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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È LA LETTERATURA DEI PADRI APOSTOLICI …

Lezione N.: 
26

Prof. Giuseppe Nibbi    Lo sapienza poetica ellenistica      28-29-30  aprile  2010

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA

C’È LA LETTERATURA DEI PADRI APOSTOLICI

     La scorsa settimana, sul territorio della sapienza poetica ellenisticaabbiamo incontrato Paolo di Tarso e ci siamo fermate e fermati davanti ad un paesaggio intellettuale dove abbiamo potuto osservare la parola-chiave vangelonel momento in cui si manifesta per la prima volta nella Storia del Pensiero Umano. La parola-chiave vangelo è un termine ellenistico (certamente uno dei termini ellenistici più significativi) che emerge per la prima volta nelle Lettere di Paolo di Tarso.

     La scorsa settimana il nostro itinerario si è concluso lasciando in sospeso una serie di interrogativi che presuppongono degli impegnativi temi di studio. Il primo importante tema di studio che riguarda le Lettere di Paolo ci si presenta in forma interlocutoria: come acquistano autorevolezza le Lettere di Paolo all’interno delle comunità, delle cosiddette Ekklesìe? Da chi vengono conservati e divulgati i testi di queste Lettere? E in che modo l’Epistolario di Paolo dà origine ad una tradizione che si identifica con la dottrina della Chiesa di Roma?

     Di fronte a questi argomenti – per conoscere, per capire ed per applicarci – dobbiamo dedicarci ad una serie di riflessioni. La lettura delle Lettere di Paolo – e la scorsa settimana abbiamo letto il proemio e commentato il primo capitolo della Lettera ai Romani e poi abbiamo letto i primi due capitoli della Prima Lettera ai Tessalonicesi – ci fa capire una prima cosa importante: non è mai esistito un mitico e perfetto Cristianesimo delle origini, tutto amore, santità, fraternità, comprensione, disponibilità. I valori positivi delle originisono emersi strada facendo – da prima in modo frammentario ed eterogeneo – attraverso una serrato dibattito culturale. Ed è proprio la corrispondenza di Paolo ad insegnare che i valori vanno costruiti, non attesi in modo fatalistico.

     Le Lettere di Paolo guardano soprattutto all’avvenire: sono il prodotto di una letteratura di carattere utopico e questa caratteristica stimola le lettrici e i lettori di questi testi a scriverne di simili seguendone il modello. Coloro i quali, circa trent’anni dopo la morte di Paolo, raccolgono e conservano i testi di Paolo e scrivono Lettere sul modello di quelle di Paolo, ritengono anche opportuno utilizzare questa scrittura come base teorica, come sostegno ideologico per costruire una linea dottrinaria che possa supportare le nascenti strutture materiali delle cosiddette Ekklesìe, delle Assemblee, delle Chiese cristiane. Chi sono coloro i quali raccolgono e conservano i testi dell’Epistolario di Paolo e scrivono, a loro volta, Lettere sul modello di quelle di Paolo di Tarso?

     Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo aprire una parentesi. Dobbiamo ricordare – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – che Paolo di Tarso è il protagonista (in modo realistico) tanto nelle sue Lettere quanto, come personaggio eroico, anche nel testo degli Atti degli Apostoli; ma Paolo di Tarso non è solo un protagonista nella tradizione canonica della Letteratura dei Vangeli ma lo è anche nella tradizione apocrifa. Infatti possediamo tre opere ellenistiche, di anonimi autori, molto significative e molto belle dal punto di vista letterario come tutti i testi apocrifi. La prima di queste opere s’intitola Atti di Paolo e Tecla ed è stata scritta intorno alla metà del II secolo. Sulla figura di Tecla, martire e santa, non ci sono dati storici, secondo la tradizione è nata ad Iconio, in Turchia, e risulta essere stata discepola di Paolo. La prima cattedrale di Milano era dedicata a lei, a Santa Tecla. La seconda di queste opere s’intitola Apocalisse di Paolo ed è stata scritta tra il III e il IV secolo, e la terza opera s’intitola Martirio di Paolo scritta tra il IV e il V secolo.

     Poi dobbiamo ricordare ancora un quarto curioso testo apocrifo che s’intitola Epistolario tra Paolo e Seneca, scritto nel IV secolo. Quest’opera – squisitamente ellenistica – è formata da 14 lettere, 8 di Seneca e 6 di Paolo. Anche l’autore di questi brevi testi di corrispondenza è anonimo: ma perché è stato scritto questo Epistolario? Per due motivi apologetici: il primo motivo è quello di spingere gli intellettuali latini ad avvicinarsi alla Sacra Scrittura, se Seneca la studia tutti lo dovrebbero fare. Il secondo motivo è quello di stimolare i Cristiani ad avvicinarsi al patrimonio della Cultura classica, per migliorare la propria formazione culturale: se Paolo legge i Classici tutti i cristiani dovrebbero fare altrettanto. È interessante la IX Lettera di Seneca a Paolo dove Seneca, insieme alla lettera, invia a Paolo un manuale di retorica da utilizzare perché possa migliorare il suo stile.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Cercate in biblioteca le opere apocrife intitolate Atti di Paolo e Tecla [della metà del II secolo], Apocalisse di Paolo [della metà del III secolo], Martirio di Paolo [della fine del IV secolo], Epistolario tra Seneca e Paolo [del IV secolo] e provate a leggerne qualche pagina…

     Ma torniamo sul nostro sentiero specifico dove ci domandiamo ancora una volta: chi ha raccolto, chi ha conservato e chi ha avviato sulla strada della canonicità le Lettere di Paolo? Ebbene, il merito di queste azioni va ai quei personaggi che la tradizione chiama i Padri della Chiesa e, in particolare, ai primi Padri che, dal XIII secolo, sono stati chiamati Apostolici. Noi abbiamo già fatto un’esperienza di studio sulla Patristica molti anni fa e forse qualche veterana o veterano se ne ricorda ancora.

     I Padri della Chiesa sono dei vescovi, cioè sono i pastori, le guide spirituali e materiali di una comunità. I tre Padri detti Apostolici sono vissuti tra il I e il II secolo, e costituiscono la prima stratificazione storica della Chiesa, sono i primi costruttori della Chiesa e, per questo motivo, vengono chiamati padri. Le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica ci suggeriscono che i Padri Apostolici sono tre personaggi che tracciano idealmente una linea che unisce tre città, tre città importanti per la nascita e per la diffusione del Cristianesimo: la cosiddetta linea Antiochia (oggi si chiama Antakya) - Smirne (oggi si chiama Izmìr) - Roma. Su questa linea ideale (che abbiamo descritto andando da est verso ovest) si muovono – o con le persone o per lettera – le parole-chiave e i concetti-cardine che hanno dato forma e contenuto alla dottrina della Chiesa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Cercate e seguite sull'Atlante geografico, nelle pagine che illustrano il bacino del Mediterraneo, la linea che unisce la città di Antiochia [oggi si chiama Antakya] con la città di Smirne [oggi si chiama Izmìr] fino alla città di Roma Su per giù: quanti chilometri sarà lunga questa “linea ideale”?  Sapete calcolare le distanze sull’Atlante?… Provate a fare questo esercizio

     Prima di proseguire nella nostra riflessione è utile presentare, sinteticamente, la mappa culturale della Patristica ellenistica. In questo quadro emergono per primi i tre Padri Apostolici (vissuti tra il I e il II secolo), e tra un momento li incontreremo. Poi emerge il gruppo più numeroso dei Padri Apologisti (vissuti tra il II e il III secolo) di cui fanno parte Giustino, Clemente Alessandrino, Origene, e poi Ireneo, Tertulliano e Cipriano. Poi ci sono i tre Padri Cappadoci (vissuti tra il III e il IV secolo): Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa e, insieme a questi tre, le studiose e gli studiosi citano anche Gerolamo.

     Questo, molto sinteticamente, è il quadro della Patristica ellenistica e ora torniamo sul nostro sentiero e incontriamo i Padri Apostolici. Non è pensabile studiare le forme e i contenuti delle Lettere di Paolo di Tarso senza far riferimento ai Padri Apostolici. Questi tre personaggi sono stati chiamati così perché, secondo la Tradizione, fanno da tramite ideale, non reale, tra i Dodici Apostoli – di cui storicamente non sappiamo quasi nulla e che rappresentano una struttura di carattere letterario, di una letteratura (la Letteratura dei Vangeli) che, tra il I e il II secolo, è in formazione – ebbene, i Padri Apostolici fanno da tramite ideale tra i Dodici Apostoli (l’ipotetica Chiesa di Gerusalemme) e la reale Chiesa dei vescovi. I Padri Apostolici raccolgono l’eredità spirituale dei Dodici Apostoli e operano dedicandosi alla conservazione e all’esegesi dei testi delle Lettere di Paolo di Tarso, che, per loro tramite, diventano la prima e costitutiva letteratura del Cristianesimo. Poi, scrivendo a loro volta Lettere sul modello di quelle di Paolo, cominciano a dare una struttura alla Chiesa, favorendo la messa in rete (operazione di grande attualità) tra le varie comunità, tra le diverse Ekklesìe.

     Per costruire la rete culturale ci vuole il filo, e il filo deve essere fatto di materiale intellettuale e, difatti, il filo della prima rete culturale del Cristianesimo è fatto della stessa sostanza di cui sono fatte le parole-chiave e le idee-cardine contenute nell’Epistolario di Paolo di Tarso. Chi sono i tessitori, chi sono i tre Padri Apostolici? I tre Padri Apostolici (e, questa volta, nel citarli procediamo, sulla linea ideale che li rappresenta, da ovest verso est) sono Clemente Romano, che conosciamo molto bene, Policarpo di Smirne e Ignazio di Antiochia.

     Di Clemente Romano – il primo dei Padri Apostolici – noi già sappiamo molte cose. Sappiamo che il vescovo Clemente Romano – come ci riferisce lo storico Eusebio di Cesarea – dirige la comunità di Roma dal 92 al 101, ed è sulla tomba di Clemente (come riporta il testo della liturgia del Giubileo dell’anno 2000) che sorge la prima struttura di riferimento, il primo elemento concreto della Tradizione della Chiesa di Roma: Clemente Romano è il primo papa che la storia annovera, e i papi, storicamente, sono i successori di Clemente. Clemente Romano, difatti, è colui che ha dato una prima forma istituzionale alla Chiesa di Roma e, per fare questa operazione di carattere culturale, ha utilizzato lo strumento della scrittura secondo lo stile delle comunità ebraiche della diaspora ellenistica, anche perché Clemente, molto probabilmente, è un ebreo che proviene dalla Sinagoga. Clemente Romano è uno scrittore ellenista: autore di una serie di opere che, complessivamente, formano quella che viene chiamata la “Letteratura Clementina” che è il documento scritto che rappresenta il primo atto costitutivo della Chiesa di Roma. Clemente Romano – ebreo di cultura ellenistica – è in sintonia con l’esperienza intellettuale di Paolo di Tarso e difatti ne raccoglie, ne riordina e ne completa l’Epistolario e, inoltre, scrive un certo numero di Lettere sul modello di quelle di Paolo tanto che, a volte, questi testi presentano delle sovrapposizioni per cui è difficile distinguere chi sia l’autore: se Paolo o Clemente.

     Sappiamo già che Clemente Romano predispone il testo degli Atti degli Apostoli (quest’opera, come sappiamo, è il primo catechismo cristiano), poi Clemente scrive i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca: questo è un tema che abbiamo trattato più volte ma dobbiamo ripassare. Le studiose e gli studiosi di filologia c’informano che il testo del Vangelo secondo Luca [kata Lucanos] nasce da una prima stesura su (sentenze) materiali elaborati a Cesarea Marittima e questo testo viene chiamato Proto Lucano. Una seconda stesura di questo testo è avvenuta ad Alessandria e questo nuovo testo viene chiamato Proto Lucano Orientale. Alla fine degli anni 90 tutto questo materiale arriva a Roma nelle mani di Clemente Romano che s’incarica di cominciare a svolgere un lavoro da rapsodo (rapsodoin greco è il sarto) e, quindi, mette in ordine e predispone con una logica pastorale tutti i materiali utili all’evangelizzazione che circolano da un’Ekklesìa all’altra.

     Clemente – abbiamo detto – scrive i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca e i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca sono un’opera (un’operetta) ellenistica di pregevole valore letterario e dottrinale: quest’opera è stata chiamata Vangelo deutero-lucano (deuteros deuteros, in greco, significa secondo, ulteriore, come dire, un testo che deve introdurre, completare e collegare vari testi tra loro). Basta una semplice ricognizione per capire come il Vangelo deutero-lucano si distingua nettamente dal testo del Vangelo secondo Luca che inizia con il terzo capitolo. Il Vangelo deutero-lucano è congegnato come una vera e propria introduzione a tutta la Letteratura dei Vangeli (che è in via di formazione) e Clemente Romano, con grande sapienza intellettuale, vuole predisporre l’incipit, l’inizio, della trafila letteraria della scrittura cristiana, del Nuovo Testamento: è di qui – pensa – che bisogna cominciare a leggere con ordine le parole che contengono il messaggio di salvezza. Nel testo del Vangelo deutero-lucano prima di tutto si vuol cercare di porre fine ad una polemica che, nelle Ekklesìe, si sta trascinando da quasi un secolo: bisogna chiarire il ruolo della figura di Giovanni il Battezzatore che veniva considerato il Messia in molte comunità: è necessario quindi descrivere in modo efficace la straordinaria missione profetica di Giovanni affermando che Giovanni è il fondamentale precursore ebraico: dal punto di vista letterario il bel “Cantico profetico-elegiaco di Zaccaria (il padre di Giovanni)diventa il tramite tra la sapienza poetica evangelico-ellenistica e la sapienza poetica beritica.

     L’altro personaggio fondamentale che deve emergere è quello di Maria di Nazareth e il testo del Vangelo deutero-lucano comincia a fondere insieme, a regola d’arte, la figura ebraica della serva del Signore con la figura (paradossale) della vergine Madre del Dio cristiano: un’operazione culturale – che abbiamo già studiato a suo tempo – di grande e sapiente spregiudicatezza intellettuale che si esplicita nel racconto (e chi non lo conosce?) dell’Annunciazione e nell’inno elegiaco-sapienziale del Magnificat.

     Nel testo del Vangelo deutero-lucano troviamo poi la ricostruzione simbolica, nota a tutti, della nascita e dell’infanzia di Gesù, è il cosiddetto Vangelo dell’infanzia perché – dopo quasi un secolo – si sente l’esigenza di colmare un vuoto, e anche il racconto allegorico della nascita e dell’infanzia di Gesù, che si snoda in parallelo con il racconto della nascita di Giovanni il Battezzatore, ha in sé proprio i caratteri tipici della letteratura ellenistica (l’epica-elegiaca che unisce angeli e pastori, il simbolismo religioso orfico che si evangelizza, il modo di interpretare i Libri dei profeti biblici secondo lo stile dell’ebraismo alessandrino filotraduzionista). E, inoltre, nel testo del Vangelo deutero-lucano (che è anche un breve catechismo scritto con lo stesso stile degli Atti degli Apostoli) possiamo leggere, al versetto 78 del capitolo primo, la prima definizione sintetica e dottrinaria del Dio cristiano: Il nostro Dio è bontà e misericordia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A questo punto l’esercizio che tutte e tutti noi dobbiamo fare è quello di leggere, o di rileggere con attenzione, i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca con la consapevolezza che si tratta di una vera e propria opera introduttiva intitolata Vangelo deutero-lucano

     Adesso noi leggiamo i primi quattro versetti del Vangelo deutero-lucano in chiave propedeutica: in preparazione alla lettura del testo completo dei primi due capitoli del Vangelo secondo Luca. Leggiamo questi versetti per capire come lo spirito e la cultura ellenistica abbiano propiziato la composizione di quest’opera significativa e di tutta la Letteratura dei Vangeli, canonica e apocrifa.

     Il Vangelo deutero-lucano inizia come se fosse una lettera: «Caro Teofilo…», secondo lo stile di Paolo di Tarso ma anche, e soprattutto, secondo lo stile pedagogico di Epicuro e dei maestri delle nuove Scuole ellenistiche. Il nome Teofilos non indica una persona reale ma è un termine allegorico: Teofilossignifica Amico di Dio, o meglio ancora, la persona che ama Dioe anche gli Atti degli Apostoli, il proto-catechismo cristiano, comincia proprio così: «Caro Teofilo…».

     Poi l’autore del Vangelo deutero-lucano dichiara di voler narrare con ordine, e l’ordine di cui parla non è un ordine di tipo cronologico ma bensì di tipo letterario e didattico: il terreno di coltura della fede è la cultura.

     E allora leggiamo i primi quattro versetti del Vangelo deutero-lucano:

LEGERE MULTUM….

Vangelo secondo Luca [Testo deutero-lucano] 1, 1-4

Caro Teofilo, molti prima di me hanno tentato di narrare con ordine quei fatti che sono accaduti tra noi. I primi a raccontarli sono stati i testimoni di quei fatti che avevano visto e udito: essi hanno ricevuto da Gesù l’incarico di annunciare la parola di Dio. Anch’io perciò mi sono deciso di fare ricerche accurate su tutto, risalendo fino alle origini. Ora, o illustre Teofilo, ti scrivo tutto con ordine, e così potrai renderti conto di quanto sono solidi gli insegnamenti che hai ricevuto.

     Di quali insegnamenti parla Clemente Romano? Parla del catalogo dei principì intorno al quale sta prendendo forma la dottrina della Chiesa di Roma e il primo oggetto, il primo fascicolo di testi scritti della dottrina della Chiesa è la Letteratura Clementina. Da che cosa è formata la Letteratura clementina o le Clementine?

     La Letteratura clementina o le Clementine – composta da Clemente Romano (da non confondersi con le Costituzioni clementine di Clemente V pubblicate da Giovanni XXII nel 1307) – è la prima raccolta di documenti ufficiali della Chiesa di Roma ed è formata da venti Omelie (prediche) e dieci Recognitiones (ricerche). Il fatto è che solo quattro di queste Omelie e tre di queste Recognitiones sono opera autentica (originale) di Clemente Romano: gli altri testi sono stati scritti da altri autori in epoca diversa, tra il IV e il V secolo. Le Clementine non originali narrano delle leggende: si narra la leggenda che Clemente Romano – descritto come un noto esponente della Sinagoga di Roma – sarebbe stato convertito da San Pietro (ma se anche San Pietro fosse andato a Roma non avrebbe potuto incontrare Clemente Romano perché non era ancora nato) e poi si narra, con stile romanzesco, dell’avventurosa ricerca da parte di Clemente della propria famiglia, con riconoscimento finale che ricorda l’episodio biblico di Giuseppe e i suoi fratelli.          Analizzando il testo latino delle Clementine “originali emerge con chiarezza che Clemente Romano, come intellettuale ebreo della diaspora, conosce l’ebraico dell’Antico Testamento (e fa molte citazioni bibliche), conosce la koiné cioè la lingua greca dell’Ellenismo (quindi legge e commenta i testi della versione greca della Bibbia dei Settanta, delle Lettere di Paolo di Tarso e dei Vangeli) e naturalmente conosce il latino popolare, vulgaris, che è la lingua con cui si esprime nella sua vita quotidiana.

     Analizzando il testo latino delle Clementine “originali – la Letteratura clementina è scritta in latino – emerge con chiarezza che Clemente Romano ha capito (c’è stata da parte sua una presa di coscienza intellettuale) il messaggio innovatore di Shaul Tarsensis, di Paolo di Tarso, che è morto a Roma da circa trent’anni. Analizzando il testo latino delle Clementine “originali si intuisce che Clemente Romano, da ebreo della diaspora ellenistica, ha capito l’importanza straordinaria dei testi delle Lettere di Paolo di Tarso scritti in greco: ha capito il concetto fondamentale per cui è necessario passare dalla visione della Legge presa alla lettera all’interpretazione dello Spirito della Legge e questa idea – il passaggio da una mentalità statica ad una dinamica – implica anche il fatto che sia necessario conoscere le lingue delle culture dell’Ecumene.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Clemente Romano capisce che è necessario conoscere le lingue [l’ebraico, il greco, il latino] delle culture dell’Ecumene e, a questo proposito, andatevi un po’ a rileggere il significativo episodio della Pentecoste all’inizio del capitolo secondo degli Atti degli Apostoli

     Clemente Romano, il primo dei Padri Apostolici, scrive in greco una serie di Lettere sul modello di quelle di Paolo (spesso ci sono delle sovrapposizioni per cui è difficile distinguere tra i due autori), scrive in greco gli Atti degli Apostoli, che è il primo catechismocristiano, scrive in greco i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca (il cosiddetto testo deutero-lucano in linea con lo stile ellenistico della Letteratura dei Vangeli) e poi raccoglie, ristruttura, codifica e traduce in latino (e questa è una scelta strategica di grande importanza) le Lettere di Paolo di Tarso e, con questa significativa operazione intellettuale, determina e orienta in modo decisivo la linea dottrinale del Cristianesimo.

     Shaul Tarsensis, Paolo di Tarso, più di cinquant’anni prima, aveva capito benissimo che la carta vincente per la diffusione della buona notizia era quella di usare la lingua della koiné: il greco dell’Ellenismo. Clemente Romano capisce altrettanto bene che questo patrimonio culturale – la traduzione in greco dei Libri della Bibbia ebraica, le Lettere di Paolo di Tarso e le Clementine che lui ha prodotto – deve essere reso nella lingua dell’Impero romano che ormai domina il mondo. Questo patrimonio deve essere tradotto nel latino vulgaris che è l’idioma popolare delle classi subalterne che aderiscono per prime alla nuova dottrina e ne costituiscono lo zoccolo duro, ed è l’idioma ordinario dei quadri dell’esercito e del pubblico impiego (un vasto strato sociale di nuova conversione) a cui il Cristianesimo rivolge il suo messaggio di salvezza in un momento in cui è già iniziata la grande crisi delle principali Istituzioni imperiali,  dell’esercito e della burocrazia. Gli imperatori di questo periodo storico si chiamano: Domiziano, Nerva, Traiano, Adriano, e sono persone che cominciano a domandarsi se l’impero sia necessario e a che cosa sia servito spargere tanto sangue per costruire un apparato di queste dimensioni.

     Le Omelie (le prediche) di Clemente sono una prima esegesi dell’Epistolario di Paolo e oggi si attribuisce a Clemente anche la Lettera di Paolo agli Ebrei (questo testo più che le caratteristiche di una lettera ha il carattere di una predica).

     Clemente Romano è, prima di tutto, un intellettuale di cultura ebraico-ellenistica perché nelle sue opere dimostra una grande conoscenza dell’Antico Testamento e una pari conoscenza della concezione del mondo e dell’etica ellenistica (dialoga con Epicurei e Stoici dimostrando di conoscere il pensiero delle loro Scuole). La cultura di Clemente Romano nasce da una matura ed equilibrata sintesi tra la religiosità ebraica e la spiritualità greco-romana che sono caratteristiche culturali tipiche degli ebrei della diaspora ellenistica, e queste caratteristiche si ritrovano nel testo del Vangelo deutero-lucano e in quello degli Atti degli Apostoli.

     Clemente ha scritto anche due Lettere ai Corinti con lo stile di Paolo. La prima, scritta nell’anno 96, è originale, la seconda è certamente apocrifa. Perché Clemente nel 96 scrive ai fedeli dalla comunità di Corinto? Durante il pontificato di Clemente nasce una violenta discordia nella comunità di Corinto (i Corinti sono assai litigiosi) e per questo motivo Clemente, a nome della Chiesa di Roma, scrive questa Lettera per esortarli alla pace, per ravvivare la loro fede e per spingerli a dedicarsi alla carità. Clemente parla con cognizione di causa perché conosce le Lettere di Paolo ai Corinti, e da questa conoscenza fa derivare la sua autorità: l’autorità della Chiesa di Roma. Con questa autorità si fa mediatore, attraverso dei delegati, tra le parti.

     La Lettera ai Corinti di Clemente Romano è molto importante perché contiene il primo testo sul Primato del Vescovo di Roma, (Vi ordino la pace – scrive Clemente – perché ho l’autorità per farlo). Il primato del Vescovo di Roma si basa – scrive Clemente – sul concetto del primato di Pietro così come lo ha descritto Paolo con grande sagacia (un po’ imbronciata) ma anche con grande umiltà: Se il Signore ha chiamato Pietro accanto a sé una ragione ci sarà, è un affermazione sarcastica perché, come studieremo nella Lettera ai Galati, Pietro e Paolo si sono scontrati con durezza, ma questo non impedisce a Paolo di utilizzare la figura di Pietro e di diventare il grande stratega, il sapiente codificatore dell’autorità nella Chiesa. Pietro, secondo Paolo, non ha capito che se il vangelo, se la buona notizia non va oltre Gerusalemme e se non viene diffusa nel vasto territorio dell’Ecumene per il messaggio di Gesù di Nazareth non può esserci futuro. Paolo si scaglia veramente contro Pietro in malo modo ma capisce che Pietro ha vissuto col Signore e quindi rappresenta un’autorità: se il Signore lo ha cercato ci sarà una ragione. Paolo, quindi, lascia da parte tutti i suoi rancori (li elabora, anche se ha ricevuto solo dissenso) e, nel suo viaggiare sul territorio dell’Ecumene, si presenta portando l’autorità di Pietro (anche se Pietro non ha voluto dargli nessuna credenziale) e Paolo fa dire a Pietro tutta una serie di parole e di idee che sono sue: in questo modo, con questa intraprendenza, Paolo costruisce l’autorità di Pietro a Roma. Quindi non ha nessuna importanza che Pietro sia stato materialmente a Roma perché Paolo, quando arriva nella capitale dell’impero, si sente in dovere di farlo parlare con le sue parole e con le sue idee. Clemente, trent’anni dopo, raccoglie questa tradizione e la riporta nel testo degli Atti degli Apostoli e poi, in nome di Paolo, impone, per Lettera, il suo Primato come successore di Pietro.

     Clemente Romano merita il titolo di Padre della Chiesa, di Padre Apostolico, in quanto portatore della autorità degli Apostoli, perché porta avanti sapientemente la grande ed epocale operazione culturale iniziata da Paolo di Tarso. Alla fine del I secolo la Chiesa di Roma – per opera di Clemente Romano – fonda la sua autorità sulle Lettere di Paolo, e i concetti contenuti nelle Lettere di Paolo diventano la trafila della linea pastorale e dottrinariadella Chiesa di Roma che tende a diventare il punto di riferimento per tutte le altre Ekklesìe sparse sul territorio dell’Ecumene.

     Per concludere questo incontro – che non sarà l’ultimo – con Clemente Romano dobbiamo ricordare che in quel tempo la Chiesa di Roma può contare su strutture materiali molto ridotte: Clemente vive in una modesta casa, si mantiene facendo il suo lavoro di impiegato, dirige l’attività liturgica, di predicazione e di studio della comunità nella più grande precarietà eppure lascia (provvidenzialmente?) una bella impronta culturale sul territorio dell’Ellenismo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A questo proposito è interessante leggere (o rileggere) uno dei romanzi di uno scrittore che si chiama Guido Morselli (1912-1973): questo significativo romanzo s’intitola Roma senza papa  (1974)…  Morselli – con grande capacità di riflessione – immagina che venga eletto un papa il quale pensa che la gerarchia della Chiesa debba tornare a vivere e a comportarsi secondo il modello di Clemente Romano: non è un’operazione facile da compiere ma con pazienza e con dedizione questo papa (dell’avvenire?) ci riesce a spostare la Santa Sede in un monastero a Zagarolo facendo un’affermazione molto interessante sulla natura di Dio…

Cercate in biblioteca questo romanzo e leggetelo…

     E ora è venuto il momento di incontrare gli altri due Padri Apostolici: Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne. Ignazio di Antiochia e Policarpo di Smirne – così come Clemente Romano – sono due figure importanti che lasciano il segno proprio perché scrivono Lettere sullo stile di Paolo di Tarso. È doveroso – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – riflettere sul fatto che il riconoscimento di Padre della Chiesa lo si acquisisce soprattutto per meriti culturali e, in particolare, con l’esercizio della scrittura.

     Policarpo, vescovo di Smirne (ricordiamo che, in greco, poli significa tanti e karpòs significa frutto, quindi il nome Policarpo significa che dà tanti frutti), è un personaggio che emerge nella letteratura cristiano-ellenistica perché è uno dei protagonisti di un’opera, molto interessante, che s’intitola Dialogo con Trifone scritta dal filosofo Giustino. Il filosofo Giustino è il primo esponente di quel movimento intellettuale – sviluppatosi nel periodo dell’Ellenismo – che comincia a conciliare la fede e la dottrina cristiana con la filosofia greca. Il filosofo Giustino (100-163/167) emigra a Roma dalla regione della Samaria, abbraccia la fede cristiana di cui diventa un appassionato teorizzatore utilizzando il pensiero di Platone: scrive alcune importanti Apologie e subisce il martirio dopo essere stato processato e condannato a morte per ateismo per non aver voluto adorare l’imperatore. Nell’opera Dialogo con Trifone Giustino racconta il travagliato itinerario culturale che lo porta verso la fede.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Potete trovare in biblioteca il testo del Dialogo con Trifone, lo si trova anche insieme alle Apologie di Giustino e potete leggerne qualche pagina

A quando risale l’ultima passeggiata che avete fatto sulla spiaggia?

Scrivete quattro righe in proposito

     Vi starete chiedendo: perché dovremmo applicarci per rispondere a questa domanda? Nel prologo del Dialogo con Trifone Giustino racconta quello che gli è successo un giorno mentre stava camminando sulla spiaggia, sul lungomare di Efeso – ed ecco perché dovete rispondere alla domanda di repertorio –; Giustino cammina sulla spiaggia tutto solo e sconsolato perché, dopo aver girato tante Scuole, non sa più a che cosa credere. Ad un tratto comincia a distinguere in lontananza la figura di una persona che, con passo flessuoso, si avvicina e, quando lo vede bene, si accorge che è un bel vecchio, dal fisico asciutto, tutto nudo e tutto abbronzato, con i capelli e la barba candidi il quale, quando gli è vicino, gli sorride e gli parla – Tu mi stavi aspettando, gli dice – illuminandolo, poi lo saluta e torna indietro da dove è venuto. Giustino saprà poi che quel vecchio – apparso come per incanto sulla spiaggia di Efeso – era Policarpo il vescovo di Smirne. Trifone, a cui Giustino racconta questa sua esperienza, è un importante esponente della comunità ebraica. Ma che cosa dice Policarpo a Giustino?

     Leggiamo un frammento dal prologo del Dialogo con Trifone:

LEGERE MULTUM….

Giustino, Dialogo con Trifone [Prologo]

Dopo essermi rivolto successivamente ad uno Stoico della Scuola del Portico capii che per la sua troppa fiducia nell’essere umano non mi fece fare nessun progresso nella conoscenza di Dio, poi mi rivolsi ad un Peripatetico della Scuola del Liceo il quale, per darmi lezioni, mi chiese su due piedi di fissargli un salario, poi mi rivolsi ad un Pitagorico della Scuola Mistica che mi costrinse ad una lunga iniziazione preliminare alla scienza, poi mi affidai a un Platonico della Scuola dell’Accademia che suscitò in me l’ingenua speranza di poter vedere subito Dio. A liberarmi da questa illusione fu un bel vecchio dal fisico asciutto, tutto nudo e tutto abbronzato, con i capelli e la barba candidi che incontrai sulla riva del mare dove mi ero recato a camminare solo e sconsolato per trovare silenzio e solitudine. Egli mi sorrise, mi salutò e m’illuminò rivelandomi che la vera filosofia, quella che conduce alla perfezione e alla felicità non si raggiunge per via di dimostrazione, non è insomma quella dei sapienti di questo mondo, è quella dei profeti di Dio, degli amici di Cristo, del Verbo incarnato che illumina ogni persona e che è stato predetto da Mose e dai profeti.

     Policarpo scrive una Lettera ai Filippesi. La Lettera ai Filippesi di Policarpo di Smirne è stata scritta nell’anno 107 e contiene un numero veramente alto di citazioni provenienti dalle Lettere di Paolo di Tarso. Policarpo è quindi un diligente raccoglitore, selezionatore e divulgatore di scritti significativi – a cominciare dai testi dalle Lettere di Paolo di Tarso – che andranno a far parte della Tradizione della Chiesa e che daranno forma e contenuto alla dottrina cristiana. Secondo la Tradizione Policarpo aveva vissuto con l’apostolo Giovanni detto l’Evangelista (il discepolo prediletto di Gesù che la Tradizione vuole sia emigrato a Smine): difatti i due personaggi, Giovanni e Policarpo di Smirne, si identificano. Sappiamo che un gruppo della comunità di Smirne – guidato da un monaco che convenzionalmente viene chiamato Giovanni il Presbitero (è Policarpo in persona? Non ci sono documenti per fare questa affermazione) – si trasferisce nell’isola di Patmos dove viene composto il testo del Vangelo secondo Giovanni e il testo dell’Apocalisse: due opere ellenistiche fondamentali per la Storia del Pensiero Umano: dobbiamo precisare anche che il testo del celebre prologo del Vangelo secondo Giovanni viene – ormai da tutte le studiose e gli studiosi di filologia – attribuito al filosofo Giustino.

     Vale la pena a questo punto fare un’escursione sull’isola di Patmos. Patmos è la più settentrionale delle isole del Dodecaneso, è un’isola formata dalla congiunzione, mediante istmi, di tre isolotti: è un’isola aspra e ventosa, e ha coste molto frastagliate con tante insenature e tante belle piccole spiagge. Sull’isola di Patmos tutto è governato dal grande monastero (che assomiglia ad una fortezza) eretto nell’XI secolo dall’imperatore bizantino Alessio I Comneno il quale la donò al monaco Cristodulo. Questo monastero è dedicato a San Giovanni Evangelista ma si chiama di San Giovanni Teologo per far conciliare la leggenda con la storia perché, secondo la Tradizione, Giovanni Evangelista sarebbe stato qui in esilio ai tempi dell’imperatore Domiziano, dall’anno 95 all’anno 97, ma in realtà alla figura di San Giovanni Evangelista si sovrappone quella di Policarpo di Smirne e quella del monaco (successore di Policarpo) che viene chiamato convenzionalmente Giovanni il Presbitero (l’anziano saggio e sapiente) che ha diretto la comunità nella quale, alla fine del I secolo, sono stati composti i testi del Vangelo secondo Giovanni e dell’Apocalisse.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Utilizzando la guida della Grecia o collegandovi alla rete, fate un’escursione sull’isola di Patmos e visitatene – leggendo – i vari centri e i monumenti, in particolare: il monastero-fortezza di San Giovanni Teologo e il monastero dell’Apocalisse, un edificio, ricostruito nel XVII secolo, dove, secondo la Tradizione, San Giovanni Evangelista avrebbe scritto il testo dell’Apocalisse, buon viaggio…

     Ma torniamo alla figura del Padre della Chiesa Policarpo di Smirne. Possediamo poi anche un significativo testo epistolare che lo vede protagonista: una Lettera degli Smirnesi sul martirio di Policarpo, di autore anonimo, che fa parte della letteratura dei Padri Apostolici. I membri della comunità di Smirne divulgano per lettera il racconto del martirio del loro vescovo: leggiamo un frammento di questa Lettera che ci spiega che tipo fosse Policarpo di Smirne, una figura dalla forte personalità, dalla fede salda e in possesso di uno spiccato senso dell’umorismo secondo lo stile della cultura ebraica.

LEGERE MULTUM….

Lettera degli Smirnesi sul martirio di Policarpo

I carnefici tentarono invano di spaventare Policarpo minacciando di farlo morire tra atroci tormenti: o sbranato dalle belve o bruciato nel fuoco o fritto nell’olio bollente. Policarpo rispose col sorriso sulle labbra e con la solita sicurezza con cui aveva guidato la nostra comunità e disse: «Volete farmi mangiare dalle belve? Bene, non sono forse creature di Dio? Volete farmi bruciare nel fuoco? Bene, Dio non parla forse attraverso il roveto ardente? Volete friggermi nell’olio? Bene, non serve forse l’olio per la consacrazione regale?». E aggiunse rivolgendosi paternamente ai carnefici: «Qualunque scelta facciate, fratelli, è ben fatta davanti a Dio!»

     La Tradizione vuole ancora che Policarpo fosse a Roma nel 154, quando aveva circa 85 anni, per discutere, molto animatamente, col papa Aniceto, undicesimo successore di Pietro, sulla data della celebrazione della Pasqua. A Roma sostenevano la flessibilità della data, secondo il calendario lunare, Policarpo sosteneva che la Pasqua andava celebrata quando la celebravano gli Ebrei, il 14 di Nisan. Non fu trovato un accordo e allora a Roma, per la celebrazione della Pasqua, fu adottato il metodo della data flessibile mentre in Oriente ci fu la continuità con la data della Pasqua ebraica.

     Le comunità giovanneedi Policarpo vescovo di Smirne, dal I secolo, si diffondono in tutte le isole elleniche e in tutte le terre bagnate dal Mar Egeo; in queste Ekklesìe vengono letti in funzione liturgica, vengono divulgati, studiati e interpretati soprattutto i testi delle Lettere di Paolo di Tarso e questo fatto ne determina la conservazione e favorisce l’instaurarsi di quella che è stata chiamata la Tradizione paolina.

     Anche il terzo Padre Apostolico che dobbiamo incontrare contribuisce notevolmente alla divulgazione dei testi e al potenziamento della credibilità delle parole-chiave e dei concetti-cardine contenuti nelle Lettere di Paolo di Tarso. E quindi si delinea chiaramente qual è stato il ruolo culturale che hanno avuto i Padri Apostolici: quello di contribuire notevolmente alla divulgazione dei testi e al potenziamento della credibilità delle parole-chiave e dei concetti-cardine contenuti nelle Lettere di Paolo di Tarso. Questo è un concetto – il ruolo dei Padri Apostolici (i primi Padri della Chiesa) – che va chiarito prima di incontrare Paolo di Tarso e prima di sfogliare il suo Epistolario perché – dal punto di vista didattico (in funzione della didattica della lettura e della scrittura) – soltanto chiarendo questo concetto, il ruolo culturale che hanno i Padri Apostolici,  possiamo domandarci: chi è Paolo di Tarso e quali sono le parole-chiave e le idee-cardine contenute nelle sue Lettere?

     Il terzo Padre Apostolico che incontriamo si chiama Ignazio ed è il vescovo di Antiochia: il primo nucleo di sentenze riguardanti la Letteratura dei Vangeli e il primo catalogo di parole-chiave significative che costituiscono la struttura di base della dottrina cristianaprendono forma ad Antiochia. Ignazio, secondo la Tradizione, è stato vescovo di Antiochia dall’anno 70 all’anno 107 e, prima di incontrarlo da vicino, noi dobbiamo puntare la nostra attenzione sulla città di Antiochia.

     Antiochia oggi si chiama Antakya e potete visitarla e localizzarla sulla carta geografica utilizzando la guida della Turchia anche se conserva poco del suo antico splendore: la città è stata fondata sulle sponde del fiume Oronte nel 301 a.C. da Seleuco I Nicatore, diadoco (generale) di Alessandro Magno, che l’ha chiamata Antiochia in onore di suo padre Antioco. Ricordiamo che ad Antiochia è sorta la terza grande Biblioteca ellenistica dopo quella di Alessandria e di Pergamo. La città di Antiochia è la capitale del regno della Siria, è la capitale della monarchia ellenistica dei Seleucidi e, dal II secolo a.C., diventa un centro d’affari molto importante gestito dai mercanti Greci ed Ebrei ed arriva ad avere più di cinquecentomila abitanti perché è il primo punto di raccolta della migrazione di manodopera da sud verso nord.

     Ed è proprio ad Antiochia che si forma e si sviluppa il movimento dei cosiddetti cristiani-ellenisti che svolge un ruolo di primo piano nella diffusione del vangelo, nel predicazione della buona notizia. I cosiddetti cristiani-ellenisti (la prima generazione di Cristiani propriamente detti) sono degli ebrei che, per mancanza di lavoro e per ragioni economiche, migrano dalla terra di Canaan verso nord, verso il territorio dell’Ellenismo e, quindi, cominciano a parlare il greco della koiné e sentono la necessità di svecchiare la cultura – troppo rigida e clericale – dell’Ebraismo. Sono questi migranti di ultima generazione che portano nelle Sinagoghe della diaspora – fondate già da qualche secolo nel corso della continua diaspora ebraica nelle grandi città ellenistiche (ad Antiochia prima di tutto) – la buona notizia della predicazione, della passione, della morte e della risurrezione di quel rabbi che si chiama Gesù di Nazareth e questo  messaggio di salvezza e di liberazione trova udienza perché anche nelle comunità ebraiche della diaspora – come sappiamo – esiste un movimento riformatore che si è messo in moto da tempo sulla scia della cultura ellenistica e che ha promosso la traduzione in greco dei testi biblici (abbiamo studiato nei particolari questo avvenimento nel Percorso dell’anno 2007-2008).

     Questi migranti – i cosiddetti cristiani-ellenisti – portano ad Antiochia, che è, come abbiamo detto, il primo grande avamposto del movimento migratorio verso l’Ellenismo, la notizia e i raccontisulla figura di Gesù di Nazareth che oltrepassano così la cerchia del giudaismo-palestinese. I cristiani-ellenisti – per aver preso questa iniziativa – si mettono anche in urto con gli Apostoli (con Pietro e con Giacomo il fratello del Signore) che, a Gerusalemme, vogliono fermamente tenere il messaggio del rabbi nazareno, che pensano di avere ereditato, chiuso nella cerchia del giudaismo-palestinese. Gli Apostoli, a cominciare da Pietro e da Giacomo il fratello del Signore, considerano – secondo la testimonianza diretta di Paolo di Tarso – un gesto sacrilego quello di contaminare la parola ebraica aramaica di Gesù con il mondo blasfemo dell’Ellenismo: Gesù è venuto (così pensano gli Apostoli) per ricostruire il Tempio d’Israele.

     Adesso noi capiamo sempre meglio come si sia creata l’esigenza di ricucire questi strappi quando, alla fine del primo secolo, la buona notizia (il vangelo) si è diffusa nel mondo dell’Ellenismo arrivando fino a Roma, mentre a Gerusalemme non ne rimane che un’eco debolissima. Comprendiamo che della ricucitura degli strappi, nel corso del I secolo, se ne occupano i Padri Apostolici con le loro Lettere di indirizzo e di commento all’Epistolario di Paolo di Tarso e poi – come sappiamo – questo lungimirante esercizio intellettuale viene completato da quel rapsodo (sarto) che è Clemente Romano con la composizione del proto-catechismo intitolato Atti degli Apostoli.

     Secondo il testo (la rapsodia) degli Atti degli Apostoli la Chiesa di Antiochia nasce con l’approvazione di Gerusalemme, con il benestare di Pietro tramite la figura di Barnaba che, insieme a Saulo, risulta essere il principale mediatore tra gli Apostoli rimasti a Gerusalemme e i cosiddetti  cristiani-ellenisti: questo passo strategico lo possiamo leggere nel capitolo 11 degli Atti dal versetto 19 al versetto 30. Il fatto è che Paolo di Tarso, nelle sue Lettere, racconta tutta un’altra storia: la storia drammatica e realistica – che lui ha vissuto in prima persona – dell’insanabile disputa tra quelli di Gerusalemme e i cristiani-ellenistidi Antiochia. Ed ecco che nel testo degli Atti – e lo ribadiamo ancora una volta – emerge il sapiente ruolo di mediazione del Padre Apostolico Clemente Romano: se nel capitolo 11 degli Atti degli Apostoli puntiamo la nostra attenzione sulla seconda parte del versetto 26 noi comprendiamo bene che, mentre da una parte si tesse l’apologia dell’armonia che s’instaura tra tutti i membri della ipotetica Chiesa delle origini di Gerusalemme, dall’altra si vuole mettere in evidenza, senza finzioni, una precisa realtà storica, ed è per questo che nel versetto 26 si legge: Proprio ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani. Con questa affermazione gli Atti degli Apostoli, il testo del proto-catechismo cristiano, vuole alludere al fatto inequivocabile che è ad Antiochia che è nato il cristianesimo, è ad Antiochia che è nata la Chiesa.

     Antiochia è la città dove viene cristianizzato Shaul (Saulo) Tarsensis, e da dove parte per viaggiare sul territorio dell’Ecumene. La chiesa di Antiochia è, difatti, la prima ad essere chiamata metropolitica cioè la città della chiesa-madre e, quindi, il vescovo di Antiochia ha un grande ascendente su tutta la cristianità delle origini.

     E adesso possiamo incontrare il più celebre dei vescovi di Antiochia, il Padre Apostolico Ignazio: per entrare in contatto con questo personaggio bisogna raccontare una storia. Nei primi mesi dell’anno 107, mentre tutto l’impero romano celebra la vittoria definitiva dell’imperatore Traiano sui Daci (ma questa è un’altra storia), una triste e strana comitiva viaggia dalla Siria verso Roma. Questa comitiva è formata da un plotone di teste di cuoio: di duri soldati romani in delicata missione speciale perché hanno ricevuto l’ordine di trasferire nella capitale un pericoloso prigioniero. Il fatto è che quando il comandante e i soldati di questo plotone arrivano nel carcere di Antiochia e vedono il pericoloso prigioniero rimangono sconcertati: si trovano di fronte ad un piccolo uomo anziano, un po’ curvo, una persona dolce e simpatica che sorride sempre e chiama cari fratelli questi rudi soldati delle forze speciali. Ignazio, vescovo della città di Antiochia, è stato condannato a morte per ateismo (non può e non vuole riconoscere che nella persona dell’imperatore vi sia una natura divina), e la puntigliosa magistratura romana prevede, per questo reato, la condanna ad bestias (ad essere sbranati dalle belve), e questa condanna deve essere eseguita nel circo romano davanti all’autorità religiosa e alla figura divina dell’imperatore o di un suo degno rappresentante: il Cristianesimo dei Padri Apostolici si presenta come una non-religione e, quindi, come una fede che non riconosce nessun idoloperché il Signore non è un dioma è un Padre che dispensa bontà e misericordia.

     Questo viaggio di Ignazio è un viaggio straordinario perché, al suo passaggio, di paese in paese, tutti i membri delle comunità cristiane si muovono per andarlo a salutare, per vederlo, per parlargli, per chiedergli consigli, e queste scene di affetto e commozione si rinnovano giornalmente. Non solo, ma, lungo la strada Ignazio vuole manifestare la propria riconoscenza anche a coloro che non sono potuti venire di persona a salutarlo e così, strada facendo, scrive anche quattordici Lettere e sette di queste Lettere sono considerate autentiche: Ignazio scrive alla comunità di Efeso, di Magnesia, di Tralli, di Roma, di Filadelfia, di Smirne e, poi, scrive a Policarpo pregandolo di scrivere lui alle altre Chiese perché Ignazio non ce l’avrebbe fatta a scrivere a tutti, e con questo si vuole affermare che il Cristianesimo ha già conquistato una vasta popolarità.

     Le sette Lettere di Ignazio di Antiochia (alla comunità di Efeso, di Magnesia, di Tralli, di Roma, di Filadelfia, di Smirne e a Policarpo) sono state raccolte, conservate e trascritte e costituiscono l’Epistolario cristiano più antico e autorevole dopo quello di Paolo di Tarso e non si possono leggere queste Lettere senza restarne colpiti ed è doveroso che la Scuola ne consigli la lettura. L’Epistolario di Ignazio di Antiochia è una significativa opera di sapienza poetica ellenistica ed è anche un importante esempio di Letteratura dell’Umanesimo e ha, quindi, un posto di rilievo nella Storia del Pensiero Umano. Non c’è in queste Lettere una grande perfezione stilistica ma il linguaggio è diretto, è di carattere popolare, ed è energico e appassionato, ed è dotato di una profonda carica esistenziale.

     Nell’Epistolario di Ignazio di Antiochia s’incontra uno scrittore dalla forte personalità che non usa citazioni esplicite né dall’Antico Testamento né dalla Letteratura dei Vangeli (che, peraltro, è in via di formazione) ma interpreta il senso del messaggio veterotestamentario ed evangelico secondo lo spirito ecumenico della koiné ellenistica. Le Lettere di Ignazio di Antiochia contengono le parole-chiave, le idee-cardine, i grandi temi esistenziali, il concetto di Dio, la definizione del Cristo della fede così come li ha elaborati ed espressi Paolo di Tarso nelle sue Lettere. Questo significa che i grandi argomenti contenuti nelle Lettere di Paolo di Tarso, circa quarant’anni dopo la sua morte, sono stati interiorizzati dalle comunità, dalle assemblee, dalle Ekklesìe – in particolare ad Antiochia, a Smirne e a Roma – e stanno diventando il documento-base su cui si va costruendo la dottrina della Chiesa.

     Quindi la Chiesa, materialmente, non nasce intorno ad un messia che viene lasciato solo (come apprendiamo dalla Letteratura dei Vangeli) e non nasce intorno agli Apostoli che rimangono, ognuno per conto proprio, ancorati al Tempio di Gerusalemme, come apprendiamo dalle Lettere di Paolo. La Chiesa non nasce neppure intorno a Paolo di Tarso che viaggia, scrive e fa da animatore a piccoli gruppi di opinione. La Chiesa nasce e si sviluppa, dopo il I secolo, intorno alle figure dei vescovi (dei pastori). I Padri della Chiesa, a cominciare dai Padri Apostolici, sono i vescovi ed è Paolo che tratteggia questa nuova figura istituzionale: la figura del pastore. Paolo tratteggia questa figura con il pensiero indirizzato alla sapienza poetica beritica (dell’Antico Testamento)e in particolare al Libro di Amos perché vuol farsi intendere, prima di tutto, dai suoi fratelli, dagli ebrei delle Sinagoghe che conoscono bene questo tema.

     Chi di voi, nell’anno 2007-2008, ha viaggiato nel territorio della sapienza poetica beriticadovrebbe ricordare che il Libro di Amos – ci vorrebbe un ripasso ma per ripassare sarebbe necessario ripercorrere almeno due itinerari interi, però, volendo, queste Lezioni, sulla sapienza poetica beritica, le trovate sui nostri siti – contiene i concetti più antichi della Letteratura dei profeti (del midrash nebiyim). Il testo del Libro di Amos – come ci ricordano le studiose e gli studiosi di filologia biblica – contiene i tratti del rituale di iniziazione del profeta che si presenta come un pastore perché vive in esilio fuori dai centri del potere: «Il Signore mi ha chiamato – proclama Amos – mentre seguivo il gregge al pascolo e mi ha ordinato di portare un messaggio». Su questo concetto – legato al Libro di Amos – Paolo vuole puntare l’attenzione quando dice che la comunità deve essere guidata da un vescovo: da una figura autorevole riconosciuta da tutti come pastore.

     Ed è poi Ignazio di Antiochia che, nelle sue Lettere, costruisce il ruolo del vescovo. Scrive Ignazio: «Il vescovo (il pastore), eletto dalla sua comunità, diventa l’espressione materiale, spirituale, culturale della comunità stessa e diventa il perno della vita cristiana sotto ogni aspetto, è il centro dell’unità, è la garanzia della presenza di Cristo, è la guida per la realizzazione della solidarietà sulla terra come ci chiede il Padre nostro che è nei cieli».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Uno scrittore britannico [di Edimburgo] che qualche volta abbiamo citato e che si chiama Bruce Marshall (1899-1979) ha scritto, nel 1970, un romanzo intitolato Il vescovo in cui lo scrittore, con grande finezza e con una certa dose di comicità, mette in evidenza i dilemmi che mettono in crisi il clero cattolico… Questo romanzo ha un sottotitolo che è un’esclamazione: “Oh che sant’uomo! ma che tormento!”, ed è una citazione dai Promessi sposi di Alessandro Manzoni, sono le parole che dice don Abbondio dopo la sua visita al cardinale Borromeo…  Cercatelo in biblioteca questo romanzo e leggetene qualche pagina, cominciate col leggere la citazione iniziale tratta dall’Epistolario di Paolo di Tarso…  Poi, già che ci siete, potete anche leggere, dai Promessi sposi, il capitolo XXVI del romanzo manzoniano…

     Abbiamo fatto questa digressione sui Padri Apostolici Clemente Romano, Policarpo di Smirne, Ignazio di Antiochia per capire come – attraverso gli scritti di questi personaggi – le Lettere di Paolo di Tarso siano entrate nella cultura di base delle Ekklesìe e siano diventate la struttura portante per la formulazione della dottrinacristiana.

     Quando nel IV secolo assisteremo al grande dibattito culturale – che si trasforma in uno scontro epocale nel corso del quale, purtroppo, si mette persino mano alle armi perché l’imperatore Costantino s’intromette con la forza) – che si sviluppa per affermare un ben preciso modello ecumenico di Chiesa e per definire la natura di Gesù Cristo (abbiamo studiato più di una volta questo argomento attraverso i documenti del primo Concilio, quello di Nicea del 325, e poi attraverso i documenti dei Concili di Calcedonia, di Efeso e di Costantinopoli); ebbene, nel corso di questo accanito scontro culturale (perché c’è grande eterogeneità ecclesiale, c’è un pensiero plurale), le Lettere di Paolo di Tarso vengono presentate come il manifesto della Chiesa del Vescovo di Roma, una Chiesa che – a partire da Clemente Romano – si era conquistata un potere morale e culturale con grandi sacrifici e con coerenti scelte umane e materiali.

     Per la Chiesa di Roma – secondo il pensiero di Paolo di Tarso – Gesù Cristo possiede una sostanza da vero Dio ma anche una natura da vero Uomo. Al Concilio di Nicea, nel 325, la Chiesa di Roma riesce a far prevalere il suo modello, e le Lettere di Paolo di Tarso diventano il primo nucleo di un canone letterario (la Letteratura dei Vangeli) che si va formando, e diventano parola di Dio: la struttura intellettuale, dottrinale e liturgica della Chiesa.

     Ora, nel IV secolo, molte pagine contenute nell’Epistolario di Paolo – se lette fuori dal contesto in cui erano state scritte – potevano suscitare scandalo, era quindi opportuno fare una selezione e compiere un’esegesi di carattere liturgico che ha imbalsamatogran parte dei testi per secoli, fino all’età moderna, fino al XVI secolo.

     I pensatori della Scolastica (per esempio Tommaso d’Aquino, nel 1247) e i pensatori rinascimentali (per esempio Erasmo da Rotterdam, nel 1515) hanno colto l’insegnamento importante che viene dalle Lettere di Paolo: la salvezza umana, il Regno di Dio, la qualità della vita si costruisce non ripiegando in un passato mitico che non c’è più (che non c’è mai stato) e che non può rivivere; quindi, la salvezza umana, il Regno di Dio, la qualità della vita si costruisce non tornando al passato ma utilizzando il patrimonio intellettuale del passato (i classici) alla luce del presente e guardando all’avvenire. Le Lettere di Paolo hanno cominciato a rivivere quando, in età medioevale e moderna, sono state rilette con lo spirito dell’Umanesimo utopico e scettico. Le lettrici e i lettori che, in età medioevale e moderna, hanno letto i testi dell’Epistolario di Paolo di Tarso hanno cominciato a porsi una serie di interrogativi che, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo porci anche noi: di che cosa parlano, a chi sono state inviate, quando sono state inviate, quante sono e, soprattutto, sono state scritte tutte da Paolo le Lettere di Paolo di Tarso? A questi interrogativi cercheremo di dare delle risposte.

     E ora, per concludere, sempre sulla scia della didattica della lettura e della scrittura e in relazione all’Epistolario di Paolo di Tarso che ha influenzato non poco la Storia della cultura, facciamo un’incursione nella letteratura contemporanea incontrando uno scrittore con il quale abbiamo avuto a che fare più di una volta durante questo viaggio, l’ultima volta non più tardi di sei settimane fa e abbiamo detto che lo avremmo rincontrato.

     Questo scrittore si chiama Fëdor Dostoevskij (1821-1881) e non ha bisogno di presentazioni. Come sapete Dostoevskij è stato, inizialmente, un giovane scrittore romantico finché i sogni romantici non sono stati brutalmente repressi della polizia zarista. Sappiamo che il giovane Dostoevskij – come molti intellettuali della sua generazione, della prima metà dell’800, in Russia – coltiva sentimenti umanitari e comincia a frequentare i circoli socialisti: siamo nel 1848, un anno di insurrezioni popolari in tutta Europa. Ricordate senz’altro che, nel 1849, Dostoevskij viene arrestato insieme agli organizzatori delle sommosse scoppiate, come in tutte le capitali europee, anche a Pietroburgo e, insieme ai suoi compagni rivoluzionari, viene processato e condannato a morte: un provvedimento volutamente sproporzionato. Sapete che Dostoevskij viene condotto sul luogo dell’esecuzione: la piazza Semënov di Pietroburgo e, all’ultimo momento – proprio prima che il plotone d’esecuzione riceva l’ordine di fare fuoco (racconterà nel romanzo intitolato l’Idiota questo drammatico episodio) –, i condannati apprendono che la sentenza è stata commutata nei lavori forzati in Siberia: è la mattina del 22 dicembre 1849, e Dostoevskij, da quel giorno, dirà di essere nato, per la seconda volta, il 22 dicembre, e dirà anche di aver provato le stesse sensazioni che deve aver provato Paolo di Tarso nel momento della folgorazione sulla via di Damasco. Due giorni dopo, nella notte di Natale, per lo scrittore inizia il doloroso viaggio verso il calvario della Siberia, e durante i dieci anni in Siberia – quattro di lavori forzati e sei di esilio – Dostoevskij legge incessantemente la Letteratura biblica e in particolare i Vangeli e le Lettere di Paolo.

     Quando Dostoevskij torna a Pietroburgo è profondamente cambiato, non ha più un animo romantico, e riprende la sua attività letteraria con uno spirito ben diverso dal precedente perché le sofferenze sopportate in prigionia, la preoccupazione della povertà, l’amarezza per la morte della moglie e del figlio, l’epilessia che lo tormenta, l’incontrollata passione per il gioco, incidono duramente sul suo spirito e comincia a vedere nel mondo la presenza della malvagità piuttosto che quella della benevolenza.

     Dostoevskij – così come fa Paolo di Tarso nel suo Epistolario e, in particolare, nella Lettera ai Romani (di cui ci siamo occupate e occupati la scorsa settimana) – riflette sul tema del male, della libertà e sulla difficoltà di amare il prossimo. C’è un romanzo che mette in evidenza più degli altri questi aspetti ed è un’opera che viene considerata tra le più grandiose della Storia della Letteratura e della Storia del Pensiero Umano. Il compito della Scuola è quello di promuovere la lettura di questo romanzo (sono mille pagine da affrontare con il metodo del legere multum) e la Scuola deve fare nei confronti di quest’opera la stessa campagna promozionale che è stata fatta per la lettura di Guerra e pace di Leone Tolstoj.

     Il romanzo che Fëdor Dostoevskij comincia a scrivere nell’aprile del 1878 e che termina nel gennaio del 1879 (con il metodo del legere multum, al ritmo di quattro pagine al giorno, a leggere questo romanzo ci s’impiega lo stesso tempo che ci ha messo Dostoevskij a scriverlo) s’intitola I fratelli Karamazov, che tutte e tutti voi conoscete. Il romanzo intitolato I fratelli Karamazov viene considerata l’opera più esaustiva del genio narrativo dostoevskiano e uno dei romanzi più grandiosi che siano mai stati scritti. In questo romanzo Dostoevskij racconta la storia di una grande e terribile famiglia, quella di Fëdor Pavlovič Karamazov, un vero padre-padrone, e dei suoi tre figli legittimi, Dmitrij (Mitia), Ivan e Aleksej (Alëša), nonché del figlio illegittimo Smerdjakov.

     La lettura di questo vasto romanzo, a cui Dostoevskij avrebbe dato un seguito, se la morte non glielo avesse impedito, va iniziata dall’Indice che – come per molti romanzi dell’800 – si presenta come un vero e proprio catalogo in funzione della didattica della lettura e della scrittura: il testo dell’opera è ben ripartito per essere stampato a puntate ma anche per favorirne, il più possibile, la lettura con il sistema del legere multum.

     Il testo de I fratelli Karamazov è diviso in quattro Parti, più un Epilogo finale, che sono suddivise in dodici Libri (ogni Libro ha il suo titolo) ripartiti in capitoli, che sono centocinque. Il primo esercizio da fare, quindi, è quello di leggere l’Indice di questo romanzo, il secondo esercizio è quello di leggere la citazione iniziale tratta dal testo del Vangelo secondo Giovanni (e qui il pensiero va a Policarpo di Smirne). Il terzo esercizio è quello di leggere le due paginette iniziali intitolate “L’autore al lettore”: ebbene, Dostoevskij scrive una lettera a ciascuna e a ciascuno di noi per informarci su quale sia, per lui, l’eroe del suo romanzo e per riflettere sulla domanda che, probabilmente, ciascuna lettrice e ciascun lettore si pone: «Ma per quale motivo io devo spendere il mio tempo per informarmi dei fatti e sulla vita di questo personaggio che non è per niente un grand’uomo ma è piuttosto un tipo strano, anzi addirittura un po’ stravagante?». La sola risposta che Dostoevskij ha da dare è questa: «E voi pensate che oggi, in un’epoca come la nostra, si possa esigere dalle persone la chiarezza?». Queste stesse parole Dostoevskij le usa in un’opera che s’intitola Memorie di una casa morta (1855) per alludere alla figura di Paolo di Tarso: «Dio – scrive Dostoevskij – non ha scelto un grand’uomo per portare il messaggio di salvezza ma ha illuminato sulla via di Damasco la mente di un tipo un po’ strano, addirittura un po’ stravagante».

     Il romanzo intitolato I fratelli Karamazov si fonda su un’idea centrale, quella della disgregazione di una famiglia, e tutto il racconto si sviluppa sulla linea del difficile equilibrio intorno al tema dell’innocenza o della colpevolezza che riguarda i quattro fratelli in relazione alla morte violenta del loro dispotico padre-patriarca. Costui, come tutte e tutti sappiamo, viene ucciso dall’epilettico Smerdjakov, il figlio illegittimo, ma l’ispiratore, sia pure indiretto del parricidio, è Ivan, che lo ha plagiato con i suoi discorsi.

     Anche se lo scrittore nella sua lettera iniziale nomina come suo eroe la figura di Aleksej (Alëša) sappiamo però che il personaggio di Ivan Karamazov (le studiose e gli studiosi parlano di enigma Ivan) è quello che rappresenta meglio la rabbia e i pensieri di Dostoevskij: è a Ivan Karamazov – il fratello scettico, negatore di Dio ma assetato di fede – che lo scrittore fa trattare, in chiave evangelica, i temi dell’Amore del prossimo, della Libertà, del Male assoluto.

     Nel cuore del romanzo I fratelli Karamazov c’è un capitolo che rappresenta uno dei vertici della Letteratura universale e che s’intitola “Il Grande Inquisitore”. Il capitolo che lo precede s’intitola Ribellione e fa da introduzione all’episodio de Il Grande Inquisitore.

     Per concludere leggiamo una pagina, la prima pagina del capitolo intitolato Ribellione (i protagonisti sono Ivan e Alëša) e non credo ci sia bisogno di dare delle spiegazioni: Dostoevskij ha letto e conosce bene il testo dell’Epistolario di Paolo di Tarso e ce lo fa sapere facendone, provocatoriamente, l’esegesi.

LEGERE MULTUM….

Fëdor Dostoevskij,  I fratelli Karamazov

Ribellione

- Debbo farti una confessione, - cominciò Ivan, - io non ho mai potuto capire come sia possibile amare il prossimo. Appunto il prossimo, a parer mio, è impossibile amarlo, a differenza forse di chi ci sta lontano. Ho letto, per esempio, non ricordo dove, d’un certo «Giovanni il Caritatevole» (un santo), che essendo arrivato alla sua capanna un viandante affamato e intirizzito, e pregandolo di farlo scaldare, lui ci si coricò insieme nel letto, lo abbracciò e cominciò a soffiargli il fiato nella bocca, che aveva piena di marcia e di fetore per non so quale orrenda malattia. Io sono convinto che una cosa simile costui la facesse in un gusto d’auto-tortura, d’un’auto-tortura piena di menzogna, per un amore impostogli dal dovere, con lo scopo d’infliggere a se stesso una memorabile penitenza. Perché l’essere umano si faccia amare, bisogna che rimanga nascosto: non appena ti mostra il viso, l’amore è bell’e finito.

- È una cosa di cui più volte ha parlato lo starec Zosima, - commentò Alëša. - Anche lui diceva che il viso degli esseri umani, per molti che sono ancora inesperti dell’amore del prossimo, riesce spesso d’impedimento all’amore. Ma c’è pure molto amore, fra le persone; e ce n’è quasi di simile all’amore di Cristo, l’ho conosciuto io stesso, Ivan …

- Mah, io, per conto mio, non l’ho ancora mai conosciuto, né posso comprenderlo: e con me, una quantità stragrande di persone. La questione, vedi, è tutta qui: se questo derivi da cattiva disposizione degli esseri umani, o piuttosto dal fatto che tale è la loro natura. A parer mio, l’amore di Cristo per gli esseri umani è una specie di miracolo impossibile sulla terra. Certo, Egli era un Dio. Ma noialtri non siamo dèi. Un esempio: io posso soffrire profondamente, ma un altro non potrà mai rendersi conto del grado di profondità raggiunto dalla mia sofferenza, perché appunto egli è un altro e non me, a parte poi che difficilmente l’essere umano si riduce a riconoscere in un altro un sofferente (come se si trattasse d’una categoria stabilita). Per qual ragione non vi si riduce, secondo te?  Ma perché, poniamo, io mando un cattivo odore, oppure perché ho un viso stupido o perché una volta, chissà quando, gli ho pestato un piede! Oltreché, c’è sofferenza e sofferenza: una sofferenza degradante, che mi avvilisca, per esempio la fame, mi sarà, ancora ancora, fatta passare per buona dal mio benefattore, ma una sofferenza appena più elevata, poniamo per un’idea, nossignore, sarà ben difficile che egli me la faccia passare per buona, giacché per esempio, dandomi una squadrata s’accorgerà che io non ho affatto un viso come quello che, secondo la sua fantasia, dovrebbe avere un uomo che soffre per quella certa idea. Cosicché mi priverà immediatamente della sua assistenza, e magari per tutt’altro che per durezza di cuore. I poveri, e soprattutto i poveri d’animo nobile, dovrebbero star attenti a non farsi mai vedere in faccia, e chiedere la carità sui giornali. Astrattamente è ancora possibile amare il prossimo e, qualche volta, anche da lontano: ma, da vicino, direi che non è possibile mai. Se le cose si svolgessero come a teatro, nei balletti, dove i poveri, quando vengono in scena, si presentano in cenci di seta e in merletti stracciati e chiedono l’elemosina graziosamente danzando eh, allora sì che si potrebbe, ancora ancora, dilettarsi di loro. Dilettarsene, ma non amarli. Ma ciò che ho detto può bastare.  Avevo bisogno, soltanto, di condurti al mio punto di vista. Volevo, ora, venir a parlare delle sofferenze umane in generale, ma sarà meglio che ci limitiamo alle sofferenze dei bambini. Tanto di perduto a favore della mia tesi, s’intende. Ma, prima di tutto, i bambini si possono amare anche da vicino, anche quelli sudici, anche quelli brutti di viso (a me sembra, però, che i bambini non siano mai brutti di viso). …

     La prossima settimana continueremo a leggere le pagine successive di questo capitolo perché la riflessione di Ivan Karamazov è appena iniziata: è più facile amare Dio che non abbiamo mai visto in faccia – sostiene Ivan – piuttosto che amare il prossimo che ci sta attorno.

     E poi, naturalmente, continueremo ad occuparci dell’Epistolario di Paolo di Tarso. Le Lettere di Paolo di Tarso sono una delle opere più importanti della Letteratura ellenistica: di che cosa parlano, a chi sono state inviate, quando sono state inviate, quante sono e, soprattutto, sono state scritte tutte da Paolo le Lettere di Paolo di Tarso?

     A questi interrogativi cercheremo di dare delle risposte perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui…

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 30, 2010