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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È LA FEDELTÀ ALL’INQUIETUDINE ESISTENZIALE ...

Lezione N.: 
18

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica      24-25-26  febbraio  2010

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA

C’È  LA FEDELTÀ ALL’INQUIETUDINE ESISTENZIALE ...

     L’itinerario di questa settimana, il diciottesimo che percorriamo nel vasto territorio della sapienza poetica ellenistica, inizia ancora sotto il Portico della Scuola stoica dove abbiamo imparato che la filosofia – cioè l’arte che insegna alla persona a diventare saggia – si può paragonare ad un frutteto in cui il muro di cinta è la logica (che è la disciplina utile per conoscere l’Universo), gli alberi sono la fisica (che è la disciplina necessaria per conoscere la Natura) e i frutti sono l’etica (che è la disciplina indispensabile per conoscere il Bene, per distinguere il Bene dal Male). La scorsa settimana abbiamo riflettuto sul contenuto di questo frammento e abbiamo delineato che cosa intende per logica, per fisica e per etica il pensiero stoico di Zenone, di Cleante e di Crisippo (ricordate questi tre personaggi?).

      Il contenuto di questo frammento ricorre più di una volta nei brani che delineano la cultura stoica, e noi sappiamo che le parole-chiave e le idee-cardine del pensiero stoico sono state riunite insieme in una specie di antologia, composta dal 1903 al 1905 dallo studioso tedesco Hans von Arnim, intitolata Frammenti degli stoici antichi: questo lavoro di ricerca ha fatto epoca ed è un’opera, in tre volumi, che abbiamo imparato un po’ a conoscere e alla quale abbiamo attinto nel corso degli ultimi due itinerari.

     Il testo del frammento – che abbiamo citato prima e che sintetizza il cammino del pensiero stoico – ha fatto sì che (nell’itinerario della scorsa settimana) ci occupassimo, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, di un significativo intreccio filologicoche parte da un cavillo– così come lo hanno definito le studiose e gli studiosi – contenuto nella versione di questo brano attribuita a Crisippo di Soli. Crisippo di Soli – come sappiamo – ha svolto un’opera di riorganizzazione del pensiero stoico delle origini, e ha costruito quel filo conduttore che ha tenuto uniti, nelle varie epoche, tutte e tutti coloro i quali hanno fatto riferimento alla Stoà, cioè alla Scuola di quelli del Portico. Crisippo scrive: «Gli stoici dicono che la filosofia deve essere paragonata ad un frutteto, dove il muro di cinta è la logica, gli alberi sono la fisica e i frutti sono l’etica, ma la filosofia è anche come un viaggio ardimentoso alla ricerca delle meraviglie d’oltre Tule».

     La scorsa settimana – come di certo ricorderete – abbiamo puntato l’attenzione sull’ultima parte di questo frammento: «…ma la filosofia è anche come un viaggio ardimentoso alla ricerca delle meraviglie d’oltre Tule», e ci siamo chieste, ci siamo chiesti, che cosa sia questa ricerca delle meraviglie d’oltre Tule. Sappiamo che le studiose e gli studiosi affermano che si tratta di un cavillo, di una sottigliezza, di una minuzia o, se vogliamo, di un modo di dire che è diventato un luogo comune. Parlano di un cavillo dal punto di vista formale perché Crisippo ha già chiaramente messo in evidenza ciò che vuole dire e, in questo frammento, quindi, la frase finale non è altro che un rafforzativo di un concetto già espresso (in forma allegorica) sul tema dell’importanza della ricerca.

     Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo messo in evidenza che, per quanto riguarda il contenuto, invece, questo cavillo (il cavillo di Tule) assume dei tratti di carattere culturale molto significativi, e ci siamo rese e resi conto che questo cavillo(il quale, secondo il gioco di parole di Achille Campanile, è un animillo che galippa galippa) rimanda ad un interessante intreccio filologico da dipanare: e ormai sappiamo che, nel territorio della sapienza poetica ellenistica, gli intrecci filologici da dipanare sono all’ordine del giorno.

     Tule (o Thule) – come abbiamo imparato – è il nome di una misteriosa isola dell’estremo nord dove, al solstizio d’estate, il sole non tramonta e, questo fatto, nel IV secolo a.C., suscitava una certa curiosità e stimolava l’immaginazione. Tule è quindi l’estremo limite settentrionale del mondo: tutte e tutti noi abbiamo sentito parlare di ultima Tule. Il luogo geografico di Tule (e da qui abbiamo cominciato a dipanare questo intreccio filologico) è stato citato per la prima volta da un grande navigatore greco dell’antichità, Pitèa di Marsiglia, nella sua opera intitolata Descrizione dell’oceano e periplo della terra. Questa citazione, che presupponeva l’esistenza di uno straordinario mondo oltre Tule, ha dato origine – come abbiamo studiato – ad una lunga serie di racconti leggendari, da prima narrati oralmente, in seguito messi anche per iscritto.

     Noi siamo al corrente del fatto che durante il periodo dell’Ellenismo prende forma il genere letterario del romanzo, ed è successo che i meravigliosi racconti sul mondo al di là di Tule hanno costituito la materia di uno dei primi significativi romanzi degli albori composti in età ellenistica. Questo romanzo – come ricorderete – s’intitola Meraviglie al di là di Tule ed era formato da 24 libri (o 24 lunghi capitoli); diciamo era formato perché, purtroppo, il testo originale di quest’opera è andato perduto: ne rimangono dei frammenti (come spesso succede) disseminati in altre opere. Sappiamo che questo romanzo è stato composto da uno scrittore che si chiama Antonio Diogene, il quale, probabilmente (dicono le studiose e gli studiosi di filologia), nel I secolo a.C., ha riunito insieme, in un vasto racconto scritto, molte storie della tradizione orale sul tema delle meraviglie del mondo d’oltre Tule. Noi conosciamo l’esistenza e il contenuto di questo romanzo degli albori per merito di un’opera provvidenziale: e anche questo elemento lo abbiamo studiato la scorsa settimana dipanando questo complesso intreccio filologicoal quale diamo il nome di cavillo di Tule. Ciò che narra il romanzo intitolato Meraviglie al di là di Tule – scritto probabilmente nel I secolo a.C. da Antonio Diogene – si può leggere in un riassunto contenuto in un’opera molto importante (provvidenziale) che si chiama Biblioteca di Fòzio, e noi questo riassunto lo abbiamo letto: ve ne ricordate?

     Poi, la scorsa settimana, – sempre nell’atto di dipanare l’intreccio filologico del cavillo di Tule – abbiamo incontrato lo scrittore berlinese Ludwig Achim von Arnim il quale, nel primo trentennio dell’Ottocento, ha composto cinque significativi romanzi e uno di questi romanzi, quello che, per giudizio unanime, viene considerato il suo capolavoro, s’intitola Isabella d’Egitto ossia Il primo amore dell’imperatore Carlo V, pubblicato nel 1819: di questo romanzo, al termine dell’itinerario scorso, ne abbiamo letto due pagine ma soprattutto abbiamo preso atto che le affinità tra alcune parti del contenuto del romanzo di Achim von Arnim e il testo delle Meraviglie al di là di Tule sono rilevanti. Difatti molti modelli, molti elementi leggendari, provenienti dalla saga delle Meraviglie al di là di Tule sono entrati nella tradizione popolare euro-asiatica e mitteleuropea e, di conseguenza, anche nei testi della letteratura romanzesca dell’800 e del ‘900.

     L’intreccio filologico del cavillo di Tule – abbiamo detto la scorsa settimana – non è ancora completamente dipanato: questo tema non investe soltanto la prosa ma riguarda anche la poesia e noi lo dobbiamo ricordare, non possiamo rimuovere questo fatto che riguarda tanto la sapienza poetica ellenistica quanto la didattica della lettura e della scrittura.

     Che cosa significa che il tema di Tule riguarda anche la poesia? Nella complessa saga delle Meraviglie del mondo d’oltre Tule – noi ci siamo occupate e occupati soltanto di alcuni aspetti: l’argomento è molto più vasto e, volendo, ciascuna e ciascuno di noi è ora in grado, con le chiavi che possiede, di fare ricerca per conto proprio –, ad un certo punto, compare un personaggio significativo: il Re di Tule. Nel romanzo intitolato Meraviglie al di là di Tule scritto da Antonio Diogene e riassunto da Fòzio di Costantinopoli nella sua Biblioteca c’è un elemento che, molto probabilmente è rimasto nella nostra memoria: la Sacerdotessa della Bianca Notte, con Democare figlio di Dinia, vuole concepire un figlio che possa spezzare la sua solitudine glaciale e possa diventare il re del mondo d’oltre Tule. Sappiamo che questo suo desiderio – il desiderio di essere fecondata – si avvera e quindi è normale che appaia sulla scena dei racconti anche il re di Tule. E noi, ora, a questo proposito – senza divagare (non ce lo possiamo permettere) – dobbiamo andare a colpo sicuro cominciando a capire e a conoscere.

     Abbiamo incontrato la scorsa settimana, non a caso, anche la celebre scrittrice Bettina Brentano: siete andate, siete andati, a fare una piccola ricerca su di lei? Corre voce che Bettina Brentano, che già da bambina teneva una corrispondenza con il grande Johann Wolfgang Goethe, abbia pensato di poter raggiungere l’immortalità – avete consultato il romanzo di Milan Kundera intitolato L’immortalità? – mettendo in atto un gesto significativo: ha creduto opportuno per essere ricordata in eterno di chiedere udienza, appena raggiunta l’adolescenza, al vecchio Goethe e poi, quando è stata la suo cospetto, ha chiesto al celeberrimo personaggio di potersi sedere sulle sue ginocchia: lui ha acconsentito. Che cosa ha fatto Bettina Brentano seduta sulle ginocchia di Goethe? Sono state fatte molte ipotesi in proposito (questa situazione ha del leggendario): una delle ipotesi (quella più letteraria di tutte) dice che Bettina Brentano, seduta sulle ginocchia di Goethe, abbia cantato una famosissima ballata composta dal celebre poeta, una ballata universalmente conosciuta, intitolata Il Re di Thule.

     Che significato ha questo gesto (dall’apparente ambiguità: una minorenne che blandisce un vecchio uomo di potere per raggiungere l’immortalità!)? Il tema della ballata di Goethe intitolata Il Re di Thule ha come tema la fedeltà all’inquietudine. Bettina Brentano cantando la ballata Il Re di Thule è come se dicesse: Sei vecchio e sei inquieto, ma guarda che anche i giovani lo sono, ed ecco un tema che ci unisce, su cui riflettere. Vorrei capire se l’inquietudine è solo una malattia umana oppure se è una risorsa metafisica.

     In funzione della didattica della lettura e della scrittura – e sulla scia dell’intreccio filologico che prende le mosse da uno dei frammenti della cultura stoica attribuito a Crisippo di Soli – puntiamo la nostra attenzione sulla ballata di Johann Wolfgang Goethe intitolata Il Re di Thule. La ballata di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) intitolata Il Re di Thule è molto famosa. Goethe ha composto il testo di questa ballata con diverse varianti – che riguardano la forma, non il contenuto – a seconda dei casi in cui l’ha utilizzata.

     La prima versione del testo de Il re di Thule Goethe l’ha letta ai suoi amici nell’estate del 1774 prima di accettare l’invito da parte della duchessa Anna Amalia (molte e molti di voi la conoscono) di recarsi a Weimar per far parte del famoso Cenacolo di spiriti eletti che ha dato lustro a questa città, una delle capitali del Romanticismo. Questa prima versione della ballata è stata messa per la prima volta in musica dal barone K. S. Seckendorif nel 1782. Poi il testo della ballata Il Re di Thule compare, con delle variazioni rispetto alla versione originaria del 1774, nella prima redazione del Faust il cosiddetto Urfaust (Il primo Faust). Nel testo di questa grandiosa e complicata opera che è il Faust (più volte l’abbiamo incontrata nei nostri Percorsi ma questo argomento specifico non l’abbiamo mai trattato) la ballata de Il Re di Tule compare anche, con ulteriori variazioni nel testo, in un brano, non definitivamente messo a punto, che viene chiamato Frammento e che è stato stampato nel 1790. E poi, in quella che viene considerata la redazione definitiva del Faust, questa ballata trova la sua collocazione nel cosiddetto soliloquio (o monologo) di Margherita (Margherita è il più importante personaggio femminile di questa complessa opera) che sarebbe un po’ inespressivo se lo scrittore non vi avesse incastonato la canzone de Il Re di Thule: questa ballata riesce a conferire a questo brano una grazia particolare, una speciale naturalezza e una significativa preziosità poetica.

     Applichiamoci prendendo in considerazione il termine ballata.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il genere della “ballata” è sempre in auge: c’è una “ballata” – un’opera solo musicale o con testo e musica – che vi piace particolarmente ?

Scrivetene il titolo e il nome dell’autrice o dell’autore: è sufficiente una riga in proposito

     E ora ricominciamo a capire e a conoscere: non si può fare a meno a questo punto di riflettere su un aspetto importante che riguarda il Faust di Goethe e che ci riguarda da vicino perché quest’opera fa capolino da un paesaggio intellettuale che si trova sul territorio della sapienza poetica ellenistica e che ora è collocato proprio di fronte a noi e quindi lo possiamo osservare.

     Sapete che Goethe ha lavorato alla composizione del Faust per decenni (dal 1773 al 1831): è l’opera di una vita e, di conseguenza, il testo presenta molte rielaborazioni. Quando, nel 1775, Goethe parte per Weimar ha già composto il nucleo essenziale del dramma che doveva costituire la prima parte del Faust, quello che è conosciuto col nome di Urfaust (Il primo Faust). Il testo de Il primo Faust è composto da brevi schizzi drammatici, da liriche che saranno soggette a successive continue aggiunte e stesure.

     Nel ducato di Sassonia-Weimar, dove viene invitato a trasferirsi, per sette anni Goethe (insieme ad un gruppo di validi intellettuali) è tutto preso da una serie di compiti istituzionali alle dipendenze del giovane duca Carlo Augusto: il figlio della duchessa Anna Amalia (un personaggio che molte e molti di voi conoscono bene perché siamo state e siamo stati suoi ospiti nell’anno 2004), la quale, rimasta vedova, ha preso su di sé la responsabilità del governo di questo piccolo ducato facendolo diventare nell’età del Romanticismo titanico e galante il punto di riferimento di tutta la cultura europea. Quindi Goethe, nel corso di questi sette anni, non ha ripreso in mano il suo lavoro e solo nel 1808 questo dramma viene pubblicato nella sua redazione definitiva col titolo Faust. Una tragedia. Ma questa tragedia non costituisce che la prima parte dell’opera, la quale, attraverso interruzioni e riprese, è stata condotta a termine (con dei punti non proprio ben completati) soltanto nel 1831, pochi mesi prima della morte del poeta, e pubblicata postuma col titolo Faust. Seconda parte della tragedia in cinque atti. Il Faust di Goethe presenta quindi delle stratificazioni liriche, concettuali e stilistiche per cui quest’opera è stata giudicata, per un certo periodo di tempo, un capolavoro sbagliato, perché eterogeneo e disorganico.

     Per la verità Goethe non ha avuto fin dall’inizio una chiara idea di ciò che questo suo dramma avrebbe dovuto essere e quindi la gestazione di quest’opera è stata lenta e faticosa, e intervallata da pause ed arresti anche lunghissimi, senza che la figura di Faust (che è il corrispettivo del sentimento dell’inquietudine che lo travaglia), per circa sessant’anni, abbandonasse mai la sua mente. In definitiva Goethe è stato fedele all’idea della realizzazione di quest’opera e la parola fedeltà ha un ruolo fondamentale nel Faust. Diciamo queste cose perché se a qualcuna o a qualcuno di voi venisse l’idea di procurarsi (in biblioteca) il volume del Faust di Goethe ha delle chiavi in mente per cominciare a sfogliarlo.

     Il Faust rappresenta la ripresa e la rielaborazione di una vecchia leggenda medioevale, contenuta nel Faustbuch (Il libro di Faust): questa leggenda però è radicata molto più indietro nel tempo. Il protagonista di questa leggenda – tutte e tutti lo sappiamo – è la figura del mago che vende la sua anima al demonio per trascendere i propri limiti umani e inserirsi nell’ordine degli Spiriti che reggono la vita dell’Universo. Questo è un tema – ed è proprio per questo motivo che ci stiamo soffermando davanti a questo paesaggio intellettuale – che ha le sue radici nella sapienza poetica ellenistica e, in particolare, nel pensiero di quelle correnti stoiche che interpretano i concetti della Scuola del Portico in termini religiosi: con quali riti, con quali cerimonie, con quali magie è possibile avvicinarsi al Logos, allo Spirito divino, per affrancarsi dai limiti umani che costituiscono, per la persona, una zavorra insopportabile? Queste correnti stoiche esoteriche(così sono state chiamate) – che si sviluppano, in modo particolare, nell’età del cosiddetto stoicismo di mezzo – mettono in secondo piano l’esercizio della ragione rispetto alla suggestione creata dalla magiamodificando, in parte, lo spirito originario della Scuola del Portico. Anche Goethe – a cavallo tra il 1700 e il 1800 – compie un atto di infedeltà rispetto al movimento dell’Illuminismo europeo (sebbene debba molto a questo movimento culturale) col proposito di rivalutare la potenza della Natura e l’efficacia dei sentimenti che non possono, in definitiva, essere imbrigliati dalla Ragione e che – secondo lui – per troppo tempo sono stati rimossi dall’ascetismo religioso e ignorati dall’Illuminismo filosofico che ha confidato eccessivamente nelle possibilità della Ragione.

     Il primo Faust, rispecchia, in sostanza, una scelta esistenziale ed esprime una rinnovata fedeltà nei confronti della Natura e dei sentimenti. Il giovane Goethe, nel momento in cui si mette alla ricerca di una nuova religiosità titanica e demoniaca, esce dalla comunità cristiana, rinuncia al sacramento dell’eucarestia e comincia ad interessarsi di magia per capire se attraverso questa strada si possa uscire dalla condizione umana e si possa venire in contatto con le forze insite nella Natura (Goethe coltiva l’idea del panteismo tipica dello stoicismo delle origini).

     Goethe, oltre che con la figura di Faust, tende anche ad identificarsi con il personaggio di Prometeo, l’avversario di Zeus, che più volte abbiamo incontrato, e ne abbiamo studiato il carattere, nei nostri Percorsi. Ma mentre Prometeo opera entro i limiti della terrestrità ed è, per questo motivo, orgogliosamente tranquillo e sicuro di sé, Faust cerca l’illimitato ed è perciò insoddisfatto ed ansioso. Prometeo appartiene alla terra e si sente profondo conoscitore della terra (è una figura in linea con il pensiero epicureo e stoico delle origini, che è un pensiero fondamentalmente materialista); Faust aspira a sollevarsi al di sopra della materia e vorrebbe penetrare nella regione degli Spiriti che vivono tra la terra e il cielo, mira alla fusione del proprio io con l’universo, del microcosmo col macrocosmo.

     Il senso che ha la tragedia di Faust è in relazione al dramma della persona che si trova invischiata in una serie di terribili dualismi: la terra e il cielo, la materia e lo spirito, l’io e l’universo. Come si fa – afferma Faust (afferma Goethe) – a far conciliare tra loro entrambi i termini di questi dualismi se la natura di questi elementi li rende assolutamente diversi tra loro? Il tentativo di comporre l’unità tra concetti in contrapposizione tra loro, tra cose così diverse non fa che generare inquietudine, angoscia, disperazione. E il dramma di Faust è quindi legato alla parola-chiave fedeltà che emerge in senso interlocutorio: bisogna essere fedeli alla terra o al cielo, alla materia o allo spirito, al proprio io o all’universo, alla ragione o ai sentimenti? Meglio sarebbe se fossimo capaci di intuire che dovremmo essere fedeli o all’una o all’altra cosa.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole – costanza, assiduità, attaccamento, tenacia, dedizione (o quale altra) – mettereste per prima accanto alla parola “fedeltà”?… 

Scrivetela

     Perché abbiamo fatto questo discorso, perché ci siamo avventurate e avventurati sulla via di questo ragionamento? Abbiamo fatto questo lungo discorso e abbiamo seguito la trafila di questa riflessione per conoscere e per capire qual è il tema della ballata intitolata Il re di Thule. L’argomento di cui Goethe tratta nella ballata Il Re di Thule è proprio quello della fedeltà(lo stesso argomento centrale del Faust) e il senso del testo di questa canzone è racchiuso in una metafora – rappresentata da una storia d’amore – che rispecchia tutto il travaglio che pervade l’animo umano: quell’inquietudine che, tuttavia, regge e vivifica il mondo. E non è forse – quello del fare i conti con l’inquietudine (nostra compagna quotidiana) – il tema centrale affrontato dalle Scuole epicuree e stoiche operanti nell’età dell’Ellenismo?

     Qual è il contenuto della ballata intitolata Il Re di Thule? Questa canzone narra che c’era una volta il Re di Thule al quale muore l’amata e questa sua donna amata ha regalato a lui, prima di morire, una coppa d’oro perché lui possa, con questo prezioso calice, bere allegoricamente anche la sua presenza. Il Re di Thule non ha nulla di più caro di questa coppa e ogni volta che vi beve, gli occhi gli si riempiono di lacrime. Quando sente che anche la sua fine si avvicina, lascia tutto ai suoi successori, ma non la coppa della sua amata. Il Re di Thule riunisce per l’ultima volta i suoi cavalieri nel suo castello sul mare e, al termine della cena, si alza, beve nel calice a lui sacro l’ultimo sorso e poi lo getta nelle onde che s’infrangono sulla scogliera. Vede cadere la coppa, la vede riempirsi d’acqua e sparire: a questo punto i suoi occhi si spengono perché ha bevuto l’ultimo sorso di vita.

     Il testo della ballata intitolata Il Re di Thule – nelle sue varie versioni – bisognerebbe leggerlo in lingua originale per poter capire meglio l’unione di delicatezza e di semplicità, il tono popolare e tradizionale in cui Goethe è stato maestro nella poesia.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Questa ballata ha avuto un successo straordinario ed è stata messa in musica a gara da moltissimi compositori fra i quali ricordiamo Robert Schumann, Franz Schubert, Hector Berlioz, Charles-François Gounod… 

Sarebbe interessante poter ascoltare l’esecuzione di queste canzoni sul tema de Il Re di Thule…  Dove cercare?Si può provare – per avere delle indicazioni – sull’enciclopedia della musica, e sulla rete, mettiamoci in ricerca…

     E ora leggiamo il testo della ballata intitolata Il Re di Tule nella prima versione:

LEGERE MULTUM….

 

Johann Wolfgang Goethe, Il Re di Thule

C’era una volta di Thule il Re,

diceva - fino alla tomba fedele sarò!

Morendo, la sua bella tanto amata,

una coppa d’oro gli regalò.

Nulla gli era più caro di questa coppa d’oro

nei banchetti ci beveva sempre con decoro

finché, preso com’era dal rimpianto,

spuntava nei suoi tristi occhi il pianto.

La sua morte era prossima: enumerò

tutte le città e i tanti domini che aveva,

lasciava agli eredi ogni cosa che lui possedeva

solo la coppa per sé la teneva.

Stava seduto in mezzo a tanti cavalieri valorosi,

durante il suntuoso e ricco banchetto regale,

nell’eccelsa sala dei suoi avi gloriosi

disposta ad oriente, nel castello sul mare.

E fu qui che il vecchio bevitore bevve

assaporando della vita l’ultimo ardore,

e poi gettò la coppa d’oro nelle onde

di cui nitido udiva il gran fragore.

Vide la coppa cadere, la vide riempirsi,

la vide sparire nel mar più profondo.

Gli occhi gli si spensero perché, senza rimorso,

aveva della vita bevuto già l’ultimo sorso.

     Goethe ha composto il testo di questa ballata con diverse varianti – che riguardano la forma, non il contenuto – a seconda dei casi in cui l’ha utilizzata. Abbiamo già detto che l’ha anche inserita nel Faust e abbiamo capito la ragione per cui la utilizza: come metafora della fedeltà nella scelta esistenziale. Una scelta esistenziale che emerge in senso interlocutorio: bisogna essere fedeli alla terra o al cielo, alla materia o allo spirito, al proprio io o all’universo, alla ragione o ai sentimenti? Il tentativo di comporre l’unità tra concetti in contrapposizione tra loro, tra cose così diverse – afferma Goethe – non fa che generare inquietudine, angoscia, tribolazione, disperazione.

     Sappiamo che, in un primo momento, Goethe aveva inserito la canzone de Il Re di Thule alla fine del primo celebre monologo di Faust. Faust si presenta come un dotto, come un sapiente che, giunto all’età matura, constata il fallimento della propria vita. Ha studiato a fondo la filosofia, la giurisprudenza, la medicina e anche purtroppo(lui dice) la teologia e si accorge di non sapere niente di niente. Perciò si propone di gettare a mare tutte le sue carte e di avviarsi, con l’aiuto della magia, sul cammino della conoscenza intuitiva, per mezzo della quale gli si sveleranno – egli spera – i misteri della vita, l’essenza della natura: per questa via esoterica egli conta di giungere alla chiarezza, alla luce.

     Leggiamo il testo del primo monologo di Faust sia per capire dove Goethe, in un primo momento, aveva inserito la canzone de Il Re di Thule ma anche per leggere un famoso brano di letteratura che profuma di cultura ellenistica:

LEGERE MULTUM….

Johann Wolfgang Goethe, Faust. Una tragedia

[È notte, nell’angusta stanza gotica con la volta a sesto acuto.

Faust è inquieto e siede davanti al leggìo]

FAUST

Ed ho studiato, ahimè, filosofia, giurisprudenza nonché medicina: ed anche, purtroppo, teologia.

Da cima a fondo, con tenace ardore. Eccomi adesso qui, povero stolto; e tanto so quanto sapevo prima.

Mi chiamano Maestro: anzi, Dottore.

Sono dieci anni che menando vo pel naso i miei scolari, di su di giù, per dritto

e per traverso. Ma solo per accorgermi che non ci è dato di sapere, al mondo,

nulla di nulla. E quasi mi si strugge, ardendo, il cuore! In verità, la testa ho assai

più fina di tutti i solennissimi baggiani che si chiaman Maestri, o vuoi Dottori,

chierici e scribi. Non soffro né di dubbi né di scrupoli. Non pavento il demonio

né l’inferno. Ma da ogni gioia ho sradicato il cuore. Più non m’illudo di sapere, ormai, nulla di buono.

Più non m’illudo d’insegnarlo alle persone, per convertirle

e renderle migliori. E non basta. Son qui, nudo di beni, senza un quattrino, senza gloria nel mondo e senza onori.

A una vita così, non reggerebbe neppure un cane.

Per ciò, mi sono dato alla Magìa, anelo di provar se non mi svelino qualche segreto almeno la forza e la parola degli spiriti;

così che più non debba balbettare, sudando sangue, quello che non so; e mi sia dato di scoprir che cosa tiene congiunto

alle radici, il mondo; scorga operare ogni linfa, ogni seme; e possa alfine smetterla

di solo cavillar con le parole.  Oh fosse almeno l’ultimo tuo sguardo sulla mia pena,

chiaror di luna piena, ch’io già vegliando oltre la mezzanotte, tante mai volte attesi

presso questo leggìo, in fin che sopra i libri e sulle carte non mi apparivi, o mia dogliosa amica!

Ah potessi per cuspidi di monti andar vagando alla tua cara luce,

librarmi in antri alpestri con gli spiriti, aggirarmi sui prati al tuo chiarore!

Oh potessi, deterso finalmente da tutti i fumi della scienza, immergermi, per risanare, nella tua rugiada!

E ancóra in questo carcere sto chiuso? O maledetta, soffocante tana

di anguste mura, dove, filtrando pei dipinti vetri, anche del ciel la cara luce giunge

intorbidita! Carcere, che ingombrano mucchi di libri coperti di polvere, rosi dai tarli!

Tappezzata tutta, sino alla vòlta, di vecchie cartacce affumicate; sparsa di vasi

e ampolle in ogni dove; stipata di strumenti; zeppa di vecchie masserizie avite.

Ecco, il tuo mondo. E puoi chiamarlo un mondo? E ancor ti chiedi perché nel petto

ti si stringe il cuore in un nodo d’angoscia, e perché mai una pena ti stronca, inesplicabile, ogni slancio di vita?

Perché non ti circonda la vivente Natura, entro

la quale gli umani Iddio creò: ma t’imprigionano, tra muffa e fumo, solo carcasse

e inariditi scheletri! Lèvati e fuggi negli spazii immensi! E questo libro ricolmo

di enigmi, che Nostradamo di suo pugno scrisse, guida non è bastevole al viaggio? Conoscerai, per esso, il corso delle stelle.

E, se Natura poi ti ammaestri, ti balzerà

con l’anima una forza miracolosa, a schiuderti il linguaggio che parlano gli spiriti

fra loro. Non aspettar che l’arida ragione ti spieghi mai questi divini segni!

Spiriti, accanto a me, ora, aleggiar vi sento. Rispondete, Spiriti, se mi udite!

     A questo punto gli Spiriti avrebbero dovuto rispondere cantando la ballata de Il Re di Thule, ma poi, durante i successivi rimaneggiamenti, Goethe – come già abbiamo detto – ha spostato questa canzone nel cosiddetto soliloquio di Margherita. E poi – per avvalorare la metafora della fedeltà nella scelta esistenziale – ha composto un brano altrettanto famoso che inserisce come prologo. Il dramma, difatti, ha un celebre prologo teologico-metafisico che si svolge in cielo: leggiamolo.

LEGERE MULTUM….

Johann Wolfgang Goethe,  Faust. Una tragedia

PROLOGO

[Dio chiede a Satana notizie del mondo e Satana risponde] «Non so dir nulla di mondi, di soli; osservo solamente come gli esseri umani si affatichino. Il piccolo Dio del mondo [l’essere umano] è sempre tale e quale, e sempre strambo come il primo giorno. Vivrebbe un po’ meglio se tu non gli avessi dato una parvenza di luce del cielo. La chiama ragione e se ne serve unicamente per essere più bestiale di ogni altra bestia».

[Ribatte il Signore] «Eppure c’è pure una persona, Faust, su cui si può fare affidamento, anche se ora mi serve in modo un po’ disordinato, lo condurrò presto verso la chiarezza».

[A questo punto Mefistofele propone un patto ponendosi in gara temeraria col Signore e dice] «Che cosa scommettete? Anche quello perderete, se mi permettete di condurlo, poco alla volta, sul mio sentiero».

[E il Signore risponde] «D’accordo! Ti sia concesso! Svia questo spirito dalla sua prima fonte e, se ti riesce di irretirlo, conducilo pure giù con te, sul tuo sentiero. Ma vergogna a te se tu dovrai ammettere: una persona buona è, nel suo oscuro istinto, sempre conscia della retta via, e sa come potrebbe essere fedele al Bene».

     Questa è la celebre scommessa tra Dio e il Diavolo, della quale Dio risulterà alla fine vincitore, giacché Faust, al termine della vita, si salverà (dimostra dei saper distinguere il Bene dal Male) e quindi, senza saperlo e senza volerlo, Satana integra così i disegni di Dio e diventa partecipe della sua opera: Goethe, naturalmente, – per essere fedele al suo pensiero – vuole mettere in discussione anche il dualismo tra Dio e Satana: come si può essere fedeli ad entrambi? Da questo momento – afferma Goethe – siamo avvertiti. È questa inquietudine che pervade tutto il mondo, che lo regge e lo vivifica. Senza questo travaglio interiore – secondo Goethe – né il mondo sarebbe più il mondo, né Dio sarebbe più Dio. È quindi necessario, per la persona, lo stato di inquietudine derivante dal fatto che ci si deve domandare a che cosa dobbiamo destinare la nostra fedeltà: al cielo o alla terra, alla materia o allo spirito, al proprio io o all’universo, a Dio o a Satana? La scelta non è facile e – dichiara Goethe – si ha la sensazione che sia al di sopra delle nostre possibilità: prevale la tendenza al compromesso che banalizza inesorabilmente la vita.

     E, nel dipanare questo complesso intreccio filologico, non possiamo tralasciare il fatto che, tra le molte traduzioni italiane che sono state fatte della ballata Il Re di Thule di Goethe, la più popolare è quella di Giosué Carducci che si presta – essendo lui bravissimo nell’uso della metrica – ad essere musicata e imparata a memoria e non si può non leggerla: c’è anche chi sostiene che Carducci, con spirito giacobino, abbia voluto un po’ ironizzare sul sentimentalismo goethiano.

LEGERE MULTUM….

Giosué Carducci, Il Re di Thule, dalle Ballate di J.W. Goethe

Fedel sino a l’avello

Egli era in Thule un re:

Morì l’amor suo bello,

E una coppa d’or gli diè.

Nulla ebbe caro ei tanto,

Sempre quella vuotò:

Ma gli sgorgava il pianto

Ognor ch’ei vi trincò.

Venuto a l’ultim’ore

Contò le sue città:

Diè tutto al successore,

Ma la coppa d’or non già.

Ne l’aula de gli alteri

Suoi padri a banchettar

Sedé tra i cavalieri

Nel suo castello al mar.

Bevé de la gioconda

Vita l’estremo ardor,

gittò il calice a l’onda

Il vecchio bevitor.

Piombar lo vide, lento

Empiersi e sparir giù;

E giù gli cadde spento

L’occhio e non bevve più.

     E ora veniamo al dunque! Tutta questa trafila ha potuto prendere forma – abbiamo detto – perché sul vasto territorio della sapienza poetica ellenistica abbiamo incontrato e ci siamo soffermate e soffermati di fronte ad un paesaggio intellettuale dal quale fanno capolino la canzone de Il Re di Thule e la tragedia del Faust.

     Ma in questo paesaggio, in primo piano, di autenticamente appartenente all’età ellenistica, che cosa c’è? C’è qualcosa, c’è un oggetto – contenente un tema significativo – che dobbiamo mettere in evidenza.

     Sappiamo (conosciamo bene questo argomento) che in età ellenistica prende forma il genere letterario del romanzo, stiamo seguendo questa trafila e abbiamo già studiato due modelli dei cosiddetti romanzi degli albori: Il romanzo di Nino [o di Semiramide] di autore ignoto e poi, nello scorso itinerario, abbiamo incontrato le Meraviglie al di là di Tule scritto da Antonio Diogene e conservato nella Biblioteca di Fòzio.

     Questa sera facciamo la conoscenza con un altro, cosiddetto, romanzo degli albori che s’intitola Storie Babilonesi [Babiloniaka], un romanzo scritto in greco da Giamblico di Siria nel II secolo d.C.. Anche del testo originale di quest’opera non restano che pochi estratti su alcuni papiri e una serie di frammenti in altre opere. Per fortuna anche di questo romanzo degli albori ci è giunto un riassunto attraverso quell’opera provvidenziale che s’intitola Biblioteca di Fòzio. Sappiamo già (la scorsa settimana abbiamo fatto conoscenza con questo importante personaggio) che Fòzio (820 circa-891) è un intellettuale di cultura bizantina – vissuto nel periodo dell’alto medioevo – il quale è celebre soprattutto per essere stato il patriarca di Costantinopoli, il massimo rappresentante della Chiesa greca d’Oriente. Nella sua Biblioteca Fòzio espone e riassume ben 279 opere letterarie scritte in greco di cui si sarebbero, inesorabilmente, perse le tracce. Della maggior parte di queste opere non abbiamo altra conoscenza se non attraverso gli estratti e i compendi di Fòzio e noi, di questi oggetti culturali, non avremmo mai potuto conoscerne l’esistenza. La Biblioteca di Fòzio è, quindi, un importantissimo strumento di documentazione su testi che sarebbero andati completamente perduti se questo istruito intellettuale bizantino non avesse conosciuto e trascritto il riassunto di queste opere del passato i cui testi si sono persi per sempre.

     Tra le 279 opere elencate e compendiate da Fòzio c’è, appunto, anche il riassunto del romanzo intitolato Storie Babilonesi [Babiloniaka] scritto da Giamblico il Siro. Dal compendio di Fòzio si capisce che questo racconto è proiettato in un remoto passato con molti anacronismi dal punto di vista storico ma questo fatto non ha alcuna importanza perché si tratta, appunto, di scrittura romanzata, un genere in via di formazione. La psicologia dei personaggi è piuttosto elementare, gli intrecci narrativi non sono molto fluidi, sono piuttosto meccanici: queste sono le caratteristiche del romanzo degli albori. Per quanto riguarda il contenuto – quello che abbiamo potuto conoscere attraverso il riassunto di Fòzio – ci sono notevoli analogie con alcuni motivi della novellistica orientale e questa è una caratteristica del cosmopolitismo culturale creato dall’Ellenismo e, molto probabilmente, Giamblico di Siria ha l’orecchio teso verso i racconti (verso i significativi racconti allegorici) patrimonio della narrativa orientale.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A questo proposito date un’occhiata a quella raccolta di racconti che s’intitola “Le mille e una notte”La conoscete?

     Ma perché ci stiamo occupando di questo oggetto culturale? Non ce ne stiamo occupando solo perché è un romanzo degli albori, ma stiamo puntando l’attenzione su quest’opera anche a proposito di una osservazione, molto interessante, che dobbiamo fare in funzione della didattica della lettura e della scrittura procedendo sulla scia all’intreccio filologico del cavillo di Tule. Per fare questa osservazione dobbiamo metterci in ricerca e, per metterci in ricerca, abbiamo la possibilità di leggere che cosa scrive Fòzio nella sua Biblioteca a proposito delle Storie Babilonesi [Babiloniaka] di Giamblico il Siro.

LEGERE MULTUM….

Fòzio di Costantinopoli, Biblioteca

STORIE BABILONESI [BABILONIAKA] DI GIAMBLICO IL SIRO

La storia scritta da Giamblico il Siro racconta che Sinonide è una bellissima fanciulla babilonese che, da poco, si è sposata con un giovane di nome Ròdane.

Sinonide, per la sua conturbante bellezza, è ardentemente desiderata da Garmo, il re di Babilonia che, avendola vista crescere, pensa di poter esercitare il suo privilegio su di lei.

Sinonide, per sottrarsi alle ingiustificate voglie del re, è costretta a fuggire col marito, ma viene ben presto, per ordine di Garmo, inseguita dagli eunuchi regi.

Qui cominciano le molte avventure a cui vanno incontro i due sposi fuggiaschi, i quali sono sempre sul punto di essere acciuffati ma si salvano ogni volta all’ultimo momento per qualche fortunata combinazione.

La magìa, i veleni, i sortilegi hanno gran parte in queste avventure, come pure gli spargimenti di sangue, i tentati suicidi, le morti vere o apparenti, i rapimenti, le condanne. A un certo punto entra in scena la gelosia, che separa i due sposi.

Una sera Sinonide vede Ròdane che bacia una bella ragazza: diventa furiosa e abbandona lo sposo desiderosa di rivalsa.

Sinonide, di nascosto, comincia a tessere la sua vendetta: vuole uccidere la rivale, ma la vendetta è sempre una pessima risposta nei confronti dei torti subiti, infatti Sinonide combina tutta una serie di guai senza raggiungere lo scopo che si è prefissato.

Ròdane intanto, pentito per aver provocato la gelosia della sposa, si reca alla foce dove i due sacri Fiumi s’incontrano e cerca consolazione pregando gli dèi.

Ma prima ancora degli dèi lo vede il malvagio Genio delle Anime, sempre in agguato nelle profonde anse dei due Fiumi, il quale, con fare bonario, appare a Ròdane il quale, senza conoscerne le cattive intenzioni, confida al Genio la pena che porta nel cuore.

Il Genio maligno propone all’ingenuo Ròdane il suo perfido patto: se Ròdane consegnerà la sua anima al Genio malvagio potrà realizzare tre suoi desideri.

Ròdane, ignaro, si lascia sedurre.

Il Genio insegna a Ròdane la formula che dovrà pronunciare: il giovane sprovveduto compie il magico rito e la sua anima esce dal suo corpo, catturata nell’anfora del Genio maligno. Alle anime, divenute sue schiave, il Malvagio ordinerà di compiere le sue nefandezze.     

Ròdane, incantato, torna a Babilonia, incita i sudditi alla ribellione contro Garmo che non era amato, scoppia la guerra e lui risulta vittorioso e diventa re della città e fa la pace con la sua Sinonide.

Questi erano i suoi desideri, ma mentre viene incoronato nel Tempio dal gran Sacerdote gli appare il dio supremo Marduk che lo convoca nella cella del Santuario e chiede a Ròdane la ragione per cui lui abbia perduto l’anima che gli è stata donata dal dio stesso all’atto della sua nascita: una persona non può essere senz’anima, tanto meno un re, che deve essere il custode di tutte le anime!

Ròdane, in ginocchio davanti a Marduk, racconta la sua avventura e capisce di avere commesso un grave peccato, il dio lo ascolta e lo invita a pentirsi.

Ròdane sinceramente si pente. Marduk lo ha letto nel suo cuore e, avvolto nel mantello dell’ira, appare alla foce dei due sacri Fiumi e, dopo averlo stanato, trafigge il Genio malvagio, manda in pezzi l’anfora che imprigiona le anime catturate che tornano nei corpi da cui, con un ingannevole patto, erano state rapite.

Ròdane può ora regnare bene: una persona senz’anima non può decretare atti giusti.

     Che cosa c’insegna questo oggetto culturale? Non ci sarebbe neppure bisogno di rimarcarlo e lo abbiamo capito al volo: è in età ellenistica che nasce la leggenda del patto col diavolo, una leggenda che – dopo varie elaborazioni avvenute nei secoli, fino al medioevo – si perfeziona con il personaggio di Faust, con la figura del mago che vende l’anima al demonio per trascendere i propri limiti umani.

     Un’altra significativa osservazione che dobbiamo fare riguarda l’uso che lo scrittore fa di massime di carattere epicureo e stoico per dare un valore pedagogico al suo testo: la vendetta è sempre una pessima risposta nei confronti dei torti subiti, una persona non può essere senz’anima, tanto meno un re, che deve essere il custode di tutte le anime, una persona senz’anima non può decretare atti giusti.

     Come abbiamo potuto constatare il cosiddetto cavillo di Tule(ora possiamo ribadire il fatto che risulta davvero un po’ paradossale parlare di cavillo ma noi sappiamo che il cavillo è un animillo che, nel suo piccolo, galippa galippa) costituisce il punto di partenza di un vasto e interessante intreccio filologico che, in parte, abbiamo cercato di dipanare. Il cavillo di Tule lo abbiamo incontrato nell’ambito della raccolta dei frammenti – nel testo di un frammento di Crisippo di Soli – che costituiscono, come sappiamo, il patrimonio intellettuale, raccolto da Hans von Arnim, della Scuola stoica.

     Torniamo quindi sul sentiero principale (sul filo conduttore) del nostro Percorso di studio: il sentiero sul quale stiamo attraversando il vasto territorio della sapienza poetica ellenistica. Abbiamo citato precedentemente – a proposito dell’esoterismo e della magia – la corrente dello stoicismo di mezzo. La corrente dello stoicismo di mezzo – rispetto alla Scuola delle origini, la quale dà grande importanza alla facoltà della ragione – è presa soprattutto dalla suggestione della magia: dalla ricerca di riti e di culti che possano traghettare la persona dal mondo della materia al mondo degli Spiriti e questo fatto (che semplifica molto le cose) riscuote un forte consenso popolare che si traduce in un gran numero di adesioni alle iniziative delle Scuole stoiche di carattere esoterico che contribuiscono a formare la cultura di base dell’Ellenismo, una cultura che è fortemente improntata di religiosità popolare. E sarà questo il terreno di coltura di molte esperienze religiose e, prima tra tutte, quella del Cristianesimo: Paolo di Tarso (che incontreremo a primavera) è un pesce che impara a nuotare bene nell’acqua del gran mare dell’Ellenismo.

     Ma c’è da dire che i rappresentati più autorevoli della corrente cosiddetta di mezzo dello stoicismo sono gli intellettuali della minoranza: quelli che continuano a perseguire la ricerca di una via di uscita dall’inquietudine esistenziale tramite la ragione, con tutti i suoi limiti e non tramite la magia. Chi sono i rappresentanti più significativi e più autorevoli della corrente dello stoicismo di mezzo? I rappresentanti più significativi della corrente dello stoicismo di mezzo sono Panezio di Rodi e Posidonio di Apamea.

     Panezio è nato a Rodi intorno al 185 a.C.. La tradizione dice che Panezio, in gioventù, sia stato sacerdote del dio Positone, poi sembra abbia abbandonato la carriera religiosa e si sia dato con tutto l’impegno possibile allo studio. Per questo motivo è emigrato ad Atene dove c’erano le Scuole migliori: Panezio, ad Atene, ha frequentato molte Scuole, tra cui l’Accademia platonica e il Liceo aristotelico in modo da avere un’ampia gamma di vedute. Poi Panezio – ci racconta Diogene Laerzio – ha incontrato Diogene di Seleucia che era uno dei più autorevoli rappresentanti della Scuola stoica e, quindi, Panezio ha continuato i suoi studi nella Scuola del Portico.

     Siamo nel II secolo a.C. e, a questo punto, la città più importante di tutte è diventata Roma e Panezio vi si trasferisce. Panezio arriva a Roma che ha appena compiuto quarant’anni, in possesso di un grande bagaglio culturale ed entra subito – viene invitato – nel più importante giro di intellettuali romani che sono appassionati di sapienza poetica ellenistica. Panezio diventa amico dello storico Polibio e comincia a frequentare la casa degli Scipioni, che, in questo momento, è la casa più importante della città. Panezio si trova davvero bene a Roma perché – in un momento in cui la sapienza poetica ellenisticava di moda a Roma – viene ammirato per la sua vasta cultura letteraria e filosofica. Diogene Laerzio scrive che: quando Panezio andava a passeggiare nel centro di Roma veniva attorniato da molti cittadini e lui li gratificava tenendo una conferenza sul valore della cultura greca e se qualche conservatore si fermava a criticare questa iniziativa veniva subito allontanato dagli ascoltatori. I cittadini più autorevoli, quando aveva finito di parlare, coglievano l’occasione per invitarlo alle feste che si tenevano nelle loro eleganti case.

     Di che cosa parla Panezio nelle sue conversazioni? Panezio predica il pensiero stoico: spiega la logica, insegna la fisica e indica l’etica secondo il programma dato da quelle linee generali che anche noi abbiamo studiato nell’itinerario della scorsa settimana. Panezio è il primo divulgatore del pensiero stoico di stampo greco nel mondo romano: comincia con lui un percorso culturale che porta alla nascita di un pensiero stoico di stampo latino.

     Panezio parte insieme a Scipione l’Emiliano per un viaggio in Oriente e ne approfitta per frequentare le Scuole filosofiche medio-orientali che insegnavano anche il pensiero della sapienza indiana (la cultura vedica) e anche noi, a breve, faremo un’escursione nella cultura indo-ellenistica. Panezio non ritorna a Roma con Scipione ma si ferma ad Atene, ritorna a casa e nel 129 a.C., alla morte di Antipatro viene nominato alla guida della Stoà, scolarca della Scuola del Portico. Panezio muore a settantasei anni dopo aver scritto molte opere delle quali noi possediamo solo qualche frammento raccolto da Hans von Arnim.

     Il secondo rappresentante più autorevole della corrente dello stoicismo di mezzo è Posidonio, nato ad Apamea, in Siria, tra il 140 e il 130 a.C.. Ha studiato ad Atene ed è stato discepolo di Panezio. Nell’86 a.C. Posidonio ha ricevuto l’incarico dal governo di Rodi di recarsi a Roma come ambasciatore.

     Posidonio è stato un grande viaggiatore e c’è un frammento, conservato su un papiro alessandrino del I secolo a.C. sul quale si legge: «Posidonio di Apamea ha visto con i suoi occhi il tramonto oltre le Colonne d’Ercole, ha visto la terra oltre i limiti del mondo conosciuto, e la costa africana dove gli alberi sono carichi di scimmie». Posidonio di Apamea ha interessi vastissimi e una curiosità senza limiti: ha studiato la meteorologia, l’etnologia, l’astronomia, la psicologia, la fisica, la storia e la filosofia. Posidonio ha fondato la sua Scuola a Rodi, una Scuola considerata di grande valore educativo tanto che molti giovani romani la frequentavano per completare i loro studi. Alla Scuola di Posidonio hanno studiato anche personaggi illustri come Gneo Pompeo e Marco Tullio Cicerone.

     Posidonio, fin da giovane, ha sofferto di artrite e tutte le testimonianze che ci sono state lasciate su di lui toccano questo tasto. Pompeo racconta che, il primo giorno in cui si è presentato alla Scuola di Rodi, Posidonio stava malissimo perché aveva dei fortissimi dolori artritici. Pompeo nelle sue Memorie scrive: «Il maestro, da vero stoico, mi accolse col sorriso sulle labbra e mi disse Non permetterò mai a un dolore fisico d’impedirmi di conoscere una persona che ha fatto un così lungo viaggio per vedermi”». Cicerone nella sua opera intitolata Tuscolanae racconta il suo incontro con Posidonio come un fatto straordinario e scrive: «Posidonio discusse a lungo sul principio della non esistenza del bene al di fuori della virtù. A ogni fitta particolarmente acuta, esclamava Non la spunterai, dolore! Per molesto che tu sia, non ti darò mai la soddisfazione di considerarti un male!». Questa tenacia stoica ha comunque funzionato perché – nonostante i dolorosi acciacchi – Posidonio ha superato i novant’anni d’età.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

E voi come state ad artrite, a mal di schiena a dolori reumatici?… 

Scrivete quattro righe in proposito: lo scriverne è una cura “stoica”, e se ha funzionato con Posidonio perché non dovrebbe funzionare anche su di noi?…

     Panezio di Rodi e Posidonio di Apamea hanno avuto una formazione differente rispetto agli Stoici delle origini, si capisce che appartengono ad un’altra epoca: hanno viaggiato molto, hanno incontrato molte persone diverse e hanno fatto tante esperienze pratiche e di studio in giro per il mondo dell’Ecumene. Questo modo nuovo di vedere le cose ha ammorbidito l’intransigenza delle Scuole stoiche rispetto a quella delle origini. Le Scuole dello stoicismo di mezzo accolgono anche persone che vogliono acquistare erudizione e che, quindi, si dichiarano indifferenti rispetto all’acquisizione del modello di vita – piuttosto severo – che la Stoà delle origini (di Zenone, di Cleante, di Crisippo) proponeva. Quindi le Scuole di Panezio e di Posidonio attutiscono il peso degli obiettivi che la Scuola stoica delle origini si era data – l’acquisizione dell’imperturbabilità, il conseguimento dell’impassibilità, il distacco da ogni bene materiale – per proporre, comunque, l’apprendimento del propri doveri.

     Panezio e Posidonio rimangono tuttavia fedeli al concetto fondamentale su cui si basa il programma della Scuola del Portico, della Stoà. Sappiamo che la Scuola stoica delle origini mette al centro del suo programma educativo una parola-chiave che rappresenta il concetto unificante delle varie correnti stoiche, questa parola è kathékon che, in greco, significa dovere: ogni persona, quindi, ha il dovere di darsi da fare per diventare saggia, e non basta contemplare l’Essere, ma è necessario anche agire perché l’Essere si manifesti in quanto Essere. La persona saggia – secondo Panezio e Posidonio – deve essere fedele alla propria inquietudine esistenziale, la fedeltà all’inquietudine esistenziale è uno stimolo utile per coltivare lo studio e per contrastare la perversa convinzione, ormai diffusa, che si possa anche non fare il proprio dovere, che sia da sciocchi fare il proprio dovere, che non sia redditizio fare il proprio dovere. Sul concetto del dovere – il concetto-chiave dello Stoicismo – Panezio e Posidonio sono ancora intransigenti perché, prima di tutto, c’è il perseguimento del bene comune, e poi, se è possibile, c’è l’interesse personale.

     In contemporanea con le Scuole di Panezio e di Posidonio sorgono sull’Ecumene – e questo lo abbiamo gia detto – moltissime Scuole stoiche di carattere esoterico che praticano culti e rituali magici per entrare in contatto con il mondo degli Spiriti; con queste Scuole il nuovo stoicismo perde la sua identità materialista e razionalista delle origini e si trasforma in una vera e propria religione. Queste Scuole a carattere religioso sono meno intransigenti, non predicano, se non in modo blando, il rispetto della morale pubblica fondata sui doveri di cittadinanza.

     Le opere di Panezio e di Posidonio – purtroppo sono andate tutte perdute, sono rimasti solo dei significativi frammenti – sono scritte con lo stile del Catechismo (Il catalogo dei doveri), e presentano un richiamo continuo ed esemplificato alla fedeltà ai propri doveri. Panezio di Rodi e Posidonio di Apamea, a cavallo tra il II e il I secolo a.C., sono stati i due illustri divulgatori del pensiero stoico di stampo greco nel mondo romano: con loro è iniziato un percorso culturale che ha portato alla nascita di un pensiero stoico di stampo latino: che è quello che noi, in Occidente, abbiamo ricevuto in eredità. Poco per volta, la capitale (ecumenica) dello Stoicismo diventerà Roma, ma questa è un’altra storia che racconteremo strada facendo.

     Adesso, per avviarci verso la conclusione di questo itinerario e in funzione della didattica della lettura e della scrittura, incontriamo – rintanato nel sottosuolo del paesaggio intellettuale che stiamo osservando – il personaggio principale di un libro (c’è anche la sua immagine in prima pagina) che s’intitola Firmino. C’è anche un sottotitolo voluto dall’autore:  Avventure di un parassita metropolitano. Penso che molte e molti di voi abbiano già letto questo libro che è stato pubblicato nel 2006 da una piccola Casa editrice di Minneapolis nel Minnesota (siamo negli Stati Uniti) con una modesta tiratura di mille copie ma, in poco tempo, Firmino si è fatto strada. In Italia il testo di questo romanzo è stato tradotto e pubblicato nel 2008 e avuto una certa diffusione: è stato letto dalla solita fascia di lettrici e di lettori (qualche decina di migliaia di persone) che ne hanno determinato il (meritato) successo editoriale.

     Firmino è un topo che nasce nel sottosuolo di una libreria – siamo in mezzo alle componenti che riguardano il nostro Percorso – e che, soprattutto allegoricamente, si ciba di libri per non morire di fame: Firmino è il simbolo della figura, emarginata ma ostinata, della lettrice e del lettore nella nostra società, una società che considera un fatto normale il fenomeno generalizzato della non lettura, una società che considera normale rimuovere il fatto che esista un semi-analfabetismo diffuso e cronico che non consente alla quasi totalità delle cittadine e dei cittadini di praticare la lettura. Eppure leggere (in particolar modo la lettura di quei libri che – dall’età dell’Ellenismo – chiamiamo i classici) significa anche alimentarsi. La lettura è una forma di nutrimento che lascia spesso il miele in bocca ma anche un po’ di amarezza nelle viscere: la lettura favorisce la conoscenza e la comprensione e quindi, oltre alle azioni dell’apprendimento, stimola anche l’inquietudine. E l’inquietudine – una condizione in cui il dolce e l’amaro della vita si mescolano inesorabilmente – se provocata, in modo propedeutico, dalla lettura diventa fedele compagna di strada.

     Che cosa vuol dire (interroghiamoci ancora!): coltivare la fedeltà all’inquietudine esistenziale? È stato il tema dell’itinerario di questa sera, un tema che nasce e si sviluppa sul territorio della sapienza poetica ellenistica. Coltivare la fedeltà all’inquietudine esistenziale significa agire in modo da non permettere che questa condizione umana (l’inquietudine) diventi una malattia ma bensì possa essere utilizzata come un integratore intellettuale, come un basamento per lo studio che – come scrive Pascal nei suoi Pensieri – è il farmaco utile per dare un senso all’inquietudine. Montaigne nei suoi Saggi scrive che è controproducente scacciare (tradire) l’inquietudine: bisogna – afferma Montaigne – essere fedeli ad essa ed elaborarla affinché ci spinga allo studio della Natura, alla lettura dei Classici e alla scrittura autobiografica, che sono gli strumenti adatti, propulsivi e non alienanti, per conservare la vita.

     Firmino conserva la sua fragile esistenza di topo malaticcio proprio perché nasce in mezzo ai libri e se ne alimenta, Firmino è un metafora che dà voce a tutte le persone che considerano la lettura, e l’uso dell’immaginario letterario, come il cibo più prezioso per l’anima, per l’intelletto e per il corpo.

     Dell’autore di questo romanzo non si sa granché: sappiamo che si chiama (o si fa chiamare?) Sam Savage, che è nato nel 1940 nel South Carolina, che ha fatto diversi mestieri come il meccanico di biciclette, il carpentiere, il pescatore, ma, soprattutto, sappiamo che è stato, fino all’età della pensione, professore di Filosofia in diverse Università e che ha scritto diversi libri.

     Leggiamo, per concludere, l’inizio di questo romanzo per annotare solo un elemento che ci permette di capire – senza bisogno, a questo punto, di tante spiegazioni – come mai Firmino continua a vivere (lì ha trovato il suo posto) nel sottosuolo del paesaggio intellettuale che porta il nome di cavillo di Tule. Anche Firmino galippa sul filo dell’Ultima Thule?

LEGERE MULTUM….

Sam Savage, Firmino

Avevo sempre immaginato che la storia della mia vita, se un giorno l’avessi mai scritta, sarebbe cominciata con un capoverso memorabile: lirico come il «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi» di Nabokov o, se non altro, di grande respiro come il tolstojano: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». La gente ricorda espressioni del genere anche quando del libro ha dimenticato tutto il resto. Comunque, a proposito di incipit, il migliore a mio avviso non può che ritenersi quello del Buon soldato di Ford Madox Ford: «Questa è la storia più triste che abbia mai sentito». L’ho letto decine di volte, ma ancora mi lascia di stucco. Ford Madox Ford è stato Un Grande.

... continua la lettura ...

     “L’Ultima Thule è un paradosso per dire – come ha scritto Crisippo di Soli (è di lì che siamo partiti) e come ribadisce l’autore di Firmino – che gli intrecci filologici, per fortuna, non hanno mai fine ai sensi dell’investimento in intelligenza. Difatti l’incipit di Firmino – come se fosse un classico (così come c’insegna la cultura dell’Ellenismo) – ha stimolato la nostra curiosità letteraria! Per esempio: che cosa significa che La veglia di Finnegan del grande James Joyce (l’autore dell’Ulisse) è il capolavoro più non-letto al mondo? E che cos’è La veglia di Finnegan? Certamente questa considerazione merita una riflessione perché – come c’insegna il paradosso de L’Ultima Thule (per cui: lo studio invita sempre ad andare oltre) – gli intrecci filologici non hanno mai fine in ragione dell’Apprendimento permanente. E voi sapete che L’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere fondamentale per ogni persona.

     Per questo la Scuola è qui…

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 26, 2010