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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È IL CONCETTO DELL’ATARAXIA, L’IDEA DELL’IMPERTURBABILITÀ ...

Lezione N.: 
20

Prof. Giuseppe Nibbi    Lo sapienza poetica ellenistica  10-11-12  marzo  2010

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA

C’È  IL CONCETTO DELL’ATARAXIA, L’IDEA DELL’IMPERTURBABILITÀ ...

     Il nostro viaggio sul territorio della sapienza poetica ellenisticaprocede e, con il ventesimo itinerario, siamo arrivati dinnanzi al paesaggio intellettuale che prende il nome dalla parola skepsische – come già sapete – significa indagine, significa ricerca, significa anche dubbio.

     Così come la Scuola epicurea e la Scuola stoica anche la Scuola scettica ha avuto, sul territorio dell’Ellenismo, una grande rilevanza che è durata nel tempo. Vediamone in sintesi la parabola prima di occuparci, in modo particolareggiato dei suoi vari segmenti cominciando da quelli delle origini.

     La Scuola scettica ha avuto inizio – come sappiamo – con Pirrone di Elide e ha sviluppato il suo programma con Timone di Fliunte. Poi, ad Atene, i concetti-cardine della Scuola scettica sono penetrati nell’Accademia fondata da Platone che continuava a esistere (sarà attiva per circa tre secoli) e che aveva già iniziato (come abbiamo studiato qualche mese fa, in autunno) a modificare la sua impostazione, ancor prima della morte del Maestro. Per la precisione: le idee più significative della Scuola scettica hanno cominciato a contaminare, tra il III e il II secolo a.C., la cosiddetta Media Accademia per volontà di uno scolarca di nome Arcesilao. Poi l’impostazione scettica è continuata, sempre nella tarda Media Accademia – che però viene detta anche Nuova Accademia –, tra il II e il I secolo a.C., con uno scolarca di nome Carneade (Carneade! Chi era costui?: Alessandro Manzoni ne I promessi sposi fa in modo che don Abbondio se lo domandi). In seguito, nel I secolo a.C., la Scuola scettica si distinguerà dall’Accademia e recupererà la sua autonomia con un pensatore che rinnova la tradizione originaria di Pirrone e che si chiama Enesidemo di Crosso. Questa tradizione neo-pirroniana continua fino al I secolo d.C. con un filosofo di nome Agrippa e, successivamente, tra il II e il III secolo d.C., un medico – un personaggio che già abbiamo incontrato più volte nei nostri Percorsi – che si chiama Sesto Empirico darà una fondamentale sistemazione alla dottrina dello Scetticismo diventandone il testimone più autorevole.

     Ma ora – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – riprendiamo la citazione su cui abbiamo puntato l’attenzione nel momento in cui abbiamo incontrato Carneade.

     Io penso che in casa di ciascuna e di ciascuno di voi ci sia un testo de I promessi sposi di Alessandro Manzoni ma, se non lo possedete, lo trovate facilmente in biblioteca. Per rintracciare la citazione in cui compare il nome di Carneade dovete leggere l’inizio – è sufficiente mezza pagina – del capitolo VIII de I promessi sposi. Nel testo del capitolo VIII de “I promessi sposi” lo scrittore fa riferimento alla “sapienza poetica ellenistica” tanto all’inizio quanto alla fine: il capitolo termina con un famoso brano scritto in prosa poetica che si apre con le celebri parole “Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo…”, e che fa pensare ad Apollonio Rodio e a Callimaco di Cirene (ve li ricordate?). Il capitolo inizia con il nome di Carneade – scolarca della tarda Media Accademia di stampo scettico chiamata poi la Nuova Accademia – e don Abbondio non riesce ad identificare questa figura mentre invece conosce bene il secondo personaggio ellenistico che viene citato con Carneade: chi è questo personaggio, andate alla ricerca!

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Si sa che don Abbondio ha tanti difetti (e l’autore, sebbene con affetto, non glieli risparmia), ma se leggete l’inizio del capitolo VIII de I promessi sposi scoprirete che don Abbondio ha però una grande virtù (e l’autore gliela riconosce volentieri) per quanto riguarda il modo con cui si dedica alla lettura: andate a verificare con quale metodo don Abbondio si applica nell’esercizio della lettura, naturalmente è il sistema consigliato da Alessandro Manzoni e voi ne conoscete anche il nome, scrivetelo… 

     Dopo la sintesi che ci ha permesso di mettere in evidenza la parabola dello Scetticismo nei secoli e dopo l’invito a mettersi in ricerca nel testo manzoniano, dobbiamo dedicarci allo studio delle origini della Scuola scettica cercando di procedere con ordine in modo da capire, da conoscere e da applicarci.

     Il fondatore dello Scetticismo è Pirrone di Elide del quale, la scorsa settimana, abbiamo messo in evidenza lo spirito scherzoso, senza dire però che le notizie riguardanti la figura storica di questo personaggio sono piuttosto incerte e (come succede con tutti questi personaggi) sono spesso contraddittorie. Anche per quanto riguarda Pirrone di Elide il nostro principale informatore è Diogene Laerzio il quale, molto puntigliosamente, raccoglie tutto ciò (notizie, storie, aneddoti) che riesce a trovare del fondatore dello Scetticismo e contemporaneamente – anche Diogene Laerzio è uno spirito scettico che sospende il giudizio – afferma di non essere in grado di distinguere ciò che appartiene alla realtà e ciò che appartiene alla leggenda.

     Pirrone (365-275 a.C.) è nato nella regione dell’Elide che è situata nella parte occidentale del Peloponneso: questa regione è famosa perché sul suo territorio si trova il celebre santuario di Olimpia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Grecia e sulla rete potete fare un’escursione in Elide prendendo come punto di riferimento il sito di Olimpia…

     Il primo problema che le studiose e gli studiosi si sono posti – e che anche noi ci dobbiamo porre – riguarda la formazione culturale di Pirrone di Elide: dove ha studiato, con quali maestri e quali sono le sue basi intellettuali? Pirrone – e questa è una prima ipotesi – potrebbe aver studiato in Elide presso una Scuola megarica. Che cos’è una Scuola megarica? Ne abbiamo parlato a suo tempo seguendo la figura di Socrate ma credo sia necessario un breve ripasso.

     Dopo la morte di Socrate (nel 399 a.C.) per i suoi discepoli non tira una buona aria ad Atene e quindi decidono di allontanarsi per precauzione e si rifugiano a Mégara, una prospera polis che si trova ad ovest di Atene. I megaresi, nei secoli precedenti, erano stati grandi navigatori e in Sicilia hanno fondato Mégara Iblea e Selinunte, e in oriente hanno fondato Calcedonia e Bisanzio. Oggi Mégara è una cittadina di circa ventimila abitanti, ed è un centro agricolo dall’aspetto orientaleggiante situato in bella posizione tra due alture.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Grecia e con la rete andate a fare un’escursione a Mégara, buon viaggio

     I fuggiaschi discepoli di Socrate a Mégara vengono ospitati da Euclide: questo personaggio non va confuso con Euclide il matematico che abbiamo incontrato nella Biblioteca di Alessandria nel mese di novembre. Euclide di Mégara (435-365 a.C. circa) è il più anziano dei discepoli di Socrate e in gioventù ha studiato filosofia secondo i dettami della Scuola di Elea influenzato dal fatto che, nel 450 a.C., Parmenide di Elea – questo fatto molte e molti di voi lo ricorderanno perché spesso abbiamo avuto a che fare con Parmenide nei nostri Percorsi – era stato invitato ad Atene ed aveva tenuto una serie di conferenze sul tema dell’Essere che avevano ispirato molti giovani che, da tutta l’Ellade, erano accorsi ad ascoltarlo. Quindi Euclide prima ha seguito l’insegnamento della Scuola di Elea e dopo è stato attratto e ha frequentato la Scuola di strada di Socrate e, di conseguenza, ha cercato per tutta la vita di conciliare gli insegnamenti del maestro di Atene (la dialettica socratica, la maieutica) con il pensiero di Parmenide di Elea (basato sull’affermazione l’Essere è e non può non essere) e, a Mégara, la città dove è nato e ha la residenza, Euclide fonda una Scuola con queste caratteristiche.

     La Scuola megarica segue il metodo della dialettica socratica e insegna che tutte le cose di questo mondo hanno un loro valore intrinseco chiamato essere, ma si presentano anche come un insieme di apparenze, chiamato non essere e quando una persona si impegna per raggiungere un obiettivo deve fare attenzione che l’oggetto dei suoi desideri sia per l’appunto l’esseree non l’apparire. Dal momento che Socrate aveva detto che l’importante nella vita è il raggiungimento della conoscenza perché la conoscenza è il Bene, per Euclide è stato facile mettere d’accordo il pensiero di Socrate con quello di Parmenide e concludere che il Bene è l’Essere, ovvero l’Uno, eterno e indivisibile, mentre tutto il resto non conta perché non è.

     C’è chi sostiene, tra le studiose e gli studiosi, che Pirrone di Elide si sia formato alla Scuola megarica e lì abbia riflettuto su come sia difficile, se non impossibile, conoscere l’Essere nella sua essenza e come sia banale fermarsi al Non-essere, alla superficiale apparenza delle cose. Altre studiose e altri studiosi, invece – e questa è una seconda ipotesi –, ritengono che Pirrone abbia studiato in una Scuola democritea, secondo il programma atomista di Democrito, e abbia avuto come maestro Anassarco di Abdera. Anassarco di Abdera è uno di quegli intellettuali che, dal 334 al 324 a.C., ha seguito Alessandro Magno nella sua straordinaria spedizione verso Oriente e sembra che insieme ad Anassarco ci fosse anche il giovane Pirrone, suo discepolo. Questa tesi vuol sostenere – e questa è una terza ipotesi – che in India il giovane Pirrone sia venuto in contatto con le Scuole ascetiche, con gli asceti indiani che allora venivano chiamati gimnosofisti(gymnos, in greco, significa nudo, quindi ci vengono in mente i cosiddetti santoni indiani). Il giovane Pirrone sarebbe così entrato in diretto contatto con l’ideale dell’assoluta rinuncia e dell’impassibilità (concetto che abbiamo visto presente anche nella Scuola epicurea e in quella stoica). Può darsi che Pirrone, come altri intellettuali occidentali che vanno verso Oriente, sia stato influenzato da una Scuola indiana, certamente diffusa intorno al 330 a.C., che possiamo qualificare come corrente della syadvada, un termine che, in sanscrito, significa della permanente ricercae quindi un movimento di pensiero corrispondente a quello della dottrina scettica. Dobbiamo aggiungere una quarta ipotesi e cioè che Pirrone di Elide abbia fatto tutte queste esperienze: abbia seguito la Scuola di Elea, la Scuola di Socrate, la Scuola di Democrito, la Scuola indiana della syadvada. Ci piace pensare che da questa fruttuosa combinazione sia nata la sua formazione scettica.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Oltre all’insegnamento avuto in famiglia e nell’istituzione scolastica quali esperienze importanti avete fatto che potete definire come delle vere e proprie scuole?… Che cosa avete imparato  da queste situazioni di istruzione non-formale ?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     Per quanto riguarda la formazione intellettuale di Pirrone, in relazione alle Scuole da lui frequentate, si fanno – come abbiamo detto – quattro ipotesi diverse, tuttavia, nonostante questo, la sua istruzione si sviluppa su una linea di tendenza che ha una sua logica perché la Scuola di Elea e la Scuola di socratica precorrono la Scuola megarese la quale prepara il terreno alla Scuola atomistica e, nel loro insieme, anticipano il movimento dello scetticismo che, intanto, si sta sviluppando anche nella Scuole indiane. Quindi il percorso culturale di Pirrone segue un itinerario che ha una sua coerenza.

     Invece l’aneddotica biografica relativa alla figura di Pirrone di Elide è ricca di contrasti e, su questo argomento – come sapete – dobbiamo ricorrere all’ausilio del nostro maggior informatore: Diogene Laerzio e della sua opera intitolata Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi. Le notizie sulla vita di Pirrone di Elide sono contrastanti e Diogene Laerzio ce le riporta tutte: è il primo ad affermare che il racconto della vita di Pirrone (così come quello della vita di altri personaggi della Storia del Pensiero Umano) non è univoco. Da una parte viene tramandata la figura di un Pirrone solitario, silenzioso e indifferente a tutto, che vive secondo i modelli della Scuola cinica. E sentiamo che cosa scrive a questo proposito Diogene Laerzio:

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Secondo Ascanio di Abdera Pirrone si aprì la via più nobile alla filosofia adottando per primo il principio dell’acatalessia, cioè della impossibilità di rappresentare le cose e di comprenderle, e dell’epoché, cioè della sospensione del giudizio: Pirrone diceva che niente è bello né brutto, niente giusto né ingiusto, e similmente applicava a tutte le cose il principio che nulla esiste in verità e sosteneva che tutto ciò che le persone fanno accade per convenzione e per abitudine, e che ogni cosa non è più questo che quello. La sua vita fu coerente con la sua dottrina. Lasciava andare ogni cosa per il suo verso e non prendeva alcuna precauzione, ma si mostrava indifferente verso ogni pericolo che gli occorreva, fossero carri o precipizi o cani, non avendo alcuna fiducia nei sensi. Ma secondo la testimonianza di Antigono di Caristo, erano i suoi amici, che solevano sempre accompagnarlo, a trarlo in salvezza dai pericoli.

     Da questo breve brano che abbiamo letto possiamo già comunque cogliere l’occasione per mettere in evidenza quali sono gli elementi fondamentali del pensiero di Pirrone e i concetti-cardine dello scetticismo antico.

     Il primo elemento fondamentale del pensiero di Pirrone è la sospensione del giudizio, l’epoché. Abbiamo evocato più volte questo termine: possiamo definire in modo più preciso questo concetto? L’epoché, secondo la definizione dello scetticismo antico, è lo stato mentale per cui è impossibile respingere o accettare le idee degli altri perché, anche se le idee di due persone collimano, tuttavia c’è sempre qualcosa – e più di una cosa – che non le rende uguali: l’idea è un elemento soggettivo e, di conseguenza, risulta inopportuno voler imporre la propria idea quindi è opportuno sospendere il giudizio in modo da né aderire e né rifiutare ma per far emergere la necessità di una componente terza: il compromesso, la convenzione, il contratto. Siccome – sostiene Pirrone di Elide – è impossibile indagare sulla natura delle cose ecco che esse risultano vere o false, belle o brutte, giuste o ingiuste non perché siano tali in realtà ma perché le persone hanno convenuto che siano tali. L’idea che noi ci siamo fatti di una cosa – sostiene Pirrone di Elide – dipende dalla sensazioneche, individualmente, abbiamo avuto di quella cosa, condizionate e condizionati in quel momento dal nostro stato d’animo, dalle condizioni dell’oggetto, dall’ambiente in cui ci troviamo. Questo fa sì che noi in relazione ad una cosa – siccome le sensazioni variano a seconda del soggetto, dell’oggetto e dell’ambiente – non abbiamo sempre la stessa idea, e quindi i ragionamenti (le conoscenze) intorno ad una cosa sono sempre diversi e spesso sono opposti per cui finiscono per neutralizzarsi a vicenda. È necessario dunque imparare a sospendere il giudizio (epoché) in modo da contenere il più possibile gli errori e, di conseguenza, diminuire in noi il tasso di turbamento, di delusione, di frustrazione.

     Il secondo elemento fondamentale del pensiero di Pirrone è la facoltà di non esprimersi, l’afasia. L’afasia è la virtù che ci permette di non dare giudizi definitivi (sarà poi il precetto cristiano del non giudicare) e di astenersi dal parlare e dallo sparlare invano perché queste sono pratiche che creano malintesi spesso irrimediabili in funzione del necessario esercizio del compromesso.

     Il terzo elemento fondamentale del pensiero di Pirrone è l’imperturbabilità l’ataraxia, ovvero l’assenza di angoscia e di turbamento.

     In definitiva, secondo il pensiero di Pirrone, non esistono valori o verità che possano essere proclamati e accettati dogmaticamente: nulla per natura può essere considerato brutto o bello, buono o cattivo, giusto o ingiusto, vero o falso ma è sul piano della cultura che lo si deve stabilire con delle regole condivise. A questo proposito dobbiamo citare Marco Tullio Cicerone che nella sua opera intitolata De finibus così scrive: «Per Pirrone di Elide sembra non ci sia differenza alcuna tra godere di ottima salute ed essere gravemente malati, e questa può sembrare un’affermazione velleitaria ma in realtà è un’allegoria che ci obbliga a riflettere sul fatto che, prima di tutto c’è la qualità della vita, prima del giudizio sul valore della vita».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Questa affermazione di Cicerone, di carattere “scettico”, è di grande attualità e c’invita alla riflessione Scegliete e scrivete tre parole che possano, secondo voi, definire il concetto di qualità della vita: a questo proposito, leggete le dieci parole di questa lista (proposte dell’ISTAT): benessere, lavoro, salute, divertimento, stima, cultura, immagine, viaggi, solidarietà, successo… e scegliete le tre parole (non più di tre) che, secondo voi, meglio rappresentano il concetto di “qualità della vita”, e scrivetele…

     Il principio de l’imperturbabilitàtaglia trasversalmente il triangolo delle nuove Scuole ellenistiche e questa parola-chiave la troviamo espressa anche nelle dottrine dell’Epicureismo e dello Stoicismo oltre che nel pensiero dello Scetticismo.

     Gli aneddoti sulla imperturbabilità di Pirrone di Elide sono molti e, quasi sempre, contengono tracce di comicità involontaria: Diogene Laerzio è, ancora una volta, il nostro informatore prediletto. Leggiamo solo un frammento a questo proposito:

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Pirrone era indifferente a tutto quello che gli accadeva intorno, e se durante una discussione il suo interlocutore lo abbandonava la cosa non lo preoccupava minimamente: proseguiva imperterrito a parlare e a fare domande. Un giorno, mentre passeggiava con il suo maestro, Anassarco, costui cadde in un fosso ricolmo di melma. Ebbene, Pirrone non si scompose: continuò a discorrere come se nulla fosse accaduto. Dopo un po’ Anassarco, tutto infangato, lo raggiunse e si congratulò con il discepolo per l’impassibilità dimostrata.

     Ora, questa aneddotica – che mette in evidenza più la distrazione che l’imperturbabilità – contiene molte facezie e anche Diogene Laerzio sembra divertirsi a riportarla; sta di fatto che il tema de l’imperturbabilità, l’ataraxiacostituisce un argomento importante di riflessione per le nuove Scuole ellenistiche. Un argomento importante soprattutto perché mette in evidenza la circolazione delle idee nell’Ecumene e il rapporto che si viene a creare tra la cultura dell’Occidente e quella dell’Oriente.

     L’esperienza di Pirrone, a questo proposito, è emblematica perché costituisce un documento che fa luce sul fenomeno (di cui abbiamo già parlato in autunno) del pellegrinaggio degli intellettuali occidentali verso i territori orientali, verso il corso dell’Indo sulle cui rive fioriscono le Scuole vediche (della sapienza indiana: veda, in sanscrito, significa sapienza) che, a loro volta, mutuavano influssi provenienti da culture poste ancora più a oriente, come la cultura cinese.

     Quando Pirrone – come abbiamo già detto – nel 334 a.C., in compagnia di Anassarco, prende parte alla spedizione di Alessandro Magno, per dieci anni viaggia sui territori orientali dell’Ecumene e viene a contatto con molte dottrine orientali dove il concetto di imperturbabilità, l’idea dal distacco dalle passioni viene messo in evidenza con grande determinazione. Pirrone – come tutti gli intellettuali occidentali in viaggio verso Oriente – incontra molte persone dall’aspetto piuttosto strano che, individualmente, praticano il distacco dalle passioni: questi individui prendono il nome di sciamani, di guru e sono monaci che appartengono a movimenti di carattere contemplativo: in Oriente il fenomeno dell’anacoretismo (taoista, zen, vedico-sapienziale) è già diffuso e risale all’Età assiale.

     Abbiamo, a questo proposito, anche la testimonianza di un altro nostro consueto informatore: Plutarco di Cheronea (46-125 d.C.). Plutarco nella sua famosa opera che s’intitola Vite parallele, e che abbiamo presentato a suo tempo in più di un Percorso, mentre racconta la Vita di Alessandro, descrive una scena – che si presenta come un’azione di dissenso (e che ci fa ricordare il ruolo dei bonzi durante la guerra del Vietnam) –, una scena sconcertante per la mentalità ellenica. In questo episodio Plutarco registra anche la presenza di Pirrone di Elide e non si lascia scappare l’occasione, come fa sempre, per inserire nella sua opera una citazione di carattere culturale – lo Scetticismo di Pirrone, nel I secolo d.C., quando Plutarco scrive, è una dottrina ormai accreditata – e in questa citazione Plutarco include – e anche questa è una sua consuetudine – il suo commento da intellettuale che ragiona però con la mentalità del secondo ellenismo greco.

LEGERE MULTUM….

Plutarco di Cheronea, Vite parallele [Vita di Alessandro]

In Persia, all’arrivo dei soldati macedoni dell’esercito di Alessandro, un sacerdote di nome Calano chiese che gli fosse eretto un rogo a forma di altare e, dopo aver sacrificato agli Dei e augurato agli invasori un buon proseguimento di giornata, si sdraiò tra le fiamme, si coprì il capo con un velo, e si lasciò bruciare vivo senza muovere un muscolo.  Tra i soldati macedoni era presente anche Pirrone di Elide, che aveva accompagnato Anassarco, il suo maestro, nella spedizione. Pirrone, che non aveva mai visto una scena di questo tipo, inizialmente rimase sconvolto, ma poi comprese che, con la sola forza della volontà, era possibile dominare il dolore, pur fra i tormenti, e cominciò a capire che l’imperturbabilità [ataraxia] è una condizione alla quale aspirare anche se non è detto debba essere condotta, come in questo caso, fino alle estreme conseguenze.

     È probabile che Pirrone, nella valle dell’Indo, abbia incontrato altri pensatori e filosofi chiamati Gimnosofisti di ispirazione induista e buddista e anche appartenenti alle Scuole taoiste perché, in India, c’era stata – sulla via dei commerci – un’infiltrazione culturale di ispirazione cinese. Difatti Pirrone (e non soltanto lui) sembra rendersi conto che, per raggiungere la serenità definitiva (l’ataraxia), bisognava praticare il wu wei, il non agire: un concetto taoista di provenienza cinese che lascia la sua impronta nelle Scuole vedico-sapienziali indiane. In India, prossimamente, osserveremo più da vicino che cosa succede in quest’epoca sul piano intellettuale e – seguendo la via della seta – faremo anche una puntata in Cina perché è necessario rendersi conto del fatto che la cultura dell’Ellenismo non dà frutti soltanto intorno al bacino del Mediterraneo: qualche cosa di simile a ciò che in Occidente chiamiamo ellenismo, in Oriente, si era già sviluppato da tempo.

     Quando Pirrone ritorna in Grecia dall’India, nel 324 a.C., è un uomo maturo, ha circa quarant’anni, ha elaborato un suo pensiero di cui conosciamo le linee fondamentali e, quindi, decide di fondare, nella cittadina di Elide – vicino alla quale c’era il grande santuario di Olimpia – una sua Scuola. Diogene Laerzio ci racconta che la Scuola di Pirrone s’innesta e poi si sovrappone ad un’altra Scuola che a Elide si era sviluppata da tempo, una Scuola fondata da uno dei più importanti discepoli di Socrate: Fedone di Elide. Questo personaggio, Fedone, – che è nato a Elide da nobile famiglia, che è stato portato ad Atene come prigioniero quando Atene conquista la parte nord-occidentale del Peloponneso, che viene riscattato da Socrate diventando suo discepolo e che, dopo la morte del Maestro (nel 399 a.C.), torna a Elide e fonda una Scuola socratica – ci ricorda soprattutto il titolo di uno dei più celebri (e dei più studiati) dialoghi di Platone, il Fedone: una delle opere più significative sul tema dell’anima. Il dialogo intitolato Fedone lo abbiamo incontrato molte volte nei nostri Percorsi, anche recentemente nell’anno 2008-2009 durante il viaggio di studio nel territorio della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotelee nello spazio dell’affresco rinascimentale intitolato La Scuola di Atene.

     Quando Pirrone ritorna in Elide la Scuola fondata da Fedone viene assimilata dalla Scuola scettica la quale, a sua volta, ha già in sé, nella forma, qualcosa di socratico: ha in sé il concetto che non si può mai smettere di fare ricerca, che non si può vivere senza fare ricerche, che non c’è conoscenza senza il metodo della skepsis, che – come già sapete – significa indagine, significa ricerca, significa dubbio.

     Diogene Laerzio scrive che la Scuola di Pirrone in Elide ha delle caratteristiche particolari e – come quella di Socrate – non è concepita come una vera e propria Scuola: leggiamo che cosa scrive in proposito Diogene Laerzio.

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

La Scuola fondata da Pirrone in Elide non è che fosse proprio una scuola, sul tipo della Stoà [del Portico] di Zenone o del Giardino di Epicuro: in verità Pirrone amava starsene sempre per conto suo, ma a volte, mentre camminava per strada, si metteva a parlare ad alta voce, e siccome era sempre seguito a debita distanza da molti giovani vogliosi di imparare, finiva, non volendo, col fare lezione. Questi suoi seguaci furono chiamati pirroniani o scettici o anche zotici [bisogna far attenzione a dar dello “zotico” a qualcuno] perché quest’ultimo termine significa indagatori che indagano e non trovano mai.

     Diogene Laerzio, inoltre, ci racconta anche che Anassarco di Abdera – il quale è stato, come sappiamo, il principale maestro di Pirrone, e lo ha portato con sé nella spedizione di Alessandro – diventa un discepolo della Scuola scettica e comincia a seguire il precetto dell’ataraxia.

     A questo proposito, Diogene Laerzio narra un tragico e significativo episodio, che ha come protagonista proprio Anassarco di Abdera, inteso a difendere i principi della Scuola scettica che spesso veniva attaccata da più parti: si diceva che gli Scettici non avessero una morale, una coerenza. Col racconto di questo episodio Diogene Laerzio sembra voler dimostrare che sebbene la Scuola scettica metta in discussione l’esistenza della Verità tuttavia, proprio per questo, non abdica sul piano della morale. Sebbene la Scuola scettica non dia fiducia a niente e a nessuno, per principio, né alla Verità, né all’Uomo, né alla Parola tuttavia, proprio per questo, non abdica sul piano della coerenza. Sebbene i motti della Scuola scettica siano: «L’essere non è, e non m’importa che non sia!» o, come diceva Timone di Fliunte, «Non solo non m’interessa il perché delle cose, ma nemmeno il perché del perché», proprio per questo gli Scettici non abdicano sul piano del coraggio e ci tengono ad affermare la superiorità dell’Intelletto sulla materia.

     Leggiamo, quindi, la narrazione del tragico episodio in cui Diogene Laerzio racconta – in modo un po’ apologetico – la morte di Anassarco di Abdera:

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Un giorno a Cipro, durante un banchetto, il tiranno Nicocreonte, che si era macchiato di molti crimini, chiese ad Anassarco di Abdera se aveva gradito il pranzo, e costui, con grande coraggio, rispose che lo avrebbe trovato ancora più di suo gusto se, insieme alla frutta, gli avessero servito anche la testa di un tiranno crudele. Lì per lì Nicocreonte, che si vantava di essere amato da tutti, non capì la severa denuncia di Anassarco e lo lasciò partire incolume. Ma poi il tiranno fu messo sull’avviso dai suoi consiglieri, così che, quando qualche anno dopo, la nave su cui viaggiava Anassarco fece naufragio sulle spiagge di Cipro, il tiranno poté compiere la sua vendetta.

Anassarco, che nel frattempo da maestro di Pirrone era diventato discepolo della sua Scuola in Elide, fu imprigionato e poi fu condannato ad essere messo dentro ad un grande mortaio, dove veniva colpito con pesanti pestelli di ferro dai suoi carnefici. Si dice che, durante la tortura, il filosofo abbia urlato al tiranno: «Puoi pestare il sacco [il corpo] di Anassarco, ma non Anassarco [l’Intelletto di Anassarco]».

     Abbiamo detto che le notizie sulla vita di Pirrone di Elide sono contrastanti e che Diogene Laerzio è il primo ad affermare che il racconto della vita di Pirrone (così come quello della vita di altri personaggi della Storia del Pensiero Umano) non è univoco. Da una parte viene tramandata la figura di un Pirrone solitario, silenzioso, indifferente a tutto, e questo aspetto del personaggio lo abbiamo osservato. Ma, oltre a questa immagine, c’è anche quella di un Pirrone modesto e prudente che vive la sua vita nell’ambito della famiglia e passa le giornate aiutando la sorella, che fa la levatrice (come la mamma di Socrate). Diogene Laerzio riporta la testimonianza di chi dice che Pirrone – siccome la sorella è sempre in giro per svolgere il suo lavoro – si dedica alle faccende di casa, si prende cura dell’orto e del frutteto, governando i polli e badando al maiale. Pirrone – in questa seconda versione – risulta comunque essere una persona distaccata dalle consuetudini: anche il fatto di occuparsi di economia domestica è, per un uomo del suo tempo, piuttosto insolito, è, però, un consiglio di stampo socratico. Diogene Laerzio scrive: «Pirrone si dedica alle faccende di casa, si prende cura dell’orto e del frutteto, governando i polli e badando al maiale, con spirito scettico». Che cosa significa questa affermazione: che cosa significa occuparsi di economia domestica con spirito scettico? Significa che si dedica a queste attività standosene da solo, preoccupandosi solo di insegnare a se stesso, perseguendo l’ataraxiaoppure significa che indaga, che fa ricerca sul campo, che esercita la skepsis, oppure tutte e due le cose insieme?

     Questi interrogativi fanno emergere un intreccio filologico che, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, ci porta di fronte – sempre con spirito scettico – ad un ulteriore interrogativo: non sarà, per caso o per necessità, stato proprio Pirrone di Elide, che indaga tra il frutteto, il porcile e la cucina, a scoprire il mirabile accostamento tra i fichi e il prosciutto, o tra il melone e il prosciutto, o tra il formaggio con le pere? No, non sono diventato matto: il fatto è che questa citazione estemporanea è utile per introdurre uno scrittore che, con spirito tassativamente scettico, affronta questo tema. Ogni tanto, sugli itinerari dei nostri Percorsi, questo scrittore fa capolino attraverso le sue opere nelle quali sembra emergere uno svagato candore da poeta dell’assurdo ma, in realtà, nelle pagine di Achille Campanile (1900-1977) spunta l’occhio vigile di un attento osservatore che, con spirito scettico, indaga sulle comuni debolezze, sulle insulsaggini e sulle malinconie con le quali tutte e tutti noi facciamo i conti.

     Ancora una volta apriamo uno dei sui libri che s’intitola Gli asparagi e l’immortalità dell’anima e ne leggiamo – a proposito di ciò che abbiamo detto – due pagine. (Ci domandiamo se sia un “cavillo” rapportare tra loro gli asparagi e l’immortalità dell’anima, ebbene se si tratta di un cavillo allora – come sappiamo – “galippa galoppa).

LEGERE MULTUM….

Achille Campanile, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima

Un’altra buona cura è quella dei fichi col prosciutto. Anche il melone col prosciutto fa bene. So che il medico me l’ha ordinato e ne ho tratto beneficio. Per di più è una delle poche cure che faccio senza repugnanza e la preferisco ad altri sistemi terapeutici. Volete paragonare un’iniezione a un piatto di melone e prosciutto?

Il melone col prosciutto sembra sia particolarmente indicato per le malattie nervose. Conosco un tale, nervoso all’eccesso, che, quando nella stagione estiva non trova a tavola il melone col prosciutto, dà in escandescenze; e appena lo vede, si calma come per incanto. Gli passa la crisi. La sola vista del melone col prosciutto ha su lui un’azione sedativa.

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     Pirrone di Elide, anche nella versione in cui si dedica all’economia domestica, viene considerato una persona degna di grande rispetto e, quindi, riceve pubblici onori, e la sua città natale – come ci informa Diogene Laerzio – lo elegge sommo sacerdote e anche nella stessa Atene viene degnamente onorato. Pirrone – scrive Diogene Laerzio – vive fino a novant’anni (per merito dell’ataraxia? E, forse, è proprio vero che la riduzione dei turbamenti allunga la vita) e, sempre sull’esempio di Socrate, non ha voluto lasciare niente di scritto, non ha voluto pubblicare nessuna opera, ma questo fatto non significa che non usasse la scrittura (l’esercizio della scrittura allarga e allunga la vita). Il suo è un insegnamento volto a motivare l’indifferenza e l’imperturbabilità: due atteggiamenti che caratterizzano il suo stile di vita e il programma della Scuola scettica. Pirrone di Elide non vuole costruire vere e proprie formulazioni teoriche (come fanno gli Epicurei e gli Stoici) ma, per confutare i filosofi dogmatici, preferisce proporre, concretamente, il suo esemplare stile di vita.

     Ci pensa però il suo successore, Timone di Fliunte, a mettere per iscritto il pensiero del maestro, anche se noi non sappiamo bene quanto l’intraprendente Timone abbia tolto e abbia aggiunto di suo al pensiero di Pirrone. Timone di Fliunte è un tipo diverso rispetto a Pirrone di Elide.

     Fliunte, dove è nato Timone, è un’antica città del Peloponneso, in Argolide, poco distante da Sicione. Fliunte è stata una polis sempre schierata con gli Spartani e, nel corso delle guerre persiane, gli opliti di Fliunte fanno parte dei trecento che hanno combattuto, e sono morti, col re spartano Leonida alle Termopili, e poi gli arcieri di Fliunte sono stati inquadrati nei ranghi dell’esercito di Sparta nella battaglia di Platea (479 a.C.), quando l’armata greca (Ateniesi, Spartani e Tebani) al comando di Pausania sconfigge definitivamente i Persiani guidati dal generale Mardonio, mentre il re dei re, il persiano Serse, figlio di Dario, era già fuggito. Durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), naturalmente, Fliunte è stata alleata di Sparta contro gli Ateniesi.

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Oggi di Fliunte rimane un sito archeologico dove ci sono le rovine di alcuni templi e di un tratto delle poderose mura: fate una visita al sito di Fliunte e anche alla cittadina di Sicione (Sikiòna, siamo a 30 chilometri da Corinto) che è stata, nel VI secolo a.C., una polis molto florida dove si è sviluppata una famosa Scuola di pittori, scultori e ceramisti e, dal IV secolo a.C., è stata una elegante città ellenistica  

Utilizzando l’enciclopedia, la guida della Grecia, e la rete fate una visita a Fliunte e a Sicione, buon viaggio…

     Abbiamo affermato che Timone di Fliunte è un tipo diverso rispetto a Pirrone di Elide: Timone, infatti, al contrario del suo maestro, è attratto dalla fama letteraria, scrive molte opere, tra cui poemi epici, tragedie e drammi satireschi, ma queste opere sono andate tutte perdute, tranne una serie di frammenti. Di Timone di Fliunte (320-230 circa a.C.) sono rimasti 140 versi di un poema, in tre libri, intitolato Silloi: i silloio silli sono poesie irrisorie e satiriche da cui emerge la costante polemica tanto nei confronti dei filosofi dogmatici (peripatetici-aristotelici e accademici-platonici) quanto nei confronti delle contemporanee Scuole epicurea e stoica: per questo motivo Timone di Fliunte è stato soprannominato il Sillografo e, durante il medioevo lo si cita con questo appellativo.

     Con Timone di Fliunte lo Scetticismo si evolve: da messaggio di salvezza individuale adatto per una cerchia ristretta di persone, si trasforma in una dottrina rivolta ad un pubblico più ampio con una sua posizione teorica che sostiene un discorso culturale in competizione con le altre Scuole del passato e del presente. Timone di Fliunte mette bene in luce il fatto che i caratteri della dottrina della Scuola scettica sono stati, in parte, mutuati dalla Scuola megarica – Timone (così come Pirrone) si forma in una Scuola megarica dove è in evidenza la dialettica socratica – e poi dalla Scuola di Elea puntando l’attenzione però non sul pensiero di Parmenide o su quello di Zenone ma sulle idee del fondatore di questa Scuola, Senofane di Colofonie. Questi viene considerato da Timone di Fliunte il rappresentante per eccellenza del pensiero antidogmatico, il primo importante sostenitore dell’idea che non esiste una Verità assoluta ma che si determinano soltanto rapporti convenzionali contrabbandati, spesso, per verità oggettive. Per questo motivo Timone di Fliunte dichiara che l’unico filosofo che possa essere salvato è proprio il vecchio Senofane di Colofone il quale esce dall’anonimato proprio in età ellenistica: se noi ce ne ricordiamo oggi (visto che era stato sistematicamente rimosso) è perché la Scuola scettica ne ha salvato la memoria citandolo come suo precursore.

     Ma chi è Senofane di Colofone, ve lo ricordate? Dobbiamo fare un rapido ripasso e dobbiamo anche mettere in condizione le persone che non conoscono questo personaggio di capire di che cosa stiamo parlando.

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Colofone, la città dove Senofane è nato intorno al 570 a.C., è una polis della Ionia e ne rimangono i resti: cercate questo sito sull’Atlante e sulla guida della Turchia e in rete…

     Ebbene, Senofane di Colofone ha scelto di stabilirsi ad Elea dove è morto intorno al 490 a.C..

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Oggi il bel sito archeologico di Elea si chiama Velia e si trova nel Cilento – molte e molti di voi questo luogo, così importante per la Storia del Pensiero Umano, lo hanno visitato tante volte e non solo sulla guida della Campania o sulle rete ma anche materialmente, se non lo conoscete fate un’escursione a Velia…

     Senofane di Colofone ha deciso di stabilirsi ad Elea quando è stato esiliato dalla sua città a causa di una polemica nel corso della quale lui sostiene caparbiamente la non-esistenza degli dèi: per questo motivo è stato processato, condannato (perché lui non ritratta) ed esiliato. Senofane è un cantautore il quale mette in versi il suo pensiero e lo canta accompagnandosi con la lira; le sue composizioni hanno la forma dei silli, di canzoni satiriche e polemiche: lo stesso stile che, in chiave ellenistica, utilizzerà Timone di Fliunte.

     Senofane è il primo pensatore che critica e smentisce la teologia orfica tradizionale: mette in ridicolo gli dèi scrivendo che queste figure se le sono inventate gli esseri umani come modello dei loro vizi e dei loro difetti, dei loro usi e dei loro costumi. A Colofone Senofane viene condannato per empietà perché la sua proposta di abolire gli dèi significa eliminare un fiorente commercio, e quello degli dèi è un mercato florido e redditizio: liquidare gli dèi vuol dire smontare tutto il meccanismo dell’economia sacrale, delle rendite speculative sulla superstizione che è sempre stato un terreno di lucrosi guadagni e di torbidi interessi per le classi dei sacerdoti, dei maghi, degli indovini, degli imbonitori. Far aprire gli occhi alla gente credulona è peccato: è un reato punito con l’esilio. Senofane concepisce razionalmente l’idea di Dio e razionalmente Dio può essere pensato solo al di là della natura umana.

     Quando Senofane approda sulle coste della Campania felix, nella prosperosa polis di Elea fondata dai Focesi, viene accolto con simpatia perché lì c’è una mentalità più aperta, e Senofane diventa, con le sue idee, l’ispiratore della prestigiosa Scuola di Elea e poi, un po’ di secoli dopo  – come stiamo studiando –,  contribuisce anche alla formulazione del pensiero della Scuola scettica di Pirrone di Elide e di Timone di Fliunte.

     Il poeta Senofane trasferisce ad Elea il suo repertorio e demolisce la religione  antropomorfa fondata sui miti (sui racconti allegorici), ironizza sul concetto degli dèi che assomigliano agli uomini soprattutto nei loro difetti, e dà inizio al pensiero della metafisica razionale: se c’è un dio è definibile solo con un concetto teoretico. I frammenti che sono rimasti dell’Opera di Senofane mettono bene in evidenza come il dogmatismo (il catalogo delle Verità assolute) non sia di origine divina ma nasca dall’autoritarismo dei poteri terreni che pretendono di avere un filo diretto con il mondo immaginario degli dèi. La riflessione che i frammenti di Senofane innescano porta allo sviluppo – soprattutto in età moderna – del cosiddetto misticismo laico: non è Dio che si presenta direttamente alle persone, ma è la persona che, usando la ragione, cerca di definire il teorema di Dio con valori umani, per esaltare valori umani. Secondo Senofane le caratteristiche di un’eventuale Entità divina le possiamo definire solo con la ragione, e non sotto l’influenza del mito o della superstizione o della devozione. Quindi la definizione del concetto di Dio non ha niente a che fare con la tradizione leggendaria legata agli dèi: la teologia è una disciplina che deve fare affidamento sulla ragione, relegando il mito nel suo ambito, quello letterario.

     Leggiamo, ora, per rinfrescarci la memoria, alcuni Frammenti di Senofane di Colofone: questi frammenti sono stati letti con attenzione anche da Timone di Fliunte dai quali ha preso spunto – tanto dal punto di vista formale quanto contenutistico – per comporre i suoi Sillogi.

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Senofane di Colofone,  Frammenti   (VI secolo a.C.)

Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto ciò che per gli umani è riprovevole: rubare, fare adultero e ingannarsi a vicenda

I mortali si immaginano che gli dèi siano nati e che abbiano vesti, voce e figura come loro. Ma se i bovi, i cavalli e i leoni avessero le mani e potessero disegnare con le mani, e fare opere come quelle degli umani, simili ai cavalli il cavallo raffigurerebbe gli dèi, e simili ai bovi il bove

Gli Etiopi dicono che i loro dèi hanno il naso camuso e sono neri, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi

Gli dèi non hanno certo svelato ogni cosa ai mortali fin da principio, ma è indagando [sképtonai] che gli umani trovano a poco a poco il meglio

Un solo dio, il più grande fra tutti gli umani e dèi, né per la figura né per i pensieri simile ai mortali; tutto occhio, tutto mente, tutto orecchio; senza fatica scuote tutto, con la forza della mente; rimane sempre nello stesso luogo immobile, né gli si addice spostarsi or qua or là

     Non è difficile capire che il frammento più significativo di Senofane che si presenta alla nostra attenzione è quello in cui leggiamo: ma è indagando [sképtonai] che gli umani trovano a poco a poco il meglio. È nell’opera di Senofane che Timone di Fliunte trova il termine adatto per definire il concetto della skèpsis: dal verbosképtonai utilizzato da Senofane per definire la necessità di ricercare, l’esigenza di indagare in modo permanente per migliorare gradualmente la qualità della vita? Questo frammento di Senofane di Colofone può essere considerato il manifesto dello Scetticismo? Non ne abbiamo la certezza ma questa è un’ipotesi molto accreditata.

     Abbiamo detto che Timone di Fliunte è autore di un’opera, in tre libri, intitolata Silloi della quale ci sono rimasti una serie di frammenti. Il frammento superstite più significativo dei Silloi è quello in cui Timone di Fliunte fa una vera e propria sintesi del pensiero di Pirrone, del suo pensiero e della dottrina scettica. Questo frammento viene chiamato anche il nocciolo, in greco il kerigma (tenete a mente questa parola!), del pensiero scettico. Leggiamolo per constatare che non facciamo nessuna fatica – avendo studiato il pensiero di Pirrone di Elide – a capire questo breve testo.

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Timone di Fliunte, Sillogi

Chi vuol essere felice deve guardare a tre cose: quale sia la natura delle cose; che atteggiamento dobbiamo assumere rispetto ad esse; infine che cosa ci risulterà da tale atteggiamento. Pirrone ha dichiarato che, quanto alle cose, esse sono del pari indifferenti, incerte e dubbie; per questo né le nostre sensazioni, né le opinioni sono veraci o fallaci; per questo dunque bisogna astenersi dal dare giudizi definitivi, ma è necessario sospendere l’opinione [epoché], senza inclinazione e senza agitazione, dicendo intorno ad ogni cosa che non più essa è di quanto non sia, o che è e anche che non è, o che né è né non è; io, Timone, posso affermare che chi si mantiene in questo atteggiamento, anzitutto conseguirà la capacita di non esprimersi invano [afasia] e poi l’imperturbabilità [ataraxia]

     Ma quali testimonianze – reali o leggendarie – rimangono su Timone di Fliunte, al quale la Storia del Pensiero Umano deve la formulazione del pensiero scettico? Ancora una volta è Diogene Laerzio a darci delle informazioni. Come si presenta la figura di Timone di Fliunte secondo il racconto di Diogene Laezio, il quale, come al solito, ci mette al corrente su molti particolari, con quella leggerezza di carattere aneddotico che stimola la riflessione e che diverte. Leggiamo che cosa scrive, in proposito, Diogene Laerzio:

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Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Timone di Fliunte, figlio di Timarco, era un ballerino. Si trasferì ben presto a Mègara dove seguì le lezioni alla Scuola di Stilpone megarico.

Si dice anche che Timone fosse orbo e fosse amante del vino e che abbandonò questa inclinazione quando si convertì allo scetticismo dopo aver conosciuto Pirrone di Elide. Il loro incontro avvenne per strada, mentre andavano allo stadio. Aristocle, un peripatetico che odiava Timone, dà testimonianza dell’incontro tra Timone e Pirrone  in una sua opera dicendo che quando vide Timone accanto a Pirrone gridò contro di loro queste parole: «O Timone, o uomo dappoco, tu che dici di non credere in nulla, come fai a dire di aver conosciuto Pirrone? E lo stesso stupendo Pirrone, in questo fausto giorno, mentre si avvia a vedere le gare pitiche insieme a te, lo sa di andarci o cammina a casaccio, come un rimbambito?». Timone non si lasciò neppure sfiorare da questa invettiva feroce, mantenne la massima imperturbabilità [ataraxia] e, proprio per questo, Pirrone lo ritenne, da subito, il suo discepolo prediletto.

Di Timone di Fliunte si ricorda una frase nella quale può essere riassunto il suo pensiero: «Che il miele sia dolce mi rifiuto di asserirlo, ma che mi sembri dolce lo posso garantire».

      La Scuola scettica – così come quella epicurea e quella stoica – ha elaborato un concetto significativo che si è poi ulteriormente sviluppato nei secoli del medioevo e dell’età moderna, un concetto che Timone di Fliunte sintetizza nella sua opera e che emerge da un frammento dei Sillogi. Leggiamo questo frammento che non ha bisogno di nessun commento per essere compreso:

LEGERE MULTUM….

Timone di Fliunte, Sillogi

Nelle situazioni della vita quotidiana, prima di esprimere giudizi affrettati e irrevocabili, dobbiamo fermarci a riflettere e poi dobbiamo sussurrare a noi stessi: «Ciò che io adesso credo assolutamente vero, domani potrebbe essere solo probabile».

     E ora, prima di concludere, riprendiamo il discorso che abbiamo lasciato in sospeso all’inizio di questo itinerario quando abbiamo detto che, ad Atene, i concetti-cardine della Scuola scettica sono penetrati nell’Accademia, quella di Platone, che continuava a esistere (sarà attiva per circa tre secoli), il cui programma aveva già cominciato (come sappiamo) a discostarsi dalla sua impostazione originaria ancor prima della morte del Maestro.

     L’irruzione della Scuola scettica nell’Accademia costituisce un fatto veramente singolare perché il pensiero scettico combatte il dogmatismo e quindi gli Scettici avrebbero dovuto tenere le distanze dalla Scuola platonica che era considerata dogmatica per eccellenza da Pirrone e da Timone, ma i tempi cambiano e le idee più significative della Scuola scettica (l’epoché, l’ataraxia, l’afasia), come abbiamo detto all’inizio, hanno cominciato a contaminare, tra il III e il II secolo a.C., la cosiddetta Media Accademia per volontà di uno scolarca di nome Arcesilao. Arcesilao è un platonico che si converte allo scetticismo. Ma chi è Arcesilao di Pitane?

     Arcesilao (315-241 circa a.C.), figlio di Seute, è nato a Pitane, una città dell’Asia Minore, ma fin da giovane si trasferisce ad Atene dove s’iscrive al Liceo (la Scuola aristotelica) e studia come discepolo, molto stimato, di Teofrasto. Poi s’iscrive all’Accademia e, nel 268 a.C., ne diventa scolarca e, come abbiamo detto, con lui, la Scuola di Platone subisce una profonda svolta. Arcesilao – come sappiamo – è stato il fondatore della cosiddetta Media Accademia che ha come caratteristica quella di avere un indirizzo scettico. Arcesilao fonde insieme il concetto del Mondo delle Idee di Platone con le parole-chiave della Scuola di Pirrone. Arcesilao introduce nel programma dell’Accademia il concetto dell’ironia socratica, che è il ragionamento che smantella il dogmatismo per far emergere una verità morale: l’ironia di Socrate è un concetto che anticipa il pensiero scettico. Poi Arcesilao riprende e valorizza i motivi dialettici – cioè le riflessioni che mettono in discussione la Verità assoluta – contenuti nell’opera di Platone. Arcesilao fonde insieme queste idee e colora di Scetticismo tutto il programma dell’Accademia.

     Poi l’impostazione scettica è continuata, sempre nella tarda Media Accademia – che poi ha preso il nome di Nuova Accademia –, nel II secolo a.C., con uno scolarca di nome Carneade. Chi era costui? Insieme a don Abbondio ce lo dobbiamo domandare anche noi.

     Carneade (213-128 a.C.) è nato a Cirene, una città che abbiamo già visitato ai primi di dicembre dello scorso anno. Le fonti riferiscono che Carneade è stato un uomo di vasta cultura e di eccezionale abilità oratoria. La fama di Carneade è legata soprattutto a un viaggio che ha fatto a Roma come ambasciatore insieme all’aristotelico Critolao e allo stoico Diogene di Babilonia. Il motivo del viaggio di questi tre intellettuali ellenistici a Roma era quello di chiedere l’annullamento di una multa di cinquanta talenti che il Senato romano aveva inflitto alla città di Atene per tutta una serie di inadempienze di carattere fiscale. A Roma, che era caput mundi (la capitale del mondo), Carneade, Critolao e Diogene decisero – soprattutto Carneade che era il più titolato – di far vedere ai Romani quale fosse il valore degli intellettuali ellenistici greci nell’arte dialettica. I tre ellenisti ateniesi furono invitati al Foro e lì si esibirono in una serie di conferenze durante le quali lo stesso oratore, nella prima parte, sosteneva una tesi, e nella seconda parte sosteneva la tesi opposta.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Su quale argomento pensate sia necessario oggi sospendere il giudizio?  C’è, secondo voi, qualcosa di incerto che domani potrebbe essere una certezza?

Scrivete quattro righe in proposito

     A questo proposito il nostro informatore Plutarco di Cheronea nella sua celebre opera intitolata Vite parallele e in particolare nella Vita di Marco Catone scrive qualcosa che dobbiamo leggere. Scrive qualcosa in proposito anche per mettere in evidenza la superiorità dei Greci rispetto ai Romani: Plutarco – come sappiamo – vuole, in tutte le sue opere, sottolineare il fatto che i Romani hanno vinto e hanno sottomesso militarmente l’Ellade ma culturalmente il mondo greco continuerà ad essere superiore.

LEGERE MULTUM….

Plutarco di Cheronea, Vite parallele - Vita di Marco Catone

I giovani romani erano disponibili ad accettare le novità ed erano affascinati da tutto ciò che veniva dall’Ellade, ed applaudirono entusiasti tutte le conferenze di Carneade, e degli altri due filosofi in missione a Roma per conto di Atene, tenute al Foro; non così gli anziani, e in particolare Catone il Vecchio, che vedeva negli intellettuali greci un pericolo di corruzione per la Repubblica.

Catone considerava virtuosi solo coloro che vivevano nella massima austerità: una volta fece espellere un senatore, Manilio, perché lo aveva visto abbracciare la moglie sulla pubblica piazza. Considerava gli schiavi come bestie da soma: li aizzava l’uno contro l’altro per poterli meglio sottomettere, e quando erano vecchi preferiva venderli piuttosto che continuare a mantenerli. Se qualcuno di loro commetteva un errore, lo faceva condannare a morte dai compagni per poi strangolarlo con le sue stesse mani. Diffidava della filosofia e di chiunque avesse delle idee e proprio perché allarmato dal successo dei tre filosofi greci e, temendo soprattutto Carneade, Catone si rivolse al Senato e, tanto strepitò, che li fece cacciare via dalla città come indesiderabili.

     Qual è il segno che ha lasciato Carneade di Cirene nella Storia del Pensiero e quale impronta ha lasciato la cosiddetta Nuova Accademia che Carneade ha guidato dal 155 al 137 a.C.? Carneade, come scolarca della Nuova Accademia, ha criticato con veemenza l’Epicureismo, ma il suo bersaglio principale è stato lo Stoicismo nella sua versione dogmatico-culturale, che noi abbiamo studiato tre settimane fa, codificata da Crisippo di Soli.

     Carneade di Cirene (219-129 a.C.), molto probabilmente, ha scritto molte opere ma nessuno dei suoi scritti è sopravissuto e, poco o niente conosceremmo di lui se non ci fossero le testimonianze che ci hanno lasciato Cicerone e Sesto Empirico. Sesto Empirico attribuisce a Carneade questa dichiarazione: «Se Crisippo di Soli non fosse stato, neppure io sarei». Carneade critica i vari settori della dottrina stoica quando vogliono affermare l’esistenza di qualcosa che corrisponde alla verità. Gli Stoici sostengono – e lo abbiamo studiato – che la mente umana è capace di produrre delle rappresentazioni vere della realtà e quindi ritengono che la persona sia in grado di conoscere il mondo per quello che è: Carneade critica questa impostazione sostenendo che in sogno o da svegli abbiamo le stesse rappresentazioni evidenti e capaci d’impressionarci”. Ed è sempre Sesto Empirico che attribuisce a Carneade questa affermazione: «Colui che, essendo assetato, sogna di bere, prova un senso di piacere analogo a quello che proverebbe se potesse bere da sveglio, tanto è vero che mentre sogniamo scambiamo il sogno con la realtà».

     Poi la dialettica stoica non è, secondo Carneade, in grado di aiutarci nel distinguere una proposizione vera da una falsa: Crisippo di Soli sostiene che con il ragionamento sillogistico è sempre possibile stabilire la verità ma Carneade mette in dubbio questo fatto riproponendo l’argomento – già elaborato dalla Scuola di Mégara – detto il ragionamento del mentitore che consiste in questa proposizione: «Uno che dice di mentire e dice la verità, enuncia una proposizione vera o falsa? ». Il sillogismo del mentitore– dichiara Carneade, sempre secondo la testimonianza di Sesto Empirico – annulla il valore della dialettica stoica.

     Ma la confutazione più efficace di Carneade nei confronti della dottrina stoica è quella che riguarda la teologia. Carneade demolisce le prove presentate dagli Stoici per tentare di dimostrare l’esistenza di Dio e poi mette soprattutto in discussione il concetto della provvidenza che non si concilia con l’esistenza del male nel mondo e il concetto della divinazione, cioè della capacità di predire il futuro seguendo le tracce che la divinità lascia nella Natura. Cicerone attribuisce a Carneade questa riflessione: «La vostra famosa provvidenza è da considerare colpevole se ha concesso la ragione a chi sapeva che ne avrebbe fatto cattivo uso; a meno che non si dica che la divinità non ne sapeva niente. Se tutto avviene fatalmente, la divinazione non ci può insegnare alcuna cautela, perché, comunque ci si conduca, avverrà quello che deve avvenire; se invece il destino si può piegare, non è più destino, e perciò neppure possibilità di predire il futuro»

     Crisippo di Soli, nel costruire il suo impianto teologico, – e lo abbiamo studiato tre settimane fa – combina insieme il Dio unico della filosofia stoica con il politeismo (con i tanti dèi tradizionali) della religione popolare: questo compromesso consiste, abbiamo visto, nel considerare le molte divinità dell’Olimpo come attributi dell’unico Dio supremo. Cicerone ci riporta, in proposito, una dichiarazione di Carneade che contesta la posizione di Crisippo: «Se Zeus e Posidone sono dèi, sarà Dio anche Hade, loro fratello; ma Hade è il re degli inferi; se dunque il re degli inferi è Dio, saranno dèi anche Acheronte, Cocito, Caronte e Cerbero; se invece si respinge questa conclusione, secondo quanto pretendono gli Stoici, bisognerà negare la stessa divinità di Zeus». Carneade – dichiara Cicerone – critica la teoria stoica dei passaggi da una divinità all’altra come se fossero passaggi da un attributo all’altro dell’unica divinità, e questo perché non è possibile fissare un limite fra ciò che è Dio e ciò che non lo è e, quindi, si deve concludere che o tutto è Dio o nulla è Dio. Sesto Empirico, a questo proposito, riferisce questa dichiarazione di Carneade: «Se Demetra è dea, lo sarà anche la terra di cui Demetra è madre; ma se la terra è dea, saranno divinità anche le montagne e le pietre: tutto ciò come può essere ritenuto possibile?».

     Se don Abbondio si fosse ricordato che Carneade è così critico nei confronti della teologia probabilmente lo avrebbe disapprovato. Chissà perché Alessandro Manzoni fa evocare Carneade da don Abbondio? Forse anche qui c’è quella sottile ironia che pervade tutto il romanzo intitolato I promessi sposi? E dove starebbe, in questo caso, l’ironia? Forse Manzoni rievoca Carneade perché è colui che, notoriamente (come abbiamo studiato or ora), nega il concetto della provvidenza divina, e don Abbondio non sta, forse, negando anche lui il valore della provvidenza divina nel momento in cui cede, per codardìa, all’intimidazione e all’imposizione che questo matrimonio non s’ha da fare?

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Il fatto è che quello degli “intrecci filologici” è un bel gioco ellenistico da coltivare e, quindi, la Scuola consiglia ancora una volta la lettura delle prime due pagine del capitolo VIII de I promessi sposi di Alessandro Manzoni…

     E, ora, terminiamo in modo interlocutorio: è possibile indagare – in chiave scettica – sul rapporto tra gli asparagi e l’immortalità dell’anima? Achille Campanile – sulla scia della skepsis – si esercita in proposito…

LEGERE MULTUM….

Achille Campanile, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima

Non c’è alcun rapporto fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima. Quelli sono un legume appartenente alla famiglia delle asparagine, credo, ottimo lessato e condito con olio, aceto sale e pepe. Alcuni preferiscono il limone all’aceto; anche eccellente è l’asparago cotto col burro e condito con formaggio parmigiano. Alcuni ci mettono un uovo frittellato sopra e ci sta benissimo. L’immortalità dell’anima, invece, è una questione; questione, occorre aggiungere, che da secoli affatica le menti dei filosofi. Inoltre gli asparagi si mangiano, mentre l’immortalità dell’anima no. Questa, insomma, appartiene al mondo delle idee. Naturalmente, nel caso in esame, all’idea corrisponde un fatto. Da questo punto di vista si può dire che l’immortalità dell’anima è una qualità dell’anima, La proprietà peculiare dell’anima, un concetto insomma, il quale indica il fatto che le anime sono immortali. Siamo sempre ben lontani dagli asparagi.  

... continua la lettura ...

     Gli asparagi ci portano a sederci a tavola, dopo aver camminato in campagna per cercarli e per raccoglierli, e il tema dell’immortalità dell’anima dove ci porta? Ma in India, naturalmente! Che cosa e chi dobbiamo incontrare in India in età ellenistica, o meglio, in età indo-ellenistica?

     La prossima settimana ce ne occuperemo perché l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere per ogni persona e, qualunque sia la latitudine e la longitudine, la Scuola è qui e il viaggio continua…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 12, 2010