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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È LA FIGURA TEATRALE DEL “DYSKOLOS”...

Lezione N.: 
14

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica  2010   27-28-29  gennaio  2010

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA

C’È  LA FIGURA TEATRALE DEL DYSKOLOS...

     Siamo ad Atene alla fine del IV secolo a.C. e in queste ultime due settimane siamo state e siamo stati ospiti del Giardino (o dell’Orto, che dir si voglia) di Epicuro e abbiamo imparato a riconoscere quali sono le parole-chiave che costituiscono la struttura del pensiero di questo significativo personaggio a cominciare dalla parola philìa (l’amicizia), che è il concetto intorno a cui ruota tutta la riflessione di Epicuro, e poi dalla parola edoné (il piacere) intesa come assenza del dolore. Epicuro ci ha fatto poi prendere contatto con altri termini che erano già stati pronunciati nella Storia del Pensiero Umano (durante l’Età assiale) e ai quali lui ha saputo dare un efficace valore etico: come la parola aponìa (l’attenuazione del dolore fisico), e la parola ataraxìa (senza turbamento dello spirito), e la parola autàrcheia (l’autosufficienza), e poi ancora la parola eunomìa (la sobrietà) e la parola frònesis (la prudenza). Ebbene, il dizionario di Epicuro corrisponde alla proposta di uno stile di vita e questa proposta ha avuto successo non solo per tutto il lungo periodo dell’Ellenismo ma anche oltre: è passata sotto traccia attraverso il Medioevo e poi, in modo più manifesto, nel Rinascimento e nell’età moderna.

     Per che cosa si distingue in particolare lo stile di vita che Epicuro propone alle frequentanti e ai frequentanti del suo Giardino (o del suo Orto)? Epicuro propone uno stile di vita di carattere comunitario e nei confronti delle Scuole filosofiche precedenti quella di Epicuro rappresenta una singolare novità. Noi sappiamo che l’Accademia di Platone, almeno finché è stato vivo il maestro, intendeva educare i discepoli alla politica e, anche se le donne non erano escluse, aveva certamente una struttura chiusa e l’amicizia, che viene coltivata dai membri dell’Accademia, è intesa come mezzo di sostegno reciproco in funzione dello studio e dell’acquisizione della sapienza. Il Giardino di Epicuro, invece, – come sappiamo – è aperto agli schiavi e alle donne, e non solo alle spose dedite alla famiglia ma anche alle etère perché non si dedicano a fare spettacolo ma a produrre e a far produrre cultura. Sappiamo che alla etèra Leonzio è stata affidata anche la presidenza temporanea della Scuola, con grande scandalo dei benpensanti.

     Inoltre l’amicizia, nel Giardino di Epicuro, viene coltivata come un fine valido di per sé stesso. L’amicizia (la philìa) non serve solo come intermediaria verso la sapienza ma è qualcosa di più della sapienza stessa: «La persona onesta – scrive Epicuro – coltiva soprattutto sapienza e amicizia, con ciò coltiva un bene immortale e uno mortale». L’acquisto dell’amicizia è «il bene più grande» ed è «desiderabile di per sé, anche se ha avuto il suo inizio dall’utile».

     Il Giardino di Epicuro si fonda sul principio della reciproca solidarietà morale e materiale delle persone che lo frequentano e questo principio si esercita soprattutto nei momenti di più stringente necessità. Il mantenimento dei discepoli è a carico della Scuola ed Epicuro invita le amiche e gli amici ad auto-tassarsi per una certa quota in base al reddito che ciascuna e ciascuno ha: chi più possiede può e deve offrire un aiuto più generoso. «Il saggio – scrive Epicuro – non soffre di più se è messo alla tortura che se è messo alla tortura un amico, e saprà morire per lui, e se mai tradisse l’amico, la sua vita per questa infedeltà sarà sovvertita e sconvolta». Nel Giardino di Epicuro si affina quindi la pratica del cosiddetto mutuo soccorso e con questa concezione gioiosa e rassicurante la Scuola epicurea offre un tipo di stile di vita simile a quello che si svilupperà, qualche secolo dopo, nelle comunità cristiane.

     Epicuro – e anche Metrodòro di Làmpsaco (che è il discepolo a cui Epicuro è più affezionato e che morirà nel 277 a.C., quindi sette anni prima di lui) – viene descritto nelle vesti di sollecito e attento direttore spirituale. Mentre Epicuro è ancora in vita vengono istituite delle feste in suo onore (e lui vuole che siano anche in onore di Metrodòro di Làmpsaco) e così ha inizio e si sviluppa un culto di Epicuro – e dei primi Epicurei – che si rafforzerà nei secoli successivi.

     Per lo stile di vita che ha condotto, per il carattere dogmatico della sua dottrina, per la sua immutabile fermezza di fronte a molte difficoltà, Epicuro è stato visto dai suoi discepoli come un essere superiore, come se fosse qualcosa di più di un uomo. A questo ha contribuito anche il modo con cui ha affrontato la morte: Epicuro è morto sofferente di calcoli renali a settantuno anni. E in quest’ora suprema ha voluto essere circondato da tutte le sue amiche e da tutti i suoi amici: Ermippo racconta che prima di morire è entrato in una tinozza di bronzo, piena di acqua calda, dove si è messo a bere del vino dopo averne offerto a tutti e a chiacchierare, finché non è sopraggiunta la morte. E a un discepolo lontano di nome Ermarco scrive un biglietto molto sobrio che dà la misura della sua personalità e della sua profonda umanità, che dice: «Ti scrivo mentre sto vivendo il felice ultimo giorno della mia vita. Mi sono sopravvenuti dolori tali alla vescica e alle viscere che non ce ne possono essere di maggiori, ma a tutti questi dolori resiste e fa da contrasto la serenità dell’anima, nel ricordo dei nostri ragionamenti filosofici di un tempo. Tu ora, come si conviene a quella buona disposizione verso di me e verso la filosofia che hai avuto fin da fanciullo, abbi cura dei figli (degli orfani) di Metrodòro».

     Mentre l’Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele non hanno mai conosciuto forme di culto nei confronti del loro fondatore, la figura di Epicuro viene considerata come quella di un salvatore [epi, che sta di sopra, kurios, il potere costituito: epi-kurion, che sta al di sopra del potere costituito] che ha dissipato le nebbie delle superstizioni e ha liberato le persone dal dolore, come appunto canterà – nel periodo del secondo Ellenismo – il poeta-filosofo latino Tito Lucrezio Caro (98 a.C.-55 a.C. circa) nella sua significativa opera intitolata De rerum natura (che incontreremo strada facendo).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Delle parole-chiave del dizionario di Epicuro - “philìa” (l’amicizia), “edoné” (il piacere), “aponìa” (l’attenuazione del dolore fisico), “ataraxìa” (l’assenza di turbamento nello spirito), “autàrcheia” (l’autosufficienza), “eunomìa” (la sobrietà), “frònesis” (la prudenza) - quale di queste parole mettereste per prima in un eventuale catalogo? 

Scrivetela…

     Epicuro in ogni epoca continuerà a scandalizzare e ad attirare su di sé l’attenzione. Che cosa scandalizza ed attira in Epicuro? Intanto sconcerta la serenità della sua vita e soprattutto la semplicità – quella che è stata definita la dirompente semplicità– del suo pensiero. Questa semplicità di pensiero (e non si tratta di superficialità) è stata considerata da molti addirittura un po’ offensiva e contemporaneamente anche attraente perché, in effetti, il pensiero di Epicuro fa piazza pulita, senza tante ipocrisie, delle tante inutili paranoie che gli esseri umani si creano, e questo è ancor oggi un motivo di grande attualità.

     L’epoca del primo Ellenismo, in cui Epicuro è vissuto, è un periodo – e lo sappiamo lo abbiamo già detto molte volte – di crisi: politica, sociale, economica, esistenziale. Ebbene secondo  Emile Cioran (1911-1995) – lo scrittore francese di origine rumene che ha sviluppato nei suoi libri (come Squartamento e Tentazione di esistere) una lucida filosofia improntata ad un pessimismo radicale – Epicuro è come lo psicanalista di un’epoca confusa e raffinata, è il denunciatore di un profondo disagio della civiltà. Difatti con Epicuro il tema della felicità passa in primo piano rispetto a quello della conoscenza (bisogna conoscere, prima di tutto, per essere felici e poi anche per essere sapienti) e secondo Epicuro è meglio tenere una certa distanza dagli argomenti che sconcertano (che confondono le idee) per avvicinarsi a temi che possano consolare, che possano avere una funzione terapeutica. L’obiettivo che si propone la Scuola di Epicuro è quello di «guarire» la persona nell’anima perché possa guarire anche nel corpo.

     Dai dati che emergono dai testi dei suoi biografi (a cominciare da Diogene Laerzio) si capisce che Epicuro elabora un pensiero partendo da una esperienza personale, difatti Epicuro è un malato: soffre di una lunga serie di disturbi, vomita due volte al giorno, è quindi chiaro che, in simili condizioni, rifletta sui mezzi dell’ataraxìa (dell’imperturbabilità) per cercare di attenuare il dolore e trovare la quiete.

     Il fatto significativo è che Epicuro vuole raggiungere questo obiettivo attraverso l’uso della ragione, con un esercizio di carattere intellettuale. Con la ragione (ed è quindi necessario imparare ad utilizzarla per il meglio) – afferma Epicuro – possiamo cogliere i principi che stanno oltre il fenomeno fisico e trasformare la visione sensoriale in una visione mentale. Quindi per Epicuro l’intelletto ha un compito ontologico: ci fa comprendere il senso (l’essenza) della vita per cui possiamo fare a meno di ricorrere agli dèi, alle superstizioni, ai miti e questo suo ateismo non è puramente strumentale ma è qualcosa di metafisico perché Epicuro non scende a patti con la semplificazione della vita (basta avere la scodella piena per trovarsi nella situazione migliore possibile), Epicuro aborrisce tutto ciò che rende la vita sdolcinata.

     Da Epicuro – in tempo di crisi –  abbiamo certamente qualcosa da imparare e per fare questo la Scuola, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, presenta (almeno in parte) ciò che ci è rimasto di questo pensatore ellenistico. Non è un impegno gravoso leggere Epicuro perché ci restano circa cento, centoventi pagine scritte. Che caratteristiche ha l’opera frammentaria che di Epicuro ci rimane? Epicuro ci ha lasciato una delle opere meno ipocrite del mondo in cui troviamo un pensiero svincolato da dogmi e da censure. Epicuro ha intravisto la salvezza nel sapere che la vita eterna non esiste e, di conseguenza, è stato – in un mondo influenzato dalla sapienza poetica orfica che pone al suo centro l’immortalità dell’anima – esiliato, emarginato, considerato impresentabile.

     La cosa buffa è però che l’opera che ci rimane di Epicuro – il materialista, l’ateo, il non confessionale – è stata gelosamente conservata nella Biblioteca Vaticana. Noi conosciamo (molte e molti di voi conoscono bene) uno dei bibliotecari vaticani più famosi: Fedra Inghirami il quale (siamo agli inizi del 1500, sotto il pontificato di Giulio II) studia e conserva tutti i testi che hanno valore nella Storia del Pensiero Umano (conosciamo il suo ruolo nella progettazione dell’affresco intitolato La Scuola di Atene realizzato da Raffaello) anche se molti di questi testi sono ideologicamente contrari alla dottrina della Chiesa. L’opera più famosa – quella che ha circolato di più – e più studiata di Epicuro è conservata nella Biblioteca pontificia in un codice che si chiama: Gnomologium Vaticanum, Raccolta di Sentenze Vaticane se vogliamo tradurre in italiano. Lì per lì può sembrare che ci sia qualcosa di ironico nel fatto che la più famosa collezione di sentenze epicuree (materialiste, atee e non confessionali) stia in un codice che ha questa dicitura, ma nella Biblioteca Vaticana (come sappiamo) sono conservati tanti codici che contengono una fetta enorme della cultura classica e in questa fetta ci sono soprattutto opere materialistiche e aconfessionali. Le Sentenze Vaticane di Epicuro – che probabilmente erano sparse in varie opere – sono state inserite in questo codice nel 1472, una raccolta di ottantuno massime d’intonazione essenzialmente morale che risalgono, con ogni probabilità, a quello che è stato chiamato il Catechismo epicureo. Per secoli queste massime sono rimaste sepolte nella grande Biblioteca – e chi ha avuto l’occasione di leggerle lo ha fatto con grande circospezione – finché nel 1888 alcuni filologi di Scuola tedesca le hanno estrapolate dal codice, le hanno pubblicate e commentate, e così è cominciata la loro divulgazione col nome che certamente avevano in origine: Kyriai doxai [Massime capitali].

     Nelle Kyriai doxai [Massime capitali] troviamo illustrato sinteticamente il contenuto fondamentale del pensiero di Epicuro e l’obiettivo che persegue: insegnare alla persona la saggezza in modo che possa avvicinarsi ad uno stato di imperturbabile beatitudine. Questa idea è radicata da tempo in Oriente e ce ne renderemo conto quando, in primavera, viaggeremo attraverso l’India fino in Cina.

     Per raggiungere questo obiettivo – avvicinarsi ad uno stato di imperturbabile beatitudine– la persona deve condurre una vita secondo natura per ottenere la serenità spirituale, evitando di lasciarsi trascinare in quegli affari (poly-pragmo-synè) che, col miraggio dell’acquisizione della ricchezza, del potere, della visibilità eccitano le passioni e creano turbamento. La persona saggia – con l’uso corretto della ragione, col discernimento intellettuale – deve imparare a vivere appartata [“làthe biósas, sotto traccia] e a sottrarsi alla maggior parte dei fattori di turbamento Questa scelta esistenziale – sostiene Epicuro – non comporta, però, la solitudine perché per condurre una vita felice è necessario, come sappiamo, coltivare l’amicizia che riveste, per l’essere umano, un’importanza essenziale: «Fra i beni che la saggezza è in grado di procurare, in vista di una felicità durevole, il possesso dell’amicizia – scrive Epicuro – è quello di gran lunga maggiore».

     Il piacere puro – sostiene Epicuro – non scaturisce dal corpo, bensì dall’animo e dall’intelletto «che ha riflettuto sulla finalità e sulla fugacità della carne e si è affrancato dalla paura dell’eternità». Un organismo ormai privo di vita non sente nulla, e «ciò che l’organismo non sente – afferma Epicuro – non ci riguarda». L’obiettivo dello studio delle scienze naturali è allora quello di liberarci dai timori infondati, in particolare dalla paura della morte e da quella delle punizioni divine.

     L’etica di Epicuro ha un carattere al tempo stesso individualistico e utilitaristico perché la giustizia in assoluto non esiste: la giustizia – sostiene Epicuro – deve essere la risultante di un accordo tra i singoli in funzione dell’utilità comune. L’onestà – sostiene Epicuro – non è un bene di per sé ma va assolutamente perseguita perché l’essere disonesti si accompagna al continuo timore di essere scoperti e questo crea un turbamento che è già una punizione.

     Le Kyriai doxai [Massime capitali] sono scritte in modo da essere imparate a memoria in modo che ciascuna persona possa ispirare a esse il proprio pensiero e la propria condotta di vita. Le Kyriai doxai [Massime capitali] rappresentano, tra l’altro, con il loro stile sobrio e incisivo, un’efficace testimonianza dell’abilità pedagogica di Epicuro, e quindi sono state considerate una sorta di catechismo e, a questo stile, s’ispireranno anche i Padri della Chiesa.

     Le Kyriai doxai [Massime capitali] di Epicuro sono state anche considerate una specie di formulario liturgico e sono diventate spesso oggetto di venerazione e hanno esercitato, nel corso dei secoli, un’influenza spirituale profonda specialmente nella Roma tardo repubblicana e imperiale: si pensi a figure come Lucrezio, come Virgilio, come Ovidio, come Orazio che hanno attinto a piene mani al pensiero epicureo per comporre le proprie opere.

     E ora non ci resta che leggerle le Kyriai doxai [Massime capitali] di Epicuro che si presentano spesso con una disarmante semplicità, ma sappiamo quanto sia difficile realizzare la semplicità:

LEGERE MULTUM….

Epicuro, Kyriai doxai [Massime capitali]

Colui che è felice e immortale ha questo di bello: non soffre alcun affanno né lo procura ad altri. Pertanto, è immune dall’ira e dalla benevolenza, che sono turbamenti tipici dell’indeciso.

La persona può concepire gli dèi grazie al pensiero, perché essi sono simili a lei per la ragione e per la forma. Infatti, affluiscono di continuo alla persona simulacri divini che mostrano come gli dèi hanno forma simile all’umana.

Nessun valore ha per noi la morte. Ciò che si dissolve è insensibile, e ciò che non giunge ai sensi è nulla per noi.

Il dolore della carne non dura sempre: quando è lancinante dura per breve tempo, quando è lieve, appena sopra il livello del piacere, dura nella carne solo qualche giorno. Anzi: le lunghe malattie finiscono per dare alla carne più piacere che dolore.

Facile disprezzare il dolore: quello che crea una forte sofferenza dura poco, quello che nella carne dura molto crea una pena lieve.

Non c’è alcuna felicità della vita se questa non è saggia, bella, giusta. E viceversa: non c’è vita saggia, bella e giusta se non si vive felici. A colui che di ciò fa difetto, non è concesso di vivere felice.

Non può credere di farla sempre franca chi nascostamente agisce contro il patto reciproco di non fare né ricevere danno. Anche se ciò gli è finora riuscito, non può essere sicuro che gli riesca fino alla morte.

Chi è ingiusto non riesce a nasconderlo a lungo. E dopo, sarà impossibile nutrire in lui fiducia.

La ricchezza che giunge dalla natura è fatta di beni facili a procacciarsi e ha dei confini precisi. La ricchezza fondata sulla vana opinione non ha limite alcuno e si disperde.

Lo stato di necessità è un male, ma che necessità c’è di vivere nella necessità?

Sei di natura mortale e ti è concesso un tempo limitato, ricordalo. E tuttavia, mediante il pensiero, sei assurto all’infinito e all’eterno: hai potuto contemplare quel che è, sarà e fu.

Ecco quel che in genere capita all’essere umano: che l’inerzia lo rende abulico, l’attività folle.

Il giusto vive nella massima tranquillità, l’ingiusto nella più intollerabile inquietudine.

Fra tutti i beni che la saggezza procura per rendere la vita felice, il maggiore è l’amicizia.

Si nasce una sola volta, non due, e alla fine è giocoforza sparire in eterno. E invece tu rimandi sempre la felicità, pur non essendo padrone del domani. Così, la vita passa in questo indugio e alla fine muori senza mai aver goduto la pace.

Che siano buone e invidiate oppure no, le nostre abitudini le amiamo come cose che fanno parte di noi. Ma allora bisogna fare lo stesso con le abitudini degli altri, se sono persone oneste.

Nessuno sceglie il male quando s’accorge che è tale. Ma ne rimane impigliato se, rispetto a un male peggiore, lo scambia per un bene.

Non il giovane è felice, ma il vecchio con una bella vita alle spalle. Il giovane è infatti alla mercé del destino precario. Il vecchio invece è approdato alla sua età come a un porto tranquillo, e possiede con gioia serena tutto ciò di cui in gioventù si dubita.

Si dissolve la passione dell’amore, se si toglie il vedersi, il conversare, lo star di continuo vicini.

Diventa subito vecchio chi è immemore del bene che fu.

Ci sono desideri naturali e necessari (quelli che liberano dalla sofferenza, come bere quando si ha sete), altri naturali ma non necessari (quelli che variano solo il grado del piacere senza liberare dalla sofferenza, come ingozzarsi di cibo), altri ancora né naturali e né necessari (come l’ambizione del potere o della gloria). Questi ultimi nascono dalla vana opinione.

La natura non va violentata ma lusingata. Bisogna soddisfare con lei i desideri necessari e fisiologici, che non recano danno, e respingere senza appello quelli nocivi.

Se valutiamo con la ragione i confini del piacere, vediamo che un tempo illimitato contiene la stessa quantità di piacere di uno limitato.

Anche se iniziata per mera utilità, ogni amicizia è per se stessa augurabile.

Non è vero che i sogni hanno natura divina o potere di divinare: nascono solo dall’afflusso di idoli.

Rapportata a ciò che è bene secondo natura, la povertà è ricchezza. La ricchezza senza alcuna misura è invece grande povertà.

Convincetevi di questo: il discorso lungo e quello breve raggiungono infine lo stesso scopo.

Una volta compiuta un’azione, a mala pena ne godi il frutto. Non così nella filosofia, dove gioia e conoscenza sono tutt’uno. Il piacere non giunge infatti dopo la conoscenza, ma cresce, di pari passo, assieme a quella.

In nome dell’amicizia bisogna correre qualche rischio. Dunque, nei suoi riguardi non è giustificabile che si sia esitanti o avventati.

Preferisco annunziare con libera parola la realtà che alle persone davvero serve, anche se nessuno mi capisce, piuttosto che scadere nel pregiudizio amato dai più per ottenere l’applauso della folla.

C’è chi durante la vita muove i suoi passi senza pensare che fin dall’inizio è nato segnato dalla morte.

Una persona può assicurarsi contro ogni cosa, ma nei confronti della morte è come se vivesse in una città senza mura.

Il rispetto del saggio è di grande insegnamento a chi rispetta il saggio.

La carne urla: non aver fame, o sete, o freddo. Chi giungesse a questo e potesse perpetuarlo nel tempo, sarebbe felice come un dio.

Non è tanto dell’aiuto degli amici che abbiamo bisogno, ma del poter fare affidamento su quell’aiuto.

Per non sciupare quel che si ha desiderando ciò che non si ha, bisogna sempre pensare che anche ciò che si ha faceva parte, una volta, dei desideri.

Paragonata alle altre, la vita di Epicuro spicca per quiete e libertà.

La natura è debole nel male, non nel bene. Esiste infatti nei piaceri, e si dilegua nei dolori.

Di poco valore è chi ha molte buone ragioni per abbandonare la vita.

Non esercita bene l’amicizia chi vi cerca, in ogni occasione, l’utile, ma nemmeno chi non sa armonizzarla con l’utilità. Il primo, col pretesto dell’affetto, crea commercio, l’altro estingue ogni speranza che l’amicizia abbia un futuro.

Chi dice che tutto nasce per necessità non può rimproverare chi dice che nulla nasce per necessità: afferma infatti che anche questa negazione avviene per necessità.

Come vivere bene? Ridere, meditare, dedicarsi alle piccole faccende, tener sveglie le umane facoltà, e proclamare a gran voce la saggezza della filosofia e l’opportunità dello studio.

Quando sorge il massimo bene ci si libera anche, d’un colpo, dal male.

Scellerato è chi desidera la ricchezza sia contro giustizia che con giustizia: meschino è infatti accumulare danaro anche rispettando la giustizia.

Di fronte alle necessità della vita, la persona saggia impara a dare piuttosto che a prendere. Il suo tesoro è la libertà dai bisogni.

Conoscere la natura forma una persona fiera, libera e orgogliosa della sua ricchezza interiore, non certo una persona superba, logorroica, una boriosa divulgatrice di bassa cultura.

Le pessime abitudini vanno scacciate come creature malvagie che ci hanno assillato per anni.

Ormai ho vinto: ho dominato il destino e non mi arrenderò più alle sue circostanze. Quando dovrò andarmene, lo farò disprezzando la vita e lo stolto, che ne rimane preso, cantando versi su come ho vissuto bene.

Regola: finché si sta sulla strada vale la pena tentare di procedere sempre meglio. Giunti alla meta ci si può rallegrare, ma senza esagerare.

Se l’essere umano avesse continuato a vivere succube dei miti, ignorando la vera natura delle cose supreme, sarebbe rimasto un miserabile che nutre timori e vive nella cecità. Senza la conoscenza della realtà non c’è purezza della gioia.

Nessun piacere è, in sé, un male. Sono i mezzi usati per procurarsi certi piaceri che, alla fine, arrecano più tormento che gioia.

Nei piaceri del sesso sei un incontinente? Fai pure, ma non trasgredire le leggi e i buoni costumi, non danneggiare il prossimo, non contaminare la carne con le prostitute e gettar via con loro ciò che ti serve per vivere. Infrangere anche una sola di queste regole è triste: l’incontinenza non giova a nessuno e c’è solo da sperare che non porti danno.

L’amicizia pervade il mondo e stimola al risveglio dicendo: datevi gioia l’un l’altro.

I buoni non meritano l’invidia, i malvagi nemmeno: più sono fortunati e più si affossano con le loro stesse mani.

Non c’è bisogno di apparire sani, ma di esserlo. Ugualmente: non c’è bisogno di sembrar filosofi, ma di esserlo.

La sola cura dei mali presenti è il grato ricordo dei beni passati, e la certezza che non si può modificare ciò che è avvenuto.

La persona saggia patirà la stessa sofferenza se è messa alla tortura o se vi sono messi i suoi amici.

Non esser pronto a morire per l’amico o tradirne la fedeltà, sono modi per sconvolgere l’intera esistenza.

Vale la pena liberarsi, una volta per tutte, dalla gogna degli affari e dalle passioni.

A essere insaziabile non è il ventre, come si crede di norma, ma la falsa idea che il ventre sia insaziabile.

Si lascia la vita come fosse appena cominciata.

Godiamo della presenza degli altri se ne abbiamo sentito fin dall’inizio, o almeno avvertito, la consonanza spirituale.

Spesso la severità dei genitori verso i figli è opportuna, per cui è stolto opporsi ed è giusto farsi perdonare. Se invece è inopportuna e irragionevole non vale la pena esasperarla opponendosi, bisogna invece condurla alla quiete con retti ragionamenti.

C’è una misura anche nella parsimonia. Eccedere quel limite è sconveniente come esagerare nei desideri.

Bisogna occuparsi della salute dell’anima: il plauso degli altri seguirà spontaneo.

Se una cosa puoi procurartela da solo perché chiederla agli dèi?

Non si partecipa alla sventura dell’amico col lamento ma con l’azione.

La vita è libera perché gode in abbondanza di quel che ha bisogno, e chi possiede ricchezza sarà libero e benvoluto se ne farà partecipi gli altri. Solo chi mira alle ricchezze dovrà invece farsi schiavo della folla o dei potenti.

Nulla basta a chi il poco non basta.

L’avidità dei cibi e della loro varietà è tipica di chi è scontento di se stesso.

Se ti spiace che qualche tua azione sia nota al prossimo, è meglio non farla.

Ogni volta che si presenta un desiderio bisogna chiedersi: che cosa succederà se si avvera? e che cosa se non si avvera?

I timori per i paradisi e gli inferni e per tutto quel che capita nell’universo, rendono inutile cercar qualunque sicurezza.

Aver sopportato certi dolori è utile a pararne di simili.

Sarà per te un maggior vantaggio, se in ciò che apprendi si cela una sconfitta.

Se una voce ti dice di guardare solo al termine estremo della vita, essa è ingrata verso i beni passati.

Devo complimentarmi con te, che secondo il mio insegnamento hai saputo invecchiare ben distinguendo cosa significa far filosofia per te o farla per i compatrioti.

Quando si basta a se stessi si raccoglie un frutto maturo: la libertà.

La persona nobile coltiva due cose in particolare: la sapienza e l’amicizia. E con ciò coltiva un bene immortale e uno mortale.

È sereno chi dà serenità a sé e agli altri.

Il miglior modo per conservare la salute è mantenersi giovani e respingere l’assedio dei desideri.

Le grandi ricchezze, l’onore, il successo: tutte cose che non liberano dal turbamento dell’anima, né procurano gioia. Come per tutto ciò che ha una causa nebulosa ed incerta.

     La lettura delle Kyriai doxai [Massime capitali] di Epicuro stimola senz’altro la riflessione: non tutte le sentenze che abbiamo letto sono di facile e immediata comprensione ma la maggior parte di queste regole sono di una semplicità dirompente e contengono una verità inequivocabile che rimanda ad un principio chiaro ed eloquente: basta (basterebbe) poco per essere felici. Ma gli esseri umani – allude Epicuro – sembrano fare di tutto per complicarsela la vita.

     Molto spesso attraverso queste sentenze Epicuro dice qualcosa che scuote le coscienze. Prendiamone una di queste Massime di stringente attualità: «La natura non va violentata ma lusingata. Bisogna soddisfare con lei i desideri necessari e fisiologici, e respingere senza appello quelli nocivi». Ebbene, in tempi moderni e contemporanei, (la domanda è retorica) è stata applicata questa norma nei confronti della natura? La Natura, questa creatura delicata, non è stata e non è sottoposta ad una continua violenza che ha lasciato il segno? Epicuro si dimostra un maestro di naturalezza e di civiltà anche quando fa delle affermazioni che sembrano sopra le righe per chi non legge con attenzione ma con malizia e difatti quando Epicuro, con saggezza, parla del piacere del ventre si riferisce non alle gozzoviglie (come potrebbe sembrare ad una lettura superficiale) ma a quel raro momento in cui la carne non soffre.

     E, a fondamento di questa visione, sta il fatto che Epicuro non riconosce alla filosofia un carattere fondante (Epicuro non vuole che la ragione degeneri nel razionalismo, che la scienza degeneri nello scientismo, che l’idea degeneri nell’ideologia, che il corpo diventi una macchina), ma riconosce alla filosofia solo una funzione di farmaco per lenire dal disagio doloroso che procura il marasma della vita. Per la precisione – come sappiamo – Epicuro considera la filosofia un tetraphàrmakos perché cura quattro situazioni patologiche mediante quattro precise riflessioni intellettuali: «Dio non è da temere, la morte non comporta rischio, il bene giunge con facilità, il dolore si sopporta grazie al coraggio». Queste quattro riflessioni intellettuali (il tetraphàrmakos) mettono in evidenza quattro questioni fondamentali: Dio, la morte, il bene, il dolore. Questi quattro temi, attraverso l’Ellenismo, troveranno il loro sviluppo nel corso di tutta la Storia del Pensiero Umano.

     Le ottantuno Kyriai doxai [Massime capitali] di Epicuro hanno un carattere squisitamente etico e, nel loro insieme, costituiscono un elogio del buon vivere, una sentenza dice: «Come vivere bene? Ridere, meditare, dedicarsi alle piccole faccende, tener sveglie le umane facoltà, e proclamare a gran voce la saggezza della filosofia e l’opportunità dello studio». Questo catalogo ha avuto un’ampia diffusione durante tutto il periodo dell’Ellenismo e in seguito lo hanno letto tutte le studiose e gli studiosi più importanti del medioevo e dell’età moderna i quali non hanno rinunciato a citarlo, magari omettendo, per prudenza, la fonte e il nome dell’autore.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate anche voi un esercizio utile in funzione della didattica della lettura e della scrittura: leggete con attenzione le Sentenze di Epicuro e sceglietene una (magari l’avete già individuata), quella che ritenete la più significativa e scrivetela a vantaggio della Biblioteca itinerante…

     Due settimane fa, studiando la biografia di Epicuro, abbiamo sottolineato un dato: siamo venuti a sapere che, nel 323 a.C., mentre sta facendo il servizio militare ad Atene, Epicuro conosce un certo Menandro e con lui ha modo di parlare e di scambiare opinioni, abbiamo anche detto che questo personaggio lo avremmo incontrato strada facendo. Perché Menandro è importante e perché lo troviamo qui a ridosso del paesaggio intellettuale della Scuola di Epicuro? Menandro è diventato un grande autore di teatro: è il più significativo rappresentante della cosiddetta Commedia nuova ed è il più importante commediografo del periodo ellenistico.

     Perché nel periodo ellenistico la Commedia prende il nome di Commedia nuova? La Commedia, nel periodo in cui si sviluppa la sapienza poetica ellenistica, prende il nome di Commedia nuova per distinguersi dalla Commedia antica di Aristofane. La Commedia antica di Aristofane (un personaggio che abbiamo incontrato nel Percorso dello scorso anno sulla scia della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele) si occupa soprattutto di questioni politiche e sociali oltre che di questioni letterarie e filosofiche. Che caratteristiche ha la Commedia nuova rispetto a quella antica? La Commedia nuova non si occupa di questioni politiche e sociali, si occupa in minima parte di questioni letterarie e filosofiche: è invece soprattutto commedia di costumi, cioè mette in scena la vita intima e familiare delle persone.

     La Commedia antica di Aristofane è imperniata sulla satira politica ed è specchio della vita sociale della polis, mentre la Commedia nuova vuole mettere in ridicolo tutta una serie di comportamenti indecenti ed è specchio della vita privatae la sua trama si sviluppa quasi sempre sulla base di un intrigo d’amore (spesso complicato). La Commedia nuova porta sulla scena una serie di caratteri (il padre avaro, il figlio scapestrato, il servo infido, la cortigiana venale…), come poi li troveremo nelle commedie latine di Plauto e di Terenzio, e nel teatro classico del Rinascimento sino a Molière e Goldoni.

     Naturalmente anche la Commedia nuova persegue degli intendimenti di natura etica e nel testo teatrale gli autori tendono ad inserire delle Massime di saggezza (secondo lo stile epicureo) su cui il pubblico, o meglio, il singolo spettatore dovrebbe riflettere in modo da modificare certi suoi comportamenti (certe usanze indecenti) che il genere della commedia mette alla berlina.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Ci sono degli atteggiamenti ricorrenti e comunemente accettati che invece voi – come il commediografo Menandro – ritenete “usanze indecenti” da perseguire e da sostituire con comportamenti più rispondenti ai principi della morale pubblica e privata?  

Scrivete quattro righe in proposito

     Gli autori di teatro del periodo ellenistico inseriscono nei testi delle loro Commedie molte sentenze sullo stile della Scuola epicurea ed è per questo motivo che noi, questa sera, Menandro lo incontriamo a ridosso del paesaggio intellettuale che contiene il Giardino (o l’Orto, che dir si voglia) di Epicuro. Le Massime di saggezza pratica, scritte secondo lo stile epicureo, che compaiono nei testi delle Commedie ellenistiche, sono state raccolte, nel corso dei secoli, in molti cataloghi per cui i testi delle Commedie sono andati perduti – ne rimangono non molti frammenti – mentre le Raccolte di Massime si sono conservate e, nel corso del medioevo, molte di queste Raccolte sono state anche cristianizzate (molte Massime di stampo epicureo diventano regole monastiche) e così hanno perso i loro connotati originari di stampo ellenistico.

     I rappresentati più autorevoli della Commedia nuova sono Filemone di Soli in Cilicia che è considerato il fondatore di questo genere letterario di cui si tramandano 97 testi (restano 64 titoli e circa 200 frammenti) e Difilo di Sinope che ha scritto un centinaio di commedie delle quali rimangono 60 titoli e 130 frammenti.

     Come si fa a valutare l’importanza di questi commediografi possedendo solo del materiale frammentario? Intanto sappiamo che hanno vinto – nei numerosi concorsi che si svolgevano in quel periodo – molti premi e poi, il fatto più significativo è che un certo numero di testi composti da Filemone e da Difilo (oltre che da Menandro) hanno fatto da modello (circa un secolo dopo) alle commedie dello scrittore latino Tito Màccio Plauto (254-184 a.C.). Delle 130 commedie attribuite a Plauto sono considerati autentici i testi di 21 di esse che ci sono pervenuti con molte lacune.

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Sul personaggio di Tito Màccio Plauto e sulla sua opera potete fare, con l’enciclopedia e sulla rete, una piccola ricerca tenendo conto del fatto che Plauto è l’autore latino di teatro del periodo del secondo ellenismo che viene portato più spesso in scena e quindi può capitare l’occasione di assistere alla rappresentazione teatrale di una delle sue commedie e quindi è bene essere informate ed informati in proposito…

     Le commedie di Plauto ci possono interessare perché sono anche una testimonianza filologica sulla produzione e sullo stile della Commedia nuova del primo Ellenismo.

     Questi due commediografi, Filemone e Difilo, insieme a Menandro, costituiscono, nella storia della sapienza poetica ellenistica, una triade analoga a quella dei classici scrittori di tragedie della sapienza poetica orfica: Eschilo, Sofocle ed Euripide.

     Chi è Menandro, il più significativo rappresentante della Commedia nuova di stampo ellenistico? Menandro, figlio di Diopite, è nato ad Atene, nel quartiere di Cefisia, nel 343 a.C. (un anno prima di Epicuro) ed è il nipote di un commediografo che si chiama Alessi di Turi, il quale appartiene al periodo della cosiddetta Commedia di mezzo che si colloca tra la Commedia antica di Aristofane e quella nuova di Filemone, Difilo e Menandro. Menandro, quindi, impara l’arte di scrivere per il teatro dallo zio Alessi. Alessi di Turi, secondo la tradizione, ha scritto 245 commedie delle quali si conoscono 136 titoli e ne rimangono un centinaio di frammenti. Alessi è un commediografo che sembra essere molto esperto ad utilizzare il mito in modo burlesco, ma va ricordato soprattutto perché introduce il personaggio del parassita che diventa poi una figura emblematica non solo nella storia del teatro ma anche nel genere letterario del romanzo (e ne abbiamo già parlato strada facendo). Nei frammenti di Alessi il personaggio del parassita viene etichettato dallo scrittore con una serie di termini: il mantenuto, lo scroccone, la sanguisuga, il profittatore, lo sfruttatore. Questi termini, che  caratterizzano la figura del parassita, verranno ripresi da tutta la tradizione teatrale e anche da quella romanzesca.

     Menandro quindi impara dallo zio Alessi e poi, quando è più grande, entra in relazione – oltre che con la Scuola epicurea – anche con le Scuole degli altri filosofi del suo tempo (che incontreremo strada facendo). Menandro s’iscrive alla Scuola peripatetica (al Liceo di Aristotele) e segue l’insegnamento di Teofrasto – che succede ad Aristotele nella conduzione della Scuola peripatetica – del quale diventa discepolo e dal quale impara a considerare l’essenza delle cose e soprattutto ad osservare i caratteri delle persone.

     Puntualizziamo subito che la parola greca caraktér significa il conio delle monete, il segno, l’impronta, e  il termine carattere, inteso nel senso di indole, di temperamento, di personalità, di inclinazione, di umore, di modo di fare, è entrato all’ombra dell’albero genealogico lessicale con l’opera di Teofrasto. Di conseguenza il termine carattereè una parola-chiave da inserire nel catalogo dei termini tipici della sapienza poetica ellenistica.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Perché non provate a definire con non più di tre parole il vostro carattere? 

Scrivetele…

     Ma dei Caratteri di Teofrasto – che è il titolo di un’opera – parleremo nel prossimo itinerario.

     Ora torniamo ad occuparci del commediografo Menandro, che è stato uno dei più celebri discepoli della Scuola peripatetica di Teofrasto, per dire che Menandro nasce in una famiglia imprenditoriale (dell’industria tessile) e per di più, con l’attività teatrale, lui personalmente guadagna anche molti soldi e, quindi, conduce un’esistenza lussuosa da benestante (verrà molto criticato per questo) e viene anche chiamato a vivere a corte quando a governare Atene (dal 317 al 307 a.C.) è Demetrio Falerèo (un personaggio che abbiamo incontrato e che conosciamo), ma Menandro possiede anche una bella villa al Pireo dove si ritira quando Demetrio Falerèo perde il potere, spodestato da Demetrio Poliorcete.

     Menandro si ritira nella periferia di Atene mentre – come sappiamo – Demetrio Falerèo emigra ad Alessandria presso la corte dei Tolomei a fare il bibliotecario, a fare l’editore e a scrivere opere esegetiche di filosofia, di storia, di retorica, di politica: di Demetrio Falerèo si contano 45 titoli tra cui I dieci anni del mio governo, un’opera un po’ apologetica ma molto utile per conoscere e per capire molte cose sulla crisi di Atene in età ellenistica. Quindi quando comincia l’emigrazione degli intellettuali da Atene verso Alessandria (un fenomeno di cui abbiamo parlato) Menandro non risponde ai molti e pressanti inviti che riceve da parte del re dell’Egitto Tolomeo.

     La mentalità, il modo di esprimersi e di scrivere di Menandro rimangono schiettamente ateniesi, naturalmente con un’apertura verso le tendenze cosmopolitiche che ormai caratterizzano il pensiero degli intellettuali ellenistici. Sappiamo che raramente Menandro riesce a vincere nei concorsi drammatici: colui che ha vinto più premi è il suo rivale Filemone di Soli, poi però è sempre Menandro ad avere più successo di pubblico, un successo strepitoso per cui la tradizione riporta un detto di Menandro rivolto al suo rivale: «Quando mi vinci, Filemone, non te ne vergogni?».

     Menandro muore nel 292 a.C. dopo aver scritto circa un centinaio di Commedie, di cui una sola ci è pervenuta praticamente intera. Per fortuna negli ultimi decenni (dalla metà del secolo scorso) le studiose e gli studiosi di filologia ellenistica hanno scoperto, lavorando sui papiri alessandrini, lunghe scene di parecchie commedie ellenistiche.  La scoperta più interessante – fatta dall’antichista Victor Martin nel 1958 lavorando su un papiro: il cosiddetto Codice Bodmer (le circostanze del ritrovamento di questo oggetto, il cosiddetto Papiro Bodmer IV, da parte del collezionista ginevrino Martin Bodmer sono sempre rimaste gelosamente celate, ma torneremo su questo fatto) –, quindi la scoperta più interessante è stata quella del testo, quasi completo, di una commedia di Menando intitolata Dyskolos.

     Chissà quante e quanti di voi si sono sentiti dire: Sei una discola, sei un discolo! nel senso di impertinente, di insofferente nei confronti della disciplina familiare o scolastica. In greco il termine dyskolosletteralmente definisce una persona con cui è difficile trattare, e questa parola ci porta nei pressi di un paesaggio intellettuale di fronte al quale dobbiamo imbastire una riflessione.

     La commedia di Menandro intitolata Dyskolos è stata scritta nel 316 o nel 315 a.C. ed è interamente dedicata – e questa non è una novità in Menandro – allo studio di un carattere, del carattere del protagonista. Mentre in Aristofane (nella Commedia antica) il protagonista è proprio una persona precisa, di solito una personalità politica con nome e cognome, in Menandro (nella Commedia nuova) il protagonista è una persona qualunque che diventa l’emblema (il carattere) di un’intera categoria di persone. Sono molti i titoli delle commedie di Menandro che sono in relazione al carattere del protagonista e questo succede perché Menandro fa riferimento – come abbiamo detto poco fa – all’insegnamento che ha ricevuto dal suo principale maestro: Teofrasto. Adesso dovremmo domandarci chi è Teofrasto e che ruolo ha nel movimento della sapienza poetica ellenistica? A queste domande non si può rispondere con due battute, dobbiamo imbastire una riflessione che rimandiamo alla prossima settimana perché altrimenti l’itinerario di questa sera diventa troppo lungo.

     Adesso dobbiamo occuparci dell’unica commedia di Menandro di cui possediamo il testo quasi completo: questa commedia, come sappiamo, s’intitola Dyskolos. Il dyskolos è un carattere che non viene descritto da Teofrasto, e l’opera intitolata Caratteri di Teofrasto, ovviamente (e lo studieremo la prossima settimana), non pretende di coprire l’intera gamma delle possibilità: quest’opera è stata davvero, nel corso dei secoli, un incentivo a riflettere sui temperamenti, sulle inclinazioni, sui modi di fare degli esseri umani in rapporto ai principi morali dettati dalla ragione. Il dyskolos di Menandro – favorito anche dalle potenzialità del linguaggio teatrale – è qualcosa di più di un carattere: è la descrizione di una nevrosi che deriva dell’insofferenza crescente nei confronti degli altri esseri umani (e nessuno ne è immune!).

     Il protagonista (il dyskolos) della commedia di Menandro si chiama Cnemone ed è uno che, per intima sfiducia nei confronti di tutte le altre persone – nelle quali esclude possano esserci la bontà, lo spirito di solidarietà, l’onestà, la ragionevolezza (per lui sono tutti ugualmente cattivi e da tenere a debita distanza) – ha interrotto la comunicazione con il mondo esterno. In greco il termine dyskolosdefinisce una persona con cui è difficile trattare.

     Cnemone ha sposato, per interesse (per incamerane la dote), una vedova che ha un bambino, avuto dal primo marito, che si chiama Gorgia. Da questo matrimonio nasce poi una figlia ma si accentuano anche i litigi – di giorno e di notte – tra i due coniugi finché la moglie stanca di subire se ne va a vivere col figlio di primo letto che Cnemone aveva già scacciato. Cnemone rimane solo con la figlia della quale non può fare a meno perché, nonostante tutto, lo accudisce con generosità. «Da quando è nato – dice di lui il dio Pan nel prologo della commedia – non ha mai scambiato volentieri una parola con nessuno, né ha mai rivolto per primo la parola a nessuno». Le ragioni di un tale comportamento le descrive lo stesso Cnemone, con un lungo monologo, nel momento culminante del dramma, cioè quando il suo figliastro Gorgia gli salva la vita anche se avrebbe dovuto lasciarlo morire come un canevisto che Cnemone lo ha scacciato da casa con asprezza insieme a sua madre. Dice Cnemone, cercando una giustificazione di carattere sociologico: «Sono stato messo fuori strada dal vedere il modo di vivere degli altri, i loro calcoli, l’attenzione esclusivamente rivolta al guadagno. Non avrei mai pensato che ci fosse tra tutti una persona capace di benevolenza verso gli altri». La commedia – che ha un intento di carattere etico – mette in scena l’infrangersi di una tale spirale di chiusura verso il mondo esterno e verso il prossimo.

     La commedia di Menandro – l’unica di cui possediamo il testo per intero – s’intitola Dyskolos e il termine scelto dallo scrittore per esprimere questo carattere è preso dal lessico della medicina: difatti, nel linguaggio di Ippocrate di Cos (460-380 circa a.C.) il termine dyskolos significa malattia grave e molesta ma tuttavia non pericolosa né letale. Anche nell’Etica Nicomachea – dove (nel secondo libro) Aristotele fornisce una accurata enumerazione delle virtù e dei vizi – ricorre due volte la definizione di dyskolos. In entrambi i passi dell’Etica di Aristotele il dyskolos è l’opposto del kolax, e Kolax è il titolo di un’altra commedia di Menandro. Tanto il dyskolosquanto il kolax sono da considerarsi come degli eccessi rispetto ad un giusto mezzo, che Aristotele definisce l’amabilità. «Chi è piacevole come si conviene – scrive Aristotele nell’Eticaè amabile, e l’amabilità è la via di mezzo». Il termine kolax– nel linguaggio teatrale di Menandro – definisce la persona che eccede in amabilità o perché è troppo complimentosa o perché è un’adulatrice interessata. Mentre il termine dyskolosdefinisce la persona che si dimostra sgradevole in tutte le circostanze, che è scontrosa e che si oppone sdegnosamente a tutto. Cnemone è dyskolos, dunque un caso grave e sin da giovane – come si apprende dal prologo – ha sofferto quando ha dovuto instaurare, per le necessità dell’esistenza, dei rapporti con gli altri e, ora che è vecchio, si è ritirato in completo isolamento.

     Il termine dyskolos è stato poi tradotto comunemente con la parola misantropo e quando il titolo della commedia di Menandro viene tradotto si usa proprio questo termine: misantropo, ma, sebbene sia consona, questa traduzione – e lo abbiamo potuto capire dalla riflessione che abbiamo fatto sul significato delle parole – è piuttosto riduttiva e semplicistica perché nel dyskolosrispetto al misantroposc’è un po’ di cattiveria in più. Tuttavia la figura del misantropo– che in greco corrisponde ai termini: solitario, asociale, scontroso, selvatico, scorbutico, orso – da questo momento entra a pieno titolo nella storia del teatro e del genere del romanzo.

     Non è facile raccontare in poche parole la trama di questa commedia: l’azione viene messa in moto dal dio Pan, il quale fa sì che il giovane e agiato cittadino Sostrato incontri la figlia di Cnemone e se ne innamori. Sostrato cerca l’aiuto del suo amico Cherea e invia anche il suo servo Pirria a casa di Cnemone per chiedere informazioni sulla fanciulla ma costui viene scacciato e inseguito malamente dal vecchio dyskolos. Allora interviene nella vicenda il figliastro di Cnemone, Gorgia, il quale vive, con la madre, non lontano di lì: sappiamo che entrambi sono stati scacciati dal dyskolos. Gorgia capisce che Sostrato ha intenzioni serie nei confronti della sorella che è rimasta con il padre, e decide di aiutarlo. Gli propone di travestirsi da contadino e di partecipare ai lavori comuni in modo da poter incontrare Cnemone e da poter fare conoscenza con lui. Ma Cnemone quel giorno non partecipa ai lavori comuni. Intanto il legame di amicizia che nasce tra Sostrato e Gorgia si fa più profondo e questo fatto ci ricorda il pensiero di Epicuro.

     Cnemone, nel frattempo, senza chiedere aiuto a nessuno, vuole recuperare degli attrezzi che una sua vecchia schiava ha lasciato cadere in un pozzo e, nel fare questo tentativo, perde l’equilibrio e cade nel pozzo e affogherebbe senz’altro se Gorgia, con l’aiuto di Sostrato, non lo salvasse in tempo. Questo episodio sconvolge il vecchio Cnemone, che deve ricredersi sull’altrui bontà, e così le nozze hanno luogo. Anche Gorgia ha le sue nozze con la sorella di Sostrato.

     E ora diamo la parola al dio Pan che, nel prologo del Dyskolos, introduce l’azione teatrale e poi leggiamo l’inizio del primo atto: è un frammento che serve per renderci conto del dinamismo della scrittura teatrale di Menandro. E ora diamo la parola al dio Pan che è entrato in scena per fare il prologo:

LEGERE MULTUM….

Menandro, Dyskolos

PROLOGO

PAN Dovete figurarvi che questo luogo sia File nell’Attica [il demo di File era a nord di Atene al confine tra l’attica e la Beozia]; il ninfeo da dove sono uscito è l’illustre santuario dei Filasii, contadini capaci di coltivare anche le pietre. Il podere alla destra è di Cnemone, un dyskolos, collerico con tutti, che non ama la gente. Ma che dico «la gente»? Da quando è nato non ha mai scambiato volentieri una parola con nessuno, non ha mai rivolto per primo la parola a nessuno, tranne a me quando mi passava davanti, costretto dalla vicinanza. E subito dopo se ne pentiva, lo so benissimo. Con questo carattere, ha sposato una vedova, con un figlio ancora piccolo dal primo marito, e con lei litigava non solo tutto il giorno, ma la maggior parte della notte. Una vita da cani. Gli nasce una bambina: peggio ancora. Resasi conto che quella vita era più che mai dolore, amarezze, dispiaceri, la donna se ne è andata dal figlio di primo letto. Questi possiede un piccolo podere nelle vicinanze, grazie al quale mantiene a stento sé, la madre e un unico servo, ereditato dal padre, fedelissimo. È un ragazzo che ha più cervello della sua età; perché l’esperienza delle difficoltà fa crescere. Il vecchio invece vive con la figlia e una vecchia serva, zappando, raccogliendo legname e detestando tutti quanti, a cominciare da sua moglie e dai vicini, per finire fino ai Colargesi [la cittadina di Colarge è distante circa 20 chilometri]. La ragazza, grazie all’educazione ricevuta, ignora totalmente il male. La cura che si prende delle Ninfe, mie compagne, la venerazione e gli onori che rende ad esse, ci hanno persuaso a prenderci a nostra volta cura di lei. Un giovane, figlio di un uomo ricco, che possiede qui terreni per parecchi talenti, ma abita in città, trovandosi una volta a caccia con un compagno è capitato per caso in questo luogo e io l’ho fatto innamorare di lei. Questa è l’azione per sommi capi. I dettagli li saprete tra poco, se vorrete. Ma lo vorrete certamente. Ecco; vedo che stanno arrivando l’amoroso e il suo amico e stanno parlando proprio di questo.

 [Esce Pan, ed entrano Sostrato e Cherea]

ATTO PRIMO

CHEREA Che dici? Hai visto qui una ragazza libera che offriva corone alle Ninfe e te ne sei innamorato sull’istante?

SOSTRATO  Sull’istante.

CHEREA Che fretta! Ma l’avevi deciso uscendo di casa, di innamorarti di qualcuno?

SOSTRATO Tu mi pigli in giro; ma io sto male, Cherea.

CHEREA Ti credo.

SOSTRATO Per questo sono qui, e ti ho pregato di aiutarmi perché ti considero persona amica e capace più di tutti.

CHEREA In queste cose, Sostrato, io mi comporto così: se qualche amico mi chiama in aiuto perché è innamorato di un’etera, gliela rapisco e gliela porto; m’inebrio, do fuoco, non sento ragione. Non mi importa indagare chi sia, la deve avere e basta. Questo perché l’indugio fa aumentare la passione, che invece, se si fa presto a soddisfarla, finisce altrettanto presto. Ma se si parla di una ragazza libera, e di matrimonio, allora sono tutto diverso. Mi informo della famiglia, dei beni, dei caratteri, perché a seconda di come me ne occupo lascio al mio amico un ricordo destinato a durare per tutta la vita.

SOSTRATO Certo. [Questo discorso non mi piace].

CHEREA Quindi, per prima cosa, occorre che prendiamo delle informazioni.

SOSTRATO All’alba ho spedito Pirria, il servo che era con noi a caccia

CHEREA Da chi?

SOSTRATO Dal padre della ragazza, o padrone di casa, quel che è.

CHEREA Ma che dici!

SOSTRATO Sì, ho sbagliato; non è compito adatto a un servo; ma non è facile badare alle convenienze quando si è innamorati. Tra l’altro è un po’ che ritarda e mi chiedo perché; gli avevo detto di tornare a casa subito, appena saputo quello che volevamo sapere.   [entra Pirria]

PIRRIA Attenzione, attenzione, toglietevi di mezzo tutti, c’è un matto che mi insegue.

SOSTRATO Che c’è?

PIRRIA Scappate.

SOSTRATO Ma che c’è?

PIRRIA Mi tira addosso zolle, pietre. Sono morto.

SOSTRATO Ti tirano addosso Ma dove vai sciagurato?

PIRRIA Non m’insegue più?

SOSTRATO Ma no.

PIRRIA Credevo.

SOSTRATO Ma che dici?

PIRRIA Andiamocene, ti supplico.

SOSTRATO Dove?

PIRRIA Via da questa porta, il più lontano possibile. E un matto, un disperato, un indemoniato quello che abita qui. Povero me! Mi sono rotto quasi tutte le dita.

SOSTRATO Avrà combinato qualche guaio.

CHEREA È chiaro.

PIRRIA Ma no, te lo giuro. Mi possa venire un accidente. Ma tu sta in guardia, Sostrato. Non riesco a parlare: mi manca il fiato. Busso alla porta di casa dicendo: «Chiamate il padrone», e mi vien fuori una vecchia disgraziata, la quale, stando dove vi parlo io in questo momento, me lo mostra che stava su una collina al lavoro, a raccogliere pere, o piuttosto legna, per farsene una gogna.

CHEREA Sei proprio arrabbiato.

PIRRIA Che ci vuoi fare? Vado nel campo, e ancora camminando, già da lontano, volendo mostrarmi amichevole e garbato, lo chiamo. «Vengo – dico – per un certo affare personale, che ti riguarda». E lui subito: «Maledetto, vieni nel mio campo? Che vuoi?». Prende una zolla e me la tira in faccia.

CHEREA Al diavolo!

PIRRIA E in un batter d’occhio, mentre sto dicendo «Per Posidone» lui prende un bastone e m’investe dicendo: «Che abbiamo a che fare, io e te?» e ancora «Non conosci la strada pubblica?», e strilla come un’aquila.

CHEREA Questo contadino è matto completo, a quel che dici.

PIRRIA Non basta; io sono scappato e lui dietro per forse quindici stadi, prima sulla collina, poi scendendo fin qui nel bosco, tirandomi dietro zolle, pietre, e anche le pere, quando non aveva più altro. Una brutta faccenda, un vecchio maledettissimo. Andatevene, ve ne prego.

SOSTRATO Sarebbe una vigliaccheria.

PIRRIA Ma non sapete che razza di malanno è quell’uomo. Vi mangia vivi.

CHEREA Può essere che fosse irritato per qualche contrattempo. Sostrato, io penso che per ora convenga rimandare la visita. Tieni conto che in tutte le cose è meglio scegliere il momento opportuno.

PIRRIA È giusto.

CHEREA Un contadino povero è un essere scorbuticissimo, non lui solo, ma quasi tutti. Domani all’alba andrò da lui, io solo. La casa la conosco; tu ritorna a casa e aspettami. Vedrai che le cose andranno bene. [esce di scena]

PIRRIA Facciamo così.

SOSTRATO Non gli è parso vero di cogliere a volo il pretesto. È chiaro che non veniva volentieri con me e non approva affatto il matrimonio. [a Pirria] Gli dèi tutti ti fulminino, disgraziato!

PIRRIA Ma che ho fatto?

SOSTRATO Hai combinato qualcosa, là al campo.

PIRRIA Non ho rubato nulla.

SOSTRATO E ti voleva picchiare per nulla?

PIRRIA Eccolo che viene. Io me ne vado. Parlaci tu. [Esce; entra Cnemone]

SOSTRATO Non posso; non sono capace di persuadere la gente. Non ha l’aria amichevole, per Zeus! Che cipiglio! Mi scosterò un po’ dalla sua porta; sarà meglio. Cammina e grida da solo; non sembra tutto sano. Perché non dirlo, in nome degli dèi? Mi fa paura.

CNEMONE Quant’era fortunato Perseo! E per due ragioni: perché grazie alle ali non si trovava tra i piedi quelli che camminavano per terra, e perché tutti gli scocciatori poteva trasformarli in pietre. Magari potessi anch’io! Non ci sarebbero altro che statue di pietra in giro. Non si può più vivere; entrano nel mio podere e parlano, parlano. Sembra che passi il mio tempo in mezzo alla strada, quando invece non coltivo più neppure questa parte del campo per sfuggire alla gente che passa. Niente, ora mi vengono a dare la caccia sulla collina. Una folla soffocante. E ora chi è quest’altro che se ne sta impalato davanti alla mia porta?

SOSTRATO Che mi voglia picchiare?

CNEMONE Non ci si può godere la solitudine da nessuna parte, neanche se ci si volesse impiccare!

SOSTRATO Ce l’ha con me? [rivolgendosi a Cnemone] Sto aspettando una persona; eravamo rimasti d’accordo di trovarci qui.

CNEMONE Lo dicevo io! L’avete preso per un portico, per un luogo di riunione. Se volete vedervi davanti alla mia porta, fate le cose per bene: costruite dei sedili, magari anche una sala. Povero me! Mi sembra che questa sia una sopraffazione bella e buona. [entra in casa] …

     E ora passiamo al quarto atto, al finale della commedia, dove Cnemone – dopo essere stato salvato dal figliastro – compie una riflessione autocritica dalla quale però Menandro fa emergere tutta l’ambiguità del personaggio:

LEGERE MULTUM….

Menandro, Dyskolos

ATTO QUARTO

CNEMONE Nessuno mi farà cambiare idea, e su questo mi darete ragione anche voi. L’unico errore è forse stato quello di credermi il solo autosufficiente, di non avere bisogno di nessuno. Ora che ho visto da vicino la morte, rapida, imprevedibile, ho capito che sbagliavo. Bisogna avere sempre vicino qualcuno che ti possa dare un aiuto. Ma, per Efesto, sono stato messo fuori strada dal vedere il modo di vivere degli altri, i loro calcoli, l’attenzione esclusivamente rivolta al guadagno. Non avrei mai pensato che ci fosse tra tutti una persona capace di fare il bene altrui. Questo era l’ostacolo che avevo davanti. Solo Gorgia ora mi ha dato coi fatti la prova di essere una persona generosa. Io non lo lasciavo neppure avvicinare alla mia porta; non l’ho mai aiutato, non gli ho mai dato neppure una parola di saluto, una parola gentile eppure mi ha salvato.  Un altro avrebbe detto, e con ragione: «Non mi vuoi nella tua casa? E io non ci vengo. Non mi hai mai fatto un piacere? E neanche io lo faccio a te». Che c’è, ragazzo? Se muoio – e credo proprio di sì, sto male – e anche se sopravvivo, ti adotto come mio figlio. Tutto quello che ho, fa’ conto che sia tuo. Ti affido mia figlia, trovale un marito. Io non potrei farlo neanche se fossi sano; nessuno mi piacerebbe. Quanto a me se vivo, lasciatemi vivere come mi piace. E anche il resto curalo tu al posto mio; hai senno abbastanza, grazie agli dèi. Del resto, è giusto che sia tu ad occuparti di tua sorella. Dalle in dote metà dei miei beni; l’altra metà deve servire al mantenimento mio e di tua madre. Figlia mia, aiutami a sdraiarmi: parlare più del necessario non è da persona saggia. Però devi sapere ancora una cosa, poche parole a proposito del mio carattere: se tutti fossero come me, non ci sarebbero tribunali, né prigioni né guerra, e tutti si accontenterebbero di poco. Ma a voi piace più questo modo di vivere. E allora, comportatevi come vi pare, e il vecchio bisbetico se ne va fuori dai piedi.

     Per capire meglio la differenza tra la figura del dyskolose quella del misantroposè utile fare riferimento allo spunto finale della commedia che – secondo lo stile di Menandro – è molto ironico: dopo che Cnemone ha ricevuto un aiuto insperato dal figliastro e mentre sta facendo autocritica (perché non è vero che al mondo non ci sono persone buone e generose: qualcuna c’è!) tuttavia rivendica, rivolgendosi al figliastro, la bontà della propria scelta e dice: «Però devi sapere una cosa, ti dico poche parole a proposito del mio carattere. Se tutti fossero come me [“dyskolos”], non ci sarebbero né tribunali, né prigioni, né guerre, e tutti si accontenterebbero di poco». Menandro è sarcastico – e c’è anche una dose di pessimismo nel suo pensiero rivolto verso il pubblico (che lui non ama perché ne conosce l’ipocrisia) il quale è a teatro solamente per divertirsi ma non per cambiare stile di vita) – perché, in fondo, Cnemone continua a pensare che essere un dyskolos sia quasi una virtù e questo è un tema (su cui Menandro fa centro!) di grande attualità: certi vizi (lussuria, razzismo, xenofobia, omofobia…), oggi, sono considerati delle opportunità (le virtù non sono di moda). Quando poi – come succede nel periodo dell’Ellenismo – questi vizi diventano delle opportunità per avere il consenso popolare allora ci si avvia inesorabilmente verso sistemi di carattere dispotico.

     E, alla fine, sotto l’egida dell’ironia di Menandro, anche il vecchio Cnemone, sebbene molto riluttante, viene trascinato, dal cuoco e dal servo, alla festa di nozze ma non sappiamo se sia stato capace di divertirsi perché l’autore – con lo stile del moderno romanziere – non ce lo dice esplicitamente ma ci fa capire che lui dubita che il dyskolos si sia potuto divertire: chi non è capace di coltivare, in modo disinteressato, l’amicizia – scrive Menandro, parafrasando Epicuro – non sa gioire.

     Gioisce invece Teofrasto perché l’idea di farsi conoscere in una Scuola nel periodo del terzo millennio d.C. lo rende felice. Nell’itinerario della prossima settimana incontreremo anche questo personaggio e, per prima cosa, verremo a sapere che Teofrasto non è il suo vero nome ma è un soprannome che gli ha dato [niente po’ po’ di meno che] Aristotele. Perché Aristotele attribuisce a questa persona un soprannome così impegnativo che ha prevaricato il suo proprio nome? Che cosa significa Teofrasto, e perché c’è qualcosa di divino [“Teossignifica Dio]” in questo pseudonimo?

     Ma, prima di incontrare Teofrasto, nel prossimo itinerario ci dovremo occupare di un argomento veramente interessante: la cosiddetta questione della resurrezione di Menandro. In che termini si pone la questione della resurrezione di Menandro? Non si pone in termini divini ma è uno di quegli argomenti da specialisti [un celebre intreccio filologico] che tutti, però, possono comprendere e conoscere: perché – allude Epicuro –  privarsi di questo piacere?

     Per rispondere a questo, e a molti altri interrogativi, il viaggio continua…

     La Scuola è qui e ogni persona ha diritto all’Apprendimento permanente…

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 29, 2010