Prof. Giuseppe Nibbi Lo sapienza poetica ellenistica 17-18-19 febbraio 2010
SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA
C’È UN FRUTTETO IN CUI:
“IL MURO DI CINTA È LA LOGICA, GLI ALBERI SONO LA FISICA E I FRUTTI L’ETICA”...
Siamo ancora ospiti della Scuola del Portico, in greco, la Stoà, dove abbiamo assistito all’elaborazione del cosiddetto “pensiero stoico delle origini” [il pensiero di Quelli del Portico]. Sappiamo che il tema delle fonti del cosiddetto “pensiero stoico delle origini” costituisce un argomento assai delicato perché i princìpi (le parole-chiave, le idee-cardine) di questa Scuola, fondata ad Atene nel 300 a.C. da Zenone di Cìzio, sono stati raccolti in epoca molto tarda [tra il I e il II secolo d.C.] dopo essere stati sottoposti ad una inevitabile rielaborazione. Quindi il compito che le studiose e gli studiosi di filologia si sono dati – soprattutto dall’inizio del secolo scorso – è stato quello di vagliare l’antichità delle fonti in modo da poterle collocare nelle varie fasi (antica, mediana o tarda) attraverso le quali lo Stoicismo si è sviluppato nel corso dei secoli.
Sappiamo già che c’è un’opera (e ne abbiamo già studiato i caratteri nel corso dell’itinerario precedente) che ha fatto epoca. Lo studioso tedesco Hans von Arnim (1859-1931) ha raccolto e pubblicato a Lipsia dal 1903 al 1905 una serie di frammenti sul pensiero stoico: quest’opera, in tre volumi, s’intitola Frammenti degli stoici antichi ed è composta da brani ricavati dai testi di Cicerone, di Filone di Alessandria, di Plutarco, di Galeno, di Sesto Empirico, di Stobeo e di molti altri.
Il primo volume di quest’opera contiene una raccolta di frammenti attribuiti al fondatore della Stoà, Zenone di Cìzio (che abbiamo incontrato la scorsa settimana) e ai suoi allievi. Il secondo e il terzo volume contengono i frammenti di quello che viene considerato il pensatore stoico più importante dopo Zenone, e anche più importante di Zenone, colui che viene soprannominato la “Colonna portante del Portico” e che si chiama Crisippo di Soli (281-208 ca. a.C.). Nell’opera di Hans von Arnim i frammenti più numerosi sono proprio quelli ascritti a Crisippo di Soli anche perché il nostro ricercatore, di norma, ha attribuito a Crisippo tutti i testi di contenuto generalmente stoico che non fossero riferiti a qualcuno in particolare.
Naturalmente l’opera Frammenti degli stoici antichi di Hans von Arnim – un lavoro di ricerca che ha fatto epoca – ha anche molte lacune (riconosciute dallo stesso autore) che possono essere messe in evidenza con facilità. Tuttavia – a parte i limiti di quest’opera – tutte le studiose e gli studiosi sono d’accordo nel dire che il testo di Hans von Arnim è molto importante perché ha reso possibili tutte le ricerche successive sulle Scuole stoiche, e soprattutto ha reso possibile la costruzione di un catalogo contenente le idee-cardine fondamentali che risultano comuni al pensiero stoico delle varie epoche. Abbiamo studiato che c’è uno stoicismo “antico”, del III secolo a.C., quello di Zenone, di Cleante e di Crisippo, poi c’è lo stoicismo “di mezzo” quello di Panezio e di Posidonio, e poi c’è quello dei cosiddetti “neostoici romani”, del I e del II secolo d.C., quello di Seneca, di Epitteto, di Marc’Aurelio (tanto per fare alcuni nomi): non è mai stato facile seguire e inquadrare bene queste correnti fluttuanti e noi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – ci stiamo provando.
Abbiamo detto che Hans von Arnim, nella sua opera intitolata Frammenti degli stoici antichi, attribuisce il maggior numero di brani a Crisippo di Soli. Diogene Laerzio c’informa che Zenone ha avuto numerosissimi alunni e ne fa un elenco scegliendo i più importanti, e questo elenco si conclude con i nomi di Cleante e di Crisippo dei quali puntualizza che sono stati i successori di Zenone nella Scuola del Portico. Cleante di Asso lo abbiamo incontrato una settimana fa e (come sappiamo) è l’autore del celebre Inno a Zeus: un testo che fa da perno ad un interessante intreccio filologico che abbiamo dipanato nello scorso itinerario.
E ora, naturalmente (come abbiamo anticipato la scorsa settimana), dobbiamo incontrare anche Crisippo di Soli: che cosa sappiamo di lui? Di Crisippo di Soli sappiamo che, dopo il primitivo insegnamento di Zenone e dopo l’interpretazione fisico-teologica di Cleante, si dedica – nel momento in cui diventa scolarca del Portico nel 232 a.C. – ad un’opera di sistemazione e di rifondazione del pensiero stoico e, per questo motivo, viene ricordato come la “Colonna portante del Portico”, come il nuovo fondatore della Scuola stoica.
Crisippo è nato a Soli nel 281 a.C. e, anche lui, emigra ad Atene dalla costa asiatica. A Soli è nato anche il poeta Arato, autore del poema intitolato Fenomeni, che abbiamo incontrato la scorsa settimana. Soli (o Soloi) era una polis della Cilicia che oggi corrisponde alla cittadina di Viranşehir che si trova sulla costa mediterranea della Turchia. Soli è sorta su un insediamento molto antico (esistente dal III millennio a.C.) e si è sviluppata come una ricca e prospera città ellenistica; il fatto è che i suoi abitanti parlavano un dialetto greco così arcaico per cui è nato un termine, la parola “solecismo” che, ancora oggi, indica un errore di grammatica o di sintassi. Purtroppo dell’antica città ellenistica di Soli non rimane più nulla perché nel 91 a.C. è stata completamente distrutta da Tigrane, il satrapo dell’Armenia. Soli è stata fatta poi ricostruire, negli anni 60 a.C., dal console romano Gneo Pompeo, uno dei componenti (Cesare, Pompeo e Crasso) del cosiddetto primo triumvirato dove comincia l’emarginazione del Senato romano e inizia la crisi dell’istituzione repubblicana. Pompeo, in seguito, rompe l’alleanza con Cesare e comincia una guerra civile che dura diversi anni e nella quale viene sconfitto definitivamente da Cesare nel 48 a.C. nella famosa battaglia di Farsalo. Pompeo si rifugia in Egitto dove il re Tolomeo Aulete, che era stato beneficato da Pompeo, lo fa uccidere. La città di Soli, fatta ricostruire da Pompeo, aveva cambiato nome e, per un certo periodo, si è chiamata Pompeiopolis. Oggi, nella cittadina di Viranşehir, della Soli ellenistica (del secondo ellenismo), rimane, lungo la strada che porta alla spiaggia, un pregevole portico del II secolo d.C. con 28 colonne dai raffinati capitelli corinzi in buono stato di conservazione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando la guida della Turchia o la rete fate un’escursione in questa regione della Turchia mediterranea, l’antica Cilicia, prendendo come punto di riferimento la cittadina di Viranşehir (anche se non è la città più importante della zona), tenendo conto del fatto che, procedendo per qualche decina di chilometri verso est, s’incontra anche la città di Tarso, dove, in una famiglia ebrea della diaspora, sta per nascere un certo Shaul Tarsensis che poi, quando diventerà cittadino romano, cambierà il suo nome in Paolo di Tarso, il quale – tramite il suo celebre Epistolario – diventerà uno scrittore ellenista di fama internazionale, oltre che un instancabile viaggiatore (periegeta): buon viaggio…
Ma ora torniamo ad occuparci di Crisippo di Soli e leggiamo che cosa ci racconta di lui il nostro principale informatore, Diogene Laerzio:
LEGERE MULTUM….
Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi
Crisippo di Soli, figlio di Apollonio, arrivò ad Atene come maratoneta per partecipare alle gare dei giochi panellenici. Un giorno capitò, accompagnato da alcuni atleti allievi della Scuola, sotto il Portico e decise di rimanervi come allievo, prima di Zenone e poi di Cleante.
Crisippo di Soli aveva una intelligenza molto viva e pronta all’apprendimento. Quando parlava con Cleante sui temi della saggezza, era solito dire: «Tu dammi i princìpi che alle dimostrazioni ci penso io». Molto spesso litigava con Cleante, ma subito dopo se ne pentiva, ed era solito dire col sorriso sulle labbra: «Sono stato fortunato in tutto nella vita, tranne che per il maestro!».
Crisippo di Soli ha scritto settecentocinque libri pieni di dotte citazioni.
Apollodoro, soprannominato il tiranno del Giardino (epicureo), denigrava continuamente le opere di Crisippo, dicendo: «Se alle opere di Crisippo togliamo le citazioni, non ci resta che la punteggiatura».
Crisippo di Soli morì a settantatre anni per aver riso troppo: successe che, un giorno, l’asino che aveva in casa, si mangiò una cesta di fichi, al che lui diede ordine ai servi di dargli anche da bere del vino, e quando Crisippo vide l’asino barcollare per il cortile, rise tanto che cadde stecchito per terra. …
Dalle notizie che ci ha tramandato Diogene Laerzio – oltre a gustosi spunti di carattere romanzesco – veniamo a sapere che Crisippo di Soli ha scritto settecentocinque libri pieni di dotte citazioni, i quali sono andati tutti perduti. Ora noi, da brave studentesse e da bravi studenti, non dobbiamo fare come l’epicureo Apollodoro – si sa che tra epicurei e stoici c’è una contesa perché si fanno concorrenza – il quale sottovaluta (per spirito polemico) l’importanza dell’opera di Crisippo.
Hans von Arnim, nella sua opera di ricerca intitolata Frammenti degli stoici antichi, ricava e riporta molti brani attribuiti a Crisippo che individua nelle opere dei pensatori dell’ultima grande stagione stoica, quella dei cosiddetti neostoici latini. Le citazioni di Crisippo – checché ne dicesse l’epicureo Apollodoro – oggi (in età moderna e contemporanea) si presentano come un materiale molto interessante, non solo per costruire il filo conduttore del pensiero stoico, ma anche per mettere in evidenza quegli “intrecci filologici” tipici dell’Ellenismo che ci danno l’opportunità, nel dipanarli, di investire in intelligenza, che è l’obiettivo istituzionale di un Percorso di didattica della lettura e della scrittura.
La scorsa settimana, a proposito di “intrecci filologici”, abbiamo concluso il nostro itinerario (e penso ve ne ricordiate!) leggendo l’ultima parte di un frammento, riportato nell’opera di Hans von Arnim, e attribuito a Crisippo di Soli. Sappiamo che la maggior parte dei brani, contenuti nel secondo e nel terzo volume dell’opera intitolata Frammenti degli stoici antichi di Hans von Arnim, viene attribuita proprio a Crisippo di Soli perché – come sappiamo – ha effettivamente svolto un’opera di riorganizzazione del pensiero stoico delle origini, costruendo quel filo conduttore che ha tenuto uniti, nelle varie epoche, tutte e tutti coloro i quali hanno fatto riferimento alla Scuola di quelli del Portico.
E adesso leggiamo nella sua interezza questo frammento di cui la scorsa settimana abbiamo letto solo l’ultima parte:
LEGERE MULTUM….
Hans von Arnim, Frammenti degli stoici antichi (Volume secondo)
Secondo Crisippo di Soli: «Gli stoici dicono che la sapienza (sophìa) è una scienza di cose divine e umane, dicono che la filosofia è esercizio di un’arte conveniente, dicono che conveniente è soprattutto la virtù, e che vi sono tre virtù principali: una fisica, una etica, una logica, per cui anche la filosofia si divide in tre parti, la logica, la fisica e l’etica. Gli stoici dicono che la filosofia deve essere paragonata ad un frutteto, dove il muro di cinta è la logica, gli alberi sono la fisica e i frutti sono l’etica, ma la filosofia è anche come un viaggio ardimentoso alla ricerca delle meraviglie d’oltre Tule» …
Al termine dell’itinerario della scorsa settimana abbiamo letto l’ultima parte di questo frammento e ci siamo chieste, ci siamo chiesti: che cosa sia questa “ricerca delle meraviglie d’oltre Tule”. Le studiose e gli studiosi affermano che si tratta di un cavillo. Perché affermano che si tratta di un cavillo se il termine “cavillo” significa “sottigliezza, minuzia”? Parlano di cavillo dal punto di vista formale perché Crisippo ha già chiaramente messo in evidenza ciò che vuole dire e, in questo frammento, la frase finale non è altro che un rafforzativo di un concetto già espresso (in forma allegorica) sul tema dell’importanza della ricerca.
Dal punto di vista del contenuto invece questo cavillo (il cavillo di Tule) assume dei tratti di carattere culturale molto significativi e quindi è un cavillo che “galippa galippa (secondo il gioco di parole di Achille Campanile)” perché rimanda (ancora una volta) ad un interessante “intreccio filologico” da dipanare. Ma prima di cercare di dipanare questo (ulteriore) “intreccio filologico di stampo ellenistico” dobbiamo – utilizzando il lavoro di sistemazione compiuto da Crisippo di Soli – prendere visione del catalogo delle idee-cardine comuni, del filo conduttore che tiene unite le varie correnti del pensiero stoico.
Crisippo – nel fammento riportato da Hans von Arnim che abbiamo letto poco fa – scrive: “La filosofia si divide in tre parti, la logica, la fisica e l’etica”. Quindi il pensiero stoico si occupa di queste tre discipline: Crisippo le chiama “virtù” perché, secondo il pensiero stoico, il compito della Scuola è quello di insegnare le discipline perché la persona possa diventare non solo sapiente ma soprattutto virtuosa! E allora (prima di cavalcare il “cavillo di Tule”) cerchiamo di capire – a grandi linee – il ruolo delle tre discipline (la logica, la fisica e l’etica) che danno forma al pensiero della Scuola del Portico.
Oggi le studiose e gli studiosi considerano il termine “lògos” come la parola chiave più importante dello stoicismo. Per la Scuola stoica la parola “lògos” è valida nella sua duplice veste di linguaggio e di ragione. È per via del “lògos (il linguaggio, la ragione) che l’essere umano si distingue nel Mondo, e il “lògos” unisce l’essere umano quasi in un unico organismo con gli dèi perché, secondo il pensiero stoico, il “Lògos” (con la L maiuscola) è anche il principio che regge dell’Universo.
Quindi per gli Stoici la “logica” (e con la Scuola stoica il termine “logica” comincia a definire una disciplina, sembra siano stati i primi in questo) non è più soltanto uno strumento della conoscenza (come nella tradizione dell’Organon di Aristotele), ma diventa una parte costitutiva della filosofia. Quando parlano di “logica” quelli della Scuola del Portico si riferiscono al tema (al valore, alla virtù) della “conoscenza”.
Come fa l’essere umano – si domandano – a conoscere la realtà, il Mondo, l’Universo? Per gli Stoici lo spazio dove avviene la conoscenza è quello dell’anima: un oggetto fatto di materia intellettuale, di Spirito (il Pneuma). Secondo il pensiero stoico (di impronta prettamente materialista) l’anima, presente nel corpo di ogni persona, è come una “tabula rasa”, cioè come una carta bianca su cui le sensazioni imprimono la loro impronta: la “sensazione” è, quindi, – secondo il pensiero stoico – alla base di tutta la conoscenza. Dal ripetersi di sensazioni simili nascono le nozioni generali, cioè i “concetti”, che eliminano i caratteri particolari delle sensazioni simili e mantengono solo i caratteri comuni. Questi concetti servono poi come anticipazione (proléssi) per recepire le future sensazioni simili e, per questo motivo, i concetti acquistano una universalità di carattere soggettivo perché ciascuna e ciascuno di noi si serve di questi concetti per intercettare tutte le sensazioni simili che si presentano, e si presenteranno, nello spazio della nostra anima, dando adito a quella che chiamiamo: l’esperienza.
Il fatto è – sostengono gli stoici – che nella nostra esperienza di viventi sono così tante le sensazioni che s’imprimono nella nostra anima che noi rischiamo di non essere in grado di distinguere il vero dal falso; quindi è necessario imparare (attraverso tutta una serie di esercitazioni teoriche e pratiche che la Scuola deve mettere in atto) il “criterio della selezione (la capacità di scegliere e di valutare)” e il “criterio dell’ordine (la capacità di catalogare, di disporre e di decidere)”. Il criterio della selezione e dell’ordine – affermano gli Stoici – è quello che ci permette di distinguere il vero dal falso e lo si può anche chiamare il “criterio della verità”. Mediante il “criterio della verità” si acquisisce quella che la Scuola stoica chiama la “rappresentazione comprensiva” o “phantasìa”, che è il primo momento, necessario per condurre alla conoscenza evidente, alla conoscenza che induce la persona all’assenso. Il significato originario del termine “fantasia” si è modificato nel corso del tempo: oggi la parola “fantasia” indica solo il prodotto dei fantasmi dell’immaginario, mentre per la Scuola stoica è il momento in cui non sappiamo ancora se la rappresentazione che ci dà un sensazione sia vera o sia falsa e, quindi, la phantasìa è il tempo della cautela.
Leggiamo che cosa scrive, in proposito, Crisippo di Soli in questo frammento sul tema della conoscenza nel quale riporta anche il pensiero di Zenone di Cìzio: «Di per sé infatti la sensazione non è né vera né falsa; se io osservo un bastone nell’acqua lo vedo spezzato ma è indubbio che, se lo tiro fuori dall’acqua, che ne altera le fattezze, lo vedo nella sua interezza. La verità o l’errore nascono quando io do o nego il mio assenso a proposito o a sproposito e di conseguenza l’assenso dovrà essere cauto, in modo da evitare le possibili cause di errore. Il nostro maestro Zenone presentava innanzi la mano aperta, con le dita stese: “ecco, diceva, così è la rappresentazione [la phantasìa]”. Poi, contraendo un po’ le dita diceva: “e così è l’assenso”. E quando le aveva strette del tutto e fatto il pugno, quella diceva essere la comprensione: da questa similitudine pose anche il nome di comprensione. Quando poi, al pugno fatto con la mano destra, accostava la mano sinistra e comprimeva quel pugno ad arte e con gran forza, così diceva essere la scienza, della quale nessuno ha il possesso, fuor che il sapiente. L’errore consiste dunque nel dare il proprio assenso ad una rappresentazione che non abbia in sé tanta evidenza da presentarsi appunto come comprensiva».
Quindi la Scuola stoica propone il tema della conoscenza attraverso la disciplina della “logica” intesa come una virtù la quale esige che l’anima si istruisca in modo da diventare competente su determinati valori che devono tradursi in precetti (in regole): l’imprescindibile esigenza della verità (dire la verità), la necessaria cautela nel giudizio (giudicare con rettitudine), la paziente attesa dell’assenso (scegliere con cognizione di causa e non prevaricare con le proprie scelte).
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In quale occasione voi avete preteso che vi si dicesse la verità?… Quando avete dovuto usare la massima cautela nel dare un giudizio?… Per fare che cosa avete atteso pazientemente il consenso?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Dobbiamo ricordare che dalla Scuola stoica noi abbiamo ricevuto in eredità quella che, poi, è stata chiamata: “l’analisi logica”. La Scuola stoica mette in evidenza un concetto molto importante che ha contribuito allo sviluppo del pensiero in età moderna e contemporanea: le parole (logoi), sebbene non siano in grado di proporre l’essenza delle cose, tuttavia sono in grado di nominare le cose al punto da farle esistere, ed è proprio per questo motivo che le parole hanno un carattere universale. Le parole (logoi) – sostengono gli Stoici – non sono propriamente innate, cioè non sono preesistenti nella mente della persona ma, in qualche modo, – pensano gli Stoici – sono connaturate alla persona, visto che tutte le persone arrivano a formarsele nella mente. Per gli Stoici di reale ci sono soltanto i corpi e gli individui e l’universale esiste come funzione del discorso.
Con la Scuola stoica nasce la “logica” come dottrina che ha per oggetto i “logoi”, i discorsi, orali e scritti. Per gli Stoici anche le “dieci categorie” di Aristotele – cioè le idee più ampie possibili con cui interpretiamo la realtà (è stata materia di studio lo scorso anno) – non sono che “parole” e ci tengono a sottolineare che le categorie servono non per conoscere l’essenza della realtà (su questo Aristotele non era stato molto chiaro) ma sono utili per nominare le cose di cui la realtà è costituita. Solo in questo modo (solo chiarendo questo punto) si può – dichiarano gli Stoici – continuare a parlare di categorie come concetti universali. La Scuola stoica riduce le categorie (le idee generali con cui diamo un significato alla realtà) a quattro: il soggetto, la qualità, lo stato e la relazione, più un genere che chiamano “sommo” – i neostoici latini lo chiamano “il quid” cioè “l’alcunché indefinito”, perché non tutto è possibile definire della realtà.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Che cos’è che, per voi, non è ben definito nella realtà che vi circonda? Quando avete dette “vorrei definire bene questa questione, questa situazione”?…
Basta una frase per rispondere, scrivetela…
Abbiamo ricordato, poco fa, che la Scuola stoica ci ha lasciato in eredità quella che, poi, è stata chiamata: “l’analisi logica”. Secondo gli Stoici la “logica” è la dottrina che ha per oggetto i “logoi”, i discorsi, orali e scritti, e comprende la “dialettica”, che – secondo Crisippo – è «la scienza del discutere rettamente» e la “retorica” che – sempre secondo Crisippo – è «la scienza dell’esprimersi bene nei ragionamenti». Secondo gli Stoici è più importante la “dialettica” perché studia il linguaggio sotto tutti i suoi aspetti e sempre secondo Crisippo «essa verte sui segni e sulle cose significate».
Ma leggiamo tutto intero questo significativo frammento di Crisippo raccolto da Hans von Arnim nella sua opera che abbiamo imparato a conoscere:
LEGERE MULTUM….
Hans von Arnim, Frammenti degli stoici antichi (Volume secondo)
Scrive Crisippo di Soli: «La dialettica verte sui segni e sulle cose significate. Tre elementi sono connessi tra di loro: il significante o segno, il significato e la cosa esistente. Il significante è il suono, come, per esempio, quando dico “Socrate”, ma al suono del significante si oppone la cosa esistente cioè la persona materiale di Socrate. Entrambi, il suono e la persona, sono oggetti fisici, sono corpi. Il significato, vale a dire quando io associo al suono “Socrate” la persona di Socrate, invece non è corpo ma sussiste solo come fatto puramente intellettivo, tanto è vero che gli stranieri, pur afferrando il suono, non capiscono il significato di parole pronunciate in greco.
Il giudizio di vero e di falso non riguarda ovviamente né il segno-significante, cioè il suono del termine “Socrate”, né la persona di Socrate, perché sono corpi: il giudizio di vero e di falso riguarda esclusivamente i significati perché sono fatti intellettivi» …
Elaborando la teoria dei significanti e studiando il rapporto tra i significanti e i significati gli Stoici sono diventati i fondatori di quella disciplina che chiamiamo la “grammatica” e le loro classificazioni – un po’ pedanti ma preziose – hanno permesso di distinguere le “parti del discorso” e le flessioni morfologiche. Chissà quanta analisi grammaticale abbiamo fatto alla scuola elementare: senza neppure sapere che esistevano gli Stoici! I nomi che ancora oggi diamo ai diversi casi della declinazione (nominativo, genitivo, dativo, accusativo, vocativo, ablativo) e l’analisi dei tempi e dei modi dei verbi derivano dalle analisi e dalle distinzioni fatte dai grammatici delle Scuole stoiche. Chissà quanta analisi logica abbiamo fatto alla scuola media: senza neppure sapere che esistevano gli Stoici!
E ora, dopo aver preso in considerazione la “logica”, occupiamoci della “fisica”. Con la disciplina della “fisica” la Scuola stoica si occupa della descrizione dell’Universo. L’Universo – secondo gli Stoici (e lo abbiamo già ribadito) – è interamente corporeo, è materiale e consta di due elementi: un elemento passivo che è la materia propriamente detta, inerte e priva di ogni qualità, e un elemento attivo, che è un principio che pervade la materia animandola e producendo tutte le cose del mondo. Leggiamo che cosa c’è scritto, a questo proposito, in un frammento attribuito a Crisippo di Soli: «L’Universo è un animale vivente che consta di Anima, che è l’elemento attivo, e di Corpo, che è l’elemento passivo. L’elemento attivo è l’Anima del mondo ed è Fuoco, un Soffio caldo (Pneuma) che anima la materia, e questo Fuoco è da concepirsi come Ragione, cioè come un Pensiero intelligente (Logos) che pervade il Mondo dandogli la sua legge, noi lo chiamiamo Ragione seminale perché contiene in sé i germi (lógoi spermaticói) che sono come le forme sostanziali, gli archetipi, i modelli (le idee, in senso platonico) delle cose».
Crisippo scrive che il Fuoco o il Pneuma (lo Spirito) o il Logos – che gli Stoici considerano Dio – imprime nel mondo la sua legge: in questo senso Dio è anche Fato e quindi tutti gli avvenimenti dell’Universo si svolgono dominati dal determinismo, perché tutto procede fatalmente dal Fuoco o dal Pneuma (dallo Spirito) o dal Logos. Questo determinismo ha reso possibile una disciplina chiamata “mantica”, cioè la predizione del futuro, che si basa sullo studio del modo in cui sono successe le cose del passato per prevedere ciò che dovrà essere nel futuro. Ma, per gli Stoici, Dio è anche Ragione e, quindi, la legge del Fato è contemporaneamente razionalità, ordine e quindi predisposizione in vista di un fine e di conseguenza il Dio degli Stoici è insieme Fato e Provvidenza, determinismo e finalismo. Leggiamo ancora il testo di un frammento attribuito a Crisippo di Soli: «Il mondo deriva da Dio e a Dio ritorna. Dopo un lungo periodo di tempo che chiamiamo il Grande Anno, quando gli astri ritornano in una determinata posizione, il mondo è distrutto da una grande conflagrazione (ecpirosi); poi di nuovo si riforma vivendo una nuova storia in tutto identica a quella precedente, si avrà cioè un ritorno, un rinnovamento, una palingenesi. La nostra anima, in quanto Ragione, è una scintilla del Logos, della Ragione divina e dopo la morte del corpo essa sopravvive nell’ambito del Grande Anno, ma è poi distrutta dalla conflagrazione (ecpirosi) che pone termine al Grande Anno stesso».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il termine “palingenesi” significa “rinnovamento”… Quale di queste parole – rinascita, risurrezione, cambiamento, trasformazione, rigenerazione, purificazione – mettereste per prima accanto alla parola “palingenesi”?…
Scrivetela facendo riferimento alla vostra esperienza…
E ora cerchiamo di capire – a grandi linee – il ruolo della terza disciplina (dopo la logica e la fisica) che contribuisce a dare forma al pensiero della Scuola del Portico: l’etica. L’etica, per la Scuola stoica, è la disciplina che insegna a vivere in modo virtuoso e la virtù, per gli Stoici, consiste nel «vivere secondo la natura» e anche nel «vivere secondo la ragione» e anche nel «vivere coerentemente con se stesse e con se stessi». Le tre formule che abbiamo citato (secondo Natura, secondo Ragione, secondo Coerenza) sostanzialmente si equivalgono in quanto la Natura è retta dalla Ragione divina di cui la nostra anima è come una scintilla (l’anima è “coerente” con la Ragione divina). Secondo la Scuola stoica è bene, è utile, ed è necessario riconoscere la legge fatale dell’Universo e adattarvisi.
La virtù – che è il tema dell’etica – presenta un aspetto positivo ed uno negativo. Leggiamo, in proposito, il testo di un frammento attribuito a Crisippo di Soli: «Il lato positivo della virtù è rappresentato dalla saggezza, dalla fortezza, dalla temperanza e dalla giustizia e chi possiede uno di questi valori li ha tutti, ma chi ne manca di uno ne manca di tutti, perché non esistono posizioni intermedie fra il saggio e il non-saggio, la persona o è saggia o è stolta».
Il lato negativo della virtù è quello più conosciuto e deriva direttamente dalla fisica: poiché Dio è Fato e Provvidenza, opporsi ai suoi voleri, ribellarsi o anche semplicemente reagire in qualche modo – secondo gli Stoici – è inutile e stolto. Leggiamo ancora il testo di un frammento attribuito a Crisippo di Soli: «Ciò che avviene è fatale ed è ciò che di meglio può avvenire. L’unico atteggiamento possibile del discepolo del Portico è l’apatia cioè l’assenza di passioni, l’impassibilità». Con il concetto dell’apatia (l’impassibilità) la Scuola stoica propone all’essere umano di liberarsi da ogni impulso sensibile e da ogni dipendenza dal mondo esteriore: gli avvenimenti del mondo esteriore devono essere accolti dalla persona saggia senza alcun turbamento perché la persona saggia è convinta a priori della bontà e della fatalità di quello che gli succede. Leggiamo ancora il testo di un frammento attribuito a Crisippo di Soli che contiene una delle celebri formule con cui la Scuola stoica sintetizza il suo pensiero: «Ascolta bene quel che ti dico: tu astieniti da tutto ciò che non è in tuo potere, non tendere a nessuna cosa sensibile, ma sostieni e sopporta tutto ciò che ti capita, appunto perché non dipendono da te e appunto perché razionali, gli avvenimenti esterni siano per te indifferenti».
Tuttavia, a queste affermazioni così risolute, la Scuola stoica ne fa seguire anche di più possibiliste e i pensatori stoici devono anche ammettere una distinzione fra le cose che hanno da essere “indifferenti”. Leggiamo, a proposito, ancora il testo di un frammento attribuito a Crisippo di Soli: «Vi saranno delle cose preferibili, come l’ingegno, la vita, la salute, la libertà, lo studio, e cose non desiderabili come l’ottusità, la malattia, la morte, la miseria, l’ignoranza, la schiavitù, e anche cose assolutamente indifferenti come l’avere in testa un numero di capelli pari o dispari. Ricorda comunque che l’unica cosa che per te assume valore è la virtù, in quanto questa non dipende dal mondo esterno, ma solo da noi stessi, solo della virtù noi siamo autori e responsabili».
Abbiamo già detto che il pensiero stoico non ammette mezze misure in fatto di coerenza nei confronti della virtù e allora leggiamo, ancora, che cosa scrive Crisippo di Soli in un celebre frammento a lui attribuito: «Può avvenire talvolta che le condizioni esterne, non dipendenti dalla persona saggia, rendano impossibile l’esercizio della virtù, non rimane allora alla persona saggia altro da fare che togliersi la vita. Infatti il corpo appartiene alla persona saggia la quale ha il diritto di disporre del proprio corpo nel modo più giusto che ci possa essere».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Una delle parole-chiave tipiche dello Stoicismo è il termine “impassibilità”… Quando, dove e di fronte a che cosa siete rimaste e siete rimasti impassibili…
Scrivete quattro righe in proposito…
Con questa escursione – fatta a grandi linee sul terreno delle tre discipline: la logica, la fisica e l’etica – abbiamo catalogato le parole-chiave e le idee-cardine che costituiscono il filo conduttore che ha tenuto unite (pur nella loro diversità di vedute, dovuta alle diverse epoche) le varie correnti del pensiero della Scuola della Stoà, del Portico. Questa nostra escursione si è svolta facendo riferimento ad un significativo paesaggio intellettuale – che abbiamo incontrato sulla nostra strada – costituito da uno dei frammenti più noti del pensiero stoico, uno di quei frammenti che si ripete e che viene tramandato da una corrente all’altra. Questo frammento, messo a nostra disposizione dal lavoro di ricerca di Hans von Arnim, lo abbiamo letto poco fa e adesso lo rileggiamo tanto per capire meglio il senso dell’escursione che abbiamo fatto nell’ambito delle tre discipline stoiche per eccellenza quanto per riprendere il cammino sul sentiero di questo itinerario che, come sappiamo ci porta verso un significativo “intreccio filologico” da dipanare.
LEGERE MULTUM….
Hans von Arnim, Frammenti degli stoici antichi (Volume secondo)
Secondo Crisippo di Soli: «Gli stoici dicono che la sapienza (sophìa) è una scienza di cose divine e umane, dicono che la filosofia è esercizio di un’arte conveniente, dicono che conveniente è soprattutto la virtù, e che vi sono tre virtù principali: una fisica, una etica, una logica, per cui anche la filosofia si divide in tre parti, la logica, la fisica e l’etica. Gli stoici dicono che la filosofia deve essere paragonata ad un frutteto, dove il muro di cinta è la logica, gli alberi sono la fisica e i frutti sono l’etica, ma la filosofia è anche come un viaggio ardimentoso alla ricerca delle meraviglie d’oltre Tule» …
Adesso dobbiamo puntare l’attenzione sull’ultima parte di questo frammento: «…ma la filosofia è anche come un viaggio ardimentoso alla ricerca delle meraviglie d’oltre Tule», e ci siamo chieste, ci siamo chiesti, già più di una volta, che cosa sia questa “ricerca delle meraviglie d’oltre Tule”. Sappiamo anche che le studiose e gli studiosi affermano che si tratta di un cavillo. Perché – ci siamo chieste, ci siamo chiesti – affermano che si tratta di un cavillo se il termine “cavillo” significa “sottigliezza, minuzia”? Parlano di cavillo dal punto di vista formale perché Crisippo ha già chiaramente messo in evidenza ciò che vuole dire e, in questo frammento, la frase finale non è altro che un rafforzativo di un concetto già espresso (in forma allegorica) sul tema dell’importanza della ricerca. Dal punto di vista del contenuto invece questo cavillo (il cavillo di Tule) assume dei tratti di carattere culturale molto significativi: sapete come vanno le cose, quasi sempre le studiose e gli studiosi, che sanno già tutto su un argomento, pensano che tutti sappiano già tutto e, in fin dei conti, nel mondo paludato della cultura, non si è mai preso in considerazione fino in fondo quello che diceva Socrate! E quindi, dal punto di vista del contenuto, il “cavillo di Tule” è, senza dubbio (secondo il gioco di parole di Achille Campanile), un “cavillo che galippa galippa” perché rimanda (ancora una volta) ad un interessante “intreccio filologico” da dipanare, ma noi non ci meravigliamo perché stiamo attraversando il territorio della “sapienza poetica ellenistica” dove gli “intrecci filologici” da dipanare sono all’ordine del giorno.
Il primo nodo da sciogliere corrisponde senz’altro alla domanda: che cos’è Tule? Tule (o Thule) è il nome di una misteriosa isola dell’estremo nord dove, al solstizio d’estate, il sole non tramonta e, questo fatto, nel IV secolo a.C., suscitava una certa curiosità e stimolava l’immaginazione. Tule è quindi l’estremo limite settentrionale del mondo – è possibile che abbiate sentito parlare di “ultima Tule” – e questo luogo geografico (e qui cominciano gli intrecci filologici) è stato citato per la prima volta da un grande navigatore greco dell’antichità, Pitèa di Marsiglia il quale scrive di aver incontrato l’isola di Tule a sei giorni di navigazione dalla Britannia (la Gran Bretagna). L’isola di Tule è stata, nel corso del tempo, identificata con terre diverse: le isole Shetland, l’Islanda o le isole Fær Øer, sta di fatto che Tule, fino al XVI secolo, è stata considerata una mitica terra nord-occidentale indicata sulle prime carte geografiche con il nome di Frisland.
Ma chi è Pitèa di Marsiglia che abbiamo citato or ora? Pitèa è nato e ha vissuto – quando non era in viaggio per mare – a Marsiglia nel IV secolo a.C.. Ci dobbiamo ricordare che Massalia è stata fondata dai Focesi nel VI secolo a.C. ed è stata colonizzata dai navigatori greci che con i loro traffici l’hanno fatta diventare una polis marittima ricca e potente. Pitèa di Marsiglia è stato un grande navigatore ed ha compiuto, intorno all’anno 325 a.C. (qualche anno dopo la morte di Alessandro Magno), il primo avventuroso viaggio a nord delle Colonne d’Ercole (dello Stretto di Gibilterra). Nel corso di questo viaggio ha attraversato la Manica, ha navigato lungo le coste della Cornovaglia e poi si è diretto verso nord lungo le coste occidentali della Britannia spingendosi fino al Mar Baltico. Su questo viaggio Pitèa ha scritto una relazione, un’opera della quale possediamo una serie di frammenti e che s’intitola Descrizione dell’oceano e periplo della terra. Il frammento più celebre di quest’opera è quello in cui menziona per la prima volta l’isola di Tule e parla del sole che non tramonta mai e che crea il fenomeno (allora misterioso e ricco di seduzione) della notte bianca, e Pitèa, a questo proposito, non ritenendo prudente continuare la sua navigazione verso nord (è una persona saggia), si pone un interrogativo che ha stimolato l’immaginario di tutte e di tutti coloro che hanno letto la sua opera: che cosa ci sarà oltre Tule? Noi sappiamo che dove non può arrivare l’osservazione diretta si fa strada, volando con le ali dell’immaginario, la leggenda, e il racconto meraviglioso e straordinario prende il posto della realtà. E difatti così è successo: sono stati creati, sono stati composti, a partire dal IV secolo a.C., molti racconti straordinari sul mondo che s’immaginava vi fosse oltre Tule. I meravigliosi racconti “sul mondo oltre Tule” hanno avuto un grande successo in età ellenistica tanto da diventare persino un modo di dire allegorico per magnificare l’esercizio della ricerca. E questo è, appunto, il caso che si presenta nelle ultime due righe del frammento di Crisippo di Soli che abbiamo letto, e che le studiose e gli studiosi considerano come un semplice cavillo: un’ovvia, persino banale, allegoria per invitare le persone alla ricerca della virtù.
Però in un Percorso (come il nostro) di didattica della lettura e della scrittura è necessario domandarsi: se una lettrice e un lettore non sanno che cosa sia Tule e che cosa rappresenti, come possono capire e dare un senso a quello che leggono? E allora è necessario parlarne e studiare! Parliamone dicendo una cosa interessante sul piano dell’alfabetizzazione funzionale (che è quello che ci riguarda) e che ci permette di destreggiarci nel dipanare gli “intrecci filologici”: ebbene dobbiamo dire che, ad un certo punto, anche se non si sa bene quando, i meravigliosi racconti “sul mondo oltre Tule” sono diventati dei testi scritti. Sapete tutte e sapete tutti che ci stiamo occupando della nascita del genere letterario del “romanzo” che avviene proprio in età ellenistica e abbiamo già studiato, due itinerari fa, quello che viene considerato il primo esempio di questo genere letterario: Il romanzo di Nino [o di Semiramide], ricordate? Ebbene, “I meravigliosi racconti sul mondo al di là di Tule” costituiscono la materia di un altro esempio significativo di romanzo degli albori.
Difatti conosciamo il titolo di un testo, che aveva la forma di un romanzo, su cui dobbiamo puntare la nostra attenzione. Questo romanzo s’intitola Meraviglie al di là di Tule ed era formato da 24 libri (o 24 lunghi capitoli), diciamo “era formato” perché, purtroppo, il testo originale di quest’opera è andato perduto: ne rimangono dei frammenti (come spesso succede) disseminati in altre opere. Sappiamo che questo romanzo è stato composto da uno scrittore che si chiama Antonio Diogene, il quale, probabilmente (dicono le studiose e gli studiosi di filologia), nel I secolo a.C., ha riunito insieme, in un vasto racconto scritto, molte storie della tradizione orale sul tema delle “meraviglie del mondo oltre Tule”. Noi conosciamo l’esistenza e il contenuto di questo romanzo degli albori per merito di un’opera provvidenziale: e allora cominciamo a dipanare questo “intreccio filologico” che noi abbiamo chiamato del “cavillo di Tule”.
Ciò che narra il romanzo intitolato Meraviglie al di là di Tule – scritto probabilmente nel I secolo a.C. da Antonio Diogene – si può leggere in un riassunto che si trova in un’opera molto importante e che si chiama Biblioteca di Fòzio. E quindi continuiamo, pazientemente, a dipanare questo “intreccio filologico”. Il vasto testo del volume che s’intitola Biblioteca è opera di un intellettuale di cultura bizantina – vissuto nel periodo dell’alto medioevo – che si chiama Fòzio (820 circa-891) il quale è celebre soprattutto per essere stato il patriarca di Costantinopoli, il massimo rappresentante della Chiesa greca d’Oriente.
In questo momento storico (apriamo una parentesi facendo una rapida escursione in territorio alto-medievale per inquadrare la figura di Fòzio di Costantinopoli), nel IX secolo, nella cristianità ci sono due centri principali e questa situazione dipende dall’avvenuta divisione (qualche secolo prima) dell’Impero romano in due Stati, quello d’Occidente e quello d’Oriente. Quindi, nell’alto medioevo al tempo di Fòzio, c’è la Chiesa di Roma chiamata anche la Chiesa latina d’Occidente che si trova all’interno del Sacro romano impero (ricostituito da Carlo Magno nell’anno 800 con la benedizione del papa) e c’è la Chiesa di Costantinopoli, la Chiesa greca che si trova sotto l’ala dell’Impero romano d’Oriente. Quindi sulla scena dell’alto medioevo troviamo due visioni differenziate del Cristianesimo: quello della Chiesa latina occidentale di Roma, e quello della Chiesa greca orientale di Costantinopoli e i rapporti tra il papa di Roma e il patriarca di Costantinopoli non sono facili, ma questo è un argomento che si trova su un territorio che attraverseremo in futuro (se avremo un futuro!).
Fòzio è noto soprattutto come teologo ed è stato proclamato “santo” della Chiesa orientale e la sua festa si celebra il 6 febbraio. Fòzio è nato in una famiglia aristocratica, da giovane ha ricevuto una buona formazione culturale e ha poi seguito la carriera diplomatica per conto dell’Impero bizantino, dell’Impero romano d’Oriente. Nell’anno 863, da laico (perché non era un prete e riceve gli ordini religiosi in fretta e furia), viene eletto patriarca di Costantinopoli ma la Chiesa di Roma (che pretende di avere un potere decisionale su tutta la cristianità) non riconosce la sua elezione e il papa Niccolò I scomunica Fòzio, e questo è il primo grave dissidio tra la Chiesa latina e quella greca: tra loro c’era (e c’è ancora) una diversità di vedute e una diversa interpretazione sul ruolo delle persone delle Santissima Trinità. La dottrina della Chiesa di Roma mette al centro della storia della salvezza la figura del Figlio, la dottrina della Chiesa di Costantinopoli mette in primo piano la figura dello Spirito Santo.
Qual è il tema (o il problema) che, nel IX secolo, determina il fatto che si acuisca ancora di più il dissidio tra le due Chiese? Il contrasto tra la Chiesa latina d’Occidente e la Chiesa greca d’Oriente (questo è un tema che adesso possiamo solo sfiorare) si concentra su una questione di potere: tanto Roma quanto Costantinopoli volevano dirigere l’opera di evangelizzazione delle popolazioni slave che si stavano convertendo al Cristianesimo. Da una parte c’erano Cirillo e Metodio che predicavano in nome della Chiesa latina mettendo in primo piano la persona trinitaria del Figlio, dall’altra parte c’era Fòzio che operava in nome della Chiesa greca e annunciava la salvezza mediante la persona dello Spirito Santo. Quando il papa Niccolò I scomunica Fòzio (per indebolire la sua autorità di evangelizzatore delle popolazioni slave), scomunica che viene rinnovata anche dal papa successivo Adriano II, Fòzio viene difeso dal Sinodo e dal popolo della Chiesa greca e quindi non rinuncia al suo incarico di patriarca finché l’imperatore bizantino Basilio il Macedone – che vuole tenere buoni rapporti con la Chiesa di Roma perché non instauri una relazione troppo stretta coi monarchi del Sacro Romano Impero –rimuove Fòzio dal suo incarico e lo manda in esilio. Il papa seguente, Giovanni VIII, riabilita Fòzio che torna al suo posto di patriarca, ma poi ci ripensa e lo condanna nuovamente nell’881 e, infine, Fòzio è costretto dall’imperatore bizantino Leone VI a dimettersi definitivamente nell’886. Da quel momento Fòzio si ritira dalla vita pubblica e diventa un intellettuale a tempo pieno e scrive numerose opere dottrinarie, polemiche, teologiche e lessicali.
La sua opera che viene considerata la più significativa di tutte è quella che porta il titolo di Biblioteca. Nella sua Biblioteca Fòzio espone e riassume ben 279 opere letterarie scritte in greco di cui si sarebbero, inesorabilmente, perse le tracce. Della maggior parte di queste opere non abbiamo altra conoscenza se non attraverso gli estratti e i compendi di Fòzio e noi non avremmo mai potuto conoscerne l’esistenza. La Biblioteca di Fòzio è un importantissimo strumento di documentazione su testi che sarebbero andati completamente perduti se questo dotto intellettuale bizantino non avesse conosciuto e trascritto il riassunto di queste opere del passato i cui testi si sono persi per sempre.
Tra le 279 opere elencate e compendiate da Fòzio c’è, appunto, anche il riassunto del romanzo intitolato Meraviglie al di là di Tule scritto da Antonio Diogene. E questo riassunto – grazie alla Biblioteca di Fòzio – abbiamo la fortuna di poterlo leggere; e allora leggiamolo:
LEGERE MULTUM….
Fòzio di Costantinopoli, Biblioteca
MERAVIGLIE AL DI LÀ DI TULE DI ANTONIO DIOGENE
Un certo Dinia di Tiro lascia la sua patria per desiderio di avventure e arriva, dopo un lungo viaggio oltre le Colonne d’Ercole, navigando per molti giorni verso il nord, a lambire la terra dell’isola che il prode Pitèa di Massilia aveva chiamato estrema Tule.
Dinia viaggia in compagnia di suo figlio Democare e molte sono le avventure in cui s’impiglia e molto intricate sono le vicende da narrare, in parte amorose, in parte magiche.
Dinia e Democare, nell’estrema Tule, vengono accolti da un perfido sacerdote egiziano che li ospita nella sua fredda dimora. L’infido personaggio possiede una cassetta magica dalla quale mai si separa e che contiene gli ingredienti per fabbricare crudeli sortilegi.
Gli alberi nell’estrema Tule sono rinsecchiti per l’inclemente clima e si sviluppano soprattutto in radici che emergono dalla terra gelata e, a volte, assumono le forme di figure umane e allora il sacerdote con le sue magiche pozioni riesce a dar magicamente vita a fiabeschi personaggi istruiti al maleficio.
Trasforma una radice di mandragola in un folletto e lo presenta ai suoi ospiti stupiti, e il minuscolo omuncolo, con fare suadente, insinua nei due curiosi viaggiatori una sete insaziabile di potere e di conquiste e perciò in loro nasce l’ardente desiderio di varcare il mai violato confine e d’inoltrarsi nel mondo d’oltre Tule.
Appena entrati nel misterioso territorio Dinia e Democare vengono avvistati dalla sentinella che sorveglia la frontiera d’oltre Tule: è un guerriero di ghiaccio già morto in battaglia ma che, per magia, continua a vivere il quale allerta col suono del corno il guardiano del mondo d’oltre Tule. Colei che veglia sull’estrema Tule è una feroce Orsa, candida e mai sazia, la quale aspetta al varco i poco prudenti esploratori e già li sbranerebbe se i due navigatori non fossero stati subito avvistati dalla più autorevole abitante d’oltre Tule, la Sacerdotessa della Bianca Notte la quale rimane assai colpita dalle nobili fattezze e dall’attraente calore che emanano le ben proporzionate membra del giovane Democare da cui si sente attratta ma teme di essere respinta per il suo glaciale aspetto assai spettrale.
La Sacerdotessa della Bianca Notte con i suoi poteri magici ipnotizza l’Orsa feroce e la trasforma con le fattezze di una bellissima fanciulla e, dopo aver preparato e bevuto un prodigioso filtro che la riduce in spirito, può insinuarsi nel corpo della creatura che così appare attraente ma mostruosa: in parte bambola bellissima, in parte maga ambigua, in parte orsa feroce.
Democare quando incontra questo essere fatato che ha la seduzione nel corpo, la magia nell’anima e la ferocia nel cuore, si allontana dal padre e lo abbandona. Democare segue incantato Bianca Notte e lei lo conduce nel suo nido boreale e si scioglie tra le braccia del giovane ardente il cui corpo è intriso del sole di Fenicia.
La Sacerdotessa della Bianca Notte vuole concepire un figlio che spezzi la sua solitudine glaciale e possa diventare il Re del mondo d’oltre Tule, e quando nell’erotico amplesso sente d’essere stata fecondata, tutti gli incantesimi perdono la loro efficacia e il vero volto della maga, protetta dal candido pelo della feroce Orsa che la sovrasta, appare in tutto il suo mostruoso aspetto. Democare fugge sbigottito, passando dal piacere al terrore in un momento, e si perde nelle terre ignote mentre Dinia lo cerca disperato finché lo ritrova smarrito ed atterrito. E mentre padre e figlio si abbracciano piangendo, miracolosamente si ritrovano sulla darsena del porto di Tiro dove potranno raccontare a tutti le straordinarie meraviglie del mondo d’oltre Tule. …
Il racconto di Antonio Diogene, riassunto con grande efficacia da Fòzio per la sua Biblioteca, ha le caratteristiche dei romanzi erotico-avventurosi che si diffondono in età ellenistica e, strada facendo, incontreremo altri esempi di romanzi degli albori per conoscere gli elementi che contengono. Il riassunto di Fòzio ha conservato una serie di elementi leggendari e di connotati mitici che in seguito – senza neppure tirare più in ballo l’estrema Tule – si sono diffusi e sono stati utilizzati a più riprese nella produzione letteraria perché sono entrati nella grande tradizione allegorica euro-asiatica e poi mitteleuropea (per fare un esempio facilmente riconoscibile, ricordiamo che nel romanzo sulle Meraviglie d’oltre Tule troviamo una “Bianca Notte” con un folletto, con “un nano” un po’ malefico, e questi elementi narrativi fanno da modello alla “Bianca Neve” e ai “sette nani”, diventati buoni, del racconto fiabesco che, come possiamo constatare, ha le sue radici nella sapienza poetica ellenistica).
E ora – in funzione della didattica della lettura e della scrittura e anche per continuare a dipanare questo “intreccio filologico” – facciamo un altro esempio significativo. Nella fase iniziale del nostro itinerario abbiamo incontrato lo studioso tedesco Hans von Arnim che ha composto l’opera intitolata Frammenti degli stoici antichi che ci ha fornito il testo di un brano da cui è partita la nostra esercitazione per dipanare l’intreccio filologico del “cavillo di Tule”, e ora questo esercizio si conclude con l’incontro di un omonimo di Hans von Arnim. Difatti stiamo per incontrare uno scrittore – nato 78 anni prima di Hans von Arnim – che si chiama Ludwig Achim von Arnim (1781-1831). Chi è Ludwig Achim von Arnim e perché lo dobbiamo incontrare? Ludwig Achim von Arnim (forse qualcuna e qualcuno di voi se ne ricorda, ma ogni tanto è necessario rinfrescare la memoria) lo abbiamo già incontrato, qualche tempo fa, nel territorio del Romanticismo titanico sul quale abbiamo viaggiato negli anni 2004-2005.
Ludwig Achim von Arnim è nato a Berlino ed è un poeta, un romanziere, un novellista e un drammaturgo che ha contribuito ad arricchire la cultura del Romanticismo. L’opera più importante che gli viene attribuita è il famoso volume intitolato Il corno magico del fanciullo cioè la raccolta e la rielaborazione dei più suggestivi canti popolari (poesie, ballate) della tradizione germanica: questa antologia è stata definita «uno dei più alti e puri risultati della lirica del romanticismo tedesco» e Achim von Arnim l’ha composta, tra il 1806 e il 1808, insieme all’amico e cognato Clemens von Brentano, altro illustre scrittore ed esponente del Romanticismo titanico. Achim von Arnim ha sposato la sorella di Clemens von Brentano, la scrittrice Bettina Brentano la quale, tra le altre cose, è autrice di un celebre testo, pubblicato nel 1835, intitolato Carteggio di Goethe con una bimba.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Bettina Brentano è un personaggio interessante sul quale – visto che capita sul nostro itinerario in compagnia di Johann Wolfgang Goethe (che è coinvolto in questo intreccio) – vale la pena fare una piccola ricerca su di lei utilizzando l’enciclopedia, la rete e magari anche leggendo (lo trovate in biblioteca) la parte seconda (una ventina di pagine) del romanzo intitolato L’immortalità (1990) dello scrittore Milan Kundera, buona ricerca e buona lettura…
Ludwig Achim von Arnim, nel primo trentennio dell’Ottocento, ha composto cinque significativi romanzi: per giudizio unanime il suo capolavoro viene considerato il racconto intitolato Isabella d’Egitto ossia Il primo amore dell’imperatore Carlo V, pubblicato nel 1819 ed è proprio il testo di questo romanzo che c’interessa nell’esercizio di dipanare l’intreccio filologico del “cavillo di Tule”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Cercate in biblioteca questo romanzo e leggetene anche solo qualche pagina…
Per quale motivo c’interessa questo romanzo intitolato Isabella d’Egitto ossia Il primo amore dell’imperatore Carlo V di Ludwig Achim von Arnim? Questo racconto è un ininterrotto susseguirsi di quadri storici (l’imperatore Carlo V vive nella prima metà del 1500) e di riti magici descritti con un attento realismo e avvolti in un affascinante alone fiabesco. Questo romanzo narra la storia dell’amore giovanile dell’imperatore Carlo V per Isabella principessa del popolo degli zingari. Questo tema centrale s’intreccia con tutta una serie di vicende che derivano dalla tradizione fantastica popolare e sulle quali dobbiamo puntare l’attenzione: Achim von Arnim è un grande conoscitore dei racconti fiabeschi, intrisi di magia, della tradizione popolare.
Senza raccontare la trama del romanzo – ricco di colpi di scena – diciamo che la protagonista Isabella, principessa del popolo degli zingari, possiede poteri straordinari e dà vita, secondo un minuzioso rituale magico, ad un omuncolo, un nano, facendolo nascere da una radice di mandragola (questo elemento ci fa venire in mente qualcosa). Questo nano petulante e bellicoso si chiama Cornelius Nepos e possiede, a sua volta, dei poteri speciali che usa più a fin di male che a fin di bene. Tra i personaggi del racconto, oltre alla vecchia nutrice Braka, un po’ strega (che non manca mai), ne troviamo altri di semifiabeschi: uno si chiama Pelle d’Orso e l’altro è un lanzichenecco defunto che continua a fare il guerriero e il servitore anche se è già morto: questi elementi li riconosciamo come provenienti dal testo delle Meraviglie al di là di Tule scritto da Antonio Diogene e riassunto da Fòzio di Costantinopoli nella sua Biblioteca. Ma le affinità tra il contenuto del romanzo di Achim von Arnim e il testo delle Meraviglie al di là di Tule non sono finite qui: Isabella dà vita al nano Cornelius dalla radice di mandragola per poter avvicinare Carlo V il quale ha bisogno delle capacità di questo folletto fatato perché è capace di procurare continuamente tesori e ricchezze. Proprio come la Sacerdotessa della Bianca Notte del mondo d’oltre Tule, Isabella vuole avere un figlio da Carlo V: vuole partorire un re, un re che, secondo la profezia, dovrà ricondurre il popolo degli zingari nella sua patria sulle sponde del Nilo in modo che possa riconquistare la sua libertà. Isabella però rimane davvero sedotta dal fascino di Carlo e anche Carlo s’innamora sinceramente di lei ma la storia d’amore si complica perché compare magicamente una Golena, una bambola meccanica che si presenta come il sosia di Isabella, e anche questo elemento rimanda ai racconti creati intorno al fantastico mondo d’oltre Tule che poi – come ci stiamo rendendo conto – sono entrati nella tradizione popolare mitteleuropea e nei testi di fiabe e di romanzi.
E ora, dopo aver capito come si dipana l’intreccio filologico del “cavillo di Tule” dall’età ellenistica fino al Romanticismo ottocentesco, leggiamo (per concludere) due pagine nelle quali si narra di come Carlo V crede di essersi innamorato di uno spettro, mentre in realtà siamo nel bel mezzo di una strategia che serve per contrastare uno spettro.
LEGERE MULTUM….
Achim von Arnim, Isabella d’Egitto
Nella stanza abbandonata veniva avanti Carlo, il futuro signore di un mondo in cui il sole non tramontava, ancora nella prima freschezza della sua compiuta fioritura. Isabella poté vederlo distintamente da un bucolino segreto della porta, né le parve di aver visto mai altri come lui: essa non conosceva che bruni zingari, baldanzosi e arroganti: egli invece incedeva con tale dignità e appariva così mite nel suo aspetto vigoroso, ch’ella intuì non poter esser che lui il futuro monarca, ancor prima che il suo compagno lo chiamasse principe. Isabella fu rapita dall’alterezza con cui egli respinse Cenrio, che voleva fargli ritirare la scommessa insistendo che bastava la sua presenza lì per garantire che intendeva veramente portar la cosa a fondo. Il principe con gesto rapido gettò sul tavolo il berretto di velluto nero, stese sul letto il mantello e ordinò a Cenrio di far montare la guardia nelle vicinanze della casa e di lasciargli in stanza un paio di candele accese, poiché si sentiva stanco. Cenrio gli raccomandò di non dimenticare il segnale con la pistola, nel caso avesse avuto bisogno di qualcuno: se poi la pistola dovesse fallire - e ne guardò il meccanismo - sarebbe bastato che chiamasse: un soldato sarebbe rimasto sotto la finestra e lui stesso avrebbe fatto la guardia nelle vicinanze. Il principe gli rispose che poteva ben risparmiarsi tutte quelle guardie: con la corazza, armato di una buona spada, era difficile che qualcuno potesse fargli del male, e le fiabe di spettri delle bàlie ormai non lo spaventavano più.
Il principe si sdraiò nel letto, il sonno scendeva su di lui, e poiché il letto stava di fronte alla cameretta, Isabella poteva vederlo chiaramente e non si saziava di rimirarlo; la nutrice aveva già il suo piano. Davanti al letto del principe c’erano per terra la sciabola e la sua pistola, Isabella doveva andarsele a prendere e poi far finta di essere lo spettro e stendersi nel letto accanto a lui; la nutrice ce la mise tutta per persuadere la fanciulla a togliersi calze e scarpe per camminare pian piano, e poi il vestito per non avere nessun intralcio, e a forza la sospinse fuori della porta, che doveva lasciare socchiusa per assicurarle la ritirata. Allora Isabella, contenta di poter guardare il principe più da vicino, non stette a indagare troppo se il piano della nutrice fosse ben studiato. Con grande precauzione si accostò al letto del principe che dormiva profondamente e le sarebbe stato facile portar via le armi. Isabella, secondo l’usanza degli zingari, invece che nella camicia era avvolta in un lino azzurro, stretto in vita da una cintura dorata: con un senso di timidezza tese verso il principe le braccia tonde e lucenti, mentre i passi leggeri e aggraziati dei suoi piedi ben fatti la portarono sin dove la sua bocca non si poté più trattenere e si accostò alle labbra di Carlo. Il principe fu destato dal bacio e fu assalito dai mille fantasmi del suo sogno, come se addosso gli fossero piombate tante palle infuocate, balzò su con grande impeto e senza respiro si precipitò gridando nella stanza accanto: pistola, sciabola, tutto aveva dimenticato, tanto grande è lo spavento che sta nel profondo dell’essere umano, anche il più coraggioso, dinnanzi al mondo arcano che non si piega alle nostre esperienze. E il terrore del principe spaventò tanto Isabella che, senza parole e senza volontà, si abbandonò alla vecchia nutrice che, dalla porticina nascosta nella parete, rapida la tirò dentro la stanza contigua. Di lì a poco, il principe ricomparve con Cenrio e alcuni soldati che, a dire il vero, avevano più voglia di restar fuori che di avventurarsi là dentro. Chi non ha provato qualcosa di simile non ci crederà: ma uno spettro è capace di mettere in fuga un’intera armata, perché quel che fa paura a un uomo coraggioso, mette in genere paura a tutti. Era Carlo a dare prova di maggior coraggio. Ad alta voce egli assicurò: - per quanto terribili fossero le serpi nere della testa, non ho mai visto un viso più incantevole, di una grandezza mostruosa, sì, ma di belle proporzioni, e in mezzo al petto aveva una fibbia luminosa. Ora non c’è più nulla. In nome della Madre di Dio, fate lume sotto il letto, se nessuno ha coraggio, vengo io. Nulla nemmeno qui, e allora, Cenrio, vuol dire che si trattava proprio di uno spettro, e io mi sono giocata con voi la mia sciabola turca! Sapessi almeno quel che voleva quel caro fantasma! Ora voglio proprio restare qui! Ecco, non vi pare ch’io abbia le labbra bruciate? Vi giuro che mi ha baciato, e il cuore mi è andato in estasi! Cenrio, adesso rimango qui. Voglio vedere cosa lo spettro pretende da me. Cenrio giurò che, dopo quello spavento, non poteva per la sua salute consentire al principe di restare ancora, e lo stesso principe non si fece pregare a lungo per desistere da una tal dura prova di coraggio. Né se ne vergognava, poiché tutti gli altri si guardavano in giro, pallidi e spaventati, trasalendo a ogni minimo rumore, e per di più gli restava così la possibilità di rientrare in casa, senza che Adriano (Adriano di Utrecht, maestro di Carlo, più tardi Papa col nome di Adriano VI), sprofondato nei suoi libri, si accorgesse di nulla.
La nutrice non rimase troppo soddisfatta dell’esito del suo piano, ma seppe tirarne fuori tutto l’utile possibile, assicurando ai suoi l’uso della casa, e gli ospiti avevano appena abbandonata in fretta la stanza, che essa si mise a saltare in giro come una pazza, sbattendo porte e rovesciando tavole, per cui i fuggitivi, muti dallo spavento, inforcarono i cavalli, e senza voltarsi indietro galopparono alla volta della città, dove i loro racconti confermarono per sempre la fama della presenza di spettri in quella casa. In quella stessa notte il principe scontò con una grossa febbre la sua impresa.
La seducente testa di Isabella gli ondeggiava dinanzi, la febbre gliela lasciava intravedere nitidissima, mostrandogli una falsa verità, e al mattino di poi, sconsolato, confessò ad Adriano di essere innamorato di uno spettro. Preziosa occasione per costui - cui l’imperatore Massimiliano (Massimiliano d’Asburgo, nonno paterno di Carlo) aveva affidato l’incarico di insegnare il latino al nipote - per assegnargli in penitenza una gran quantità di vocaboli latini che servirono al principe, con un certo successo, contro gli incubi della notte. Più duramente, la povera Isabella doveva scontare nella solitudine la sua prima passione. Dopo essersi contentata per un paio di giorni di pensare a lui, invece di dormire, e di spiare la notte da ogni parte se il principe tornasse a visitare la casa degli spettri, e dopo che la nutrice Braka l’ebbe seriamente rimproverata di perdere i suoi giorni più belli dietro così sciocchi pensieri, che innanzi tempo la facevano impallidire, si decise a domandare a Braka se vi fosse qualche mezzo per rendersi invisibili e andare in giro per la città. La nutrice sorrise e le rispose: - Non ne so altri che quello di aver molto denaro, allora si può andare dove si vuole, questa è la vera chiave di tutto, la vera molla che fa scattare tutte le porte. Può darsi che tuo padre conoscesse anche altre arti, ma se non si trovano scritte nei suoi libri, sono andate perdute! …
Per conoscere tutta la storia di Carlo e di Isabella, e per sapere come va a finire, bisogna leggerlo per intero questo romanzo!
L’intreccio filologico che riguarda il “cavillo di Tule” – e meno male che si tratta di un cavillo! – lo abbiamo dipanato solo in parte. Ma gli “intrecci filologici” sono una ricchezza che ci ha lasciato in eredità la sapienza poetica ellenistica e, in questo caso, la Scuola della Stoà.
Ebbene l’intreccio filologico che riguarda il “cavillo di Tule” non è ancora del tutto dipanato perché su questa strada si incontra anche Il Re di Tule e, nel prossimo itinerario – prima di tornare sotto il Portico della Scuola stoica – lo incontreremo incontrare Il (già evocato) Re di Tule. Chi è Il Re di Tule [o di Thule], chi lo evoca e quale messaggio ha da comunicarci?
Per rispondere a questi interrogativi la Scuola è qui, ma soprattutto (e lo pensava anche Bettina Brentano mentre scriveva a Goethe) la Scuola è qui perché ogni persona ha diritto all’Apprendimento permanente, perché ogni persona ha il dovere di investire in intelligenza…