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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È L’INFLUSSO DEL CONCETTO DI “NON-AZIONE” PROVENIENTE DAL PENSIERO DEL TAO TÊ CHING…

Lezione N.: 
23

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica      7-8-9  aprile  2010

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA

C’È L’INFLUSSO DEL CONCETTO DI “NON-AZIONE” PROVENIENTE DAL PENSIERO DEL TAO TÊ CHING

     Ben tornate e ben tornati a Scuola!

     Passata la Pasqua ci avviamo verso la Pentecoste (tipico termine greco-ellenistico che significa cinquanta giorni dopo) e cominciamo ad affrontare anche l’ultima parte – sebbene ancora abbastanza lunga – del nostro viaggio di studio in funzione della didattica della lettura e della scrittura sul vasto territorio dell’Ellenismo.

     Prima della vacanza il nostro Percorso ci ha portate e ci ha portati nella parte orientale dell’Ecumene e abbiamo visitato l’India. La nostra escursione sul territorio indiano ci ha fatto conoscere l’importante tradizione sapienziale dei Libri dei Veda e poi siamo entrate e siamo entrati in contatto con il grande apparato letterario – con una serie di opere – frutto della sapienza poetica indo-ellenistica. Ci siamo anche rese e resi conto della necessità di fare, in modo ulteriore, ordine nella vasta area temporale e spaziale che riguarda la cultura dell’Ellenismo: già negli itinerari precedenti abbiamo sottolineato l’esistenza di una sapienza poetica ellenisticain lingua greca e di una sapienza poetica ellenistica in lingua latina e, nei due itinerari prima della vacanza, abbiamo preso atto che esiste pure una sapienza poetica indo-ellenistica che si esprime in sanscrito, in una lingua antica che, però, non è diventata un relitto come è successo per il greco e per il latino. Come mai al sanscrito è successo diversamente?

     Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo farcene un’altra: che cosa unisce tutti i vari filoni, quello in greco, quello in latino e quello in sanscrito, che – dal III secolo a.C. al IV secolo d.C. (per quanto riguarda il tempo), e dalle Colonne d’Ercole al mar Cinese (per quanto riguarda lo spazio) – hanno caratterizzato quel periodo che noi chiamiamo genericamente l’intervallo tra l’età antica e l’età di mezzo?

     Ebbene, tutte le Scuole di Pensiero che si trovano su questo vasto territorio, nel lungo periodo che sta tra l’età antica e l’età di mezzo, hanno lanciato un ammonimento – costruendo anche programmi pedagogici in proposito – perché la persona, in cammino sulla via che porta verso la saggezza, s’impegni per imparare a prendersi cura del proprio giardino spirituale [intelletto]”, e impari a coltivare il desiderio di prendersi cura del proprio giardino spirituale [intelletto]” attraverso l’esercizio dello studio perché lo studio, sinonimo di cura, produce un alleggerimento nei confronti della materia, e favorisce l’allontanamento della passione, del dolore, della sofferenza, dell’inquietudine.

     Questa tematica apre – nel corso e sul territorio dell’Ellenismo – una serie di questioni che rimandano a quattro interrogativi fondamentali: come mai nel mondo c’è tutto questo male? È possibile trovare una via di salvezza dal male? Il bene ha una sua forza propulsiva? I monarchi assoluti vengono considerati, per ignoranza, come se fossero delle divinità, ma com’è davvero il Regno di Dio? Tutti i grandi pensatori dell’età ellenistica – in greco, in latino, in sanscrito, in ebraico, in cinese – riflettono su queste importanti domande di carattere esistenziale e uno di loro riuscirà, in forma epistolare, a costruire un itinerario che inciderà profondamente sulla Storia del Pensiero Umano: questo personaggio lo incontreremo a suo tempo.

     Ora – procedendo con ordine – torniamo alla prima domanda che abbiamo lasciato in sospeso: perché il sanscrito, a differenza del greco e del latino, non è diventato un relitto? La riflessione che dobbiamo fare in proposito contiene anche un’importante informazione che la Scuola deve dare. Per poter imbastire la nostra riflessione – come abbiamo preannunciato prima della vacanza – dobbiamo incontrare ancora una volta uno studioso che ha dato la prima traduzione completa in una lingua europea dell’importante poema indiano intitolato Ramayana, di cui, quindici giorni fa, abbiamo studiato le caratteristiche.

     Questa preziosa impresa culturale – come sappiamo – è stata compiuta dall’abate piemontese Gaspare Gorresio – nato nel 1808 a Bagnasco in provincia di Cuneo nel Regno Sabaudo. Gorresio a Parigi, dove è emigrato nel 1838 per perfezionarsi alla Sorbona in sanscrito, diventa un grande esperto di lingua e di cultura indiana e nel 1843 intraprende la traduzione e il commento del Ramayana; questo suo lavoro termina nel 1867 con la pubblicazione, nella capitale francese, della sua opera. Sappiamo che nel 1852 Gaspare Gorresio torna in Piemonte dove istituisce all’Università di Torino la prima cattedra italiana di sanscrito.

     Il professor Gorresio ci ha insegnato che il sanscrito è la lingua degli dèi per eccellenza, è una lingua perfetta che non muta perché è stata costruita non per essere parlata (l’oralità produce processi di cambiamento nelle lingue), ma per essere scritta: sanscrito significa, appunto, compiuto, confezionato (corrisponde al termine greco téleios). Il sanscrito è, quindi, fondamentalmente una lingua letteraria che ci ha offerto capolavori come il Mahābhārata e il Ramayana di cui ci siamo occupati. Le parole sanscrite come yoga, guru, giungla ci sono diventate famigliari e anche il termine atavar che sta originariamente a indicare l’apparizione in forma corporea di una divinità.

     Perché stiamo dicendo queste cose e qual è l’informazione che, in proposito, la Scuola deve dare? La Scuola deve informare su un importante evento editoriale che si è verificato proprio all’inizio di quest’anno: nel gennaio 2010. Questa notizia, da una parte, è positiva, dall’altra mette in evidenza un fatto fortemente negativo: l’arretratezza culturale nella quale si vive nel nostro paese. Di questa lingua, il sanscrito, – a centoventi anni dalla morte di Gaspare Gorresio che aveva acquisito, in questa materia, un primato culturale in Europa – non esisteva ancora un dizionario in italiano e questo costringeva i nostri sanscritisti a rivolgersi a vocabolari tedeschi o inglesi. Questa lacuna è stata colmata da un gruppo di studiosi coordinati da Saverio Sani che insegna il sanscrito all’Università di Pisa: dopo otto anni di lavoro è stato composto il primo Dizionario sanscrito-italiano, formato da più di duemila pagine, con 180 mila lemmi. Questo strumento dovrebbe aiutare a studiare questa lingua della grande famiglia indoeuropea – comparsa in India circa millecinquecento anni prima di Cristo – che è diventata l’idioma, prima di tutto, della cultura vedica e poi di una grande tradizione letteraria.

     Il sanscrito è una lingua artificiale – imparata da quel curioso di Giacomo Leopardi quando aveva tredici anni –; il sanscrito è il prodotto di un’elaborazione compiuta intorno al IV secolo avanti Cristo da un gruppo di grammatici indiani (antenati dei grammatici alessandrini), il più celebre dei quali si chiamava Panini. Questi grammatici hanno preso l’antica lingua vedica (sapienziale) e ne hanno arrestato l’evoluzione: hanno fissato questa lingua dentro a precise regole lessicali, grammaticali e sintattiche, rigidissime e, da allora in poi, intangibili. Chi ha scritto nei secoli in sanscrito ha dovuto rifarsi a questo assetto, un po’ come se oggi qualcuno scrivesse in latino, ma non nel latino che nei secoli ha subìto molte modificazioni, bensì nel latino degli scrittori ellenistici come Cicerone, Orazio, Ovidio, Virgilio (tanto per fare alcuni nomi).

     Il sanscrito – ci ha insegnato Gorresio – era una lingua che non si parlava ma che le persone dotte ed erudite apprendevano per poterla scrivere e, per questa ragione, si aspirava ad impararla perché la sua acquisizione dava autorevolezza alla persona. Per questo motivo il sanscrito non è diventato una lingua morta: è l’aspirazione verso la conoscenza di qualcosa di prezioso che la mantiene viva; infatti questa lingua viene ancora usata ai giorni nostri in tutte le occasioni solenni, sia religiose che civili. Quando un’università indiana conferisce una laurea honoris causa, la tradizionale “laudatio” (l’atto di conferimento) viene pronunciata in sanscrito. Questa lingua quindi non è un relitto, si studia a scuola, come il latino e il greco, anzi è insegnato anche nelle scuole medie, come in Italia lo era il latino fino ad alcuni decenni fa. Una cittadina indiana e un cittadino indiano di media cultura parla in hindi, parla in inglese, ma conosce correttamente anche il sanscrito e sa leggere le antiche opere letterarie in lingua originale.

     Nel patrimonio di scrittura in sanscrito – come, a grandi linee, abbiamo studiato – è rappresentato ogni genere letterario: l’epica, la lirica, il teatro, la narrativa, la favolistica, e anche una vasta letteratura scientifica che tocca i campi più svariati, come la grammatica, la retorica, la filosofia, la matematica, l’astronomia, il diritto, la politica, la medicina, l’arte e lo studio delle tecniche erotiche.

     Noi abbiamo studiato che, nel III secolo a.C., è cominciata la composizione dei grandi poemi epici Mahābhārata e Ramayana. Sappiamo che il Mahābhārata è formato da 120 mila strofe: quattro volte la Bibbia e sette volte l’Iliade e l’Odissea messe insieme. Questi poemi sono stati trasmessi oralmente e alimentati nel corso del tempo di nuovi episodi e poi sono stati fissati nella scrittura definitivamente in età indo-ellenistica. Questi poemi sono i grandi monumenti della mitologia indiana, sono testi sacri e insieme formano il repertorio di singolarissimi materiali narrativi, composti da una struttura centrale e da una complessa e vastissima diramazione di storie.

     Il fatto significativo è che ancora oggi si scrivono in sanscrito opere letterarie, soprattutto in poesia e per il teatro: poemi, farse, drammi satirici, e anche testi su temi politici e sociali vengono composti e letti in questa lingua prestigiosa proprio perché possano risultare più credibili e più autorevoli. La costruzione e la codificazione di una lingua, che fosse la più espressiva e la più efficace possibile in funzione della scrittura, è avvenuta da parte dei grammatici indiani anche perché essi hanno preso spunto da alcuni concetti – come la razionalità, la logica, la sistematicità e l’efficienza – provenienti dal pensiero cinese: India e Cina sono sempre state in contatto e la via di comunicazione è l’Oceano Indiano. I grammatici cinesi e quelli indiani hanno la stessa cura pittorica nel raffigurare le lettere dell’alfabeto ma il sanscrito è una lingua diversa dal cinese: ciò che accomuna grammatici indiani e grammatici cinesi è la determinazione nel voler costruire un linguaggio basato su un sistema formale, razionale e rigidamente logico, sistematico ed efficiente, in modo da poter esporre il pensiero nel miglior modo possibile, in modo da poter descrivere nel modo più preciso la realtà e in modo da poter rappresentare in modo meraviglioso e spettacolare l’immaginario.

     India e Cina – abbiamo detto – sono sempre state in contatto: che cosa succede in Cina nel periodo che, per noi, è quello che corrisponde alla sapienza poetica ellenistica? Andiamo a fare un’escursione nella Valle del Fiume Giallo perché è in questa zona, già abbastanza vasta, della Cina che si svolgono gli avvenimenti culturali più rilevanti per La Storia del Pensiero Umano.

     Sul territorio cinese succede qualcosa di simile a quello che avviene sul territorio conquistato da Alessandro Magno dopo la sua morte prematura: con la morte del grande condottiero si assiste alla disgregazione dell’unità di questa enorme e fragile struttura statale dovuta allo scatenarsi di una interminabile guerra di successione tra i generali dell’esercito macedone che si auto-proclamano monarchi assoluti.

     In Cina dal 1027 a.C. detiene il potere la dinastia Chou ma nel V secolo a.C. il governo imperiale entra in crisi e nel 481 a.C. la coesione politica intorno alla figura dell’imperatore viene meno e, quindi, ne approfittano subito i feudatari che non riconoscono più il potere centrale e fondano Stati autonomi proclamando l’indipendenza dei territori che stanno amministrando. Questi piccoli Stati feudali cominciano subito a combattersi tra loro – così come faranno i diadochi (i generali di Alessandro) – e sul territorio cinese inizia un periodo di guerra diffusa, il cosiddetto periodo dei Regni combattenti che dal 481 a.C. dura fino al 206 a.C.: quindi, come abbiamo detto, sul territorio cinese succede qualcosa di simile a quello che avviene sul territorio conquistato da Alessandro Magno dopo la sua morte avvenuta nel 323 a.C..

     Naturalmente questa situazione, anche in Cina, crea un notevole declino politico che però si accompagna con un considerevole risveglio culturale. Nel periodo dei Regni combattenti i guerrieri e i generali balzano in primo piano sulla scena della Storia e, di conseguenza, gli intellettuali vengono emarginati. Ma gli intellettuali non rimangono passivi: decidono di reagire fondando Scuole e lanciando – senza fare alcun clamore – una vasta campagna di alfabetizzazione culturale e funzionale. Questa reazione da parte degli intellettuali dà inizio a quella che diventa l’età classica della Cina: un’epoca che, nella Storia del Pensiero Umano, viene ricordata come il periodo delle Cento scuole.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Riflettendo sulla parola “scuola” emergono una serie di elementi significatici: l’edificio scolastico, il piano educativo, il programma d’istruzione, il finanziamento dei progetti, la competenza degli operatori…  Come mettereste in ordine d’importanza questi elementi?

Scegliete e scrivete il vostro parere in proposito…

     Quella che per l’Occidente greco e latino è l’età dell’ellenismo, quella che per l’India è l’età indo-ellenistica, per la Cina è l’età delle Cento scuole.

     Quali sono le più importanti di queste Scuole e qual è la loro natura? Per rispondere a questo interrogativo è necessario allargare la nostra riflessione osservando i principali paesaggi intellettuali presenti sul vasto territorio della Valle del Fiume Giallo.

     Il periodo delle Cento scuole è caratterizzato da una grande varietà di programmi didattici. Ci sono Scuole di ogni tendenza, da quelle più classiche dei taoisti, dei confuciani e dei seguaci di Mo-tse a quelle, più spregiudicate, dei sofisti e dei naturalisti, e quelle più rigidamente conformistiche dei legalisti. Tra le Scuole dei naturalisti merita di essere ricordata quella degli agricoltori i quali mettevano al centro del loro programma la coltivazione dei campi oltre allo studio dei libri: studia e lavora era il loro motto che ricorda la regola benedettina.

     Adesso dobbiamo puntare l’attenzione su quelle Scuole che per noi sono più significative in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Nel periodo delle Cento scuole ci sono alcune figure di grande rilievo che noi dobbiamo incontrare: queste figure fanno riferimento ad una Istituzione fondamentale per la storia culturale della Cina: l’Istituto (il Palazzo della Cultura) fatto costruire – con grande lungimiranza – dal re Siuan nel 318 a.C. nella capitale del suo Stato, Loyang, una città che, per la sua storia, possiamo paragonare ad Atene o ad Alessandria. Il Palazzo della Cultura di Loyang è una vera e propria Accademia – difatti siamo nel periodo dell’Accademia platonica, del Liceo aristotelico, del Giardino di Epicuro e della Stoa (del Portico) di Zenone –: nel Palazzo della Cultura di Loyang trovavano libera accoglienza, ospitalità e mezzi per vivere, i letterati e gli scienziati di tutte le tendenze e questo fatto ci ricorda il Museo di Alessandria. Il Palazzo della Cultura di Loyang ospita anche due significativi personaggi che dobbiamo incontrare strada facendo: il confuciano Meng-tzu (il cui nome è stato latinizzato in Mencius) e il taoista Chuang-tzu (chiamato anche, in forma più moderna, Zhuang-zi). Meng-tzu e Chuang-tzu sono due vivacissimi polemisti che – secondo lo stile delle finezze cinesi – si sono combattuti a vicenda nei loro scritti senza mai nominarsi.

     Ma prima di conoscere da vicino l’opera di questi due personaggi, che sono contemporanei al periodo ellenistico greco e a quello indo-ellenistico, dobbiamo capire che cosa significa essere taoisti (come Chuang-tzu) ed essere confuciani (come Meng-tzu). Questo esercizio di comprensione presuppone che noi facciamo un passo (o, se volete, un ripasso) indietro nell’Età assiale quando il pensiero taoista e il pensiero confuciano prendono forma dando vita a quello che si chiama il pensiero cinese delle origini.

     Quali sono gli elementi fondamentali che caratterizzano il pensiero cinese delle origini? La Storia del Pensiero Umano in Cina si sviluppa soprattutto – come abbiamo già detto più di una volta – nella vasta regione bagnata dal Fiume Giallo [Hoang-Ho]. Questa regione è stata uno dei più importanti centri dell’evoluzione della specie umana e sull’atlante geografico, su una carta e su una guida della Cina, potete seguire il corso di questo grande fiume e potete rendervi conto della sua collocazione sul territorio dell’Asia orientale. Le ricerche archeologiche ci rivelano che già cinquecento o seicentomila anni fa la valle del Fiume Giallo era abitata dalla specie homo, ed esiste un importante documento fossile: l’homo pekinensis, detto più comunemente sinanthropus (uomo della Cina). Nella regione cinese attraversata dal Fiume Giallo, attorno al terzo millennio a.C., in contemporaneità con quella indiana, con quella egizia e con quella sumerica, fiorisce una civiltà di alto livello, a giudicare dai reperti archeologici venuti alla luce recentemente. I ritrovamenti archeologici danno una precisa fisionomia alla cultura cinese delle origini mettendo in evidenza due elementi fondamentali: la razionalità di carattere pratico e il senso morale centrato più sul gruppo che sull’individuo. Nel pensiero cinese delle origini la razionalità tende a combaciare con la tecnologia difatti in Cina si fanno molte invenzioni utili, e il ben-essere sociale viene considerato più importante del benessere individuale.

     I miti cinesi si distinguono dalle contemporanee mitologie egizie, mesopotamiche e indiane perché narrano le origini dell’Impero, quindi di un organismo umano: non c’è il Regno degli dèi, la potenza divina s’identifica, senza infingimenti, con il potere terreno. La narrazione dei miti cinesi avviene attraverso una vasta rete di racconti leggendari fatti risalire addirittura al quinto millennio a.C.. Le leggende descrivono l’origine dell’Impero come una serena età dell’oro, promossa e tutelata non da divinità ultraterrene (quasi sempre crudeli) ma da imperatori virtuosi e geniali, come il capostipite Fu-Hsi, che avrebbe inventato l’alfabeto, considerato la prima grande invenzione dell’umanità (senza alfabeto non c’è civiltà) o come il suo successore , ingegnere idraulico che avrebbe domato le disastrose inondazioni e programmato la costruzione delle grandi e utili canalizzazioni.

     Questo umanesimo tutto terreno, senza inquietudini mistiche, è basato su un’idea che possiamo considerare l’idea madre della saggezza cinese: di che idea si tratta? Il pensiero cinese delle origini si basa sull’idea che tra le vicende dell’essere umano e quelle del cosmo fisico ci sia una correlazione, un rapporto, un legame, un collegamento così stretto che, come i terremoti o le tempeste turbano la società, così i comportamenti umani, nel bene e nel male, si riflettono sul corso stesso della natura: se ci comportiamo male provochiamo anche un disordine, non solo nella società, ma anche nella natura. Se ci comportiamo in modo malvagio partecipiamo a costruire le cause delle alluvioni, dei terremoti, delle tempeste, del degrado ambientale con tutte le conseguenze che comporta, e questo è un tema di grande attualità.

     Questa simmetria dinamica tra il mondo mentale di ogni persona e il mondo esteriore è governata da un principio universale. Questo principio universale viene chiamato Tao. I Greci avrebbero detto Logos, gli Indiani potrebbero dire Brahaman o Brahama, e noi possiamo tradurre il termine Tao con l’espressione: la Legge della natura. Il Tao – la Legge della natura – è dotato di una sua energia vitale, chiamata .

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il termine “tê” – l’energia vitale – ha anche dato il nome alla famosa bevanda: il te  A chi avete preparato il te ultimamente?   E di che cosa avete chiacchierato?

Scrivete quattro righe in proposito [in Sonata a Kreutzer di Tolstòj]…

     Non c’è aspetto della civiltà classica cinese che non rifletta questa reciprocità, questo scambio, tra il mondo mentale della persona e il cosmo fisico. L’alfabeto cinese, per esempio, consiste in raffigurazioni stilizzate degli oggetti (se ne contano a migliaia), la creazione dell’alfabeto cinese è una straordinaria operazione intellettuale che ha come obiettivo quello di costruire combinazioni simboliche in modo da esprimere concetti astratti. Il rapporto tra la cosa e il segno che la raffigura non è solo convenzionale, ma è vitale, nel senso che al segno si attribuisce la stessa potenza dell’oggetto raffigurato. Su questa corrispondenza tra le cose e i loro segni si è sviluppata una tipica tradizione magica e divinatoria, il cui testo sacro per eccellenza è il più antico Libro della Cina, intitolato I-Ching [il Libro].

     La cultura cinese, fin dalle origini, è basata sulla convinzione che esista un’unità fondamentale tra lo spirito e la natura. E l’unità fondamentale tra le Leggi dello spirito e quelle della natura ha la sua più alta espressione visibile nella persona dell’imperatore, la cui autorità non scende dagli dèi ma, per così dire, sale dalle armoniose ramificazioni dell’universo. Il corrispettivo alfabetico dell’imperatore è un segno composto di tre linee orizzontali parallele tagliate da una linea trasversale e significa che i tre regni – infernale, terreno e celeste – sono soggetti al potere del Figlio del cielo, incarnazione del Tao, del principio universale che governa tanto il mondo dello spirito quanto il mondo della natura.

     Il palazzo dell’imperatore è quadrato come di forma quadrata è ritenuta la terra così come noi la vediamo. Il palazzo dell’imperatore ha nove stanze quadrate quante sono le province della Cina, le nove stanze sono costruite in modo che possano servire da sala del trono per ciascuno dei dodici mesi dell’anno, il tetto che ricopre il palazzo dell’imperatore e il lago che lo circonda sono rotondi perché rotonda è la volta del cielo. Un complicato calendario, costruito sulla Legge delle corrispondenze, regola i movimenti dell’imperatore all’interno del palazzo (avrete visto il film L’ultimo imperatore di Bertolucci che descrive bene queste cose che stiamo dicendo).

     La convinzione che ogni cosa e ogni sua modificazione sono interne a un sistema di corrispondenze ha modellato l’intera cultura cinese, compresa la cultura medica, il cui metodo dell’agopuntura – che risale ad un’età antichissima e che si basa sul principio delle corrispondenze– ha sempre risvegliato molto interesse.

     Nel pensiero cinese, all’immagine dell’universo come sistema di correlazioni con al centro il Tao (la Legge di natura), va aggiunta la dottrina sulle due forze che agiscono nell’intero organismo cosmico e in ogni sua parte, anche minima: lo Yin, che corrisponde al versante ombroso delle montagne, all’inverno, al freddo, al principio femminino, e lo Yang che corrisponde al versante assolato delle montagne, all’estate, al caldo, al principio maschile. I due principi toccano il culmine della loro separatezza rispettivamente nell’inverno e nell’estate, ma nella realtà non sono mai separati, perché è dal diverso dosaggio tra la loro contrapposizione e la loro compenetrazione che traggono forma e movimento tutte le cose, e questa dottrina ci ricorda il concetto di Apollo e Dioniso nella cultura greca.

     Tutta la sapienza cinese delle origini è scritta nei cinque testi canonici che formano il Libro [I-Ching]. La composizione di questi testi avviene circa 2500 anni fa sotto il patrocinio della dinastia Chou. I cinque testi canonici del pensiero cinese s’intitolano: Il libro delle mutazioni [I-Ching] che è un testo di arte divinatoria,  Il libro delle storie [Shu-Ching], Il libro delle canzoni  [Shi-Ching], Il canone dei riti [Li-chi] e Le primavere e gli autunni [Chun-tsiu]. Secondo la tradizione, l’ultimo testo, Le primavere e gli autunni [Chun-tsiu], sarebbe opera di Confucio che avrebbe riordinato in modo definitivo anche gli altri quattro testi. Confucio – che tutti abbiamo sentito nominare –  lo incontreremo tra breve.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

L’intera cultura cinese è dominata dall’idea della corrispondenza… La parola “corrispondenza” è legata ad un catalogo di parole significative: somiglianza, correlazione, riscontro, fedeltà, interdipendenza, equilibrio…

Quale di queste parole mettereste per prima accanto alla parola “corrispondenza”?…

     Attorno ai testi del Libro canonico [I Ching] si è sviluppata una tradizione esegetica (d’interpretazione e di commento) per opera della categoria degli scrivani detti letterati e Confucio viene considerato il più importante tra i letterati. Sono i letteratiche conoscono e custodiscono la lingua antica e sono loro che educano i giovani nobili destinati ad avere responsabilità di governo. I letterati danno vita a Scuole secondo due orientamenti culturali fondamentali: il taoismo e il confucianesimo.

     Il taoismo s’ispira a un’esigenza di disimpegno dagli affanni della vita sociale in nome di una ricerca interiore del Tao, del principio universale, della legge della Natura.

     Il confucianesimo presenta invece l’esigenza di opporsi al caos sociale, determinato dalle periodiche crisi del governo imperiale, e si propone di riportare le tradizioni all’ordine antico, e cioè al rigore morale e al rispetto delle gerarchie familiari e politiche.

     Quali sono le parole-chiave e le idee-significative che caratterizzano i due orientamenti fondamentali – il taoismo e il confucianesimo – del pensiero cinese delle origini? Intanto questi due orientamenti – il taoismo e il confucianesimo – sono legati a due celebri personaggi.

     Nel taoismo emerge una figura che abbiamo certamente sentito nominare: quella di Lao-tse. Tutte le studiose e gli studiosi oggi concordano nel dire che Lao-tse è un personaggio allegorico, un modello ideale creato dall’immaginazione degli appartenenti ad un movimento culturale di opposizione che, nel VI secolo a.C., utilizza la tradizionale dottrina del Tao per contestare e per polemizzare contro il pensiero di Confucio. Il confucianesimo si era sviluppato ed era diventato la dottrina dominante e i taoisti, seguaci di Lao-tse, si oppongono nei confronti dell’ideologia confuciana perché si identifica (si sporca le mani e la mente) con il potere costituito: i taoisti ritengono che il pensiero di Confucio si sia allontanato dalla tradizione originaria del vero Tao. Quindi il taoismo nasce e si sviluppa come un movimento di protesta all’interno del confucianesimo.

     Uno storico cinese del I secolo d.C. ha scritto: «Di Lao-tse si può assicurare soltanto, che, avendo amato l’oscurità più di ogni altra cosa, cancellò deliberatamente ogni traccia della sua vita».

     Secondo la tradizione Lao-tse sarebbe nato attorno al 570 a.C. e sarebbe morto vecchissimo, addirittura, secondo alcuni, a 200 anni. Chi ha costruito, dal punto di vista letterario, il personaggio di Lao-tse? A fare di Lao-tse un contemporaneo di Confucio – come se fosse una persona realmente esistita – è stato uno dei due personaggi che abbiamo presentato prima: Chuang-tzu che, come abbiamo detto, viene chiamato anche, in forma più moderna, Zhuang-zi. La nascita e la morte di questo scrittore vengono collocate tradizionalmente tra il 369 e il 286 a.C. ma queste date sono ipotetiche perché della vita di questo letterato del IV secolo a.C. – contemporaneo dell’ellenismo greco e dell’indo-ellenismo – non sappiamo quasi nulla secondo la tradizione dei saggi taoisti che non vogliono lasciare traccia di se stessi. Chuang-tzu è autore di un libro che porta il suo stesso nome ma nella versione più moderna di Zhuang-zi e questo testo viene considerato come il capolavoro letterario della Cina antica. Secondo Zhuang-zi [Chuang-tzu] i due grandi saggi della Cina si sarebbero incontrati più volte, sempre per iniziativa di Confucio che puntualmente restava sconfitto dall’enigmatica e scontrosa sapienza di Lao-tse.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In biblioteca potete richiedere il libro di Zhuang-zi [Chuang-tzu] e potete leggerne qualche pagina e, poi, se trovate qualche frammento che ritenete interessante, potete anche trascriverlo…

     Adesso leggiamo tre celebri frammenti tratti dal libro di Zhuang-zi [Chuang-tzu]:

LEGERE MULTUM….

Zhuang-zi [Chuang-tzu]

Una volta Zhuang-zi sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Zhuang-zi. Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di essere Zhuang-zi. Non seppe più allora se era Zhou che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhou. Tra lui e la farfalla vi era una differenza. Questo è ciò che chiamano la metamorfosi degli esseri.

La vita umana è limitata; il desiderio di esistere è illimitato. Colui che consuma la propria vita limitata per inseguire l’illimitato desiderio di vivere giunge all’esaurimento; esauritosi, vuol desiderare ancora e muore così di esaurimento. Chi fa il bene attira a sé la fama: chi fa il male si vota al castigo.  Solo colui che ha per regola la moderazione può conservare il proprio corpo, vivere intera la propria vita, adempiere ai doveri verso i propri genitori e giungere al limite naturale dell’esistenza

Se io discuto con te e tu hai la meglio su di me invece che io su di te, hai forse necessariamente ragione e io necessariamente torto?  E se io ho la meglio su di te, ho io necessariamente ragione e tu necessariamente torto?  Ha uno ragione e l’altro torto, oppure abbiamo ragione entrambi o entrambi torto?  Né io né te possiamo saperlo, e un terzo sarebbe nella stessa oscurità. Chi può decidere senza errore? Se interroghiamo qualcuno che è del tuo parere, come potrà decidere, se è del tuo parere?  Se è d’accordo con me, come potrà decidere, se è d’accordo con me? 

Lo stesso accadrà se si tratta di qualcuno che è insieme d’accordo con me e con te, o se è di un parere differente da entrambi. Allora né io, né te, né un terzo possiamo decidere.  Dovremmo attendere un quarto?

     Ma per avvicinarsi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – al libro di Zhuang-zi [Chuang-tzu], in modo da leggerne qualche pagina, è necessario prendere in considerazione le idee fondamentali del pensiero taoista e le parole-chiave legate alla figura allegorica di Lao-tse.

     Il nome di Lao-tse è legato a uno dei libri più significativi della Storia del Pensiero, il Tao-tê-ching: il Libro [ching] della potenza [] del Tao. Lao-tse avrebbe dettato questo Libro su pressante richiesta di Yin-Hsi, il mitico portinaio della Barriera orientale (della Grande Muraglia), nel momento in cui il Maestro stava lasciando la corte imperiale, dove era stato archivista, per incamminarsi verso il Tao, cioè per seguire la Via della Legge suprema che regola la natura e gli eventi umani, la Via della Virtù. Sull’autore o sugli autori – potrebbe essere il frutto del lavoro di un’intera generazione di scrivani – di questo Libro non si sa nulla: ci sono diverse correnti di pensiero in proposito e chi vuole approfondire può leggere le introduzioni al testo.

     È necessario esporre alcuni principi contenuti nel Tao-tê-ching [il Libro della potenza del Tao]. L’anima della Cina, è vero, si rispecchia meglio nell’umanesimo di Confucio (di cui ci occuperemo), ma non potrebbe esistere l’umanesimo di Confucio senza la riflessione alternativa di Lao-tse contenuta nel Tao-tê-ching. Il Tao-tê-ching [il Libro della potenza del Tao] è composto da 81 capitoletti. Ogni capitoletto è un aforisma, è una massima, è una parabola che mette in evidenza l’indefinibilità del Tao, che fa risaltare la fatalità della Legge suprema che regola la natura e gli eventi umani.

     Il Tao, secondo i taoisti, non è, come pensano i confuciani, l’armonia che deriva dall’osservanza dei riti e delle norme di comportamento privato e pubblico, il Tao non è un’armonia prodotta dall’essere umano: l’armonia del Tao, l’armonia della Legge di natura, esiste fin da principio e sta oltre la sfera pubblica della vita, oltre il velo delle vicende naturali. Se l’essere umano – si legge nel Tao-tê-ching – è convinto di essere necessario all’andamento dell’universo, e si affanna negli affari e si angustia nella ricerca dei beni e dei poteri materiali, non capirà mai nulla del Principio che nessuno può dominare, anzi che nessuno può nominare.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In biblioteca potete richiedere il Tao-tê-ching, potete sfogliarlo e sicuramente, per il suo stile paradossale, sarete attratte e attratti dal testo dei vari aforismi di cui questo libro è composto: leggetene qualche brano e se trovate qualche frammento che ritenete interessante potete anche trascriverlo…

     Cominciamo a farlo ora questo esercizio: leggiamo un primo frammento.

LEGERE MULTUM….

Tao-tê-ching

Vi è qualcosa di indefinibile nata prima del cielo e della terra tanto silenziosa e senza forma, assoluta e immutabile gira e non fa danni, può essere la madre del cielo e della terra, non so il suo nome, sforzandomi lo chiamo Tao [la Legge suprema che regola la natura e gli eventi umani]. …

     La conoscenza del Tao [della Legge suprema che regola la natura e gli eventi umani] può aversi solo con una intuizione, con una illuminazione razionale che penetri oltre tutte le rappresentazioni e tutti i concetti, e che perciò si riconosce in niente di ciò che può essere espresso in parole, anche se nella cultura del pensiero cinese delle origini (così come nella cultura indiana delle origini) le parole orali e scritte non mancano, anzi, ce ne sono in abbondanza per dire – nel miglior modo poetico possibile – che del Tao non si può dir nulla e non lo si può nominare.

     Leggiamo, in proposito, questo frammento che vuol giustificare questo fatto:

LEGERE MULTUM….

Tao-tê-ching

Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l’eterno nome, il senza nome è il principio del cielo e della terra.

     Il Tao non è un principio spirituale che si contrappone al mondo della materia, perché il Tao [la Legge suprema che regola la natura e gli eventi umani] sta prima della materia e dello spirito. E il Tao non è neppure l’Essere supremo a cui tende, pur nella sua impotenza, l’intelletto umano, perché il Tao [la Legge suprema che regola la natura e gli eventi umani] sta prima della divisione del soggetto e dell’oggetto, sta prima della divisione del mondo mentale e del mondo reale.

     E ora leggiamo i primi due capitoletti del Tao-tê-ching:

LEGERE MULTUM….

Tao-tê-ching

La Via [il Tao] veramente Via non è una via costante. I Termini [i nomi] veramente Termini non sono termini costanti. Il termine Non-essere indica l’inizio del cielo e della terra; il temine Essere indica la madre delle diecimila cose. Così è grazie al costante alternarsi del Non-essere e dell’Essere che si vedranno dell’uno il prodigio, dell’altro i confini. Questi due, sebbene abbiano un’origine comune, sono designati con termini diversi. Ciò che essi hanno in comune io lo chiamo il Mistero, il Mistero Supremo, la porta di tutti i prodigi. 

Tutti nel mondo riconoscono il bello come bello, in questo modo si ammette il brutto. Tutti riconoscono il bene come bene, in questo modo si ammette il male. Difatti: l’Essere e il Non-essere si generano l’un l’altro; il difficile e il facile si completano l’un l’altro; il lungo e il corto si formano l’un l’altro; l’alto e il basso si invertono l’un l’altro; i suoni e la voce si armonizzano l’un l’altro; il prima e il dopo si seguono l’un l’altro. Nella Via tutto è relativo. …

     Il Tao-tê-ching inizia affermando che anche la Via, anche il Tao, anche la Legge della natura, è soggetta al relativismo: la Verità è sempre al di là della risposta.

     Il tema fondamentale del pensiero cinese delle origini è quello dell’interpretazione del Tao (del principio cosmico), della definizione del Tao (perché è logico pensare che ci sia un principio cosmico) nonostante si affermi che il Tao non è definibile e neppure nominabile, ma il senso alla vita sta in questo permanente esercizio logico di interpretazionei.

     Gli antichi commentatori chiamano il Tao col nome di Wou, che può essere tradotto con il termine nulla. Il Tao viene considerato come l’essere privo di ogni determinazione e dunque si presenta simile al non-essere. Tutte le cose sussistono in virtù tanto dell’essere quanto del non-essere e, quindi, nascendo, le cose emergono dal Tao, morendo vi ritornano: vita e morte sono una medesima cosa.

     Ritroviamo lo stesso ragionamento nel pensiero greco (nella sapienza poetica orfica), ad esempio in Eraclito e in Parmenide, due personaggi che incontriamo spesso nei nostri Percorsi. C’è un momento – tanto nel pensiero di Eraclito e di Parmenide quanto nel pensiero del taoismo cinese – in cui si mette al primo posto l’Uno e, di conseguenza, le cose molteplici si annullano nell’Essere e tutta la realtà è contenuta nell’unità dell’Essere. C’è un altro momento – tanto nel pensiero di Eraclito e di Parmenide quanto nel pensiero del taoismo cinese – in cui si mette al primo posto la molteplicità e allora l’Essere si ramifica nel molteplice e perde la prerogativa di essere Uno e assume le caratteristiche del Non-essere.

     Un antico commentatore cinese del Tao-tê-ching descrive il ragionamento che abbiamo fatto sotto forma di metafora (con sapienza poetica) e così lo capiamo molto meglio; leggiamolo:

LEGERE MULTUM….

Commentari al Tao-tê-ching

Non c’è ghiaccio separato dall’acqua, né l’acqua costituente il ghiaccio è separata dal ghiaccio, né essa è un’altra entità.  Similmente, essendo tutte le cose costituite dal Tao, il Tao, necessariamente, non è separato da tutte le cose e non esiste come altra entità. Se il Tao trascendesse tutte le cose, sarebbe un vuoto, e allora non potrebbe essere chiamato principio cosmico.

     Dunque il Tao non esiste al di fuori delle cose e nemmeno si identifica con le cose molteplici e mutevoli: «Il Tao – si legge nel Tao-tê-chingè inafferrabile! Sembra esistente ed è elusivo! Io non so di chi sia figlio». Molti commentatori – come abbiamo accennato poco fa – considerano il Tao non un principio reale, ma un principio logico che regola dall’interno le contraddizioni della realtà, tutte riconducibili all’eterno gioco dell’essere e del non-essere, ambedue necessari all’ordine dell’universo; leggiamo, a questo proposito, quest’altro frammento:

LEGERE MULTUM….

Tao-tê-ching

Trenta raggi convergono in un mozzo: nel non essere sta l’uso del carro. Si modella l’argilla per fare i vasi: nel non essere sta l’uso del vaso. Si forano porte e finestre per fare una casa. Perciò l’essere costituisce l’oggetto, il non essere costituisce l’utilità.

     Il bello della logica cinese – dal punto di vista della didattica della lettura e della scrittura – è che raramente si stacca dalle immagini suggerite dall’osservazione quotidiana delle cose e della natura. La logica cinese è fedele all’idea che ciò che si muove nell’intelletto si muove anche nelle cose sensibili: non dimentichiamo che, alle sorgenti del pensiero cinese, c’è la danza cosmica tra i due principi, quello femminile e quello maschile, lo Yin e lo Yang; così, a questo proposito, si esprime il Tao-tê-ching:

LEGERE MULTUM….

Tao-tê-ching

Siccome lo Yin e lo Yang ruotano costantemente niente è stabile, tutto è sottoposto all’alternanza delle due fasi. Al culmine dell’espansione [Yang] fa seguito necessariamente l’inizio della contrazione, e reciprocamente. Nessun estremo si sostiene. Giunto allo zenith, il sole discende. Quando è piena, la luna comincia a calare. Su di una ruota che gira, il punto che è salito in alto ridiscende subito per poi risalire, giro dopo giro. Il cosmo è in equilibrio ma questo equilibrio non è stabile, è un equilibrio per compensazioni alterne.

     Nell’antico pensiero della Cina è come se Confucio – che incontreremo – rappresentasse lo Yang, il momento dell’integrazione del cittadino nelle regole della vita associata, ed è come se Lao-tse rappresentasse lo Yin, il momento del rifiuto della razionalità sociale in nome di una sapienza radicata nel non-essere dell’essere, nel vuoto del pieno, nel mozzo della ruota.

     Nel progetto etico-politico del taoismo c’è una parola-chiave fondamentale di cui bisogna capire bene il senso: la parola disimpegno. Il disimpegno taoista non consiste nel lasciarsi andare, il disimpegno taoista non corrisponde alla fannullaggine, ed è un concetto che assomiglia molto a quello latino di otium maturato con Orazio in età ellenistica.

     Per noi oggi la parola ozioha assunto esclusivamente una valenza negativa perché la contemporaneità resta dominata dall’ossessione della produzione e del reddito e, in questo contesto, l’ozio viene etichettato come sinonimo di inattività, di rinuncia, di disinteresse, di orizzonte ristretto e soffocante; ma l’ozio, o meglio l’otium, come lo intendono gli ellenisti latini, è tutt’altra cosa: è capacità di sapersi ritagliare spazi di libertà dagli impegni di lavoro, dalle cure pubbliche o private, per dedicarsi alla lettura, alla scrittura, alla conversazione, alla contemplazione terrena e spirituale, al piacere consapevole dell’apprendimento permanente. Scrive Rabelais in Gargantua e Pantagruel, parafrasando Orazio: Chi togliesse l’ozio dal mondo, ben presto farebbe perire anche le arti di Cupido perché l’otium stimola i desideri (d’amore, di conoscenza, di studio) in modo creativo e al di fuori della logica della competizione e del possesso.

     Secondo il pensiero taoista per disimpegnarsi bisogna impegnarsi molto perché il disimpegno più assoluto per non essere coinvolti, a tutti i livelli, nella scalata sociale comporta un impegno notevole. Per il taoismo la risposta è netta: l’impegno nella scalata sociale è una fuga dalla sapienza del Tao e le cose vanno male nel mondo perché ci si discosta dalle Leggi di natura, dal Tao. Il Tao-tê-ching ci spiega che si cominciò a parlare di giustizia, appunto perché ci fu l’ingiustizia, si cominciò a parlare di virtù appunto perché non ci fu più virtù. È necessario quindi non l’impegno verso l’azione ma l’impegno verso la non-azione: questa è la Legge del Tao.

     Il disimpegno taoista – un concetto che può sembrare paradossale – è basato sulla convinzione che la natura provvede spontaneamente a se stessa: basta non disturbarla. Per non disturbare la natura è necessario un disimpegno che comporta un impegno notevole perché la natura – leggiamo nel Tao-tê-chingsi esprime con rettitudine e diventa benigna attraverso i sentimenti spontanei del popolo, mentre la natura si corrompe e diventa maligna quando l’individuo s’impegna per dare la scalata alla società.

     I pensatori taoisti si scagliano contro l’attivismo dei politici arrivisti, contro la politica del fare che spesso non ha come obiettivo il bene pubblico ma l’interesse privato e si scagliano contro i letterati che sciorinano un falso sapere, un sapere alienate che crea sudditanza nei confronti del potere costituito quindi per realizzarebisogna non-fareperché nel fare c’è sempre una motivazione interessatae nello studiarebisogna non-indottrinareperché l’indottrinamento spegne il pensiero logico.

     Leggiamo che cosa scrive il Tao-tê-ching in questa serie di capitoletti:

LEGERE MULTUM….

Tao-tê-ching

Quando la sua politica fosse inattiva il suo popolo sarebbe semplice, quando la sua politica fosse attiva il suo popolo sarebbe scaltro.

Quelli che praticavano bene il Tao nell’antichità non indottrinavano il popolo ma lo facevano ignorante delle dottrine. Se il popolo è difficile a governare è perché è troppo indottrinato.

Pratica il non agire, occupati del non fare, gusta quello che non ha gusto, anche senza affacciarsi alla finestra si conosce il mondo, è senza affacciarsi alla finestra che si conosce la Via [il Tao], spesso tanto più lontano si va meno si conosce il mondo.

    Sulla punta dei piedi non si sta ritti. Con le gambe larghe non si cammina. Se ci si esibisce, non si brilla. Se ci si afferma, non ci si manifesta. Se ci si vanta, non si riesce. Se ci si gloria, non si può essere il capo.

Di tale atteggiamento nei confronti della Via si può dire: «Un nutrimento sovrabbondante e delle azioni ripetute fino alla nausea certamente ripugnano a (tutti) gli esseri». Perciò colui che possiede la Via non se ne occupa.

   Quando una persona saggia sente parlare della Via, si affretta a seguirla. Quando una persona di media cultura sente parlare della Via, talvolta la conserva, talvolta la perde. Quando una persona ignorante sente parlare della Via, ci fa grandi risate. Se non se ne ridesse, la Via non meriterebbe di essere considerata tale.

Poiché il Libro dice: «La Via chiara è come oscura. La Via progressiva è come retrograda. La Via unita è come ruvida. La Virtù somma è come una valle. Il bianco più immacolato è come contaminato. La Virtù più larga è come insufficiente. La Virtù più forte è come impotente. La realtà più solida è come tarlata. Il più grande quadrato non ha angoli. Il più grande vaso è l’ultimo a essere finito. La più grande musica ha il suono più sottile. La più grande immagine non ha forma. La Via è nascosta e non ha nomi (di categorie). Difatti, proprio perché sa prestare, la Via sa portare tutto a compimento».

   Pratica il Non-agire. Bada a non fare niente, assapora il senza-sapore; considera il piccolo come grande, il poco come molto! Intacca il difficile là dove è facile; fai grande ciò che è minuto! Le cose più difficili del mondo prendono avvio da ciò che è facile; le cose più grandi del mondo prendono avvio da ciò che è minuto. Perciò la persona saggia non fa mai niente di grande, e così può compiere il grande. Ora, colui che promette alla leggera raramente mantiene la parola. Colui che considera facili molte cose troverà certamente molte difficoltà. Perciò la persona saggia, pur considerando tutto difficile, alla fine non troverà difficoltà.

   Tutti dicono che la mia Via, pur essendo grande, sembra al di fuori di ogni convenzione. In realtà, proprio perché essa è grande sembra essere al di fuori di ogni convenzione. Se fosse convenzionale, già da tempo sarebbe minuta!  Io posseggo tre tesori che mantengo e conservo. Il primo si chiama la mansuetudine; il secondo si chiama la moderazione, il terzo si chiama: non osare essere il primo nel mondo. Essendo mansueto, posso essere coraggioso: essendo moderato, posso essere liberale; non osando essere il primo nel mondo, posso diventare padrone di tutti gli strumenti. Attualmente si disprezza la mansuetudine per essere coraggiosi; si disprezza la moderazione per essere liberali; si disprezza di essere gli ultimi per essere i primi.

È la morte! Difatti, colui che combatte per mezzo della mansuetudine trionfa; colui che si difende per mezzo di essa è salvo.   Colui che il Cielo vuol salvare, il Cielo lo protegge per mezzo della mansuetudine.

   Un buon generale non è bellicoso. Un buon guerriero non è collerico. Un buon vincitore dei suoi avversari non si impegna. Un buon imprenditore si pone al di sotto dei suoi operai. È questo che si chiama la Virtù del non lottare. È questo che si chiama la forza nel valorizzare le persone. È questo che si chiama il colmo della conformità al cielo.

   Uno stratega dell’antichità ha detto: «Non oso essere l’ospite, preferisco essere l’invitato. Non oso avanzare di un pollice, preferisco indietreggiare di un piede». Questo è ciò che si chiama: «Camminare senza che ci sia un cammino, rimboccarsi le maniche senza che ci siano braccia, sguainare la spada senza che ci sia una spada, menare le mani senza che ci sia un avversario». Non c’è disgrazia più grande che prendere alla leggera il proprio avversario. Se io prendo il mio avversano alla leggera, rischio di perdere i miei tesori. Perché, quando le armi avversarie si incrociano, vince colui che cede.

   Colui che mette il proprio coraggio nell’osare, perisce. Colui che mette il proprio coraggio nel non osare, sopravvive. Di questi due modi d’agire, l’uno è vantaggioso, l’altro nocivo. Ma quando il cielo odia, chi ne conosce la causa?  La Via del Cielo è di non lottare, e nondimeno saper vincere; di non parlare, e nondimeno saper rispondere; di non chiamare, e nondimeno far accorrere; di essere lenti, e nondimeno saper fare progetti. La rete del Cielo è grande; sebbene le sue maglie siano allentate, nulla sfugge a essa.

   La Via del Cielo, quanto è simile all’atto di tendere un arco! Ciò che è alto è spinto in basso, ciò che è basso è tratto in alto; il sovrappiù è tolto, ciò che manca è aggiunto. La Via del Cielo toglie il sovrappiù e aggiunge ciò che manca.  La via degli umani, al contrario, non è così: essi tolgono dove c’è mancanza per offrirlo dove c’è un sovrappiù. Chi è capace di offrire il suo sovrappiù là dove c’è mancanza?  Soltanto colui che possiede la Via.  Perciò la persona saggia agisce, ma non ne trae nessuna sicurezza; quando un’opera è compiuta, la persona saggia non si sofferma su di essa. La persona saggia non fa provviste e siccome considera tutto come se appartenesse agli altri, tanto di più ha egli stesso; poiché dà tutto agli altri, egli stesso ha in maggiore abbondanza.  La Via del Cielo reca profitto, ma non reca danno.

La Via della persona saggia è agire, ma senza fare. Egli non desidera mostrare la propria abilità, il fare diventa sopraffare.

   Colui che sa non parla. Colui che parla non sa. Colui che è sincero non abbellisce. Colui che abbellisce non è sincero. Colui che è buono non discute. Colui che discute non è buono. Colui che sa non gioca. Colui che gioca non sa.

     Da queste parole capiamo che il taoismo invita la persona ad impegnarsi nella contemplazione, invita la persona a vivere a contatto con la natura, la invita a porsi in equilibrio con le Leggi di natura [il Tao, la Via]. Il testo del Tao-tê-ching esorta la persona ad evitare gli impegni che la vincolano alla conquista della ricchezza, del potere, del successo, perché questi impegni non possono garantire il raggiungimento della serenità d’animo che è il vero valore da perseguire.

     Queste parole-chiave – il disimpegno, la non-azione, la serenità d’animo–che emergono, nel VI secolo a.C., dal pensiero cinese delle origini attraverso il testo del Tao-tê-ching riemergono nel IV secolo a.C. nell’opera di Zhuang-zi [Chuang-tzu] cioè in contemporaneità con il pensiero indo-ellenistico e con quello delle nuove Scuole ellenistiche greche epicuree, stoiche, scettiche. Il pensiero delle nuove Scuole ellenistiche greche epicuree, stoiche, scettiche coltiva concetti simili: l’ataraxia (l’assenza di turbamento, il raggiungimento della serenità d’animo), l’apatia (l’assenza di passioni per raggiungere l’equilibrio interiore), l’epoché (la sospensione del giudizio per vincolarsi alle certezze che non possono mai essere definitive).

     Di fronte a questa riflessione possiamo capire meglio perché l’itinerario di questa sera ci ha portato fino a Loyang nel cuore della valle del Fiume Giallo. Le parole-chiave e le idee-cardine dell’antico pensiero del Tao-tê-ching sono state esportate – attraverso le migrazioni e le rotte commerciali – verso occidente e hanno contribuito ad una riflessione che si è sviluppata da prima nella cultura vedica (nella cultura sapienziale indiana) e poi – anche attraverso il fenomeno (che abbiamo studiato in autunno) del pellegrinaggio culturale verso Oriente da parte degli intellettuali ellenistico-alessandrini – la riflessione è continuata sul territorio dell’Ellade confluendo nei programmi delle nuove Scuole ellenistiche che hanno rielaborato in forme autonome i concetti di disimpegno, di non-azione, di serenità d’animo. Queste idee rientrano in scena tutte le volte – e sono molto frequenti – che le persone si trovano di fronte a crisi di carattere politico, sociale, economico, morale ed esistenziale.

     In funzione della didattica della lettura e della scrittura possiamo, a questo proposito, puntare l’attenzione su un libro che è stato scritto nel 1967 e che è stato tradotto e pubblicato l’anno scorso per la prima volta in Italia. Questo libro s’intitola Un uomo che dorme ed è stato scritto da Georges Perec, uno scrittore che abbiamo già incontrato qualche anno fa.

     Georges Perec (1936-1982) – nato e vissuto a Parigi e figlio di ebrei polacchi – è stato uno dei più significativi esponenti della Letteratura francese ed europea del secolo scorso. Nel 1965 Georges Perec si è fatto notare, già da giovane, con il suo romanzo d’esordio intitolato Le cose. Nel 1967 è entrato a far parte dell’Oulipo [Ouvroir de Littérature Potentielle - Officina di Letteratura Potenziale] che è stato uno dei più importati laboratori culturali del ‘900. Un manifesto di questo movimento intellettuale, i cui membri agiscono soprattutto per dare una nuova forma al romanzo, è un’opera dello scrittore Raymond Queneau che s’intitola Esercizi di stile (1947). L’Officina di Letteratura Potenziale vuole fare una ricerca filologica e tecnica sulla potenzialità creativa che hanno le parole nel loro combinarsi insieme: questo concetto è più difficile da esprimersi in teoria che da verificarsi in pratica.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se prendete in biblioteca Esercizi di stile di Raymond Queneau potete rendervi conto in quanti modi diversi, e con quanti diversi stili, si possa dire la stessa cosa, si possa raccontare un fatto: fate questa verifica e vi divertirete…

     L’Officina di Letteratura Potenziale svolge un ruolo affine a quello che, nel corso dell’Ellenismo, hanno svolto i grammatici alessandrini nello sviluppare una ricerca sul linguaggio in modo da codificare gli strumenti (per esempio il genere letterario dell’Elegia) per dare maggior espressione al linguaggio stesso. Al movimento dell’Oulipo ha partecipato anche fattivamente lo scrittore italiano Italo Calvino e quando si leggono i suoi racconti bisogna tenere conto di questo fatto per capirne a pieno lo stile.

     Georges Perec ha dato un notevole contributo allo sviluppo di questo movimento con il testo dei suoi romanzi come La scomparsa (1969), W o il ricordo d’infanzia (1975), Mi ricordo (1978). Ma il suo romanzo più celebre – di cui abbiamo avuto occasione di parlare più di una decina d’anni fa – s’intitola La vita istruzioni per l’uso (1978) che è stato tradotto in tutto il mondo e verrà il momento in cui questo romanzo, molto particolare, lo rincontreremo [Questo romanzo è stato recensito nel primo numero – autunno-inverno 1999 – della rivista L’ANTIbagno].

     Questa sera vogliamo prendere in considerazione il terzo romanzo in ordine di scrittura di Georges Perec che s’intitola Un uomo che dorme, la storia di uno studente che la mattina dell’esame, invece di alzarsi, lascia suonare la sveglia, e richiude gli occhi. Segue poi il racconto della sua vita ordinaria in cui, giorno dopo giorno, si educa all’indifferenza per tutto ciò che lo circonda, e questo è un tirocinio educativo molto faticoso perché non è per niente facile imparare a non voler più niente, a vagare senza meta, a dormire più del necessario, a perdere tempo tenendosi lontano da ogni progetto e da ogni smania di realizzazione. Non è per niente facile educarsi ad essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione, non è per niente facile leggere Le Monde” – il famoso quotidiano francese – dall’inizio alla fine, senza saltare una riga, annunci matrimoniali e necrologi compresi, senza essere coinvolti negli stimoli che la lettura offre.

     Un uomo che dorme è un romanzo in cui ogni persona, leggendolo, riconosce quel particolare desiderio di ritirarsi dal mondo senza scomparire del tutto, difatti: a chi non viene in mente ogni tanto di eclissarsi?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In quale circostanza avete deciso di eclissarvi?… 

Scrivete quattro righe in proposito…

     Nello stesso tempo Georges Perec denuncia anche il fatto che, mentre ritirarsi dal mondo per non subirne il peso è difficile, vivere nel mondo diventando sempre più indifferenti verso gli altri è invece spaventosamente facile. E il protagonista del romanzo se ne rende conto di questa chiassosa indifferenza di massa mentre, come un fantasma trasparente – in mezzo ad una folla frettolosa e dedita (apparentemente) al fare – vaga per Parigi senza aprire bocca, senza desiderare più nulla, camminando sui Grands Boulevards, entrando nei caffè, sostando sulle panchine dei giardinetti, percorrendo i Lungosenna, visitando i musei e guardando i monumenti come se fosse un turista sonnambulo in casa propria.

     Perec vuole anche denunciare il sistema di fare giornalismo (e questo ci ricorda il romanzo Bel-Ami di Guy de Maupassant che abbiamo incontrato in autunno), vuole denigrare il modo di agire dei cosiddetti funzionari dell’informazione perché finiscono per cancellare le tracce delle cose comuni, della vita ordinaria, per sostituirle con lo straordinario, il sorprendente, lo scandalo o i cataclismi naturali e sociali, ma la vita è fatta di quotidianità e se non si valorizza la quotidianità la vita perde il suo senso. «Dietro un avvenimento – scrive Perec – ci deve essere uno scandalo, un’incrinatura, un pericolo, come se la vita dovesse rivelarsi soltanto attraverso lo spettacolare: come se l’esemplare, il significativo fosse sempre anormale».

     L’ovvietà quotidiana è intesa sempre come un qualcosa di già visto, che sarebbe il contrario di ciò che è interessante, e questo significa che il quotidiano resta una zona d’ombra, un margine senza interesse: «I giornali – scrive Perec – parlano di tutto, tranne che del giornaliero, e in che modo, chi scrive, può render conto di ciò che succede ogni giorno, del banale, del quotidiano, dell’evidente, del comune, dell’ordinario, dell’infra-ordinario, del rumore di fondo, dell’abituale? Questo diventa il compito della Letteratura».

     Il testo di questo romanzo ha un’intonazione aspra, ma è una significativa risposta agli ideali fasulli dell’attivismo moderno, come forma mentale deleteria dell’occidente. «Le maschere della retta via e delle magnifiche certezze – scrive Perec – sono tratti che noi tutti impariamo presto a riconoscere come norme di vita e intorno a noi, da sempre, abbiamo visto privilegiare l’azione, i grandi progetti e l’entusiasmo: l’uomo proteso in avanti, l’uomo con lo sguardo fisso all’orizzonte». «La tenacia, l’iniziativa, le gesta clamorose e i trionfi – scrive Perec – tracciano il cammino di una vita basata sull’idea di un progresso illimitato, indiscutibile, e del successo come segno della propria realizzazione». Perec attacca i fondamenti del «dover essere sempre in azione senza riflessione» e auspica la fine delle «magnifiche certezze della crescita materiale senza progresso spirituale» e allude all’avvento di una atarassia post-moderna, di una indifferenza verso i successi in carriere materiali che fan perdere l’anima.

     Per concludere leggiamo due pagine da Un uomo che dorme:

LEGERE MULTUM….

Georges Perec, Un uomo che dorme

Gli sguardi forse preoccupati dei tuoi amici convergono sul tuo posto rimasto libero. Non dirai in quattro, otto o dodici fogli protocollo quello che sai, quello che pensi, quello che sai che bisogna pensare sull’alienazione, sugli operai, sulla modernità e il tempo libero, sui colletti bianchi o l’automazione, sulla conoscenza degli altri, su Marx rivale di Tocqueville e Weber nemico di Lukàcs.  In ogni caso non avresti detto niente, dato che non sai granché e non pensi niente. Il tuo posto rimane deserto. Non prenderai mai la laurea, non comincerai mai la specializzazione. Non continuerai gli studi.  Ti prepari, come tutti i giorni, una tazza di Nescafé, aggiungendovi, come tutti i giorni, qualche goccia di latte condensato con lo zucchero. Non ti lavi, a malapena ti vesti.  In una bacinella di plastica rosa metti in ammollo tre paia di calzini.

... continua la lettura ...

     Chissà se questo uomo che dorme nel maggio del 1967 si risveglierà nel maggio 1968?…

     Nel Palazzo della Cultura di Loyang – dove siamo ospiti – alloggiano anche due significativi personaggi che dobbiamo ancora incontrare: il confuciano Meng-tzu (detto Mencius, in latino) e il taoista Chuang-tzu chiamato anche, in forma più moderna, Zhuang-zi con il quale abbiamo, in parte, già fatto conoscenza.

     Ma per conoscere da vicino l’opera di questi due personaggi – che sono contemporanei al periodo greco-ellenistico e a quello indo-ellenistico – è necessario capire che cosa significa essere taoisti (come Chuang-tzu) ed essere confuciani (come Meng-tzu).

     Questa sera abbiamo studiato che cosa significa essere taoisti e, nel prossimo itinerario dobbiamo studiare che cosa significa essere confuciani e, dobbiamo dire che, nei confronti della profonda crisi politica, sociale e morale che investe la Cina del VI secolo a.C., la risposta taoista non si dimostra la più adatta: la contemplazione poteva assicurare la serenità dell’animo ma era necessaria anche l’attiva partecipazione alla vita politica per porre rimedio al degrado del paese. La ricostruzione della razionalità politica è stata attuata da Confucio: chi è Confucio e in che cosa consiste il suo pensiero e che cosa ha lasciato in eredità al periodo detto delle Cento scuole, il periodo contemporaneo all’ellenismo-greco e all’indo-ellenismo?

    Anche per rispondere a queste domande il viaggio continua: la Scuola è qui e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona…

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Aprile 9, 2010