Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale 14-15-16 marzo 2012
NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE
C’È IL “CATULLI VERONENSIS LIBER” ...
Strada facendo, itinerario dopo itinerario, nel corso di questo viaggio che ci permette di attraversare il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”, siamo giunte e siamo giunti davanti ad un vasto paesaggio intellettuale che raccoglie l’eredità storica, politica e culturale di quella che è stata chiamata “l’età di Cesare” e che, cronologicamente, corrisponde al I secolo a.C..
La scorsa settimana abbiamo avuto la possibilità di constatare che “l’età di Cesare” è un momento assai tormentato dal punto di vista politico e noi siamo arrivate e siamo arrivati puntuali davanti a questo paesaggio intellettuale proprio alle Idi di marzo e possiamo quindi anche commemorare il 2056° anniversario della morte di Giulio Cesare: la morte di Cesare è stato un avvenimento importante sotto il profilo storico ma lo è stato ancor di più in funzione della creazione culturale e molte opere, che sono entrate nella storia della Letteratura e dell’Arte in generale, rimandano a questo episodio. La nostra commemorazione, secondo i dettami della storiografia contemporanea, assume un tono critico: Cesare è un personaggio emblematico perché, con il suo comportamento politico e militare – quello di un uomo che tende a ricoprire tutte le cariche istituzionali sia quelle di governo che quelle di opposizione per essere il “primo” in tutto –, ha creato uno stile che è stato chiamato “cesarismo” e che deve essere considerato negativo perché tutte le volte che è stato imitato ha creato situazioni drammatiche. Tuttavia la tentazione verso il “cesarismo” è stata e continua ad essere forte.
E il concetto di “cesarismo” è rafforzato dal fatto che Giulio Cesare si presenta come il potente per antonomasia dell’antichità, il quale è riuscito nel miracolo di lasciare di sé una memoria di politico, condottiero, legislatore e scrittore di altissima qualità, insomma di un uomo da ammirare, da citare come esempio di supreme virtù. In realtà Cesare è un aristocratico altamente convinto di essere dotato di un potere indiscutibile, di una superiorità manifesta fra i suoi simili.
Ce lo racconta Plutarco nelle Vite parallele [un’opera che citiamo spesso] che, catturato durante una navigazione da una ciurma di pirati, il giovane Cesare [è praticamente ancora un ragazzo] non solo continua a trattarli con il disprezzo del padrone, non solo paga loro un riscatto degno della sua grandezza, ma, avendo loro promesso un’esemplare punizione, appena libero dà loro la caccia, li cattura e li crocifigge ai pennoni della loro nave impossessandosi anche delle loro ricchezze.
Leggiamolo questo brano di Plutarco scritto in perfetto stile ellenista:
LEGERE MULTUM….
Plutarco, Vite parallele
Cesare, ancora ragazzo, mentre navigava verso l’Asia Minore, fu preso dai pirati.
Non sapendo che bella preda fosse loro capitata, quelli domandavano venti talenti per il suo riscatto; egli ne promise loro cinquanta, e mandati i compagni in questa e quella città per procurarsi i denari, rimase tra i pirati con un solo amico e con due servi; e trattava quei ladroni con disprezzo fino al punto che, quando voleva riposare, mandava a dire che tacessero. E nei trentotto giorni che stette tra i pirati, nessuno l’avrebbe creduto prigioniero, avendo comuni con essi gli esercizi ed i giochi. Talvolta recitava loro versi e orazioni da lui composte, e se stavano indifferenti a sentirlo, li rimproverava per la loro ignoranza; e spesso ridendo li minacciò della forca. Ai pirati piaceva parlare con lui, che si presentava in modo così libero, e pensavano che ciò dipendesse dalla sua semplicità e dalla sua vivacità giovanile. Tornata la gente col denaro del riscatto, Cesare fu lasciato andare. Armati subito alcuni navigli, mosse dal porto di Milesia contro quei ladroni, li catturò coi tesori che avevano e li fece crocifiggere al pennone della loro nave, mantenendo così quel che aveva detto quando pareva che scherzasse. …
Questo brano è molto significativo perché dimostra come il “divo Giulio” [come venne chiamato subito dopo la sua morte] fosse – fin da giovanissimo – un uomo di grandissime ambizioni, il quale preferiva essere “primo” in uno sperduto villaggio della Gallia che secondo a Roma, e che non esitava, in campo militare e politico, a farsi largo con il cinismo e con la ferocia necessari, senza andar troppo per il sottile con i suoi amici e alleati, da Pompeo a Bruto, il suo virtuoso figlioccio repubblicano che di mestiere faceva l’usuraio. Se leggiamo una delle tante biografie che sono state scritte su Cesare veniamo a sapere che per la sua ascesa politica spendeva somme enormi comprando i voti che gli servivano per ottenere il pubblico potere e si serviva di Bruto per raccogliere tutto il denaro necessario per ottenere i consolati e il comando degli eserciti. La versione storica che racconta certi grandi uomini come persone più dotate di virtù che di avidità è apologetica: Giulio Cesare ricorda certi politici di oggi che non perdono occasione di dare prova di avidità e di mancanza di vergogna anche quando di rubare e di commettere reati non avrebbero alcun bisogno. C’è una differenza tra ieri e oggi che, però, non ci può sfuggire: Giulio Cesare – e le testimonianze storiche in proposito sono molte – nella sua vita ha sempre sentito la necessità di studiare, di leggere, di scrivere, di tenere gli occhi aperti sul mondo della cultura e in questo è degno di lode.
A proposito di cultura dobbiamo dire che “l’età di Cesare” – con cui finisce l’Antica Repubblica romana –, sebbene sia un momento particolarmente tormentato dal punto di vista politico, tuttavia è anche l’età che vede fiorire il cosiddetto “periodo classico” della Letteratura latina: un evento culturale di grande importanza nella Storia del Pensiero Umano. Nelle ultime due settimane abbiamo accennato al fatto che questo periodo – il “periodo classico” della Letteratura latina – ha inizio con l’esperienza dei “neòteroi”, i “giovani poeti nuovi”, i quali si distinguono per il loro anticonformismo letterario e per aver creato una lirica soggettiva che dà voce ai sentimenti dell’autore: la Letteratura latina, sulla scia della lirica alessandrina, scopre “l’intimità”, e questo sembra contrastare con l’esteriorità, con la drammaticità degli avvenimenti, cioè con i personalismi esasperati, con le dittature, con le liste di proscrizione, con i tentativi di colpo di Stato, con le congiure, con lo stravolgimento delle Istituzioni repubblicane, con le guerre civili.Mentre a Roma [e dintorni] succede tutto questo – il peggio che la lotta per il potere possa offrire – la cultura cerca di dare il meglio di sé e gli intellettuali si sforzano di non lasciarsi coinvolgere nel degrado. Che cosa succede a Roma nel I secolo a.C. sul piano della cultura?
Sappiamo che nel I secolo a.C. – anche per via dello sviluppo dei rapporti internazionali – aumenta decisamente la penetrazione della cultura ellenistica nel mondo latino: Roma entra in contatto oltre che con Atene e il Medio Oriente anche con Alessandria. Sappiamo che Giulio Cesare e Marco Antonio hanno aperto una via di comunicazione diretta tra Roma e l’Egitto. È stato attribuito a Cesare un episodio veramente grave: durante la guerra ad Alessandria nel 48 a.C. la celebre Biblioteca sembra abbia preso fuoco e sia stata distrutta, ma è proprio vera questa notizia? Su questo mistero faremo un accenno la prossima settimana.
Come arriva a Roma la cultura alessandrina? È stato soprattutto il poeta elegiaco greco Partenio di Nicea, condotto a Roma come schiavo, a diffondere le nuove teorie estetiche di carattere ellenistico-alessandrino. Partenio fa conoscere nei Circoli letterari romani le composizioni di alcuni poeti alessandrini che noi abbiamo incontrato, ad Alessandria, nel viaggio di due anni fa: Callimaco di Cirene e Apollonio Rodio, vissuti nel III secolo a.C. alla corte dei Tolomei quando Alessandria d’Egitto diventa la capitale della cultura ellenistica. Gli alessandrini, in particolare Callimaco, erano i sostenitori di una lirica breve, fortemente individuale ed erudita, dalla elaborazione formale raffinata, che – come sappiamo – aveva trovato a Roma, degli estimatori che s’incontravano nel Circolo di Lutazio Catulo al quale abbiamo fatto visita qualche settimana fa.
A questo iniziale movimento si ispira un gruppo di autori, i “poëtae novi [i poeti nuovi]”, che Cicerone chiama, un po’ polemicamente [come è solito fare], “neóteroi”, termine greco che significa letteralmente “i più giovani”: Cicerone teme che costoro si limitino a copiare gli alessandrini e, difatti, il chiama anche “cantores Euphorionis”, cioè “ripetitori di Euforione”, poeta greco di Calcide, molto dotto ma notoriamente oscuro, quasi incomprensibile. Questi “nuovi poeti” sapranno fare qualche cosa di più che copiare: ma chi sono?
Intanto dobbiamo dire che questi giovani poeti sono legati da un sentimento di amicizia, rafforzato dalla loro origine comune, difatti, provengono quasi tutti dalla Gallia Cisalpina ed è interessante il fatto che si tratta di persone che hanno una cultura gallica, che sono emigrati a Roma, si sono inseriti nella cultura latina e si misurano con la cultura greco-alessandrina: questo determina una sorta di “marchio”, di segno distintivo nel quale emergono tre anime – quella gallica, quella latina e quella greco-alessandrina – in integrazione tra loro. E, quindi, questi poeti sono legati tra loro da un progetto comune e fondano un cenacolo esclusivo, una élite fortemente culturalizzata e inevitabilmente isolata dal pubblico più vasto. Questa “scuola” di giovani poeti vuole evadere dall’urto delle passioni politiche che – come sappiamo – avvelenano la società romana del I secolo a.C.: questi autori desiderano dedicarsi unicamente all’esercizio della poesia. I “poeti nuovi” rifiutano l’impegno civile e sociale non hanno gli interessi collettivi propri della tradizione letteraria rappresentata dalla tragedia e dal poema epico [ricordate Ennio?]. I “poeti nuovi” si allontanano dalle composizioni a vasto respiro per dedicarsi a liriche brevi, decisamente personali, di argomento in genere erotico, autobiografico o mitologico, elaborate in forma raffinata e impreziosite da notazioni colte. I generi letterari prodotti dai “poeti nuovi” sono gli epilli, gli epigrammi, le elegie e i giambi: tutti generi che mostrano una forte sperimentazione linguistica e sono scritti con un tono delicato, leggero, ironico, satirico. I “poeti nuovi” formano un gruppo assai nutrito ma delle loro opere ci rimangono pochi frammenti, ora noi facciamo l’elenco dei più importanti di loro: Valerio Catone, Furio Bibaculo, Elvio Cinna, Licinio Calvo, Varrone Atacino, Tìcida, Quinto Cornifico.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Le liriche brevi costituiscono il genere letterario che, solitamente, viene utilizzato da chi vuole tradurre in parole una propria emozione, una gioia, un dolore, una delusione, un’aspirazione...
Scrivete anche voi una breve lirica in proposito, magari l’avete già scritta: arricchite la biblioteca itinerante...
Tra i “poeti nuovi” ce n’è uno che ha superato tutti, che è il più rappresentativo di tutti: noi lo abbiamo già citato altre volte nei nostri Percorsi e adesso lo incontriamo nel paesaggio intellettuale in cui vive [se così si può dire]. Il personaggio di cui stiamo parlando si chiama: Gaio Valerio Catullo, il più geniale dei “nuovi poeti” e in assoluto uno dei maggiori poeti della storia della Letteratura. Gaio Valerio Catullo mette al centro della sua poesia se stesso e i propri sentimenti comportandosi al contrario rispetto a Cesare: Cesare si osserva ed esalta, in terza persona, la sua figura come se fosse un altro da sé mentre Catullo, in prima persona, racconta le sue gioie, le sue delusioni, la sua interiorità sentimentale e le sue riflessioni più intime.
Prima di conoscere da vicino Catullo dobbiamo dire che, molto probabilmente, a questo poeta – proprio per le sue caratteristiche – sarebbe piaciuto il romanzo del quale stiamo per leggere l’ultimo capitolo. Questo romanzo è stato scritto, come sapete, da Irène Némirovsky nel 1931 e s’intitola Come le mosche d’autunno e fra pochi minuti lo avremo letto tutto: è un “romanzo breve”. Irène Némirovsky mette in scena la mitica figura di Vesta nel realistico personaggio della vecchia nutrice russa Tat’jana Ivanovna la quale, come sapete, si ritrova emigrata – insieme ai nobili Karin fuggiti alla Rivoluzione – a Parigi all’inizio del XX secolo, ma questa bella città non è il suo mondo, non è il mondo nel quale – giusti o sbagliati che siano – possa ritrovare i suoi valori, i suoi ritmi di vita, il suo inverno. Tat’jana Ivanovna capisce che non potrà mai più tornare in quella che considerava la sua casa benché fosse dei suoi padroni e capisce anche che non è più capace di integrarsi in una nuova realtà nella quale, invece, i suoi padroni aristocratici, o ex aristocratici, si sono ormai adattati a vivere: che cosa pensa di fare Tat’jana Ivanovna? Lei forse non lo sa che ha incarnato, poeticamente, la figura di Vesta fino in fondo: Vesta, prima di essere una dèa, è stata una ninfa acquatica e all’acqua è destinata a tornare.
Leggiamo, insieme a Catullo, il nono e ultimo capitolo de Come le mosche d’autunno:
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, Come le mosche d’autunno
[Tat’jana Ivanovna] Si svegliò con un lamento e rimase immobile, supina, fissando stupefatta le finestre chiare. Una nebbia opaca e biancastra invadeva il cortile, e ai suoi occhi affaticati sembrò neve, quella che cade per la prima volta in autunno, fitta e accecante, diffondendo una sorta di luce triste, di crudo fulgore bianco.
Giunse le mani, mormorò: «La prima neve…».
La guardò a lungo con un’espressione di beatitudine infantile e inquietante allo stesso tempo, da pazza. L’appartamento era immerso nel silenzio. Probabilmente non era ancora rientrato nessuno. Si alzò, si vestì, senza staccare lo sguardo dalla finestra, immaginando la neve che cadeva e rigava l’aria, rapida e fuggevole come piume d’uccello. A un certo punto le sembrò di udire una porta richiudersi. Forse i Karin erano già tornati e dormivano? … Ma non era a loro che pensava. Le pareva di sentire i fiocchi di neve che le si schiacciavano sul viso, con il loro sapore di ghiaccio e di fuoco. Prese il cappotto, si mise in fretta e furia lo scialle sulla testa, lo appuntò intorno al collo, e cercò istintivamente sul tavolo, con la mano aperta, come una cieca, il mazzo di chiavi che a Karinovka prendeva sempre con sé quando usciva. Non lo trovò, annaspò con gesti febbrili, dimenticando quello che stava cercando, scostò con impazienza l’astuccio degli occhiali, il lavoro a maglia iniziato, il ritratto di Jurij bambino …
Aveva la sensazione che qualcuno la stesse aspettando. Una oscura smania le infiammava il sangue.
Aprì un armadio, lo lasciò con un battente e un cassetto aperti. Un attaccapanni cadde. Lei esitò un istante, poi alzò le spalle, come se non avesse tempo da perdere, e bruscamente si decise a uscire. Attraversò l’appartamento, scese le scale con i suoi passetti rapidi e silenziosi.
Una volta fuori, si fermò. La nebbia gelata riempiva il cortile di una massa bianca e densa che saliva lentamente dal suolo, simile a fumo. Goccioline impalpabili le pungevano il viso, come i minuscoli cristalli di neve quando cadono per metà sciolti e ancora misti alla pioggia di settembre.
Insieme a lei uscirono due uomini in frac che la guardarono incuriositi. Li seguì, sgusciando dietro di loro attraverso il portone, che le si richiuse alle spalle con un gemito sordo.
Si trovò in strada, una strada buia e deserta; un lampione acceso brillava attraverso la pioggia. La nebbia, infatti, si stava diradando, e iniziava a cadere un’acquerugiola fredda e penetrante che copriva i selciati e i muri di una patina lucente. Passò un uomo, strascicando i piedi nelle scarpe fradice. Un cane attraversò la strada quasi con precipitazione, si avvicinò alla vecchia, la fiutò e le si mise alle calcagna, emettendo un mugolio lamentoso e inquieto. La seguì per un po’, poi la mollò.
Lei proseguì, vide una piazza, altre strade. Un taxi le passò così vicino che le schizzò in faccia del fango. Lei pareva non accorgersi di niente. Camminava dritto davanti a sé, barcollando sul selciato bagnato. A tratti provava una tale stanchezza che le gambe sembravano cedere sotto il peso del corpo e sprofondare nel suolo. Alzò la testa e scorse il chiarore che proveniva dalla parte della Senna, un lembo di cielo bianco, in fondo alla via che ai suoi occhi si trasformò in una distesa di neve come quella di Sucharevo.
Accelerò il passo, accecata da una sorta di pioggia di fuoco che le martoriava le palpebre. Nelle orecchie aveva un fragore di campane.
A un tratto le tornò un barlume di lucidità, e vide distintamente la nebbia e il fumo che andavano rapidamente dissipandosi; passato quell’attimo, ricominciò a camminare, esausta e inquieta, curva verso terra. Alla fine raggiunse il lungosenna.
Il fiume era in piena e ricopriva gli argini; stava sorgendo il sole, e l’orizzonte era di un nitore puro e luminoso. La vecchia si accostò al parapetto, lo sguardo fisso su quella fascia di cielo smagliante.
Ai suoi piedi c’era una scaletta scavata nella pietra; afferrò la balaustra, stringendola forte con mano fredda e tremante, scese. Gli ultimi gradini erano già invasi dall’acqua, ma lei non la vedeva.
«Il fiume è ghiacciato,» pensava «in questa stagione è sicuramente ghiacciato…».
Era convinta che bastasse attraversarlo e che sull’altra sponda ci fosse Karinovka. Vedeva brillare le luci delle terrazze attraverso la neve.
Ma quando arrivò in fondo, l’odore dell’acqua finalmente la colpì. Ebbe un brusco moto di stizza e di stupore, si fermò un attimo, poi riprese a scendere, sebbene l’acqua le riempisse le scarpe e le inzuppasse la gonna. E soltanto quando fu dentro la Senna fino alla vita ritrovò completamente la ragione. Si sentì gelata, cercò di gridare, ma ebbe solo il tempo di farsi il segno della croce e il braccio le ricadde: era morta.
Il minuscolo cadavere galleggiò qualche istante, simile a un fagotto di stracci, prima di scomparire, ghermito dalla Senna scura. …
Irène Némirovsky fa interpretare, poeticamente, a Tat’jana Ivanovna la figura di Vesta fino a ribaltare l’andamento tradizionale del mito: Vesta, prima di essere una dèa, è stata una ninfa acquatica e all’acqua – che è simbolo di vitalità e di libertà – viene fatta tornare.
Con quest’ultimo capitolo abbiamo letto per intero il testo di questo romanzo la cui trama – come sapete – s’interseca con un’opera del teatro latino, difatti Cicerone, nel De officiis [I doveri], mentre espone il tema della “fedeltà al dovere” ammonendo ed esortando, in proposito, suo figlio Marco, racconta la trama di un dramma scritto da Lucio Ambivio Turpione il cui testo, e anche il titolo che Cicerone non cita, è andato perduto. Nella lettura di quest’ultimo brano del romanzo di Irène Némirovsky [il quale termina con una scena simile a quella del dramma perduto di Lucio Ambivio Turpione] ci ha accompagnato Catullo [è probabile che Catullo, che è contemporaneo di Cicerone, abbia visto rappresentare questo dramma scomparso di Lucio Ambivio Turpione, ma questa domanda non gliela possiamo fare] e Catullo in questo momento sta riflettendo: perché sta riflettendo Catullo?
Prima di entrare anche noi in sintonia con le riflessioni di Catullo dobbiamo dire che non siamo ancora in grado di distaccarci da Irène Némirovsky, anzi dovremmo iniziare subito a leggere un altro suo romanzo, un po’ meno breve di quello che abbiamo letto ma pur sempre contenuto nelle duecento pagine, pubblicato da poco più di un anno per la prima volta in lingua italiana, in cui la scrittrice – componendo sul tema dell’amore – sembra parafrasare anche l’opera poetica di Catullo in un modo ancor più preciso di quanto abbiano fatto altre scrittrici ed altri scrittori, ma procediamo con ordine.
Stavamo dicendo che Catullo in questo momento sta riflettendo: perché sta riflettendo Catullo? Perché le donne, che sono protagoniste nella sua poesia – una certa categoria di donne, le più emancipate, le più colte –, hanno già deciso di rinunciare all’alone divino che è stato teso, con ipocrisia, intorno a loro, perché questa aureola “vestalica” [chiamiamola così] ha la forma di una rete, è una trappola: le “donne di Catullo” hanno già scelto di spingere, metaforicamente, in direzione dell’acqua [di ciò che l’acqua rappresenta] ciò che della dèa Vesta è stato inculcato in loro perché questa parte della loro personalità si possa confondere con questo significativo elemento che, allegoricamente, contiene la linfa [la gioiosa libertà] delle Ninfe.
Catullo è diventato pensieroso perché – e lui lo ha capito – la libertà a cui aspirano le donne non è lo stesso tipo di libertà che gli uomini vorrebbero loro concedere: gli uomini vorrebbero concedere alle donne soprattutto la “liberta dei costumi”, ma non a tutte le donne – allude sarcastico Catullo – a tutte quelle che non siano le loro madri, le loro mogli, le loro figlie e le loro sorelle. E aggiunge ironico Catullo: c’è a Roma una donna che non sia madre, moglie, figlia e sorella? La libertà è parola di genere femminile – sussurra Catullo – ma sembra non riguardar le donne! Il fatto è che la libertà a cui aspirano le donne non è lo stesso tipo di libertà che gli uomini vorrebbero loro concedere: le donne del mondo poetico catulliano desidererebbero una libertà che corrisponda al concetto di “autonomia” e quindi di “indipendenza”.
Con i “nuovi poeti”, con Catullo, nel I secolo a.C. l’argomento della “questione femminile” si arricchisce di temi che continuano ad essere di attualità. Catullo è diventato pensieroso perché sta riflettendo sul fatto che, paradossalmente, se una donna fosse in possesso di una maggiore libertà, durante l’età di Cesare – un’età popolata di “grandi uomini [tra virgolette]” che, però, non riconoscono al modo femminile né autonomia né indipendenza – si esporrebbe maggiormente al rischio di subire violenza [così imparerebbe] perché più la società diventa meno democratica e più riemergono i rigurgiti del paludoso “mondo di Janus”. I cosiddetti “nuovi poeti” e Catullo in particolare fanno emergere dal profondo, con spirito critico, i rigurgiti dell’acquitrinoso “mondo di Janus” [noi ne abbiamo studiato le parole-chiave] che si annidano nei meandri della mente, celati nei risvolti dei pensieri più intimi.
La cultura del “mondo di Janus”, che continua a covare nelle pieghe della mente di ciascun uomo romano – pensa Catullo –, prevede che le donne debbano essere amate come spose e madri esemplari [il culto della dèa Vesta] ma appena fanno professione di autonomia e di indipendenza [la ninfa Carna o Carmina prima che subisse violenza] si scatena nei loro confronti un atavico odio [continuiamo a chiamarli “delitti passionali”!]. Anche a Roma, dal I secolo a.C., compare [importata dal mondo ellenistico] la figura dell’etèra, una donna colta, una donna disponibile, una donna libera nei costumi ma non autonoma e non indipendente e, anche se lo fosse, dovrebbe far finta di non esserlo: un’etera deve comunque avere un protettore, tanto che su di lei incombe un’ambiguità di genere e ci si domanda – annuisce Catullo – se un’etera sia davvero una donna o se appartenga alla categoria dei demòni.
La poesia dei “nuovi poeti” e la poesia di Catullo in particolare è anche lo strumento di rilevazione di come la “questione femminile”, nel I secolo a.C., si arricchisca di temi importanti sebbene relegati nell’ambito della riflessione intellettuale. Uno dei temi che emergono è quello della presa di coscienza dell’esistenza di una “questione femminile” da parte di questo “nuovo soggetto” che è il “poeta cultore dell’interiorità” perché, in generale, nella società romana [e non solo], si continua a negare che esista e che possa esistere una problematica specifica delle donne. La rigorosa legislazione romana sulla “familia” e sulla “donna come soggetto esistente solo in funzione delle esigenze familiari” rivela che, nell’intimo, il conflitto tra amore e odio nei confronti della galassia femminile viene brutalmente rimosso. Questo non vale per il “poeta latino d’impronta ellenistoco-alessandrina” che vuole – indagando nel proprio intimo – interpretare e mettere in luce, investendo in intelligenza, le situazioni più significative che si manifestano nell’animo umano.
Scendiamo subito sul terreno della didattica della lettura e della scrittura: bastano due versi a Catullo per fabbricare, in proposito, una lirica esemplare [la scrittura è terapeutica] che si presenta come un vero e proprio manifesto per riflettere sul “tormento passionale”, per indagarne le cause e per diventare consapevoli della necessità di farsi aiutare ad attutire il tormento. Leggiamo:
LEGERE MULTUM….
Gaio Valerio Catullo, Carmina [Io odio e amo]
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Io odio e amo. Ma come, mi dirai. Non lo so,
Nescio, sed fieri sentio et excrucior. sento che avviene e che è il mio tormento.
In molte liriche di Catullo troviamo l’allusione o l’esplicito riferimento al “mondo di Janus” e questo avviene tramite l’allegoria dell’acqua, del territorio acquitrinoso, della palude.
Leggiamo una lirica [per la quale c’è bisogno di una spiegazione] dove la consuetudine dei matrimoni combinati, o forzati – così come si narra nel racconto del “rapimento delle donne sabine” – crea una situazione sociale scombinata quando uomini vecchi [senza sale, soprattutto senza sale in zucca] pretendono di sposare giovani fanciulle. Catullo prende di mira un suo concittadino e satireggia su questa situazione auspicando che costui “venga buttato giù da un ponte nel fango dove l’acqua è fonda e la palude puzza anzi è torva e livida e più voraginosa”. Sembra davvero cattivo il poeta ma, in realtà, denuncia una mentalità arcaica facendo dell’ironia sul cosiddetto “rito del ponticello”, e bisogna sapere di che cosa si tratta se no il senso, anche comico, di questa lirica ci sfugge.
Catullo ironizza su un antico rituale magico-religioso tipico dei sacerdoti Salii [una categoria di sacerdoti ballerini: e probabilmente ricordate che abbiamo studiato il Carmen Saliare qualche mese fa]; questo rituale arcaico è legato al “mondo di Janus” – i cui rigurgiti continuano a riemergere nella Roma, caput mundi, del I secolo a.C. –: allora nell’arcaico mondo latino [nel VI secolo a.C.] tutti gli uomini, da sessant’anni in avanti, dovevano attraversare uno stretto e traballante ponticello, senza sponde, posto su un ruscello melmoso per dimostrare di essere in grado di saper stare ancora in equilibrio, e chi cadeva in acqua, nella melma, doveva ammettere, tra l’ilarità della comunità, di essere ormai vecchio, doveva abbassare la cresta e tanto meno poteva pretendere spose giovani, poteva solo sognare di avere “una passerella per poterci ballare sopra” senza cadere di sotto, e il titolo della composizione che stiamo per leggere rispecchia – in modo emblematico ed interlocutorio – questo concetto. Nella lingua latina i due modi di dire “è caduto nella melma” oppure “balla ancora sulla passerella” fanno riferimento all’incombere, o meno, della vecchiaia. E ora possiamo leggere il testo di Catullo:
LEGERE MULTUM….
Gaio Valerio Catullo, Carmi [Sogna una passerella per ballare?]
Sogna una passerella per ballare? E ci balli se vuole, ma quelle gambe manchevoli
con assi da naufragio, gli danno soggezione. Finisce che si sdraia nella palude bassa.
Pregherò per il ponte che è la sua passione, che su ci balleranno i Salii in processione,
ma tu fammi la grazia di una risata enorme. Quel mio concittadino fa’ che caschi
dal ponte dritto dritto nel fango dal capo fino ai piedi ma dove l’acqua è fonda
e la palude puzza anzi è torva e livida e più voraginosa. È troppo senza sale.
È un bimbo di due anni sopito sopra il braccio di un padre intorpidito.
Ed ha sposato una fanciulla ancora in boccio ma tenerina più del più morbido capretto
da tener d’occhio sempre, meglio dell’uva nera, e a lui non gliene importa,
neanche alza la testa, come un tronco d’ontano scalzato dalla scure,
supino nel fossato. Lui sente tutto come se il tutto fosse il nulla, è stupore d’assenza,
senza vista né udito, non sa neanche chi è o se c’è o non c’è. Ecco, dal ponticello
fallo cascare giù, chissà che non si svegli di colpo dal letargo lasciando
nella melma greve l’anima lassa come un ferro di mula resta nell’acqua grassa. …
Avrete senza dubbio già notato che Catullo per definire le sue composizioni utilizza un termine antico, un termine degli albori della Letteratura latina: “carmina” – e su questo genere letterario ci siamo soffermate e soffermati qualche mese fa –, e non è casuale il fatto che il termine “carmina” derivi dal nome della ninfa Carna o Carmina o Carmen, nomi che rappresentano veri e propri concetti legati al tema della “questione femminile”. Carmen diventa – come abbiamo studiato – il nome di un personaggio molto passionale che però risulta inaffidabile perché aspira ad essere indipendente: questa “inaffidabilità” di Carmen è ritenuta congenita nelle donne. È possibile che gli uomini ne sono immuni? E questa “presunta inaffidabilità” delle donne non è forse un pretesto per alzare recinti intorno al mondo femminile? Come riflette Catullo a questo proposito?
Leggiamo questa composizione che dall’incipit ricorda i poeti del Dolce Stil Novo:
LEGERE MULTUM….
Gaio Valerio Catullo, Carmi [Dice la donna mia]
Dice la donna mia che mai farebbe l’amore con nessuno, escluso me,
neppure se la volesse Zeus. Dice così, ma ciò che una donna dice a chi l’ama
scrivilo sopra il vento, scrivilo sopra l’acqua che fugge in un momento.
Se devo essere sincero, un simile pensiero vola pure nella mente mia e dico a lei
che non farei l’amore con nessuna: neppure, però, se lo volesse Venere in persona? …
Basta con i retorici finti eroismi – afferma Catullo –, cominciamo a guardarci dentro e a dire verità: la “inaffidabilità” è generalizzata. Ma chi è Gaio Valerio Catullo?
Gaio Valerio Catullo è nato a Verona nell’87 o nell’84 a.C. ed è morto a Sirmione nel 57 o nel 54 a.C. quindi ha avuto una vita breve ma molto intensa. Catullo ha trascorso la sua esistenza negli ambienti raffinati dell’alta e colta società romana del I secolo a.C.. Le notizie biografiche su di lui sono scarse e per lo più ricostruibili dai dati contenuti nelle sue liriche. Catullo –come la maggior parte dei poeti “neòteroi” – è nato nella Gallia Cisalpina e sulla sua data di nascita esistono due correnti di pensiero: san Gerolamo, infatti, che si è servito di Svetonio come fonte, riferisce che Catullo è nato nell’87 a.C. e che è morto a trent’anni nel 57 a.C., questa data però non corrisponde alla realtà perché alcuni versi del poeta contengono indiscutibili allusioni a vicende degli anni 55-54 a.C. e quindi la sua morte deve essere avvenuta intorno al 54 a.C. e la nascita va pertanto posticipata all’anno 84 a.C. se si vuole mantenere la notizia della sua morte a trent’anni, oppure la sua esistenza va ritenuta più lunga di tre anni, se si fa fede alla data di nascita tramandata da san Gerolamo: sta di fatto che Catullo è comunque morto giovane. Catullo è nato in una famiglia aristocratica e facoltosa che possiede una dimora a Roma, molti terreni in Sabina, una villa a Tivoli e una a Sirmione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La penisola di Sirmione sul lago di Garda è “la pupilla di tutte le penisole”: così ha scritto Catullo… Fate una visita a Sirmione utilizzando la guida della Lombardia e con l’ausilio della rete e, in particolare, fate un’escursione [virtuale in preparazione di quella reale] alle Grotte di Catullo, buon viaggio…
Quella di Catullo è dunque una famiglia che si può permettere di ospitare personaggi di primo piano della vita politica contemporanea come Quinto Cecilio Metello Celere, governatore della Gallia Cisalpina o come lo stesso Giulio Cesare quando, proconsole nelle Gallie, si fermava spesso a Verona, sulle rive dell’Adige.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Conoscete Verona ?... L’avrete senz’altro visitata questa bella città del Veneto: la famosa arena di Verona è un anfiteatro romano che è stato costruito alla metà del I secolo, fuori le mura… Altra importante area archeologica romana è quella del teatro che è un notevole complesso inserito in un suggestivo quadro ambientale che richiama gli schemi monumentali di carattere ellenistico... Quest’area archeologica si trova nei quartieri situati alla sinistra dell’Adige: questa zona ha preso il nome di Veronetta...
Fate una visita a Verona e a Veronetta utilizzando un guida del Veneto e collegandovi alla rete, buon viaggio...
Catullo ha incominciato da giovanissimo a comporre poesie d’amore e a Verona ha ricevuto un’ottima educazione letteraria che ha avuto modo di approfondire in seguito a Roma dove si trasferisce a vent’anni. Catullo si trasferisce a Roma senza alcuna ambizione di carattere politico ma solo spinto da interessi intellettuali. A Roma viene subito accettato da tutte le famiglie aristocratiche e trascorre una vita di agi, brillante: una bella vita, una dolce vita.
Sappiamo che diventa amico di molti giovani poeti, definiti da Cicerone, con ironia, “neóteroi [i nuovi giovani poeti]” condividendo con loro una vita d’amore e di spensieratezza. C’è da dire che questo genere di vita che conducono i “neóteroi”, e Catullo insieme a loro, è anche una specie di copertura: questi giovani vogliono tassativamente tenersi lontano dagli impegni politici e dall’oratoria forense, due attività che erano sempre state appannaggio dei ricchi intellettuali romani, perché – come abbiamo studiato – è un momento piuttosto turbolento in cui la lotta politica si fa senza esclusione di colpi e questi giovani anticonformisti che osservano in modo critico la realtà non vogliono rischiare e anche per questo motivo Cicerone li critica. Catullo non ha nessuna sete di potere e vuole privilegiare nella sua vita la tranquillità degli studi e degli affetti, cercando di esorcizzare lo schizofrenico clima di crisi dell’ultima età repubblicana, dell’età di Cesare, in cui si andavano mettendo in discussione gli ideali dell’humanitas.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In relazione alla vita di Catullo abbiamo citato la parola “spensieratezza”: quale di queste parole – serenità, allegria, tranquillità, imprudenza, sbadataggine, sventatezza, o quale altra – mettereste per prima accanto alla parola “spensieratezza”?... C’è stato nella vostra vita un momento che potete definire di “spensieratezza”?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Catullo nella sua opera poetica porta a compimento il processo di integrazione tra la cultura greca e la cultura latina: non è casuale il fatto – abbiamo già ricordato – che Catullo, per titolare le sue composizioni liriche, squisitamente di forma alessandrina, utilizzi una parola antica, una parola proveniente dagli albori della Letteratura latina: “carmina”, e l’utilizzo di questo termine crea una relazione tra il mondo intellettuale alessandrino e il mondo intellettuale romano, e questa correlazione porta ad una virtuosa sintesi culturale. Questa sintesi virtuosa è il presupposto da cui prende le mosse quello che si chiamerà il “periodo classico” della Letteratura latina.
Come si configura l’opera poetica di Catullo? La complessa e travagliata esperienza amorosa che Catullo fa nella sua vita è l’elemento condizionante della sua opera. Voi direte: che cosa c’è di strano? Il fatto è che noi siamo abituate, siamo abituati a pensare che, nel bene e nel male, la poesia si occupi d’amore, ma prima di Catullo nessun poeta aveva trattato i temi del sentimento amoroso con tanta intensità e varietà d’aspetti.
La vicenda centrale della vita di Catullo è la sua passione per Lesbia, e il personaggio letterario di Lesbia corrisponde ad una signora, nata intorno al 94 a.C., che si chiama Clodia ed è la sorella del tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro [un aristocratico demagogo e populista, ucciso nei tumulti del 52 a.C., quando - sfruttando il disagio sociale dei più poveri - cerca di guadagnare posizioni di potere] ed è la moglie di Quinto Cecilio Metello Celere, console nell’anno 60 a.C. e membro di spicco del partito di Giulio Cesare. Nel 59 a.C. Catullo conosce Clodia e comincia a scrivere in versi la storia di questa relazione che è diventata emblematica e tutte le poetesse e i poeti che hanno cantalo l’amore vi hanno attinto.
Clodia – che ha una decina d’anni più di Catullo – viene descritta come una donna emancipata, affascinante, elegante e molto colta, e il soprannome di “Lesbia” fa riferimento alla raffinata intelligenza della poetessa Saffo [un personaggio, vissuto nel VI secolo a.C. sull’isola di Lesbo, che abbiamo incontrato più volte nei nostri viaggi] la cui opera – della quale a noi rimangono non molti frammenti – è stata un punto di riferimento per i “neòteroi” e soprattutto per Catullo, e ne prenderemo atto tra poco perché dobbiamo dipanare un interessante intreccio filologico nel quale sono coinvolti Saffo, Catullo e Irène Némirovsky.
Le notizie che si hanno su Clodia riguardano anche la sua presunta spregiudicatezza – in ragione del fatto che ha avuto molti amanti – ed è ancora una volta Cicerone che, in un suo discorso, l’orazione Pro Caelio [del 56 a.C. in cui Cicerone difende Marco Celio Rufo accusato di aver tentato di avvelenare Clodia che era stata la sua amante] sospetta che sia stata lei ad avvelenare il marito Quinto Cecilio Metello che è morto nel 59 a.C., l’anno in cui Clodia comincia a frequentare Catullo, ma non ci sono prove quindi la questione viene archiviata. Per questo motivo Cicerone è oggetto di una garbata ed elegante canzonatura che Catullo scrive e gli invia per complimentarsi con lui per aver vinto la causa, scrive Catullo: «O eloquentissimo tra i nipoti di Romolo, quanti ce ne sono, quanti ce ne sono stati e quanti ce ne saranno in futuro, o Marco Tullio, ti ringrazia Catullo, il peggiore tra i poeti, tanto peggiore tra i poeti, quanto tu sei ottimo avvocato».
La storia d’amore tra Clodia e Catullo si presenta come un’esperienza assai complessa che è stata ben documentata, in versi, dal poeta che, con grande competenza e sincerità, descrive gli entusiasmi, le depressioni, gli ardenti messaggi d’amore, i propositi d’oblio, i nuovi ardori, le separazioni, le ingiurie, le pacificazioni, fino alla rottura conclusiva dopo circa cinque anni. Le liriche di Catullo dedicate a Lesbia sono in tutto 25 e costituiscono un breve e sincero diario dell’impetuosa passione che travolge il poeta fin dal loro primo incontro: è un amore sensuale, delirante per una donna la cui bellezza vive nei versi di Catullo anche se non vi è nessun accenno ai suoi tratti fisici. Viene esaltata la gioia di stare insieme come desiderio di intimità ma l’intento di Catullo è anche quello di scandalizzare i benpensanti: in una società di guerrieri come quella romana non si perde tempo a parlare d’amore!
Lesbia è una donna volubile e quindi i momenti di felicità si alternano a quelli di sconforto perché lei non si sottrae ad altre relazioni e così questo rapporto più volte si rompe e nascono la gelosia, l’odio e le invettive contro i rivali in amore. Più Lesbia si allontana e più lui si sente attratto: più volte si lasciano e più volte avviene la riconciliazione con il ritorno ai momenti appassionati e Catullo sa descrivere l’esaltante e dolorosa varietà di stati d’animo, in cui si alternano la tristezza e la gioia, il riso e il pianto, la speranza e la delusione, le esplosioni di giubilo e i tristi pensieri sull’infedeltà e, infine, descrive il distacco definitivo, la nostalgia e lo straziante rimpianto.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La vita ci costringe a fare l’esperienza del distacco...
Catullo utilizza la parola “nostalgia” [parola greca, nòstos-algìa: il dolore che si prova nel non poter tornare] e la parola “rimpianto” [deploratio, in latino], quindi anche voi descrivete con due parole che cosa avete provato nel corso di una vostra esperienza di distacco definitivo da qualcuno...
Basta scrivere due parole per esprimere una situazione...
Abbiamo preannunciato un esercizio in cui ci proponiamo di dipanare un interessante intreccio filologico nel quale sono coinvolti Saffo, Catullo e Irène Némirovsky.
Catullo ha avuto probabilmente accesso ai nove Libri di poesie di carattere erotico per cui Saffo è stata definita [anche da Platone]: «La poetessa di Eros e di Afrodite». Catullo ha preso spunto dall’opera di Saffo e lo testimonia il fatto che lui traduce, rielabora e fa suoi una serie di versi saffici.
Noi però non possiamo verificare la portata dell’utilizzo che Catullo fa della lirica di Saffo perché l’apparato lirico di Saffo è giunto a noi in frammenti, la parte più consistente di esso è andata perduta. Nell’opera di Catullo c’è un carme, il n. 51, in cui lui traduce e rielabora dal greco eolico in latino una lirica di Saffo in cui la poetessa descrive l’effetto, l’emozione che crea la vista della persona amata [bocca asciutta, lingua riarsa, brividi, vista scura, fuoco nelle vene, vampate di calore, orecchie rimbombanti]: la stessa emozione che potrebbe creare l’incontro con il mondo degli dèi, ma siccome [allude Catullo] l’esistenza degli dèi è dubbia mentre l’esistenza del condizionamento amoroso è reale, ecco che la suggestione amorosa e la suggestione divina, nel bene e nel male, s’identificano [questo concetto sarà ripreso dalla “sapienza poetica rinascimentale” in età moderna]. Leggiamo il testo del Carme 51. dove Catullo i versi di Saffo li ha messi esplicitamente tra virgolette.
LEGERE MULTUM….
Gaio Valerio Catullo, Carmi 51.
«Mi pare simile a una dèa» - superiore agli dèi, se dirlo non è colpa -
«chi seduto di fronte a volta a volta ti guarda e se tu sorridi con dolcezza ti ascolta…»
Io vengo meno e mi perdo. Sì, da quando ti ho vista, Lesbia, la voce è scomparsa.
«La bocca è asciutta, la lingua si fa arsa, appena sotto la pelle corre un sottile fuoco,
le orecchie rimbombano, l’ombra davanti agli occhi predispone un gioco
e la vista si riduce come quando la nebbia d’autunno tutto avvolge a poco a poco»
La tua «pace [otium]», Catullo, per te è un peso, tu ti agiti troppo, dove sono i nemici?
Il disprezzo della «pace» coltivato dai re ha distrutto ricchi regni ch’erano felici.
Perché gli innamorati immaginano sempre di aver fatto un cattivo affare
a vantaggio esclusivo di chi ritengono incapace di saperli amare? Stai in «pace», Catullo,
e pensa, per un momento, a quanto l’amore sia un lussuoso sentimento. …
In questa bellissima composizione – nella quale la parola «pace» traduce il termine «otium» che, in latino, è l’attività di riflessione che viene prima e dopo il momento creativo – Catullo utilizza quattro versi e un’idea di Saffo e compie una rielaborazione molto raffinata tanto nel contenuto quanto nella forma.
Che cosa c’entra Irène Némirovsky con questo intreccio filologico? Irène Némirovsky – e lo ammette lei stessa – non avrebbe potuto sfruttare le sue doti di scrittrice se non avesse studiato i classici e si capisce che ha letto Catullo perché lo utilizza così come Catullo ha utilizzato Saffo: ed ecco un intreccio filologico polivalente. Irène Némirovsky nel 1926, quando aveva ventitre anni [l’età del neòteroi], ha scritto il suo primo romanzo che è stato pubblicato a puntate su una rivista e poi, nel 1930, viene stampato in volume quando Irène diventa una famosa scrittrice francese, dopo la pubblicazione del romanzo David Golder che ottiene un successo straordinario. Questo romanzo s’intitola Il malinteso [Le malentendu] ed è stato tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia nel 2010.
Citiamo questo romanzo in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché la scrittrice – componendo sul tema dell’amore – sembra parafrasare l’opera poetica di Catullo in un modo ancor più preciso di quanto abbiano fatto altre scrittrici ed altri scrittori. Questo è uno di quei casi in cui la Letteratura contemporanea non sostituisce la lettura dei “classici” ma ne facilita, ne agevola e ne favorisce la comprensione. La Scuola propone e consiglia la lettura di questo romanzo – lo trovate in biblioteca – sul tema dell’amore descritto nell’esaltante e dolorosa varietà di stati d’animo che questo sentimento suscita, in cui si alternano la tristezza e la gioia, il riso e il pianto, la speranza e la delusione, i laceranti pensieri sull’infedeltà e i timori del distacco definitivo, con tutta la nostalgia e lo straziante rimpianto che questo comporta.
Irène Némirovsky non solo interpreta l’opera di Catullo ma cita anche esplicitamente i concetti cardine contenuti nel Carme 51. che abbiamo letto poco fa. «L’amore, mia cara, è un sentimento di lusso!», questo cerca di spiegare una madre che ha una certa esperienza alla figlia innamorata e infelice e le fa anche acutamente notare che «gli innamorati immaginano sempre di aver fatto un cattivo affare, a vantaggio esclusivo dell’altro o dell’altra». Queste parole le abbiamo lette poco fa e vengono dall’apparato poetico di Catullo che, a sua volta, ha riflettuto sull’opera di Saffo.
Anche il concetto della «pace, dell’otium» – presente nell’opera di Saffo e di Catullo – emerge come motivo di riflessione nel romanzo di Irène Némirovsky: ad un certo punto i due protagonisti si rendono conto che l’amore è un terreno dove si fronteggiano due egoismi e allora non vorrebbero più che ci fosse la passione ma desidererebbero il riposo e la pace, e questo è possibile? La scrittrice dà una risposta implicita alludendo al fatto che il tema dell’amore non può prescindere dalla riflessione culturale anche perché una cosa è l’innamoramento e altra cosa è l’amore: l’amore è ciò che resta del fuoco dell’innamoramento destinato a spegnersi, l’amore “dipende dalla qualità della cenere” scrive Emile Cioran [Emile Cioran (1911-1995) è uno scrittore francese di origine rumena che ha sviluppato nei suoi libri una lucida filosofia improntata ad un pessimismo talmente radicale che finisce per volgere lo sguardo alla speranza], e vedete come un intreccio filologico che parte dai “classici” è destinato ad espandersi e a trasformarsi in investimento in intelligenza.
Leggete il romanzo di Irène Némirovsky come esercizio propedeutico alla comprensione dell’opera di Catullo e di Saffo: noi, adesso, leggiamo solo un frammento significativo da Il malinteso.
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, Il malinteso
A Denise si incrinò la voce. Poi, con un gesto supplichevole, aggiunse: «Mamma, lasciatemi in pace … Non potete aiutarmi …».
Si era avvicinata alla finestra e, volgendo le spalle alla madre, premeva le labbra calde contro il vetro. Ma due braccia affettuose la circondarono da dietro.
«Denise, non ti fidi più della tua mamma?».
Un tempo, con quella frasetta e una dolce carezza sulla fronte, come quando si vuole calmare un giovane animale recalcitrante, la signora veniva a capo di tutti i capricci di Denise bambina, e in seguito di tutti i suoi crucci di adulta. Così, ancora una volta, la figlia, senza più opporre resistenza, le raccontò ogni cosa … Le sue apprensioni, i suoi dubbi tormentosi e soprattutto quei dissapori immotivati, quelle ombre inafferrabili che velavano il cielo del loro amore, come le impalpabili nubi estive che si rincorrono sul mare da un capo all’altro dell’orizzonte e che finiscono per oscurare il sole …
«Pensi che non ti ami?» chiese la signora, con cautela, sforzandosi di addolcire il suo consueto tono mordace.
«Non lo so … Ho paura …».
«Ma tu, invece, sei certa di amarlo abbastanza?».
Denise, indignata, esclamò con veemenza: «Ma che dite, mamma? Io gli do tutto … tutta la mia vita …tutti i miei pensieri …e anche di più …Appena mi sveglio, prima ancora di riprendere pienamente coscienza della realtà, avverto una specie di scossa dentro di me … come quando ero incinta di Francette … e, come allora, è una sensazione dolorosa e dolce a un tempo … Sembra quasi che porti in grembo il mio amore, come un figlio … Non potete sapere, mamma…».
«So, figliola mia, so…».
«Quando non lo vedo, non vivo…Non può chiamarsi vita, la mia …Ore e ore che si trascinano inutili…Non potete sapere…».
«Oh, sì, lo so benissimo, figlia mia…».
Denise smorzò a sua volta la voce per chiedere: «Lo sapete? Anche voi avete amato, mamma? Allora spiegatemi … Perché sono infelice? Ho un amante bello, giovane, fedele … Un sogno, insomma … Eppure soffro … Guardatemi, sto diventando brutta, me ne accorgo. Perché? L’amore è un male, oppure sono io che “m’invento mostri”, come dice Francette quando si racconta storie di streghe cattive “per farsi paura”?». La signora scosse pensierosa la testa: «Sai come si chiama il tuo male, secondo me? Egoismo…».
«Egoismo suo?».
«Anche tuo…». Denise trasalì.
«Ascoltami senza inalberarti, figliola mia, e vedrai che ho ragione. Prova a immaginare, per esempio, il diverso stato d’animo con cui arrivate ai vostri appuntamenti … Tu, la cui unica preoccupazione fin dal mattino è stata quella di scegliere il vestito che potrebbe piacergli di più; lui, angustiato, stanco, contrariato, nervoso, dopo una giornata trascorsa a penare per guadagnarsi il pane…Hai una vaga idea di quel che significa, bambina viziata? E ti stupisci di qualche dissapore! Egoista…Ah, mia cara…l’amore è un sentimento di lusso».
Denise rifletteva torcendosi le mani. Alla fine disse: «Mamma, le cose che mi avete detto le penso spesso anch’io… Però, sentite… La mia cameriera ha un amante che fa il meccanico. Lui lavora tutto il giorno più duramente di Yves, ma la sera va a trovarla nella sua camera, al piano della servitù, e sono felici … E gli altri, tanti altri, tutti gli uomini? Mio marito, i nostri amici, tutti! È finita l’epoca degli eroi che collezionavano donne e cravatte, e non facevano niente. Non fare niente! Morirebbero di fame, gli eroi».
«No, lavorerebbero, e alcuni di loro sarebbero molto infelici. Harteloup [tuo marito] non potrà mai abituarsi ad alzarsi ogni giorno alle sette e mezzo, ad aspettare l’autobus all’angolo della strada, sotto la pioggia, a fare conti, a economizzare, a obbedire … Non è colpa sua. Tu dici: “E gli altri, allora? E mio marito?”. Però tu lo tradisci, tuo marito… Yves ti sembra un debole…Forse lo è. Ma tu lo ami».
Denise non ascoltava più. Scosse piano la testa e mormorò: «Il mio amore dovrebbe essere per lui una specie di lusso ritrovato…».
«Chissà, magari è proprio per questo che si sente a disagio… Come un visitatore troppo elegante in una casa povera… E poi voi due chiedete all’amore cose talmente diverse, Dio mio! La tua vita è sempre stata così tranquilla, così serena, monotona … Certo, hai bisogno delle emozioni dell’amore, di piaceri strabilianti, di sofferenze ignote, e di parole, parole, parole…».
«E lui? Di che cosa ha bisogno, lui?».
«Di pace, tutto qui…». [Catullo avrebbe utilizzato la parola “otium”]
«Che devo fare, mamma?».
«Che devi fare? Amarlo meno, forse…L’eccesso di amore è una grave sconvenienza, una vera sciagura a volte … Mia cara … Come sembra duro tutto questo, vero? Così incomprensibile … Ma è la vita! Lo imparerai, come l’ho imparato io … L’uomo non vuole essere troppo amato, sai … Senti, ti dirò chi è stato a farmelo capire per la prima volta … Il tuo povero fratellino, che è morto … Ti ricordi ancora di lui, Denise?».
«Ero così piccola … Voi gli volevate molto bene».
«Io lo adoravo come si può adorare soltanto un figlio … Davanti a quell’uomo in miniatura, che è opera tua, provi una specie di rapimento estatico … No, non puoi capire. Era il mio primo figlio, il mio bambino …Ero pazza di lui … Passavo tutto il tempo a coccolarlo, a baciarlo, a consumarlo di carezze … Un giorno … aveva due anni e mezzo, e sarebbe morto tre mesi dopo … mentre io lo stringevo con impeto, lui mi scostò le braccia con le sue manine ed esclamò: “Mi ami troppo forte, mamma, mi soffochi!”. Era già un uomo».
Denise taceva. Poi, come a fatica, con un sorriso tirato e senza allegria, disse: «Le vostre parole…sapete a quale conclusione mi portano, mamma? La cosa più saggia che potrei fare sarebbe, tutto sommato, quella di tradire Yves, poiché non ho la forza di rinunciare a lui, né di amarlo meno … Tutto questo amore che, come dite voi, lo soffoca diventerebbe della misura giusta per lui se lo dividessi fra due persone … È strano, è mostruoso, ma è così».
La signora annuì.
«Ho conosciuto una donna» mormorò, con lo sguardo perso nel vuoto «che amava il suo uomo come tu ami il tuo, come una disperata, come una pazza … Lo tormentava a forza di carezze, di attenzioni, di gelosia…E poiché gli dava davvero tutta se stessa, il suo cuore, la sua vita, le sembrava di non ricevere mai abbastanza in cambio. Come sai, gli innamorati immaginano sempre di aver fatto un cattivo affare, a vantaggio esclusivo dell’altro. E dimenticano il terzo incomodo, l’amore…Insomma, soffrivano tutti e due …Un giorno…».
«Un giorno?».
«Ebbene, un giorno la donna si fece un amico, un diversivo, solo per passare il tempo. Non un amante. L’idea di un’infedeltà fisica le era insopportabile. Un amico. E si divertì a farlo innamorare. Cominciò controvoglia, al solo scopo di scaricare il suo nervosismo sulle spalle di un innocente; poi, a poco a poco, vi prese gusto … Tornò a essere bella. L’amore felice imbellisce le donne. Il suo amante lo notò, e glielo diede a vedere. Lei, sentendosi in colpa, divenne prima più indulgente, poi più distaccata, e lui più felice … Ecco tutto…».
Denise aveva sollevato la testa. «E dov’è ora, questa donna, mamma?».
«Oh, è molto lontana, figliola, molto lontana…».
«Ed è sempre stata felice?».
«Sì, per quanto è possibile esserlo … Ormai aveva imparato la lezione della vita: dare pochissimo e pretendere ancora meno…».
«E non rimpiange mai il tempo in cui era soltanto una giovane inesperta e innamorata? Non rimpiange mai le sue sofferenze?».
La signora taceva, con lo sguardo assente.
Poi trasse un sospiro, esitò un istante, ma alla fine rispose con voce ferma: «No, mai». …
[Chi sarà questa donna? …è una confessione …]
Questo non è l’unico intreccio filologico che Catullo ci propone: siamo entrate e siamo entrati nell’area dei “classici” e questa categoria si distingue, anche, proprio perché favorisce lo sviluppo della trama, della rete, della tessitura intellettuale. Ma procediamo con ordine.
Per dimenticare Lesbia, e anche per riassestare le proprie finanze, Catullo parte per la Bitinia [bella regione del nord-ovest dell’Asia Minore tra il Mar Nero e il Mar di Marmara che era stata lasciata in eredità ai Romani dal re Nicomede IV nel 75 a.C.] al seguito del pretore Gaio Memmio al quale fa da segretario e viene a trovarsi quindi nel territorio dove è nato l’Ellenismo. Conclusa la sua permanenza in Bitinia Catullo torna in Italia e si trasferisce nella sua bella villa a Sirmione, dove trascorre gli ultimi anni di vita. Gaio Valerio Catullo muore, probabilmente, nel 54 a.C. a soli 33 anni e la sua opera è raccolta in un volume che s’intitola Il Libro di Catullo.
Della produzione poetica di Catullo sarebbero probabilmente rimasti solo pochi frammenti, come è avvenuto per gli altri “poeti nuovi”, se nel Trecento non fosse stato ritrovato un manoscritto [un codice] contenente le sue poesie. Il manoscritto, il cosiddetto “Codice Veronese”, ignorato per secoli, contiene i testi di composizioni che non sono, quasi sicuramente, mai state pubblicate dall’autore, ma, probabilmente, sono state raccolte dopo la sua morte in un “Catulli Veronensis Liber” [Libro di Catullo di Verona] che comprende 116 carmi per un complesso di circa 2300 versi. Queste liriche di varia natura sono state ordinate secondo criteri metrici [per epigrammi, per elegie], alcuni sono brevi componimenti detti “nugae, cose da nulla, bagatelle”, altri sono più ampi ed eruditi, detti “carmina docta”, composti imitando i modelli ellenistici e tra questi componimenti è compresa La Chioma di Berenice che – a proposito di intrecci filologici – dovrebbe suscitare dei ricordi in molte e molti di voi.
De La Chioma di Berenice, vale a dire del LXVI carme de Il Libro di Catullo, ce ne siamo occupate ed occupati, con dovizia di particolari, durante il primo viaggio sul territorio dell’Ellenismo nell’anno 2009 [nel dicembre del 2009] quindi adesso facciamo solo un accenno a questo significativo e celebre intreccio filologico che sicuramente – sebbene per sommi capi – tornerà in mente a chi di voi ha partecipato a quel viaggio durante il quale abbiamo soggiornato per qualche tempo ad Alessandria nel III secolo a.C..
Sicuramente ricordate che Catullo ha tradotto e ricostruito – perché era ridotto in frammenti – dal greco in latino un poemetto composto nel III secolo a.C. dal grande poeta alessandrino Callimaco di Cirene. Callimaco narra come la regina Berenice offra in voto agli dèi la treccia dei suoi capelli – la bellezza di Berenice dipendeva soprattutto dalla sua folta chioma – per salvare il marito Tolomeo, partito per la guerra e tornato sano e salvo: la treccia poi sparisce dalla teca dove era stata esposta nel tempio perché viene trasformata dagli dèi in una costellazione celeste [e c’è una costellazione che si chiama La chioma di Berenice, infatti].
A sua volta Ugo Foscolo [1778-1827, tutte e tutti voi lo conoscete], che è stato un grande interprete e un appassionato commentatore filologico del mondo poetico ellenistico, nel 1803, ha tradotto [ha volgarizzato] nella sua lingua poetica La Chioma di Berenice di Catullo facendo sfoggio di erudizione e impegnandosi soprattutto in un esercizio di apprendimento. Ecco, quindi, come si configura il famoso intreccio filologico de La Chioma di Berenice: dai frammenti in greco alessandrino di Callimaco si passa alla classica versione latina di Catullo fino ad approdare alla versione neoclassica foscoliana che apre la strada al romanticismo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Chi desidera ripassare o conoscere nei particolari il famoso intreccio filologico de La Chioma di Berenice, e il significato del concetto di “katasterismòs”, può collegarsi ad uno dei nostri siti – www.inantibagno.it o www.scuolantibagno.net – e leggere il testo dell’undicesima Lezione dell’anno scolastico 2009-2010, del nostro primo viaggio sul territorio dell’Ellenismo…
Abbiamo citato questo intreccio per tener d’occhio Ugo Foscolo che è stato un estimatore della “sapienza poetica ellenistica” e un ammiratore dell’opera di Catullo e, naturalmente, non è il solo.
Si capisce che le Liriche di Catullo hanno avuto subito un grande e immediato successo e non hanno influenzato solo i poeti elegiaci dell’età augustea come Tibullo, Properzio e Ovidio [lo rincontreremo al termine di questo viaggio] ma ne hanno risentito anche Orazio e Virgilio [li incontreremo negli ultimi itinerari di questo viaggio]. L’opera catulliana è stata apprezzata da Petrarca, dagli Umanisti, dai poeti dell’età moderna e, come abbiamo detto, da Ugo Foscolo il quale non si è limitato a tradurre la Chioma di Berenice ma si è ispirato a Catullo anche per comporre i suoi sonetti.
C’è un sonetto del Foscolo, uno dei più famosi, dove emerge in modo chiaro l’influenza del Libro di Catullo. Catullo, quando è stato in Bitinia, ne ha approfittato anche per compiere un rito pietoso: quello di sostare sulla tomba di suo fratello, morto giovane e lì sepolto. Catullo ha dedicato a questa esperienza una composizione, il celebre carme 101 che contiene una serie di stampi che hanno lasciato il segno: leggiamolo questo carme.
LEGERE MULTUM….
Gaio Valerio Catullo, Carmi [Varcando tanti mari]
Varcando tanti mari, passando per tanti popoli diversi
giungo, fratello mio, infelice alla tua tomba coi miei versi
a portarti l’ultimo dono, la rituale inefficace offerta estrema,
e a parlare invano alle tue ceneri mute. Perché il destino
ti ha strappato a me, povero fratello mio: tu non lo meritavi.
E così anch’io, come da sempre hanno fatto gli antenati
porto le stesse offerte al tuo sepolcro, tu accettale, così stillanti
di fraterno pianto, e addio per sempre, addio fratello, addio.
Ugo Foscolo si ispira a questo carme per scrivere, nell’estate del 1803, il sonetto In morte del fratello Giovanni che tutte e tutti voi conoscete, almeno per sentito dire. Giovanni Dionigi Foscolo era morto a Venezia l’8 dicembre 1801, aveva vent’anni, probabilmente suicidandosi per avvelenamento [apparteneva alla generazione preromantica di “Sturm und drang, Tempeste e assalto”] lasciando nella disperazione la madre dei Foscolo, la greca di Zante Diamantina Spathis.
Ugo Foscolo copia il carme 101 di Catullo? Non lo copia ma ne prende palesemente, e scopertamente, in prestito dei passi secondo la lezione della cultura ellenistica per cui la “sapienza poetica” è frutto di un’ampia tessitura intellettuale dove gli intrecci filologici devono emergere a vantaggio della didattica della lettura e della scrittura: da Saffo a Catullo, da Catullo a Foscolo, da Foscolo a noi che siamo qui, a Scuola, per esercitarci in funzione dell’apprendimento e dell’investimento in intelligenza. Leggiamo il sonetto In morte del fratello Giovanni:
LEGERE MULTUM….
Ugo Foscolo, In morte del fratello Giovanni
Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo il fior de’ tuoi gentil anni caduto.
La Madre or sol suo dì tardo traendo parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo e sol da lunge i miei tetti saluto.
Sento gli avversi numi, e le secrete cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quïete. Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete allora al petto della madre mesta.
Il tema del “parlare con il cenere muto [chi non ha vissuto l’esperienza di parlare davanti ad una tomba?]” –, tema che parte da Catullo, arriva a Foscolo e poi va oltre – crea un intreccio filologico dal respiro molto più ampio sul quale torneremo a riflettere.
Ora, per concludere, dobbiamo dire che l’unico a fare dell’ironia sui “nuovi poeti” e a polemizzare con Catullo – naturalmente dopo aver letto con molta attenzione le loro opere – è Cicerone. Cicerone – e questo lo abbiamo già detto più volte, li etichetta sarcasticamente con il termine “neòteroi”, come dire: “ma chi si credono di essere questi giovani?”. A questo proposito ci torna anche in mente il senatore Rosario La Ciura [ve lo ricordate? Era d’autunno quando lo abbiamo incontrato nel corso del tradizionale rituale della partenza per questo viaggio, cinque mesi fa] quando sentenziava: “Non ti offenderai, Corbera, se continuo a darti del tu come a uno dei miei studentelli che, un istante, sono giovani?”. È il “neòteroi” sarcastico di Cicerone!
Perché Cicerone critica i “nuovi poeti” e Catullo? C’è chi sostiene che Cicerone fosse geloso della loro “gioventù”. Cicerone, in proposito, non controbatte, anzi, ha risposto sinceramente quando afferma – molte volte nelle sue opere – con un certo rimpianto di “non essere mai stato giovane”, quindi, non sta qui il problema. Cicerone critica i “nuovi poeti” e, in particolare, Catullo perché si occupano troppo di poesia e poco di filosofia: se si occupassero – secondo Cicerone – più di filosofia se ne farebbero una ragione di tutte quelle “pene d’amore”.
Questa affermazione di Cicerone [sulla quale dobbiamo riflettere] – rivolta soprattutto a Catullo che, secondo lui, si occupa troppo di poesia e poco di filosofia – ci fa capire che, nel II secolo a.C., a Roma, oltre all’influsso della poesia alessandrina è arrivato anche l’influsso delle Scuole filosofiche dell’Ellenismo e come Catullo coglie l’influsso della poesia elegiaca alessandrina così Cicerone coglie l’influsso della filosofia ellenistico-alessandrina. Forse Catullo non ha avuto il tempo di occuparsi di filosofia perché è morto giovane, mentre Cicerone è stato il primo a produrre, in modo sistematico, un pensiero che s’ispira alla cultura filosofica ellenistica: Cicerone viene considerato l’iniziatore della “filosofia latina” anche se c’è un altro personaggio che, appena prima di lui, a Roma ha aperto la strada alla corrente dell’Eclettismo.
Che caratteristiche ha la filosofia latina e che ruolo ha avuto Cicerone in questo frangente? Chi è Marco Tullio Cicerone? Lo abbiamo già citato molte volte nel corso di questo viaggio ma non ci siamo ancora occupate ed occupati sistematicamente di lui: per occuparcene dobbiamo anche conoscere il personaggio che, appena prima di lui, ha aperto la strada dell’Eclettismo a Roma, chi è costui? [dire un nome ora non serve]. E che cos’è l’Eclettismo?
Per rispondere a queste domande bisogna seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come la consapevolezza degli “stati d’animo”] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui. Accorrete numerose e numerosi pensando che se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano è bene andare tutti insieme. Il viaggio continua…