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NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE C’È L’AMBIVALENTE CONCETTO LUCREZIANO DELLA VOLUPTAS ...

Lezione N.: 
23

Prof. Giuseppe Nibbi    Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale     18-19-20  aprile  2012

NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE

C’È  L’AMBIVALENTE CONCETTO LUCREZIANO DELLA VOLUPTAS ...

     Con questo itinerario, il ventitreesimo di questo Percorso, ha inizio l’ultima fase del nostro viaggio: abbiamo ancora cinque itinerari da percorrere dell’arco di poco più di un mese. Prima di prendere il passo dobbiamo osservare il calendario e ricordare che mercoledì prossimo è il 25 aprile, è la festa della Liberazione e del ritorno alla democrazia: la Scuola è chiusa quindi la prossima settimana [il 25-26-27 aprile] faremo una pausa.

     Come sapete stiamo attraversando il vasto e complesso territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e ci troviamo ancora davanti ad un ampio e multiforme paesaggio intellettuale che raccoglie l’eredità storica, politica e culturale di quella che è stata chiamata “l’età di Giulio Cesare”, un’età che si prolunga anche dopo la morte [avvenuta alla metà di marzo del 44 a.C.] di questo celebre e contraddittorio personaggio. Cronologicamente “l’età di Cesare” – come sappiamo – si colloca nel I secolo a.C. e, convenzionalmente, dura fino al 27 a.C. quando il Senato decreta che la persona di Ottaviano è “sacra e inviolabile”: in quel momento ha inizio l’età di Augusto [il termine Augusto è sinonimo di “sacro e inviolabile”].

     Ma noi stiamo ancora osservando il grande paesaggio intellettuale de “l’età di Cesare” nel quale – come sappiamo – si configura l’inizio di quella che è stata chiamata “l’epoca classica della cultura latina”. Abbiamo avuto la possibilità di constatare – nel corso degli ultimi itinerari – che “l’età di Cesare”, in special modo dopo la sua morte violenta, è un momento non indolore e assai tormentato dal punto di vista politico, ebbene, questa situazione schizofrenica sembra determinare una reazione sul piano intellettuale.

     La settimana scorsa abbiamo partecipato alla morte, altrettanto violenta, di Marco Tullio Cicerone: caduto [nel 43 a.C.] nella strenua difesa delle Istituzioni repubblicane, vittima – per usare le stesse metafore ciceroniane – di un “maiale vorace” [Antonio] e di un “ragno insidioso” [Ottaviano]. Abbiamo studiato che Cicerone ha aperto pubblicamente a Roma il dibattito filosofico: con lui prende corpo la Scuola filosofica romana e si forma un movimento di pensiero che nasce e si sviluppa in integrazione con la cultura greca dell’Ellenismo e che, in seguito, nell’età di mezzo, verrà chiamato dell’umanesimo eclettico.

     In conclusione dello scorso itinerario abbiamo detto che, negli stessi anni, all’interno dello stesso paesaggio intellettuale, un altro personaggio, il quale vive in solitudine e in isolamento, rielabora con originalità e con profonda riflessione personale le dottrine del filosofo greco Epicuro, vissuto ad Atene tra il 341 e il 271 a.C. [durante il viaggio di due anni fa siamo state e siamo stati ospiti del Giardino – così si chiama la sua Scuola – di Epicuro]. Questo personaggio è uno dei più grandi poeti di tutti i tempi e propone le idee del pensiero epicureo con grandiose immagini poetiche, in cui la Natura diventa la protagonista di un maestoso dramma: è Cicerone che pubblica l’opera di questo poeta che si chiama Tito Lucrezio Caro. Chi è Tito Lucrezio Caro, noto soprattutto con il solo nome di Lucrezio? La risposta a questa domanda presenta delle complicazioni.

     La vita di Tito Lucrezio Caro [98 circa - 55 circa a.C.] è avvolta nel mistero perché questa persona, presa dagli studi, ha trascorso la sua esistenza in solitudine e in isolamento. Lucrezio è indifferente per sua natura, per carattere e per convinzione alla vita pubblica e alla vita mondana e non fa nulla per farsi conoscere e non pubblica nemmeno il suo poema. Ma questo fatto non ci deve meravigliare perché Lucrezio si è comportato in modo coerente con lo stile di vita insegnato dalle Scuole filosofiche dell’Ellenismo: gli epicurei, gli stoici, gli scettici, in linea di massima, non amano apparire, tendono all’essere. Non si sa se Lucrezio avesse amici, anche se l’importanza data dai suoi versi all’amicizia [alla philia: l’amicizia per Epicuro è il valore più alto] fa pensare comunque che ne avesse. Uno doveva essere Gneo Memmio al quale Lucrezio ha dedicato la sua opera.

     Gneo Memmio è stato un abile oratore, un uomo politico, tribuno della plebe e pretore nel 58 a.C., fu mandato nel 57 a.C. a governare la Bitinia con la carica di propretore e noi sappiamo che, al suo seguito, è andato Catullo che voleva allontanarsi da Roma per dimenticare Lesbia e perché era rimasto senza soldi: Catullo in un suo carme ha tacciato Memmio di tirchieria ma quale sia il motivo preciso di questa sua affermazione non lo sappiamo. Probabilmente Lucrezio è amico di Cicerone il quale, dopo la sua morte, ne ha pubblicato l’opera.

     Fatto sta che le notizie biografiche su Lucrezio sono assai carenti, emergono molto tempo dopo la sua morte, e sono avvolte in un alone di leggenda. La fonte principale su Lucrezio è rappresentata da un breve testo della Cronaca [Chronicon] di Gerolamo [ancora una volta incontriamo Gerolamo vissuto nel IV secolo] il quale, prendendo spunto dall’opera De poētis [I poeti] dello storico Svetonio [del II secolo d.C., e probabilmente Svetonio lo incontreremo nel prossimo viaggio], afferma che “Lucrezio fu colto da follia per aver assunto un filtro d’amore e dopo aver composto negli intervalli di lucidità la sua opera, si suicidò a quarantaquattro anni”. Nei versi di Lucrezio troviamo una lucida e dura analisi della passione erotica e la condanna dell’amore perché produce più sofferenza che piacere e questo atteggiamento sembra indicare che nella sua vita ci sarebbe stato [il condizionale è d’obbligo] un amore sventurato.

     L’anno di nascita di Lucrezio è posto da Gerolamo nel 96 o nel 94 a.C. e la morte oscillerebbe, quindi, fra il 53 o il 51 a.C.. Però c’è anche un’altra testimonianza che mette in discussione i dati riportati da Gerolamo e questa asserzione si ricava dall’opera intitolata Vita di Virgilio del grammatico Elio Donato [del IV secolo] che colloca la morte di Lucrezio nel 55 a.C. e, in questo caso, l’anno di nascita verrebbe anticipato. Pertanto si può collocare con una certa attendibilità la vita di Lucrezio tra il 98 e il 55 a.C. perché è sicuro l’ultimo dato fornito da Gerolamo, cioè che Cicerone ha revisionato il poema di Lucrezio, rivedendone il manoscritto e curandone l’edizione. Cicerone – che non cita mai Lucrezio nei suoi scritti filosofici quando illustra le dottrine epicuree – ha dato anche un giudizio sul poeta contenuto in una lettera al fratello Quinto del febbraio del 54 a.C. e, quindi, in tale data l’opera di Lucrezio era già stata letta in vista della pubblicazione postuma: Cicerone in questa lettera cita l’opera di Lucrezio e ne riconosce sia il genio poetico sia l’arte con cui è scritta e usa un tono commemorativo perché, probabilmente, Lucrezio doveva essere già morto.

     Del tutto sconosciuto è il luogo di nascita di Lucrezio, c’è, tra le studiose e gli studiosi di filologia, chi pensa che sia nato a Pompei dove era presente la gens Lucretia, altri pensano sia nato a Roma, e oscure sono la sua estrazione sociale, la sua formazione culturale e la notizia della sua follia.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Naturalmente la citazione che “Lucrezio fu colto da follia per aver assunto un filtro d’amore” ha sempre attirato l’attenzione, nel corso dei secoli, di molte osservatrici e di molti osservatori, ma adesso noi non abbiamo il tempo di aprire un capitolo di questo genere in funzione della didattica della lettura e della scrittura, vogliamo però riflettere sulla parola “filtro” nel suo significato di “bevanda magica”, di “pozione portentosa” ma non nel senso che possa servire per fare un incantesimo, una fattura, una malìa ma bensì come gradevole genere di conforto per il palato...

Quale bevanda, secondo voi, può essere equiparata, per la sua bontà, ad un “filtro magico”?...

Elaboratela per iscritto: basta una riga in proposito, ma si può arrivare a quattro...

     Il misterioso Tito Lucrezio Caro ha prodotto un’opera tra le più significative della Storia del Pensiero Umano: un poema la cui fortuna è stata notevole nella Storia della cultura universale e che s’intitola De rerum natura [La natura]. Con la sua opera Lucrezio  ha influenzato Orazio e Virgilio: è a lui che Virgilio [che prossimamente incontreremo] allude quando nelle Georgiche afferma che “la persona è felice se può capire la causa delle cose, se può conoscere la natura delle cose [de rerum natura]”. Ovidio ha scritto: “Solo il giorno in cui avrà fine la terra, avranno fine i canti incomparabili di Lucrezio”. Tacito, nel Dialogus, scrive che Lucrezio è da preferirsi a Virgilio perché è “poeta di maggiore spessore drammatico”. Anche Seneca e Quintiliano lo hanno ammirato.

     Naturalmente con le dottrine materialistiche accolte e divulgate da Lucrezio hanno polemizzato gli autori cristiani, da Tertulliano a Lattanzio a Gerolamo ma costoro però ne subiscono il fascino soprattutto perché Lucrezio attacca la “religione” come strumento di potere e di alienazione e, circa un secolo dopo, anche la Letteratura dei Vangeli porterà lo stesso attacco alla “religione” e, quindi, questi intellettuali cristiani – Tertulliano, Lattanzio, Gerolamo in particolare – si sono scontrati con altri cristiani fondamentalisti quando avrebbero voluto bruciare tutto ciò che a loro non andava a genio, ed è anche per merito di questi intellettuali cristiani studiosi dei “classici” [dei quali a suo tempo studieremo le opere], soprattutto di Gerolamo, se il poema di Lucrezio non è andato perduto e ha potuto, nei secoli [i secoli del tardo antico, dell’età di mezzo, della modernità e della contemporaneità], continuare a fornire spunti di riflessione [ora bisognerebbe chiamare Giacomo Leopardi a fornire una testimonianza in proposito visto che, quasi da bambino, si è davvero divertito a tradurre il poema di Lucrezio].

     Che tipo di poema è e che cosa racconta il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro? È evidente che, per rispondere a questa domanda, ci vorrebbe un Percorso intero, ebbene, noi, intanto, cominciamo da questo itinerario per sistemare, in modo propedeutico, elementi di conoscenza nella nostra testa ben fatta.

     Il De rerum natura [La natura] di Lucrezio è un poema epico di 7415 esametri e costituisce il primo esperimento in lingua latina di poesia didascalica. La poesia “didascalica”, a differenza della poesia epica di carattere “narrativo”, vuole comunicare un insegnamento cercando una difficile mediazione tra la sapienza e l’immaginazione e tra l’utilità e il piacere. La poesia “didascalica”, quindi, vuole avere un intento educativo, istruttivo, formativo, divulgativo, e, a questo proposito, Lucrezio nel suo poema epico-didascalico espone la filosofia epicurea che propone il “piacere” [il piacere epicureo, in greco “edone edoné”, è inteso nel senso di “assenza di dolore”] quale sommo bene fisico e soprattutto spirituale. L’epicureismo aveva appena iniziato a penetrare nel mondo romano [tra poco diremo per opera di chi soprattutto] e Lucrezio intende estenderne la diffusione per esortare ad un cambiamento di stile di vita in una città e in un momento storico in cui la violenza e l’immoralità avevano perso il sopravvento.

     Il titolo, De rerum natura, segue da una parte la tradizione greca della poesia filosofica ed esoterica di Parmenide [vissuto nel V secolo a.C.], di Empedocle [vissuto nel IV secolo a.C.] e dall’altra riprende quello della massima opera di Epicuro, intitolata Sulla natura delle cose [Para physeos Para physeos], andata però perduta, alla quale Lucrezio si è ispirato, o leggendo, molto probabilmente, l’originale o, sicuramente, le sintesi posteriori curate dai discepoli di Epicuro [tra poco faremo un esempio].

     Che cosa apprende Lucrezio del pensiero della Scuola epicurea e come lo elabora questo pensiero? Si capisce che, inizialmente, è soprattutto il tema dell’etica che interessa a Lucrezio. Il tema dell’etica, secondo il pensiero di Epicuro, si sviluppa su tre filoni, su tre indirizzi fondamentali e dobbiamo, in proposito, rinfrescarci la memoria.

     Il primo indirizzo si sintetizza in questa affermazione: “il bene si identifica con il piacere” e questo viene definito da Epicuro un “fine secondo natura” e con l’espressione “secondo natura” Epicuro si riferisce a quella che lui considera la più importante dote naturale che la persona possiede [qual è il dono maggiore che la Natura ci ha fatto?]: la razionalità. È la razionalità umana – scrive Epicuro – che deve ispirare “sobriamente” alla persona le norme dell’azione che ci permette di usufruire del piacere. Epicuro batte e ribatte in tutte le sue affermazioni sull’avverbio “sobriamente” e accompagna questo avverbio con una serie di termini che si traducono in regole che determinano un particolare stile di vita per chi frequenta il suo Giardino [così si chiama la Scuola di Epicuro], e si capisce che Lucrezio aderisce a questa idea e fa propri questi termini: la misura, la frugalità, la temperanza, la severità, la semplicità, l’autocontrollo, la parsimonia, la regolarità, la modestia, la morigeratezza, la pudicizia, la lucidità, l’essenzialità, la linearità. [Queste virtù entrano tutte nella catechesi del Cristianesimo]. Queste sono le parole-chiave che Epicuro usa in concomitanza con l’affermazione: “il bene si identifica con il piacere” dando a questa affermazione un peso notevole sul piano della disciplina morale. «Se queste parole – scrive Epicuro con ironia, ma anche con grande acume teologico – fossero gli attributi degli dèi, io potrei anche credere alla loro esistenza ed affermare che l’unico modello di vita sono gli dèi».

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quali di queste parole (non più di tre) – la misura, la frugalità, la temperanza, la severità, la semplicità, l’autocontrollo, la parsimonia, la regolarità, la modestia, la morigeratezza, la pudicizia, la lucidità, l’essenzialità, la linearità – voi scegliereste per prime? 

Scrivetele…

     Il secondo indirizzo della dottrina etica epicurea, che Lucrezio fa proprio, si sintetizza in questa seconda affermazione: “il piacere è uno stato di stabile sicurezza che si identifica con l’assenza del dolore”. Questa affermazione si contrappone decisamente ad una sfrenata e non meditata ricerca del piacere [è il concetto che Cicerone chiama la “distillazione del desiderio”]. Epicuro, a questo proposito, specifica con molta chiarezza il suo pensiero e scrive: «Quando parliamo del piacere [edoné] non alludiamo affatto ai piaceri dei dissipati che consistono in crapule, in festini, in gozzoviglie, come credono alcuni che ignorano il nostro insegnamento o lo interpretano con malizia».

     Il terzo indirizzo della dottrina etica epicurea, che Lucrezio fa proprio, è caratterizzato da tre parole-chiave fondamentali: “aponìa”, “ataraxìa” e “autàrcheia”. Epicuro spiega con molta precisione che “l’assenza di dolore è intesa come rimozione del dolore fisico” e questa situazione corrisponde al temine greco “aponìa [senza dolore]”, ma soprattutto il “piacere [edoné]” è da intendersi come “la liberazione dell’anima dai turbamenti psichici e dai timori” e questa situazione corrisponde, in greco, al termine “ataraxìa” [imperturbabilità]. L’azione è etica – sostiene Epicuro – quando è capace di eliminare le sofferenze del corpo e i turbamenti dell’anima in modo da ottenere l’autosufficienza, in greco, “autàrcheia”. L’autosufficienza procura l’autonomia alla persona in modo che possa imparare a governare la propria libertà: senza regole – sottolinea Epicureo – non c’è libertà. «L’aponìa, l’ataraxìa e l’autàrcheia sono gli elementi che rendono la persona – scrive Epicuro, con ironia – in tutto simile agli dei».

     Epicuro probabilmente non si sarebbe mai aspettato che il suo pensiero potesse essere, a circa 2300 anni di distanza, di grande attualità. Eppure i temi che Epicuro ha proposto “sobriamente” – i temi di una disciplina che oggi viene chiamata la “bio-etica” – vengono ancora affrontati «sotto l’egida – direbbe Epicuro – del mito e della superstizione», come se combattere il dolore, evitare gli accanimenti terapeutici, fare in modo che la vita arrivi al suo termine in modo dignitoso per la persona [tanto per fare alcuni esempi] siano argomenti di carattere ideologico [nel significato più deleterio del termine] piuttosto che questioni esistenziali di carattere umanitario.

     Epicuro propone alle studentesse e agli studenti che frequentano il suo Giardino [una Scuola che è davvero per la prima volta aperta a tutti senza distinzioni di genere, di censo, di nazionalità] un catechismo pratico, una serie di regole, che dovrebbero mettere in condizione la persona di imparare a vivere meglio e ad avvicinarsi il più possibile alla felicità.

     Dobbiamo ricordare che la parola “catechismo” prende forma in epoca ellenistica e deriva, come sappiamo, dal termine “kathékon” che significa “dovere”. Il catechismo di Epicuro è stato sintetizzato in formule da Filodèmo di Gàdara. Filodèmo di Gàdara [110-30 circa a.C.] è stato – a distanza di due secoli dalla morte del maestro – uno dei più importanti divulgatori dell’epicureismo a Roma e in Italia ed è probabilmente attraverso questo canale che Lucrezio viene a contatto con il pensiero di Epicuro. Noi sappiamo che Filodèmo è vissuto ad Ercolano ed è stato amico di Virgilio, di Orazio, di Cicerone e ha scritto anche un certo numero di Epigrammi erotici che sono stati inclusi dell’Antologia Palatina, non sappiamo però nulla di un eventuale rapporto tra lui e Lucrezio.

     Ebbene Filodèmo di Gàdara ha condensato il catechismo di Epicuro in quattro formule, il cosiddetto “tetrafarmaco” che sicuramente Lucrezio conosce a memoria: che cosa dicono queste quattro formule? [Sono sicuro che riformulandole ve ne ricordate, se due anni fa eravate in viaggio].

     La prima formula dice: «Gli dei non sono da temere». La seconda formula dice: «Nella morte non si corre alcun rischio». La terza formula dice: «Il bene ci si procura facilmente». La quarta formula dice: «Il male è facile da sopportare con coraggio».

REPERTORIO E TRAMA per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Che cosa vi fa venire in mente la parola “timore”, e la parola “rischio”, e la parola “mansione”, e la parola “sostegno”?...

Bastano quattro parole per rispondere: scrivetele...

     Per Lucrezio la filosofia di Epicuro – di cui abbiamo tratteggiato le linee del pensiero etico – diventa la motivazione del suo impegno di poeta didascalico e sulla scia dell’etica epicurea Lucrezio mette in versi i temi ostici della fisica, dell’antropologia e della cosmologia.

     Come abbiamo detto, Lucrezio dedica il De rerum natura a Gneo Memmio, che era anche un poeta dilettante, piuttosto mediocre. Secondo la leggenda questo Memmio era il discendente di Mnesteo, compagno di Enea, il quale a sua volta era figlio di Venere e la figura di Venere viene chiamata in causa da Lucrezio. Il De rerum natura è un poema diviso in 6 libri che iniziano ciascuno con una raffinata introduzione e che si articolano, con un armonioso disegno architettonico, in tre gruppi di due libri ciascuno, che sono rispettivamente dedicati alla fisica, all’antropologia e alla cosmologia: probabilmente quest’opera è incompiuta perché il tema dell’etica non viene trattato in modo specifico da Lucrezio.

     Lucrezio non intende dare una spiegazione fredda e razionale dei fenomeni dell’universo, ma vuole dare una interpretazione poetica di essi: dell’armonioso aggregarsi e disgregarsi degli atomi, per cui tutte le cose nascono e muoiono, compreso l’essere umano che fa parte del tutto, senza dispersione, perché nulla nasce dal nulla e nulla muore riducendosi al nulla. Lucrezio stesso chiarisce nel primo libro la ragione per cui ha trattato una materia filosofica in forma poetica: vi è stato costretto, lui dice, perché altrimenti questi argomenti sarebbero stati troppo complicati per lo spirito poco speculativo dei romani, che “non sono avvezzi – scrive Lucrezio sarcasticamente – a riflettere in termini filosofici”.

     Il De rerum natura inizia con il celebre Inno a Venere e con il famoso verso: «Aeneadum genetrix [Madre dei Romani], hominum divumque voluptas [delizia degli uomini e degli dèi], alma Venus [divina Venere]». È parso strano che Lucrezio, negatore dell’esistenza degli dèi, abbia iniziato il suo poema proprio con l’invocazione ad una dèa: questa non è una contraddizione perché Lucrezio vuole, prima di tutto, seguire la tradizione dei poeti epici che invocano la Musa e poi vuole che chi legge veda nella figura di Venere un’allegoria della Natura. È la Natura la vera dèa e il termine “alma” – che accompagna il nome di Venere [alma Venus] e che traduciamo con il termine “divina” – rimanda anche ad altri significati che chiariscono il concetto dell’identificazione tra Venere e la Natura: difatti “alma” significa anche “che dà la vita, fertile, feconda, ricca, benefica” e inoltre si collega con la parola “voluptas” con la quale Lucrezio traduce dal greco in latino il termine “edoné [il piacere]” che viene interpretato nel senso della “delizia”.

REPERTORIO E TRAMA per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

C’è qualcosa, negli ultimi tempi, che vi ha deliziato particolarmente?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Per Lucrezio – così come per Epicuro [e anche Cicerone è dello stesso parere] – l’amore non deve cadere nella passionalità perché l’esplosione della passione amorosa finisce per procurare più dolore che piacere in quanto stimola l’istinto di possesso. L’amore deve essere “blandus”: naturalmente necessario e dolce in modo da creare la “delizia”, la serenità e la pace.

     E ora leggiamo l’inizio, l’incipit, del poema di Lucrezio:

LEGERE MULTUM.

Tito Lucrezio Caro, De rerum natura  [La natura]  Libro I  1-49. Inno a Venere

 Madre degli Eneadi [dei Romani], piacere degli uomini e degli dèi, alma Venere,

tu vivifichi il mare e la terra, a te sorride il cielo, te salutano gli uccelli

all’arrivo della primavera, per te saltano frementi gli animali nei pascoli,

te tutti seguono, conquistati dal tuo fascino: tu, ispirando nel petto dolce amore [amor blandus],

fai sì che le specie viventi si riproducano di continuo. E proprio perché

da sola governi tutta la natura e nulla di bello e di amabile può sussistere senza di te,

io desidero che tu mi sia compagna mentre canto sulla natura delle cose [de rerum natura] per spiegarle a Memmio.

Concedi dunque eterna grazia alla mie parole

e fa in modo che per mare e per terra tacciano le guerre, perché solo così,

quando avrai interceduto presso Marte in nome del tuo amore per ottenere ai Romani la pace,

io potrò poetare con animo tranquillo e Memmio potrà sottrarsi

ai suoi doveri politici per ascoltarmi. Non posso infatti in questo tempo avverso

alla patria compiere l’opera sereno, né può la nobile progenie di Memmio mancare

in quest’ora alla salvezza comune. Di per sé infatti ogni natura divina deve godere

in pace perfetta della vita immortale, remota dalle nostre cose e del tutto estranea.

Poiché immune da ogni dolore, salva dai pericoli, padrona delle proprie forze,

non ha alcun bisogno di noi, non è conquistata dai meriti e non è toccata dall’ira.

    Tito Lucrezio Caro scrive il suo poema in un periodo di forti sconvolgimenti nella storia di Roma e ne dà testimonianza dicendo: “Non posso infatti, in questo tempo avverso alla patria [hoc patriae tempore iniquo], compiere l’opera sereno”. E la serenità Lucrezio crede di poterla trovare nel pensiero di Epicuro- Sappiamo che la dottrina di Epicuro pone al centro del proprio interesse la ricerca della felicità attraverso la liberazione dalla paura della morte e Lucrezio intende divulgare nella sua opera i principi fondamentali di questo pensiero [a cominciare dalla complicata Fisica epicurea].

     Il primo principio che Lucrezio enuncia è che l’universo è composto da atomi in continuo movimento e dal vuoto, poi enuncia che il nostro mondo non è l’unico mondo esistente, e che non c’è alcuna divinità operante all’interno della natura, e che gli dèi, se esistono, vivono negli “intermundia”, in immaginari spazi ultraterreni che mai abbandonano per non essere coinvolti nelle umane vicende e, quindi, enuncia  che l’anima nasce, cresce e muore insieme al corpo e, poiché l’anima è mortale, la morte non ci riguarda: anzi, la stessa natura ci invita a lasciare l’esistenza come convitati ormai sazi. Anche le mitiche pene dell’oltretomba non sono che proiezioni delle nostre ansie e delle nostre paure. Lucrezio svolge con grande rigore la sua dimostrazione mettendo in luce che il timore della morte è irrazionale in quanto si basa sulla falsa asserzione che la sensazione permanga al di là della vita.

     Lucrezio enuncia che la vita deve essere vissuta imparando ad eliminare [o ad attenuare] il dolore e ricercando la serenità senza proiettare sulla morte la paura di castighi oltremondani ma coltivando la speranza della completa liberazione dal dolore. Questi contenuti, difficili da comunicare, sono trasmessi da Lucrezio attraverso strumenti poetici [una “sapienza poetica” di stampo ellenista] di straordinaria efficacia: ed è lui stesso ad affermare che proprio la poesia ha il compito di addolcire «col fascino delle Muse [musaeo…lepore, “lepos” significa “grazia, piacevolezza, fascino”]» la difficile dottrina che intende trasmettere alla persona che legge, così come fanno i medici quando spalmano di miele, per i bambini, l’orlo della tazza che contiene una amara medicina. E la poesia – se deve fare luce su ardui concetti scientifici –, per attrarre la persona che legge e conquistarne l’adesione, deve ricorrere al mito, alla metafora, alla similitudine, cercando di conferire concretezza sensibile anche all’invisibile.

     Il I libro del De rerum natura – come abbiamo letto – si apre con l’invocazione a Venere e la con dedica a Memmio. Poi Lucrezio, dopo l’enunciazione dell’argomento che vuole trattare, tesse l’elogio di Epicuro e confuta il dubbio che la dottrina epicurea sia sacrilega, dimostrando, con l’episodio del sacrificio di Ifigenia, come la “religione” sia causa di orrendi misfatti.

     Lucrezio cita il testo della famosa tragedia di Euripide [480-406 a.C.] intitolata Ifigenia in Aulis [abbiamo incontrato quest’opera nel Percorso sul territorio della Tragedia, nel 2004]. Probabilmente ricordate la trama e i temi trattati nel testo di questa tragedia: l’enorme esercito degli Achei è pronto, sulla costa dell’Aulide, per salpare, su mille navi, alla volta di Troia, ma non soffia un alito di vento. La dèa Artemide, alla quale era stato promesso un sacrificio se avesse fatto soffiare venti favorevoli per permettere la partenza dei Greci, questo sacrificio lo pretende prima, come atto di sottomissione. E pretende, per giunta, che le venga sacrificata Ifigenia, la giovane figlia di Agamennone [il comandante supremo] e di Clitennestra [la sorella di Elena]: questo è un contrattempo non da poco. Clitennestra naturalmente è assolutamente contraria, preferisce che si rinunci alla guerra e pensa, tra l’altro, che Elena, se è scappata, avrà avuto le sue ragioni. Agamennone, sebbene desolato, cerca di convincere la moglie, che, per ragioni di potere, per esigenze di immagine, a questo sacrificio [a questa “religione”] non ci si può sottrarre. Ma Clitennestra non cede. Il fatto è che Ifigenia era anche stata promessa in sposa ad Achille, e lui aveva pensato che questo matrimonio avrebbe potuto cambiare il suo destino.

     Euripide – e Lucrezio segue il suo ragionamento – utilizza i modelli simbolici della tragedia e imbastisce una riflessione poderosa sulla condizione umana, sul fatto che, in origine, c’è il male [c’è il dolore] ed è difficile combatterlo perché il male ha un fascino perverso e la sua utilizzazione è conveniente per chi domina. Questa tragedia di Euripide, secondo il suo stile, è imbastita di verismo e di denuncia contro l’ipocrisia del potere, che si fa complice del male utilizzando la “religione”. Euripide non ha nessuna simpatia per chi usa il mito e la “religione” [in cui il male viene giustificato] come uno strumento per comandare, e per strumentalizzare. Ifigenia ed Achille – nella tragedia di Euripide a cui fa riferimento Lucrezio – vengono ingannati da Agamennone il quale preferisce sacrificare la figlia per non perdere la faccia davanti agli Achei che lo avevano nominato capo supremo. Ad Ifigenia viene detto che in Aulide sposerà Achille, e lei parte fiduciosa, ed anche ad Achille viene detto di prepararsi per questo evento nuziale: nozze e sacrificio [la ierogamia, altro tema caro ad Euripide] sono pericolosamente legate insieme sotto l’egida crudele della “religione”, e Lucrezio – nel Libro I del De rerum natura – compie in modo esplicito la riflessione sulla differenza tra la “religione cruenta e alienante al servizio del potere” e la “fede in un ideale liberante”.

     Lucrezio poi confessa la difficoltà di trattare in latino la dottrina di Epicuro, e dopo averne proposto e discusso il punto fondamentale – «nulla si genera dal nulla e nulla nel nulla ritorna» –, espone la teoria degli atomi, indistruttibili e indivisibili, dal cui incontro nascono tutte le cose, e del vuoto, necessario per il movimento degli atomi stessi. Lucrezio, di conseguenza, confuta le dottrine di Eraclito, che considera il fuoco l’arché [il principio] di tutte le cose, di Empedocle, che va comunque lodato come poeta e di Anassagora, sostenitore del principio delle omeomerìe [elementi simili], le infinite particelle [semi] che danno origine ai corpi. Il primo libro si chiude con la dimostrazione dell’infinità dell’universo.

     Gli argomenti del poema di Lucrezio ci mettono in contatto con un ampio ventaglio d’intrecci filologici [che non abbiamo la possibilità di dipanare ma, tuttavia, la Scuola indica oggetti sui quali potete esercitare la ricerca]: a proposito della figura di Venere – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – possiamo puntare l’attenzione su un autore che abbiamo incontrato a novembre nel corso del sesto itinerario di questo viaggio, questo scrittore si chiama Prosper Mérimée [1803-1870] ed è l’autore del romanzo intitolato Carmen di cui abbiamo letto alcune pagine evocative in relazione alla parola-chiave “carmen” che, in latino, significa “la voce della poesia”. Ebbene, Prosper Mérimée nel 1837 ha pubblicato un racconto intitolato La Venere d’Ille che merita di essere letto.

     Ad Ille – siamo nei Pirenei Orientali – un dilettante appassionato di antichità ha trovato nel suo terreno una bellissima statua di Venere di rame che lui conserva con orgoglio sebbene questa statua abbia un’aria cattiva e la gente ne abbia paura: non ha questa Venere l’aspetto benefico di quella descritta da Lucrezio e il figlio di questo signore entra in relazione con questa statua.

REPERTORIO E TRAMA per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Cercate in biblioteca questo racconto di Prosper Mérimée intitolato La Venere d’Ille, è uno dei capolavori di questo scrittore ed è lungo appena una ventina di pagine: leggetelo… 

     Ora noi leggiamo due brani dal Libro I del De rerum natura di Lucrezio: l’elogio di Epicuro e il compianto su Ifigenia per proclamare “l’empietà della religione”.

LEGERE MULTUM.

Tito Lucrezio Caro, De rerum natura  [La natura]

Libro I  62-101.  Elogio di Epicuro. Ifigenia o l’empietà della religione

Quando la vita umana - vergogna agli occhi di tutti - giaceva a terra oppressa

dal peso della religione che dalle regioni del cielo mostrava il suo orribile volto,

dall’alto incombendo sui mortali, per primo un uomo greco ardì levarle contro

gli occhi mortali, per primo osò e non lo schiacciarono le dicerie sugli dèi,

né i fulmini, né il cielo con minaccioso mormorio, anzi, ancor più ne accesero l’ardente valore dell’animo,

sì che volle per primo spezzare le sbarre serrate alle porte della natura.

E dunque vinse il vivo vigore dell’animo, avanzò lontano oltre

le fiammeggianti mura del mondo e percorse con la mente e col cuore l’immenso universo, c

hiarendo che cosa può nascere e che cosa non può, e poi per quale ragione ogni cosa

ha un potere definito e un confine preciso. Perciò la religione è stata  sottomessa

e questo ci avvicina al cielo. Una cosa io temo a questo punto,

che tu creda di doverti iniziare ai principi di un’empia dottrina e incamminarti

su una via scellerata. Fu invece molto spesso proprio la religione a generare

atti empi e scellerati. Così in Aulide l’altare della vergine Trivia insozzarono turpemente

col sangue di Ifianassa [la povera Ifigenia] gli eletti duci dei Danai,

fior fiore di eroi. Appena la benda avvolta alle chiome virginee le ricadde pari

ai lati delle guance, e sentì che mesto presso l’altare stava suo padre e accanto a lui

i sacerdoti celavano il ferro e a vederla i cittadini versavano lacrime, muta di terrore

crollava a terra in ginocchio. Non poteva in quel momento giovarle, infelice,

l’aver donato al re il nome di padre per prima: fu sollevata a braccia dagli uomini

e tremante condotta all’altare, non per essere accompagnata, dopo il rito solenne,

da Imeneo col suo canto, ma per cadere, empiamente pura nel tempo stesso

delle nozze, mesta vittima immolata dal padre condottiero, perché fosse concessa

alla flotta fausta e fortunata partenza. A tanto male poté indurre la religione.

     E ora, sempre dal Libro I del De rerum natura, leggiamo un brano complesso che ha come tema il principio che “nulla nasce dal nulla [Tutto è fatto di atomi, eterni e indistruttibili, che si aggregano e si disgregano incessantemente]”. Ed è lo stesso Lucrezio a dirlo: «Né sfugge al mio animo che è difficile chiarire in versi latini le oscure scoperte dei Greci, soprattutto perché di molte cose si deve discutere con nuove parole, per la povertà della lingua e la novità della materia». «Però – aggiunge Lucrezio – per il piacere dell’amicizia mi sono persuaso a sopportare qualsiasi fatica e a vegliare nelle notti serene, cercando con quali parole e con quale canto [carmen] io possa spandere davanti alla vostra mente una chiara luce, con cui voi riusciate a scrutare nel profondo la natura delle cose».

     Siamo di fronte a due pagine difficili da leggere e da capire ma molto belle nella loro complessità: Lucrezio ha avuto coraggio a mettere in versi i principi della Fisica della Scuola epicurea.

LEGERE MULTUM.

Tito Lucrezio Caro, De rerum natura  [La natura]  Libro I  127-164. Nulla nasce dal nulla

Perciò se dobbiamo ragionare bene sulle cose celesti, su come avvengano i moti

del sole e della luna e per quale forza si compia in terra ogni cosa, ancor più dobbiamo capire

di che cosa sia fatta l’anima e la natura dell’animo e cosa atterrisca le nostre menti

quando, vegliando ammalati o dormendo sepolti nel sonno, ci par

di vedere e udire innanzi a noi chi ha incontrato la morte, e le ossa accolte nell’abbraccio della terra.

Né sfugge al mio animo che è difficile chiarire in versi latini le oscure scoperte dei Greci

per la povertà della lingua e la novità della materia, soprattutto perché di molte cose

si deve discutere con nuove parole, eppure il piacere della nostra soave amicizia

mi persuade a sopportare qualsiasi fatica e mi invita

a vegliare nelle notti serene, cercando con quali parole e con quale canto alla fine

io possa far chiara luce alla tua mente perché tu riesca a scrutare nel profondo le cose.

E allora questo terrore e le tenebre dell’animo lo devono dissipare non i raggi del sole

e i luminosi dardi del giorno, ma la visione e la scienza della natura. Il suo principio

per noi avrà inizio da qui: nulla mai nasce dal nulla per volere divino. Certo così

la paura stringe tutti i mortali, perché in terra e in cielo vedono accadere molti fatti

di cui non possono ravvisare in alcun modo le cause e credono che avvengano

per volere di un dio. Perciò quando vedremo che nulla può prodursi dal nulla,

già da allora con più chiarezza potremo distinguere ciò che perseguiamo,

e da dove ogni cosa possa prodursi e in che modo accada senza intervento divino.

Se infatti dal nulla si creassero le cose, da ognuna di esse potrebbe nascere ogni specie,

nulla avrebbe bisogno di un seme. Dal mare anzitutto potrebbero sorgere

gli umani, dalla terra la specie squamosa e gli uccelli erompere dal cielo, armenti

e altre greggi e ogni specie di fiere, partoriti alla rinfusa, potrebbero venir dal deserto.

Né sugli alberi si manterrebbero sempre gli stessi frutti, bensì muterebbero

e tutti potrebbero produrre di tutto. Che se non esistessero per ciascuno i corpi generatori,

come potrebbero le cose aver sempre una certa madre?Ma in realtà, poiché da certi semi

ogni essere è creato, non da ogni cosa può nascere ogni cosa, perché in ogni certa creatura

c’è un distinto potere. E poi per quale motivo in primavera vediamo effondersi la rosa,

il grano d’estate, le viti al richiamo d’autunno, se non perché quando confluiscono a tempo debito certi semi di cose,

ogni creatura si svela, mentre è la stagione opportuna e la terra viva produce teneri esseri alle rive della luce?

Va dunque riconosciuto che nulla può nascere dal nulla poiché alle cose è necessario

un seme da cui ciascuna possa prodursi e sbocciare agli aliti lievi dell’aria. Infine,

è evidente che nella terra ci sono i principi delle cose che noi, voltando col vomere

le zolle feconde e soggiogando il suolo della terra, destiamo alla vita. Per di più,

la natura torna a dissolvere ogni essere nei suoi corpi primi, ma non lo riduce al nulla.

Se infatti qualcosa fosse mortale in tutte le sue parti, ogni essere svanirebbe,

strappato d’un tratto alla nostra vista: non ci sarebbe allora bisogno di alcuna forza capace

di disgregarne le parti e scioglierne l’intreccio. In realtà, poiché le cose sono tutte formate

da seme eterno, fin quando non sopraggiunge una forza che nell’urto le fenda

o vi penetri dentro nei vuoti e le disgreghi, la natura non lascia vedere il disfarsi

di nessuna. E ciò che il tempo rimuove per vecchiaia, se lo distrugge consumando

a fondo tutta la materia, di dove trae Venere la stirpe animale, secondo le specie,

alle rive della luce, di dove la terra operosa la nutre e l’accresce, procurando il cibo secondo le specie?

Di dove alimentano il mare le sue fonti native e i fiumi lontani?

Di dove il cielo nutre le stelle? Allora tutto ciò che possiede un corpo mortale già sarebbe

stato consumato dal tempo infinito e dai giorni trascorsi. Che se in quello spazio di tempo trascorso

ci sono sempre stati i principi con cui si è formato questo mondo, sono certo dotati di natura immortale:

non possono dunque tornare nel nulla. Ma in realtà, poiché intrecci differenti serrano i principi fra loro

e la materia è eterna, le cose rimangono col corpo intatto fin quando si fa avanti una forza abbastanza potente

per il tessuto di ciascuna. Non ritorna dunque al nulla nessuna cosa, ma tutte disgregandosi

ritornano ai corpi elementari della materia. Infine svaniscono le piogge quando il padre cielo

le precipita nel grembo della madre terra, ma lucenti spuntano le messi

e verdeggiano i rami sugli alberi, e questi crescono e si appesantiscono

di frutti. Di qui poi si nutre la specie nostra e quella animale. Di qui vediamo fiorire

di bambini le prospere città e d’ogni parte le selve frondose risuonare delle ultime nidiate.

Di qui le pecore gravate dal pasto nei pascoli grassi adagiano il corpo e cola

il candido latte dalle tese mammelle. Di qui gli ultimi nati sulle zampe malferme impazzano

fra l’erba tenera, con le giovani menti travolte dal latte inebriante.

Ciò che si vede non perisce fino in fondo poiché la natura ricava una cosa dall’altra

e non lascia che se ne generi alcuna se non grazie alla morte di un’altra.

     Non è facile mettere in versi il tema della fisica nella filosofia epicurea – il primo a riconoscerlo è stato Cicerone –, anche perché, come dichiara lo stesso Lucrezio, la lingua latina era ancora afflitta, nel I secolo a.C., da una grande povertà [“egestas”, la chiama Lucrezio] in ambito filosofico e, quindi, bisogna inventarsi delle parole e Lucrezio ha saputo superare questo limite arricchendo il lessico scientifico latino con la continua creazione di termini nuovi ricorrendo a perifrasi quali “rerum natura” per definire il termine greco “ physis physis [la natura]” o la dicitura “naturae species ratioque” per definire la “scienza della natura [in greco physiologia physiologìa]”. Anche per definire gli “atomi” Lucrezio ha dovuto inventare diverse espressioni e difatti, volta a volta li chiama “genitalia corpora”, “corpora prima”, “primordia”, “semina rerum” tenendo conto del fatto che doveva pure rispettare il ritmo dei versi esametri, il metro della poesia.

     E nel I Libro del De rerum natura c’è un bellissimo elogio della “poesia” [della sapienza poetica] che Lucrezio chiama “dolce filtro della conoscenza”: una delle più belle definizioni, a detta di Leopardi, che siano state date della “poesia”. Leggiamo, in proposito, questo frammento:

LEGERE MULTUM.

Tito Lucrezio Caro, De rerum natura  [La natura]

Libro I  921-950. La poesia, dolce filtro della conoscenza

Avanti, ora apprendi quanto resta e ascolta accenti più alti. Non mi sfugge quanto siano oscuri,

ma una grande speranza di gloria ha percosso il mio cuore col tirso appuntito e insieme ha impresso nel mio petto

il dolce amore delle muse: grazie a lui che m’ispira, con mente vigorosa percorro

le impervie regioni delle Pieridi, mai prima calcate da piede umano. Mi piace accostarmi a pure sorgenti e attingervi,

mi piace cogliere fiori nuovi e insolite trame, per il mio capo un’eletta corona

con cui mai a nessuno le muse hanno prima adombrato le tempie, anzitutto

perché insegno grandi cose e mi sforzo di sciogliere l’animo dai nodi indistricabili

delle superstizioni, poi perché compongo sì limpidi canti su un’oscura materia,

toccando ogni cosa col fascino delle muse. Anche questo infatti appare non privo

di ragione, ma come i medici, quando vogliono dare l’acre assenzio ai bambini,

toccano prima l’orlo della tazza col dolce fluido biondo del miele per illudere le loro labbra

perché intanto trangugino il farmaco amaro, così io, poiché questa dottrina

di solito sembra troppo tetra a chi non la pratica e la gente ne rifugge lontano, ora

ho voluto esporre per te questo pensiero col dolce filtro della conoscenza, toccarlo

col dolce miele delle muse, affinché con questi nostri versi tu esamini tutta la natura delle cose

e tu ben capisca in qual forma essa sia composta e sia regolata.

     Nel II Libro del De rerum natura Lucrezio discute dell’incessante moto degli atomi e introduce la teoria del “clinamen” [la deviazione degli atomi] cioè del particolare modo in cui gli atomi cadono per aggregarsi tra loro secondo una logica creativa, poi il poeta passa a descrivere l’infinito numero delle forme atomiche e della varietà delle loro combinazioni. Poi Lucrezio fa una digressione sul culto orgiastico della Magna Mater [la Grande Madre] che, secondo lui, richiama inconsciamente il perpetuo formarsi e disgregarsi degli infiniti mondi costituiti dagli atomi.

     Ma il Libro II del De rerum natura si apre con la celebre esaltazione della beatitudine del sapiente, che attraverso la conoscenza razionale delle leggi della natura persegue la tranquillità dello spirito. Questo inno si presenta con la descrizione di una scena molto particolare che ha il senso del paradosso: “È rassicurante [è dolce] guardare dalla terraferma qualcuno che su una barca è sballottato dal mare in tempesta e questo non perché la sofferenza altrui sia causa di piacere ma perché si prova consolazione nel constatare da quali travagli ci si sia liberati” [è una metafora provocatoria ma assolutamente realistica: tiriamo sempre un sospiro di sollievo quando scampiamo ad un disastro]. Ma leggiamo questo brano, uno dei più celebri del poema di Lucrezio:

LEGERE MULTUM.

Tito Lucrezio Caro, De rerum natura  [La natura]

Libro II  1-62. La lode della sapienza: contemplare il naufragio dalla terraferma

È dolce stare a guardare dalla terraferma qualcuno che è sballottato qua e là dal mare in tempesta,

e non perché la sofferenza altrui sia causa di piacere, ma perché si prova consolazione

nel constatare da quali travagli ci si sia liberati. Per lo stesso motivo è piacevole assistere,

al riparo dai pericoli, allo scontro fra due eserciti, ma nulla è più piacevole

che abitare su in alto nei templi sereni della sapienza, e di là guardare

gli umani che si danno da fare per superarsi gli uni gli altri in una continua ricerca

di qualcosa che non sanno trovare. Ahimè, come sono infelici le persone che

si aggirano nelle tenebre dell’ignoranza! Come possono non rendersi conto che

alla natura umana bastano poche cose: l’assenza del dolore fisico e la tranquillità dello spirito?

Quanto al corpo è sufficiente soddisfare ad alcune esigenze naturali

per eliminare la sofferenza e godere di qualche piacere: tutto il resto è superfluo,

anche se talvolta può riuscire piacevole - ma non indispensabile - ritrovarsi tra amici,

sull’erba fresca di rugiada vicino ad un ruscello, sotto una pianta nello splendore della primavera,

piuttosto che nell’ambiente ricercato dei fastosi e dispendiosi banchetti nelle case dei ricchi,

illuminate da statue dorate di fanciulli, e riecheggianti del suono della cetra.

E, quando si è ammalati, un letto ricoperto di porpora e

di tappeti ricamati non facilita certo la guarigione più che un giaciglio qualsiasi.

Per di più le ricchezze, la nobiltà e la potenza come non giovano alla salute del corpo,

non giovano neanche alla serenità dell’animo: a meno che qualcuno pensi che la vista delle parate militari

e degli scontri della cavalleria serva a far scappare dalle nostre menti le preoccupazioni

e gli affanni, le superstizioni e la paura della morte.

Allora, una volta che si è capito che tutto questo è semplicemente ridicolo,

che il rumore delle armi e i tanto temibili dardi non possono certo fugare le paure

che travagliano il nostro animo, una volta che si e capito che anche i ricchi conoscono

queste paure e che a nulla serve lo splendore dell’oro o il fulgore delle vesti

di porpora per tenerle lontane, perché negare ancora che l’unica cosa che può aiutarci e salvarci è la ragione?

Il fatto è che quando non usiamo la ragione, noi siamo peggio dei bambini che al buio hanno paura di tutto,

anche di quello che non c’è. E questo buio, questo tenebroso terrore dell’animo,

può essere fugato solo sul luminoso cammino dello studio razionale e sulla via dalla perfetta conoscenza della natura.

     Il brano che abbiamo letto ci conferma quanto sia di stringente attualità la sua opera in un modo in preda a sempre nuove forme di alienazione.

     Tutta questa grandiosa architettura poetica non avrebbe mai visto la luce se Lucrezio non si fosse messo a studiare il pensiero di Epicuro il quale, nel corso del poema, viene invocato e lodato come un liberatore, come una figura paterna, come una divinità terrena, come il punto di arrivo della storia umana. Grazie a lui – scrive Lucrezio – si può realizzare la vittoria sulla superstizione che non può essere conseguita se non con un attacco indiretto: solo attraverso lo studio e la conoscenza della natura la persona impara a riconoscere le vere cause dei fenomeni ed è in grado di liberarsi dalle spiegazioni magiche e irrazionali che vengono date erroneamente degli eventi che quotidianamente la coinvolgono. Lucrezio descrive la lotta contro la “religione [l’alienazione in generale]” come se fosse una “Gigantomachìa”: la lotta per l’annientamento di un mostro che si affaccia dal cielo e la cui distruzione è la premessa per nuove conoscenze con le quali costruire una diversa “civitas”, un diverso modo di convivenza fra gli esseri umani.

     Il III Libro del De rerum natura si apre con un vero e proprio inno in onore di Epicuro, al quale segue però un fosco quadro della misera condizione degli esseri umani, abbrutiti dal timore della morte e dell’al di là. Poi Lucrezio parla della natura e della composizione dell’anima e fa la distinzione tra “l’animus” che ha la sua sede nel petto e che è il principio intellettivo, e “l’anima” che è il principio vitale, diffuso in tutto il corpo: di conseguenza “l’anima” è mortale e questa constatazione deve far riflettere sul non giustificato e vano timore della morte. La morte è nulla per noi, e non ci tocca minimamente: le pene dell’al di là non esistono altro che nella nostra fantasia come proiezione dei nostri sensi di colpa. Le pene infernali sono nella vita – afferma Lucrezio – e l’impegno degli esseri umani è rivolto verso il miglioramento della qualità della vita a partire dall’idea della “vanità della morte”. Leggiamo due brani dal Libro III del De rerum natura:

LEGERE MULTUM.

Tito Lucrezio Caro, De rerum natura  [La natura]

Libro III  1-86. Inno a Epicuro. Effetti del timore della morte - Libro III  830-1094. Nulla è la morte

Te, o Epicuro, in mezzo alla generale ignoranza, hai illuminato per primo la via

che porta alla felicità: io non voglio, né saprei, gareggiare con te, e perciò mi limito ad imitarti.

Tu sei un padre, sei lo scopritore della verità e dai tuoi scritti io raccolgo

i tuoi aurei insegnamenti. La tua dottrina, rivelando la vera natura delle cose,

ha fugato molti pregiudizi che mi terrorizzavano: ora, finalmente, mi rendo conto

che gli dèi ce li immaginiamo e pensiamo se ne stiano tranquilli nelle loro sedi beate,

dove sempre splende il sole, ora mi rendo conto che da nessuna parte esiste l’Ade

con le sue terribili pene. E di fronte a tutte queste cose, di fronte all’infinità che

mi si schiude nella sua vera struttura, provo una gioia divina e nello stesso tempo

un senso di smarrimento. Così, dopo aver spiegato l’esistenza degli atomi e il loro continuo

aggregarsi a formare le cose, mi accingo ora a chiarire i problemi relativi all’anima e, di conseguenza,

ad eliminare una volta per tutte quella gran paura

dell’al di là che sconvolge gli umani togliendo loro qualsiasi forma di piacere.

Esiste, è vero, qualcuno che considera la morte come un male minore delle malattie

o di una vita turpe, e che perciò dichiara di non aver affatto bisogno di conoscere

la verità sull’anima, ma è chiaro che i tipi come quelli parlano solo per falso orgoglio:

infatti sono proprio loro i primi che, quando si trovano in situazioni disperate,

non solo non affrontano a viso aperto la morte, ma si attaccano alla vita ricorrendo

perfino alle pratiche più superstiziose pur di salvarsi. In verità la paura della morte

è la causa prima di tutte le passioni più empie e più abbiette: l’avidità di ricchezze

e la brama di onori che spingono le persone a superare ogni limite, altro non sono

che una conseguenza di tali paure: e proprio per salvarsi dalle miserie, dal disprezzo

e dalla povertà, in cui vedono un pericolo di morte, odiano e uccidono i loro simili.

Talvolta, anzi, il timore della morte è tale che gli esseri umani si uccidono,

in un estremo quanto assurdo tentativo di sottrarsi ad essa. Noi infatti

siamo peggio dei bambini al buio, ed abbiamo paura di tutto, anche di quello

che non c’è: e solo la retta conoscenza della natura può liberarci dalle tenebre

dell’ignoranza e della paura. Nulla è la morte per noi e per nulla ci riguarda,

dal momento che si è dimostrato che l’anima è mortale. Come prima di nascere,

noi non abbiamo sofferto il benché minimo dolore, nonostante guerre terribili e decisive

abbiano fatto tremare di spavento il mondo intero, così, quando saremo morti e

il nostro corpo e la nostra anima si saranno separati, e possiamo stare sicuri che

niente potrà toccarci o muovere i nostri sensi, neppure se avvenissero i più gravi sconvolgimenti.

Anche ammettendo, poi, che l’anima conservi la sua sensibilità, ciò non ci deve importare,

perché è noto che per esistere e sentire è indispensabile che

in noi l’anima e il corpo siano uniti. E se dopo la nostra morte il tempo rimettesse insieme

tutta la nostra materia disponendola allo stesso modo in cui si trova ora, così che

noi tornassimo a vivere - e ciò è possibile, in virtù della infinita varietà

dei movimenti della materia -, neppure questo ci deve interessare, perché noi non ci ricorderemo

di avere avuto una vita anteriore a causa della lunga interruzione che vi si sarà frapposta: del resto,

neanche oggi, ci importa di sapere quello che siamo stati prima. In effetti, dopo la morte

nulla di male potrà accaderci, per il semplice fatto che non ci saremo più,

giacché l’esistenza è la condizione indispensabile perché

una qualche disgrazia ci possa capitare. Così, coloro che, pur sostenendo di credere alla mortalità dell’anima,

si lamentano al pensiero che dopo la morte il loro corpo marcirà o sarà bruciato

o verrà lasciato in pasto alle belve, dimostrano chiaramente

di essere incoerenti e di avere un falso concetto della morte: essi, infatti, pensano,

quasi inconsciamente, che qualcosa di loro sopravviva dopo la morte e provano compassione

del loro corpo, finendo con il confondersi con esso e con l’attribuirgli sensazioni e sentimenti

che esso non può avere. In realtà dopo la morte l’essere umano non può più preoccuparsi

o soffrire per il proprio cadavere, perché non ci sarà più, e in tali condizioni un tipo di sepoltura

vale l’altra: il finire in pasto alle fiere non è certo peggio che essere bruciati sul rogo

o essere annegati nel miele o essere schiacciati dal peso della terra.

L’angoscia e il dolore stessi di coloro che sopravvivono sono irragionevoli e inutili:

essi commiserano i loro cari defunti per tutte le belle cose che hanno lasciato morendo,

la casa, la moglie, i figli, come se in chi è morto sopravvivesse una qualsiasi forma di rimpianto

o di desiderio per le cose avute in vita, molto più coerente, una volta che ci si sia resi conto

di questo assoluto stacco che si è verificato con la morte, sarebbe bene rivolgersi

alla cara persona estinta complimentandosi con lei perché ha finito di soffrire

e ha raggiunto finalmente la pace, mentre le persone sopravvissute, continuano a vivere

in un dolore inconsolabile: infatti, se morire vuol dire addormentarsi per sempre in pace,

che senso ha piangere chi è morto? Inoltre, non meno stolti di quelli che si abbandonano

a scene di disperazione sono coloro che, quasi per rifarsi delle privazioni che

dovranno soffrire dopo la morte, mangiano e bevono finché possono: come se

nella morte potesse tormentarli la fame o la sete o essi dovessero rimpiangere quello che

potevano avere in vita. La morte è come il sonno: anzi, è qualcosa di più completo,

di più perfetto: perché se dopo il sonno, durante il quale non proviamo nessuno stimolo,

uno riprende facilmente le sue normali funzioni, dalla morte

non c’è risveglio, gli stimoli non si fanno più sentire e la tranquillità è eterna.

     Voi capite che, nei secoli a venire, i Padri della Chiesa – Gerolamo in particolare –, pur contestando l’affermazione sulla “mortalità dell’anima”, condivideranno molte asserzioni lucreziane di provenienza epicurea: specialmente la visione sulla “vanità [sull’inconsistenza] della morte” e, non a caso, le affermazioni come “l’eterno riposo”, “riposino in pace” sono congruenti al pensiero che la morte sia un sonno ristoratore, una quiete pacificatrice, una tregua benefica, un ambito, affrancato dal Tempo e dallo Spazio, esente dal dolore, e sarebbe necessario – afferma Lucrezio, sulla scia di Epicuro – venire educati a questa convinzione per esorcizzare la paura.

     Il IV Libro del De rerum natura si apre con l’esaltazione da parte di Lucrezio della propria capacità poetica [della sua “sapienza poetica”] con la quale lui ha messo in relazione lo “splendore delle Muse” con le “oscure leggi della Natura”.

     Lucrezio descrive il meccanismo della varie funzioni del corpo, dei sensi, dei desideri, delle idee. Descrive come le sensazioni siano provocate da gruppi di atomi sottilissimi che chiama “simulacra” che si staccano dai diversi oggetti ed entrano nel corpo della persona dando origine alla vista, al tatto, all’udito, all’olfatto, al gusto. I “simulacra”, i gruppi di atomi particolarmente sottili vaganti per l’aria, sono all’origine – scrive Lucrezio – non solo delle idee che abbiamo in mente ma anche dei sogni, delle illusioni e delle cose inesistenti.

     Infine spiega che, oltre al bisogno di mangiare e di bere, anche le passioni amorose dipendono dagli atomi e il Libro si chiude con la famosa descrizione dei tragici effetti della passione d’amore: ed è questo brano – esemplare dal punto di vista poetico – a far pensare che Lucrezio abbia vissuto una negativa esperienza amorosa con l’aggravante di quella affermazione secondo cui “Lucrezio fu colto da follia per aver assunto un filtro d’amore”. Ma, indipendentemente da questo misterioso avvenimento, la riflessione di Lucrezio sulle caratteristiche dell’amore, sul senso da dare al concetto di “voluptas”, costituisce un momento significativo per la Storia del Pensiero Umano e ancora una volta saranno i Padri della Chiesa – a cominciare da Gerolamo – a dar valore alle affermazioni di Lucrezio perché effettivamente il poeta fa una precisa distinzione tra il sentimento dell’amore – quello che lui chiama “amor blandus, amore dolce e affettuoso” – e le degenerazioni della passione amorosa che producono più sofferenza, più sacrifici che piacere: «Nella passione amorosa – scrive Lucrezio – si trovano innumerevoli mali [in amore mala inveniuntur innumerabilia]».

     Sappiamo che il poema si apre con la grandiosa invocazione [in forma di inno] a Venere, la dea dell’amore considerata come una forza cosmica ispiratrice del continuo moto degli atomi, come il simbolo del piacere [della voluptas] a cui ogni essere tende: Venere crea un piacere che s’identifica con l’ordine e la pace, quindi, sviluppa due elementi che sono opposti al dolore, alla guerra, alla morte, all’influsso di Marte. La Venere lucreziana compendia in sé due funzioni: infonde il desiderio di vita incitando, attraverso il “blandus amor [l’amore dolce e affettuoso]” ogni specie a fecondarsi e a propagarsi [l’amore “in movimento” lo chiama Epicuro] e, contemporaneamente, Venere restituisce la quiete e l’armonia nel mondo [l’amore “in riposo”]. Tutto questo potrebbe avvenire – allude Lucrezio – se Venere esistesse davvero come “mente divina”, ma Venere è solo un’allegoria, è un’immagine che si forma nel nostro pensiero per opera dei “simulacra”, degli atomi più leggeri. Di conseguenza – afferma Lucrezio –, siccome la caduta degli atomi è casuale e non è ben congegnata, nel sistema c’è un tarlo per cui la benefica “voluptas” nasconde in sé delle malefiche degenerazioni: le degenerazioni della passione amorosa-

     L’ambivalenza del termine “voluptas” ci porterebbe, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, ad alzare il sipario su innumerevoli scenari perché la parola-chiave “voluptas” – che è stata tradotta con il termine “voluttà” – ha assunto un ampio ventaglio di significati anche contrastanti. Il termine “voluttà” richiama le parole “piacere, godimento, diletto, ebbrezza, dolcezza, delizia, estasi, eccitazione, passione, angoscia, tormento, assillo, inquietudine, logorio, strazio”: nel concetto di “voluttà” c’è un’attrazione verso la vita ma c’è anche un rimando, un richiamo alla morte.

REPERTORIO E TRAMA per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole - piacere, godimento, diletto, ebbrezza, dolcezza, delizia, estasi, eccitazione, passione, angoscia, tormento, assillo, inquietudine, logorio, strazio, o quale altra parola – mettereste per prima accanto al termine “voluttà”?...

Scrivetela, lasciatevi prendere dal momento voluttuoso e inebriante della scelta...

     Ebbene, con questo ampio catalogo di significati eterogenei la parola “voluttà” è entrata con impeto nel grembo della Letteratura: che cosa possiamo scegliere in proposito, su quali oggetti possiamo puntare la nostra attenzione? La Scuola propone la conoscenza di due opere, in primo luogo per sapere che esistono [anche Lucrezio è curioso] e, di conseguenza, per favorire una ricerca finalizzata all’esercizio della lettura.

     Ci sono due opere che s’intitolano entrambe Voluttà, le quali mettono bene in evidenza il concetto espresso da Lucrezio quando afferma che nel sistema amoroso [nella natura di Venere] c’è un tarlo per cui la benefica “voluptas [il piacere, il godimento, il diletto]” nasconde in sé le pericolose degenerazioni della passione amorosa.

     La prima opera in questione è il celebre romanzo intitolato Volupté [Voluttà], pubblicato nel 1834: l’unico romanzo scritto da Charles-Augustin Sainte-Beuve. Charles-Augustin Sainte-Beuve [1804-1869] è stato soprattutto, oltre che romanziere e poeta, uno dei più importanti critici letterari della Storia della cultura e questo autore, dalla personalità assai complessa, avremo modo di incontrarlo a suo tempo [lo abbiamo già citato incontrando Blaise Pascal nel 2001]. Il protagonista del romanzo Volupté [Voluttà] è un giovane romantico bretone che si chiama Amaury e vive al tempo in cui Napoleone Bonaparte s’impone in Francia. Nel comportamento amoroso del protagonista del romanzo si riconosce anche la trasposizione [idealizzata] della storia d’amore [un fatto che ha dato addito a molte chiacchierare nei salotti parigini] tra Sainte-Beuve e Adèle Hugo, la moglie di Victor Hugo. Il testo di questo romanzo – dalla trama piuttosto elaborata – è costruito con la finezza analitica degna della penna del grande critico letterario e questo è un alibi che permette all’autore di non si abbandonarsi mai alla sua passione e, quindi, si mantiene per istinto in una posizione ambigua e questo fatto, oggi, rende la lettura di quest’opera ancora più interessante [oggi è facile smascherare le passioni che Sainte-Beuve tenta di nascondere]. Leggiamo un frammento da Volupté [Voluttà] di Sainte-Beuve dove il richiamo al pensiero di Lucrezio è evidente: «Appresi dapprima, durante quelle lascive scorribande, a distinguere, a inseguire, a temere e a desiderare la specie di voluttà che chiamerò funesta, quella che è sempre un’insidia mortale. Ho compreso anche quanto questa voluttà non sia la vera ma sia contraria allo spirito stesso e, difatti, schiaccia e uccide».

REPERTORIO E TRAMA per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Cercate quest’opera in biblioteca o sulla rete in modo da poterne leggere qualche pagina in funzione di ciò che stiamo studiando a proposito del concetto di “voluttà”…

    La seconda opera su cui vogliamo puntare l’attenzione potremmo dire che è dotata, rispetto alla precedente, di maggiore leggerezza: è una raccolta di racconti intitolata Voluttà, pubblicata nel 1855, ed è stata scritta da Francesco de Rènzis. Vi starete domandando: chi è costui? Francesco de Rènzis di Montanaro – nato a Capua nel 1836 e morto ad Auteuil [vicino a Parigi] nel 1900 – ha partecipato al Risorgimento ed è stato un deputato e un insigne diplomatico del giovane Regno d’Italia: è morto a Parigi perché era ambasciatore in Francia. Francesco de Rènzis aveva la buona abitudine di scrivere – è stato anche redattore del giornale satirico Fanfulla – e si è dedicato a comporre racconti brevi, novelle: i suoi personaggi, tracciati con semplicità ed evidenza, appartengono al filone della letteratura popolare italiana fiorita negli ultimi decenni dell’800- I racconti della raccolta intitolata Voluttà sono tutte storie d’amore in cui il concetto di “voluttà” nella sua ambivalenza gioca un ruolo essenziale: nel concetto di “voluttà”, come c’insegna Lucrezio, c’è un’attrazione verso la vita ma c’è anche un rimando, un richiamo alla morte. Uno dei racconti più significativi di questa raccolta s’intitola Il pianoforte e narra un episodio del Risorgimento: un ufficiale austriaco durante una perquisizione s’innamora di Maria, una giovane fanciulla milanese appartenente a una famiglia di cospiratori e, per amore di lei, rinuncia a farsi consegnare le armi scoperte nella cassa del pianoforte, ma i parenti della ragazza disapprovano questa relazione e la passione amorosa assume connotati dolorosi.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Provate a cercare questa raccolta di racconti intitolata “Voluttà” di Francesco de Rènzis: scovarla in biblioteca, o sulla rete, sarebbe già un successo e leggerne qualche pagina una scoperta...

     E ora, dal IV Libro del De rerum natura, leggiamo il brano in cui Lucrezio enuncia il concetto per cui “nella passione amorosa si trovano innumerevoli mali [in amore mala inveniuntur innumerabilia]” e dove afferma che “la passione amorosa è un tarlo e il tarlo rode il cuore [talea pectorem crucit]”.

LEGERE MULTUM.

Tito Lucrezio Caro, De rerum natura  [La natura]

Libro IV  1121-1174. La passione d’amore

Quando si ama si sciupano le forze e si è costretti a vivere in stato di schiavitù,

si spende un mucchio di denaro in cose inutili, si trascura il dovere e il buon nome va perduto.

Ci si agghinda lussuosamente dando fondo ai patrimoni aviti, si mangia,

si beve, si scherza, ci si profuma, ma tutto è inutile, perché anche in mezzo al piacere si annida l’amarezza:

si prova rimorso di una vita tanto oziosa e inutile o è la gelosia stessa che ci rode

per una parola gettata lì dalla nostra donna, per un suo sguardo,

per un suo sorriso che forse non è per noi. E se queste sono le disgrazie che comporta

un amore fortunato, innumerevoli sono quelle che derivano da un amore infelice:

perciò è meglio stare in guardia prima, perché evitare di farsi accalappiare è più facile

che liberarsi una volta che si è caduti nei lacci di Venere. Eppure anche allora sarebbe facile salvarsi:

basterebbe avere il coraggio di aprire bene gli occhi e di non chiuderli

sui tanti vizi e difetti di chi desideriamo. Ma gli umani si lasciano accecare

dalla passione e vedono nei loro amanti e nelle loro amanti anche quello che non c’è,

in modo che spesso i più cattivi e le peggiori sono anche i più amati e le più amate.

Gli altri invitano il povero malcapitato a sottrarsi all’amore di chi non è degno,

ma sarebbe meglio che anch’essi badassero alle loro miserie perché ricorrono alle scuse

più stupide e ai termini più bizzarri per cercare di fare apparire bello ciò che non è.

Un amante vale l’altro: l’amore è un tarlo e il tarlo rode il cuore [talea pectorem crucit]

     In latino il “tarlo” è di genere femminile, “talea”, e a questo genere rimane fedele il poeta Carlo Alberto Salustri detto Trilussa [1871-1950], che quest’anno non abbiamo ancora incontrato nonostante il suo essere “romanesco”. Trilussa interpreta a modo suo il fatto che “l’amore è un tarlo – o meglio una tarla –che rode”: il suo pensiero è comunque contiguo a quello del “sor Lucrezio [Trilussa lo chiamava così]” e, a Roma, si sa che il “sor Lucrezio” è andato in rovina a causa di una donna assai poco generosa [ma è una probabile leggenda].

LEGERE MULTUM.

Trilussa, La Tarla e la Cocotte

- Vivo sur pelo e magno tutto quer che guadagno -

disse un giorno la Tarla a ‘na Cocotte che sparpajava un sacco de pepe e de tabacco

framezzo a ‘na pelliccia d’ermellino; - s’io vedo un pezzo bono me ciattacco,

lo rosico, lo brucio, lo rovino: e più je levo er pelo e più m’intigno,

fintanto che un bel giorno metto l’ale, divento una farfalla e me la svigno.

Tu, che me vôi fa’ male pe’ via che jeri t’ho lograto un panno,

devi capì che in questo semo uguale perché campamo a furia de fa’ danno.

Io vivo a spese tue come tu vivi a spese de l’amanti: prima li peli bene e poi li pianti.

Va’ là, che semo tarle tutt’e due!

     Ma per Lucrezio, naturalmente, il “far danno ad altri” non è legato al genere e al mestiere. Tra quindici giorni concluderemo la nostra incursione nel De rerum natura occupandoci del Libro V e del Libro VI. Lucrezio nel Libro V del suo poema pronuncia una sentenza che cambia i connotati alla cultura della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”, scrive Lucrezio: «Perché, secondo me, la colpa è prima di tutto dentro di noi [magis in nobis culpa resedit]». Questo giudizio, secco e severo, – in un mondo, come quello romano, in cui le colpe sono sempre degli altri [delle Tarle, delle Cocotte? Mai di chi le istiga] – dà inizio ad un’importante riflessione che indica la via che conduce verso un’altra epoca, diversa dall’Età antica.

     C’incamminiamo su questa via sulla scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come il Piacere, come l’assenza di dolore] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui.

     Il viaggio continua fra quindici giorni [mercoledì 2 - giovedì 3 - venerdì 4 maggio]: è doveroso celebrare il 25 aprile, la festa della Liberazione e del ritorno alla democrazia e il Primo maggio auspicando l’avvento di una società dove tutti possano lavorare meglio e studiare di più.           

     Viva il 25 aprile, e viva il Primo maggio!...

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 20, 2012