di averla letta con grande emozione, e Virgilio, in punto di morte, sente di potersi identificare con il “pius” Enea che, inevitabilmente, appartiene alla schiera umana dei perdenti, così come appartengono alla schiera umana dei perdenti tutti i principali personaggi del poema e anche il poeta stesso, che ritiene di essere vissuto in un’epoca priva di speranze, senza segni di cambiamento e senza messaggi di salvezza a cui rifarsi, si sente uno sconfitto. Virgilio, però, apre una trattativa con Augusto: gli regalerà il suo poema se Augusto libererà gli schiavi che lavorano nel suo ex podere di Andes. Augusto accetta e promette. Il poeta muore quasi riconciliato con il suo destino, e con lui muoiono un mondo e un’età che egli ha cantato nel loro splendore soprattutto per merito della bellezza delle “parole” e non dei fatti: leggeremo l’elogio della potenza della parola, e, in greco la “parola” è il Logos e, in latino, è il Verbum, due termini che hanno caratterizzato la Storia del Pensiero Umano tutte le volte che la riflessione si è concentrata sul tema della “salvezza”.
Il mondo romano e l’età di Augusto già stanno declinando verso una crisi fatale, e il testo di questo romanzo sostiene la tesi – già formulata da Gerolamo nel IV secolo – che, con l’Eneide, finisce un’epoca e ne comincia un’altra: la cosiddetta “età antica” comincia a tramontare e inizia il crepuscolo del “tardo antico”, un crepuscolo destinato [i paradossi sono sempre fecondi] ad assumere i connotati di un’alba. Il morire di Virgilio si compie nelle varie parti del suo corpo ma, soprattutto, nelle regioni della sua anima e, più che un prendere congedo dalla realtà dell’esistenza terrena, è un congiungersi con ciò che è eterno, e qui emerge il carattere mistico di Broch come scrittore che nasce dalla sua interpretazione dei Dialoghi di Platone, in integrazione, con la mistica ebraica e la patristica cristiana. L’infinito e, quindi, l’aldilà, è – secondo Broch – in ogni creatura un qualcosa di innato e di immanente [l’aldilà è nell’intimo della persona] ma, in questo infinito, però, la voce di Dio non viene incontro né al morente Virgilio né all’errabondo Broch: Dio rimane muto e resta l’angosciante silenzio esistenziale e, in tal senso, La morte di Virgilio è, in primo luogo, un’opera autobiografica che s’inserisce pienamente nella tradizione letteraria mitteleuropea del primo ‘900, una tradizione che produce una scrittura molto ricca di “sapienza poetica” e le “pagine liriche” di Hermann Broch sono esemplari perché il “romanzo”, rispetto al secolo precedente [l’800], ha cambiato forma.
Leggiamo l’incipit de La morte di Virgilio di Hermann Broch:
LEGERE MULTUM….
Hermann Broch, La morte di Virgilio
Azzurre e leggere, mosse da un lieve, appena percepibile vento contrario, le onde dell’Adriatico erano corse incontro alla squadra imperiale, quando essa, avvicinandosi lentamente alle piatte colline della costa calabra, veleggiava verso il porto di Brindisi, ed ora che la solitudine del mare, così piena di sole e pur così piena di morte, si mutava nella serena allegrezza dell’opera umana ed i flutti dolcemente irraggiati dalla vicinanza di persone e case, si popolavano di ogni specie di navi, di quelle che egualmente tendevano al porto e di altre che ne erano uscite, ora che le barche dalle vele rossastre già d’ogni parte uscivano per la pesca serale abbandonando i piccoli moli dei molti paesi e villaggi lungo la riva lambita dalle candide onde, ecco che l’acqua si era fatta come uno specchio; e in alto si era dischiusa la perlacea conchiglia del cielo, scendeva la sera, e si sentiva l’odore del fuoco di legna dei focolari, ogni qual volta le voci della vita, un picchiar di martello o un richiamo, giungevano portati dal vento.
... continua la lettura …
L’opera più famosa di Virgilio è l’Eneide e di questo oggetto culturale se ne deve parlare: il poeta mette in versi un racconto leggendario che costituisce il primo segmento [il segmento ereditato dal ciclo troiano] dei cosiddetti “miti paralleli”, un argomento di cui ci siamo occupate ed occupati circa tre mesi fa [ai tempi del grande freddo].
L’Eneide è un poema epico in esametri di 12 libri che narra le peregrinazioni di Enea e gli scontri da lui sostenuti nell’area latina per dare vita a un nuovo popolo, che avrebbe in seguito fondato Roma. Il poema viene composto nell’ultimo decennio di vita di Virgilio, dal 29 al 19 a.C., e rimane incompiuto perché la morte del poeta tronca il lavoro di rielaborazione e di rifinitura. Virgilio ha espresso, per questo, la volontà che l’Eneide fosse distrutta dalle fiamme, ma Vario Rufo e Plozio Tucca, i suoi esecutori testamentari, d’accordo con Augusto, fanno pubblicare il testo del poema senza alcuna correzione, nonostante qualche incoerenza e 58 versi incompiuti: l’Eneide compare dopo una lunga attesa e ha, da sùbito, una grandissima divulgazione.
La composizione di questo poema è stata lunga e travagliata anche perché Virgilio non possiede una tradizione alla quale possa rifarsi e perciò deve scegliere fra le molte versioni del mito, deve narrare il crollo di Troia in modo da farla diventare la città antenata di Roma, deve creare un “padre fondatore” che sia esule ed errante e sia, necessariamente, anche un combattente che, però, affermi di esserlo suo malgrado, e poi Virgilio deve creare una tradizione secondo cui una guerra sanguinosa era stata combattuta fra i progenitori di Roma [i presunti esuli da Troia] e il popolo che si trovava nella valle del Tevere, i Latini: una guerra cruenta che, tuttavia, si conclude con la stipula di un’alleanza che porta la pace tra i due gruppi in competizione.
Dal punto di vista formale l’Eneide ha una struttura simmetrica e riprende i poemi omerici secondo la logica dell’ormai piena integrazione tra cultura greca e cultura latina: il poema di Virgilio ricorda l’Odissea nei primi sei libri e l’Iliade nei secondi sei. Virgilio, però, non segue il metodo di Ennio [raccontare lo svolgimento dei fatti anno per anno] né quello di Nevio [concentrare la materia epica su un solo episodio] questo perché non vuole esaltare un secolo di guerre civili e non intende fare il panegirico di Augusto che risulta il vincitore di una nefasta epopea. Per questo Virgilio si stacca dal presente e la guerra di Troia viene narrata per giustificare, in modo profetico, un unico esito voluto dagli dèi: la futura nascita di Roma. Virgilio si pone un doppio obiettivo ideologico: i Greci [gli Achei] distruggendo Troia, diventano lo strumento del destino di Roma [Enea non si sarebbe mai mosso per approdare in Italia] e i Romani, quando sottometteranno l’Ellade, proclameranno di aver restituito la libertà ai Greci – oppressi dai Macedoni – come se fossero gli eredi dei Troiani tornati in auge dopo aver fatto [o subìto per volontà divina] un sacrificio originario.
Virgilio innova decisamente il poema epico perché la tradizione omerica aveva composto opere tutte mitologiche, in Ennio il mito è solo un antefatto alle vicende storiche, in Nevio è una digressione: Virgilio ambienta il suo poema in un’età mitica e introduce la storia come digressione, sotto l’aspetto di visione profetica. La leggenda di Enea circolava oralmente in area latina dal IV secolo a.C. ed era divenuta, dalla fine del II secolo a.C. in poi [con il consolidarsi dei “miti paralleli”], di attualità per la conquista dell’Ecumene da parte dei Romani: questa conquista rappresentava la rivincita dei discendenti dei Troiani sui Greci. Con Virgilio questa leggenda assume una forma più coerente e più complessa: quello di Enea è un ritorno a “l’antiqua mater”, alla terra degli avi perché, secondo un’arcaica visione mitica di stampo etrusco, dall’Italia, e precisamente dalla polis etrusca di Cortona, era partito Dardano, il capostipite dei Troiani.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Toscana fate un’escursione a Cortona la cui fama storica e artistica va ben oltre l’origine etrusca…
Naturalmente la leggenda di stampo troiano perfezionava anche la tradizione mitica della nobilissima famiglia Giulia, la famiglia di Giulio Cesare e di Cesare Ottaviano Augusto che si gloriava di discendere da Iulo o Ascanio, il figlio di Enea che, a sua volta, era figlio della dea Venere.
Il testo dell’Eneide fa coincidere la storia di Roma, fin dalle sue origini, con quella della famiglia che comanda nella città e in tutto l’Impero. Che cosa racconta l’Eneide?
Prima di rispondere, a grandi linee, a questa domanda leggiamo un’altra pagina da La morte di Virgilio di Hermann Broch. Quest’opera [abbiamo detto] è, in primo luogo, un grande monologo di carattere autobiografico e l’autore identifica la sua storia con quella di Virgilio il quale, a sua volta, aveva identificato certi aspetti della sua vita a quelli di Enea: esiliato è Enea, esiliato è Virgilio, esiliato è Hermann Broch e tutti e tre si sentono anche in colpa per essersi salvati. Ne La morte di Virgilio, inoltre, si celebra [se vogliamo usare un’ulteriore allegoria], contemporaneamente alla morte del celebre poeta latino, anche la morte del genere letterario del “romanzo” così come era stato concepito nel secolo precedente: Hermann Broch partecipa a quel movimento letterario del primo ‘900 che cambia la forma del romanzo ottocentesco. Il romanzo dell’800 è un apparato dove lo sviluppo della trama e le riflessioni di chi scrive procedono di pari passo e questo procedimento crea un virtuoso equilibrio tra questi due elementi che caratterizza la forma dell’opera [la lettura dei romanzi dell’800 è propedeutica per lo sviluppo della nostra formazione intellettuale, per mettere in movimento sincronizzato le azioni dell’apprendimento], mentre nel romanzo del ‘900 la trama tende a diventare un elemento secondario, meno condizionante, per lasciare il maggiore spazio possibile alla riflessione dell’autore [la lettura dei romanzi del 900 è propedeutica per incrementare capacità di introspezione della lettrice e del lettore]. Il romanzo di Broch è uno degli esempi più evidenti in proposito e, anche per questo motivo formale [in funzione della didattica della lettura e della scrittura], merita di essere letto.
LEGERE MULTUM….
Hermann Broch, La morte di Virgilio
Egli era nato agricoltore, un uomo cui conveniva la semplice, sicura vita della comunità agreste, destinato, per le sue stesse origini, a poter restare, a dover restare - e pur tuttavia, in obbedienza a un più alto destino, non gli era stato concesso di dimenticare la patria e nella patria non gli era stato concesso restare; egli era stato esiliato, scacciato dalla sua comunità, spinto nella nuda, maligna, folle solitudine dell’umano tumulto, era stato cacciato lontano dalla semplicità della sua origine, cacciato nella vastità del mondo in una molteplicità sempre crescente, e se mai qualcosa in quel mondo era divenuto più grande e più vasto, ciò era unicamente la distanza che lo separava dalla vera vita, poiché in verità solo questa distanza era cresciuta: egli aveva camminato soltanto al margine dei suoi campi, era vissuto soltanto al margine della sua vita, ed era diventato una persona senza pace, che fuggiva la morte, cercava la morte, cercava la sua opera, fuggiva la sua opera, una persona capace d’amore e pur tuttavia un perseguitato, errante per le passioni del mondo Ulteriore e del mondo esteriore, un ospite della sua stessa vita.
... continua la lettura …
Che cosa racconta l’Eneide? Noi, ora, possiamo solo illustrare a grandi linee il contenuto di questo celebre poema. L’Eneide narra le peregrinazioni di un gruppo di profughi guidati da Enea, alla ricerca di una seconda patria dopo essere scampati alla distruzione di Troia ad opera degli Achei. Al termine di un lungo viaggio carico di disavventure, i Troiani sbarcano sulle coste del Lazio per costruire una città ma sono costretti a scontrarsi con i Rutuli guidati dal loro re Turno. Enea è costretto dal destino a sfidare e ad uccidere Turno per poter sposare Lavinia, la figlia del re Latino, e fonda una nuova civiltà che sarà alle origini di Roma, e suo figlio Iulo – che nel mito troiano porta il nome di Ascanio – si pone come progenitore della gens Iulia, a cui apparterranno Giulio Cesare e Ottaviano. La portata di questa operazione culturale è evidente: attraverso la vicenda di Enea si attribuiscono antichissime origini alla città di Roma, sostenendone la diretta derivazione da una delle civiltà più remote e celebri del Mediterraneo, quella troiana.
Abbiamo detto che, per quanto riguarda il rapporto con i modelli, l’Eneide si presenta come un’ideale “fusione” tra Iliade ed Odissea. I primi cinque libri dell’opera, narrando le peregrinazioni dei Troiani nel Mar Mediterraneo, si pongono sulla scia delle vicende di Odisseo [Ulisse]. Come Ulisse anche Enea è perseguitato da una divinità che gli è ostile, Giunone, e come Ulisse – che narra alla corte del re Alcinoo tutte le sue precedenti disavventure – così la caduta di Troia è oggetto del racconto di Enea a Didone, la bella e colta regina dei Cartaginesi la quale [come sapete] s’innamora di Enea e quando lui deve partire perché il destino lo obbliga a non fermarsi lì, lei decide di togliersi la vita mentre guarda le navi troiane allontanarsi, e questo è l’argomento del famoso IV Libro dell’Eneide che ha dato origine ad un vero e proprio filone culturale, chiamato la “saga di Didone”, corredato da molte opere letterarie in prosa, in poesia, in musica e per il teatro.
Dopo una pausa, rappresentata dalla discesa di Enea agli Inferi – che è un altro motivo tradizionale dell’epos, narrato nel VI Libro – la seconda parte del poema segue invece il modello dell’Iliade, mettendo in scena la guerra che oppone i Troiani ai Rutuli di Turno. E così come l’epica omerica, anche l’Eneide si pone per le lettrici e i lettori romani come una “enciclopedia culturale di stampo etico” perché non solo riassume in sé le conoscenze belliche, religiose, augurali, geografiche ed istituzionali del mondo romano, ma soprattutto espone i modelli comportamentali su cui si dovrebbe fondare – se fosse davvero “etica [orientata al Bene]” – la società romana. Virgilio nell’Eneide vuole invitare la lettrice e il lettore a farli propri questi modelli comportamentali e il suo travaglio interiore sta nella consapevolezza che questi modelli virtuosi non sono mai esistiti e, se la cultura “ab origine” era quella del “mondo di Janus” – si domanda Virgilio malinconicamente –, come potranno mai diventare una realtà i valori etici che lui si sforza di descrivere?
Tra i modelli comportamentali virtuosi Virgilio pone al primo posto un sentimento tipico dell’animo di Enea: la cosiddetta “pietas”, che è una delle traduzioni più efficaci del concetto di humanitas. La “pietas” è il valore incarnato da Enea che non risulta essere solo un atteggiamento di devozione e di rispetto verso il padre, verso gli antenati e verso le divinità ma è anche – nella visione di Virgilio – una sorta di progetto di miglioramento dei “mores”, dei costumi morali, degli atteggiamenti etici.
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La parola “pietà [pietas]” richiama una vasta gamma di termini che servono a rafforzare e a sostenere il concetto della humanitas: la bontà, la benevolenza, la misericordia, la compassione, la comprensione, la sensibilità, la clemenza, l’indulgenza, la commozione, il rispetto, la devozione… Quale di queste parole mettereste per prima accanto alla parola “pietà [pietas]”?...
Scrivetela...
Va superata l’idea, considerata da tempo riduttiva, che fa pensare all’Eneide come ad un’opera di propaganda per l’Impero di Augusto: il ruolo giocato da Augusto “vincitore” nel poema rimane molto marginale perché gli eroi dell’opera sono i perdenti. Nel romanzo La morte di Virgilio la descrizione in termini critici del potere assoluto di Augusto e l’esposizione della preoccupante situazione per cui le masse si dimostrano infatuate nei confronti del potere autoritario corrisponde alla denuncia per quello che sta succedendo in Germania nel momento in cui il nazismo ha conquistato il consenso della maggioranza della popolazione, tedesca ed austriaca, di una massa acritica ormai ammaliata dal fascino del dittatore, una massa che coltiva la sua alienazione in oceaniche adunate [un mostruoso groviglio di empietà, ineffabile, indicibile, incomprensibile, ribolliva nel serbatoio della piazza, cinquanta, centomila bocche esprimevano nel loro ruggito l’empietà]: leggiamo due pagine da La morte di Virgilio:
LEGERE MULTUM….
Hermann Broch, La morte di Virgilio
Così giaceva tranquillo. Il primo velo del nascente crepuscolo si tendeva chiaro nel cielo, si tendeva delicato sul mondo, quando fu raggiunta l’imboccatura del porto di Brindisi, stretta, simile a un fiume. L’aria si era fatta più fresca, ma anche più mite, la lieve brezza salmastra si mescolava con l’aria più carica e intensa della terra, nel cui canale le navi, rallentando una dopo l’altra il loro corso, stavano ora entrando. Grigio e plumbeo si fece l’elemento di Posidone, non più increspato dall’onde.
... continua la lettura …
L’Eneide non è un’opera che fa propaganda al potere vittorioso e quello che più colpisce in questo poema è che la vicenda dei Troiani vincitori sui Rutuli non si risolve affatto in un canto di orgoglioso trionfo ma in un alone di malinconia e di nostalgia [si percepisce un certo “senso di colpa”] perché la nota dominante dell’Eneide è quella del dolore, il dolore che ogni guerra, inevitabilmente, trascina con sé. Agli occhi di Enea e dei suoi compagni la nuova guerra da combattere sul suolo italico rappresenta, prima ancora che un’occasione di conquista ed affermazione di potere, la dolorosa consapevolezza di altre morti, di altre perdite, di altri lutti, di altra paura, di altre fughe, di altro esilio. Più che l’esaltazione di Roma e dei suoi trionfi sul Mediterraneo, l’Eneide è, paradossalmente [come le Georgiche], un canto che celebra i vinti. I personaggi che più ci colpiscono, e che ci rendono profondamente partecipi delle loro vicende, sono tutte figure di sconfitti: sono figure profondamente umane nelle quali il poeta s’identifica “pietosamente”. In primo luogo Didone, l’infelice regina cartaginese, travolta da una passione per Enea che non può vincere e che la conduce al più tragico dei suicidi. E poi Eurialo, Niso, Pallante, Camilla, giovani [“vite troppo giovani”, rimarca Virgilio] vite spezzate dalla guerra, e la regina Amata, resa folle da una Furia malvagia, e lo sventurato Palinuro il cui corpo è disperso tra le onde [sapete dov’è Capo Palinuro? Cercatelo sulla guida della Campania], e Polidoro ucciso in nome di una cupidigia che non conosce confini. Ma il vinto per eccellenza è Enea stesso, che ha conosciuto il dolore per la perdita del padre e della moglie e che, in nome di un fato che lo destina alle spiagge italiche, è costretto a lasciare Cartagine e a farsi [incolpevole?] causa del suicidio di Didone. E vinti sono, infine, gli esuli Troiani perché vivono la loro condizione di sopravvissuti come una vergogna per non aver condiviso la sorte dei loro cari tra le rovine della città in fiamme.
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La Scuola, a questo punto, non può far altro che consigliare la lettura dell’Eneide utilizzando il lavoro di traduzione e di commento del prof. Vittorio Sermonti...
Il libro intitolato Eneide di Vittorio Sermonti lo trovate in biblioteca: potete osservarlo cominciando dalla copertina [che è evocativa], poi sfogliarlo e leggerne qualche pagina seguendo le direttive date dall’autore...
Sono molti i brani dell’Eneide su cui noi potremmo puntare l’attenzione e i più interessanti sono proprio quelli che esaltano il ricordo degli sconfitti a cominciare da Didone. Noi non abbiamo il tempo di leggere il Libro IV dell’Eneide [utilizzate il libro del prof. Sermonti], il IV Libro dell’Eneide ha dato origine ad un vero e proprio filone culturale, chiamato la “saga di Didone”, corredato da molte opere letterarie in prosa, in poesia, in musica e per il teatro. Facciamo solo una citazione tra le tante possibili che possa dare inizio ad una vostra eventuale ricerca in proposito, che possa servire per alzare il livello di attenzione.
Tra le tante autrici e autori che si sono occupati del personaggio di Didone in rapporto ad Enea c’è anche Pietro Metastasio [Pietro Trapassi, 1698-1792]: il primo dei ventisei drammi che ha scritto s’intitola Didone abbandonata e quest’opera, musicata da Domenico Sarro [1678-1741] e interpretata da Marianna Bulgarelli [ispiratrice, amica e protettrice di Metastasio], è andata in scena a Napoli nel 1724 riscuotendo un grande successo.
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Sarebbe bello vederla rappresentare a teatro quest’opera: provate a cercare il testo in biblioteca della Didone abbandonata di Pietro Metastasio e leggetene qualche verso...
Ora leggiamo un frammento, il testo di un’aria [la diciottesima del primo atto] dove è Enea che canta assalito dal dubbio se debba partire o se debba restare: lui resterebbe con Didone ma alle sue spalle c’è lo scontro tra due divinità, Venere e Giunone [e le divinità olimpiche, trasferitesi sul Gianicolo, sono ancor meno misericordiose di quando abitavano in terra ellenica], e lui si deve piegare al volere divino.
Metastasio [che abbiamo incontrato molte volte nei nostri viaggi] possiede una straordinaria capacità di sintesi nell’utilizzo del linguaggio poetico: leggiamo tre versi [a volte con tre versi si può esprimere tutta la complessità di una situazione]:
LEGERE MULTUM….
Pietro Metastasio, Didone abbandonata I, 18
Se resto sul lido, se sciolgo le vele, infido, crudele, mi sento chiamar.
E intanto, confuso nel dubbio funesto, non parto, non resto,
ma provo il martìre che avrei nel partire, che avrei nel restar. …
Che cosa possiamo leggere del testo dell’Eneide? Abbiamo detto che sono molti i brani dell’Eneide su cui noi potremmo puntare l’attenzione e i più interessanti sono proprio quelli che esaltano il ricordo degli sconfitti: uno dei più significativi personaggi in questione è di sicuro Palinuro. Il personaggio di Palinuro, l’insonne timoniere di Enea, compare nel V Libro dell’Eneide dove Virgilio racconta che Palinuro, mentre sta pilotando la nave, cede al dio del Sonno che, invidioso [Palinuro non dorme mai, ha una sorprendente resistenza nei confronti del sonno], gli tocca le tempie con un ramoscello bagnato di acqua letèa [del fiume Lete] e il timoniere si addormenta e cade in mare di fronte alle coste del Cilento, nel viaggio dalla Sicilia a Cuma, e il suo corpo, dopo essere rimasto a lungo insepolto, viene trasformato in quel grande bastione calcareo che, ancora oggi, è Capo Palinuro. Palinuro poi è anche protagonista nel Libro VI dell’Eneide, quando Enea scende agl’Inferi e nell’Ade incontra l’ombra del suo timoniere: è un incontro commovente e drammatico. L’ombra di Palinuro chiede ad Enea la sepoltura – perché senza sepoltura non può avere pace – e gli racconta come lui, dopo essere caduto in mare, sia riuscito a giungere, dopo aver nuotato per tre giorni e tre notti, sulla costa dell’Italia. Ma lì, quando credeva di essersi salvato, è stato assalito e ucciso da gente armata [a scopo di rapina] che poi lo ha lasciato insepolto sulla spiaggia presso il porto di Elea [di Velia per i Romani]: così si adempiva, ma in un senso imprevisto, un oracolo di Apollo il quale aveva predetto a Palinuro che il mare lo avrebbe trasportato in Italia. Palinuro oggi è proprio il modello della fine che fanno molte e molti migranti.
Nel VI Libro dell’Eneide la Sibilla virgiliana [è la stessa Sibilla del Dies irae: “Teste David com Sibylla”, la stessa dipinta nella Cappella Sistina da Michelangelo, ma questa è un’altra storia, un altro viaggio da fare] annuncia all’ombra di Palinuro che gli abitanti del Cilento, i cittadini di Elea, come risarcimento, gli stanno per innalzare un tumulo e gli presteranno un culto propiziatorio come fosse una divinità. È emozionante trovarsi davanti a capo Palinuro – che si presenta come un enorme tumulo [avete mai visto capo Palinuro? Non è difficile trovare un’immagine che lo raffigura e non è neppure un luogo troppo lontano da qui] eretto in onore del timoniere più famoso della Storia della Letteratura.
E ora leggiamo un frammento del V Libro dell’Eneide:
LEGERE MULTUM….
Publio Virgilio Marone, Eneide Libro V
Al suo posto Palinuro, il nocchiero, guidava il convoglio, sicuro di come avrebbe regolato
la rotta e condotto la flotta d’Enea anche sotto il cielo che ormai si faceva più oscuro.
E già la metà del tragitto celeste aveva compiuto la umida Notte,
e i marinai, stanchi, rilassavan le membra in riposo, sdraiati sotto i remi,
tra i duri sedili, con le teste appoggiate alle ruvide scocche.
Ed ecco che il Sonno, il dio che ha il passo più lieve, disceso dalle stelle eteree,
smosse l’aria tenebrosa e ne scostò le ombre, cercando te, Palinuro, innocente,
sedendoti accanto, che stavi al timone, prendendo l’aspetto del mozzo Forbente,
e disse: «O Palinuro, le correnti portano da sé la nave e regolari spiran brezze:
puoi concedere un’ora al riposo, volgi gli occhi stanchi al Sonno e alle sue carezze,
se vuoi sarò io a subentrare al tuo posto, per un poco».
A lui così parlò Palinuro, sollevando lo sguardo e guardandolo fisso:
«Pretendi che io non conosca il volto placido delle marine e la calma dei flutti?
Che io abbia fiducia nel mare che ora è benigno ma tra l’onde nasconde l’abisso?
Affiderei Enea (e come?) alle brezze ingannevoli e al cielo,
che tante volte cela tempeste sotto l’illusione del suo aspetto sereno?».
E mentre il nocchiero parlava neanche un momento si staccò dalla barra
e, attento, le costellazioni con gli occhi fissava
ed ecco che il dio con un ramoscello stillante di letèa rugiada
e intinto nel profondo sopore di Stige lo irrorò su entrambe le tempie
e a lui riluttante sigillò le pupille smarrite.
Il vigile nocchiero subì quell’imprevisto abbandono delle membra illanguidite
e con in mano il timone, divelta la poppa, cadde, a testa in giù, nelle liquide onde infide.
Palinuro, dal profondo del mare, vanamente invocò più volte i dormienti compagni
mentre l’alata forma del dio, a volo, s’innalzò verso le sublimi aure impalpabili sulla distesa marina,
la nave seguì la sua rotta senza apparente pericolo alcuno e lambendo le onde
venne guidata dalle antiche promesse del padre Nettuno
navigando sotto gli scogli biancheggianti delle Sirene, perigliosi un tempo,
e ingombri delle ossa di molti naviganti sedotti dai canti portati dal vento.
Il rumore dei flutti frangenti sulle rive rocciose cominciò ad echeggiare nell’orecchio assopito
ma esperto di Enea che sentì la deriva e vide la nave sbandare, e corse
e subito pianse, disperato, quando capì di aver perduto il timoniere fidato,
e governò la rotta sui flutti notturni, molto gemendo, e afflitto nell’animo per la disgrazia
di aver lasciato che la perfidia di un dio colpisse l’amico più amato:
«O nocchiero, troppo fidente nel mare e negli orizzonti sereni, ricorderemo per sempre
la tua dedizione al timone e la tua perizia assoluta ma ignudo e insepolto giacerai,
Palinuro, sulla sabbia fredda di una spiaggia inospitale a te sconosciuta». …
Così – abbiamo detto – si adempiva, in un senso imprevisto, un oracolo di Apollo il quale aveva predetto a Palinuro che il mare lo avrebbe trasportato in Italia, e la parola “Italia” compare nell’Eneide in modo molto evocativo.
Leggiamo un frammento dal Libro III, due versi famosi [amati da Francesco Petrarca e da Giuseppe Mazzini] che contengono la cosiddetta “invocazione all’Italia”:
LEGERE MULTUM….
Publio Virgilio Marone, Eneide Libro III
E già, fugate le stelle, arrossiva l’Aurora [Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis],
quando vediamo lontano oscuri colli e,
umile sull’orizzonte, l’Italia [humilemque videmus Italiam].
«Italia!» grida Acate per primo, «Italia!» salutano i nostri con urla di giubilo. …
Che cosa succede in questi versi? Succede che nel testo dell’Eneide viene citato il nome dell’Italia [humilemque videmus Italiam] come se fosse un auspicio. Succede che nel rosso dell’Aurora, a quei migranti stipati sul ponte dei loro barconi, appare, affiorando appena dalla superficie dell’acqua, la costa piatta del Salento: infatti qui l’aggettivo “humilis”, con cui Virgilio definisce l’Italia [humilemque videmus Italiam] si avvicina al termine “piatta”. Il poeta, in due versi, ripete tre volte questo nome [Itàliam] quasi a far sentire il forte batticuore [Itàliam Itàliam Itàliam] con cui gli esuli sembrano manifestare la loro emozione nel vedere questa terra, a loro sconosciuta, alla quale vogliono accostarsi con sacra umiltà perché potrebbe rappresentare la salvezza. I migranti che urlano il nome d’Italia sono dei poveracci in fuga e qui Virgilio descrive un qualcosa – un coacervo di sentimenti – che ha attraversato i secoli: evoca lo stesso furioso batticuore che le migranti e i migranti di tutti tempi, così come quelli di oggi, provano mentre cercano di toccare terra salvando la vita, senza saper nulla dell’Eneide e di Virgilio che ne ha [forse, per ora, invano?] interpretato gli stati d’animo. Virgilio si identifica con il personaggio di Enea così come lo ha disegnato psicologicamente perché anche lui si sente, e si è sempre sentito, un “esule”: Virgilio è il poeta che ha fatto emergere maggiormente questa condizione esistenziale. Enea, nel Lazio, risulta vincitore ma non supererà mai la condizione psicologica dello sconfitto perché per l’esule l’esilio è pur sempre una sconfitta. Virgilio diventa famoso ma continua a domandarsi: «A che vale la mia fama? Mi salva forse da quella sconfitta inesorabile che è la morte, da quel luogo d’esilio eterno che è il mondo degl’Inferi? E la vita stessa non è, forse, da considerarsi un esilio?».
Dobbiamo riflettere sul fatto che Dante sceglie Virgilio come “guida”: Dante sceglie questo poeta soprattutto perché rappresenta lo specchio della sua condizione di “esule” e la Commedia di Dante è l’opera dell’esilio, della tragica meditazione sul tema dell’esilio [Dante, nel testo della sua opera, continua rimarcare questa sua condizione]. I versi finali dell’Inferno di Dante sono una metafora che illumina [mediante la pungente luce delle stelle] le riflessioni che abbiamo fatto in questo penultimo itinerario del nostro viaggio. I versi finali dell’Inferno di Dante contengono una grande metafora sulla speranza di salvezza alla quale Dante vuol dare universalità: tutte le persone che amano lo studio e la poesia – e Virgilio, per Dante, rappresenta il modello di questa condizione virtuosa – si sono già incamminate sulla via della salvezza, hanno già fatto il primo passo, sono già uscite nella notte “a riveder le stelle”, il cielo stellato che è, di fronte al mistero, l’immagine della sete di conoscenza. Non è casuale il fatto che Hermann Broch, nella prefazione del suo romanzo, La morte di Virgilio – di cui leggeremo [la prossima settimana] ancora una pagina –, utilizzi questi versi: leggiamoli i versi finali dell’Inferno di Dante, anche come premessa all’itinerario finale di questo viaggio.
LEGERE MULTUM….
Dante Alighieri, Inferno XXXIV 133-139
Lo duca ed io per quel cammino ascoso
entrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e, senza cura aver d’alcun riposo, s
alimmo su, ei primo ed io secondo,
tanto ch’io vidi delle cose belle
che porta il ciel, per un pertugio tondo;
e quindi uscimmo a riveder le stelle.
È stato bello andare lontano tutti assieme, ed è altrettanto bello tornare tutti assieme per concludere questo Percorso e per pensare di programmarne un altro sulle vie dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente: non perdete l’ultimo itinerario di questo viaggio di studio perché lo “studio [studium et cura]” è un bene comune da promuovere, prima di tutto nell’intelletto di ciascuna e di ciascuno di noi e poi nella società in cui viviamo!
Non perdete l’ultimo itinerario di questo viaggio…