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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È LA CONCEZIONE MATERIALE, MECCANICA, CAUSALE E NECESSARIA DELL’UNIVERSO ...

Lezione N.: 
13

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica   20-21-22  gennaio  2010

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA

C’È LA CONCEZIONE MATERIALE, MECCANICA, CAUSALE E NECESSARIA DELL’UNIVERSO ...

     Siamo ad Atene intorno all’anno 300 a.C., alla fine del IV secolo a.C., ospiti nel Giardino (o nell’Orto, che dir si voglia) di Epicuro: sappiamo che Epicuro scrive nelle sue Massime: Di tutti i beni che la saggezza ci porge, il più prezioso è l’amiciziae questa è la chiave per capire il suo pensiero.

     Ma perché dobbiamo coltivare l’amicizia? Da che cosa dipende il fatto che dobbiamo coltivare l’amicizia con tutte le sue caratteristiche positive: l’utilità, il diletto, la consolazione, la motivazione per la conoscenza? Secondo Epicuro la ragione per cui dobbiamo coltivare l’amicizia dipende da come è fatto l’Universo. Che cosa significa questo? E come è fatto l’Universo per Epicuro?

     Per sapere come è fatto l’Universo per Epicuro dobbiamo interpellare Democrito di Abdera il quale, questa sera, è qui. Per Epicuro, infatti, il maestro di fisicaper eccellenza e l’unico pensatore verso il quale abbia nutrito un po’ di stima è proprio Democrito di Abdera, il codificatore di quella dottrina che si chiama l’Atomismo e noi sappiamo che Epicuro (anche se non ha mai voluto ammetterlo) si è formato nella Scuola democritèa di Theos fondata da Nausifane. Quindi per conoscere e per capire la dottrina di Epicuro è necessario studiare – come ha fatto lui – il pensiero di Democrito. Le tesi di Democrito di Abdera (elaborate più di un secolo prima) hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo della Storia del Pensiero Umano nel corso dell’Ellenismo. Anche Democrito, come Epicuro, è emigrato ad Atene con la differenza che Democrito era ad Atene circa un secolo prima di Epicuro.

     Democrito è nato ad Abdera, una florida cittadina della Tracia meridionale fondata dai Fenici: la tradizione mitica racconta che è stata fondata da Eracle. Oggi l’antica Abdera corrisponde al villaggio di Àvdira: lo potete individuare sull’atlante e trovare sulla guida della Grecia e sulla rete. Otto chilometri più a sud di Àvdira, sul mare, ci sono gli interessanti scavi della città ellenistica, con mura e torri rifatte in epoca bizantina (intorno al VI secolo) e alcune basiliche paleocristiane.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate una visita – con l’atlante e con la guida della Grecia – all’antica Abdera e all’odierna Àvdira orientandovi su quello che è oggi il centro più grande della zona che è meta della vostra escursione: la cittadina di Xànthi…  Buon viaggio…

     Democrito, nato tra il 472 e il 457 a.C., ad Abdera, sarebbe stato discepolo di Leucippo, che viene considerato come il fondatore della Scuola atomistica. E allora, a questo punto, dobbiamo domandarci chi è Leucippo? Parlare di Leucippo non è una cosa facile perché di lui si sa poco e perché c’è anche chi sostiene che non sia mai esistito e che Leucippo e Democrito siano la stessa personA. La data di nascita di Leucippo viene prudentemente, dalle esperte e dagli esperti, collocata tra il 490 e il 470 a.C.. Su dove Leucippo sia nato i pareri sono discordi: Diogene Laerzio (che continua ad accompagnarci), nella sua Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, scrive:

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

C’è chi sostiene che Leucippo è nato a Mileto, chi a Elea, chi ad Abdera e chi in nessun luogo: Epicuro, il quale, pur professandosi un estimatore delle teorie atomiste, nega, nella Lettera a Euriloco, che sia mai esistito un filosofo chiamato Leucippo.

     A dir la verità questa affermazione di Epicuro non sembra credibile: Aristotele nella sua opera La Generazione e la Corruzione nomina Leucippo ben undici volte ed è alquanto improbabile che uno meticoloso come Aristotele si sia messo a ragionare su un filosofo immaginario. Sulla scia di Aristotele, le studiose e gli studiosi, hanno ipotizzato che Leucippo sia nato a Mileto e che sia vissuto lì fin verso il 450 a.C., fino ai tempi della rivolta di Mileto contro i Persiani (un periodo che abbiamo studiato a suo tempo grazie a Le Storie di Erodoto). Poi, probabilmente, Leucippo comincia a viaggiare per il mondo e passa anche da Abdera. Qui Leucippo ci si trova bene e fonda una Scuola, e a questa Scuola s’iscrive uno studente in possesso di grandi capacità intellettuali: Democrito [questo nome significa: che giudica in nome del popolo]. Democrito è uno studente che è stato capace di offuscare la figura del maestro da suscitare dei dubbi sulla sua stessa esistenza. Il fatto è che Democrito non ha mai nominato Leucippo (fa la stessa cosa anche Epicuro con i suoi maestri!) nelle sue numerose opere. E tutti gli storici – con la sola eccezione di Diogene Laerzio – citano sempre Leucippo in coppia con Democrito, rendendo difficile distinguere il pensiero del maestro da quello dell’allievo.

     A Leucippo viene attribuita un’opera, un poema filosofico, intitolato Grande Ordinamento: ebbene anche questo testo è stato inserito nel Corpus Democriteum ed è diventato anch’esso uno scritto di Democrito. Al di là dell’invadenza di Democrito – che è senza dubbio un personaggio di valore – è doveroso riconoscere a Leucippo il merito di avere messo a punto due concetti fondamentali della Storia del Pensiero: il concetto del vuoto e il concetto di atomo”. Gli atomi – secondo Leucippo – sono gli ultimi corpuscoli in cui è possibile dividere la materia: e infatti atomos, in greco, significa appunto indivisibile. Questi due concetti – di vuoto e di atomo – messi a punto da Leucippo vengono sviluppati da Democrito.

     Ebbene, che cosa sappiamo su Democrito di Abdera? Anche su di lui c’è tutta una tradizione mitica e Diogene Laerzio – nostro puntuale informatore – scrive che Democrito è il più piccolo di quattro figli: aveva due fratelli, Damaste ed Erodoto (non l’Erodoto che è stato nostro compagno di viaggio), e una sorella di cui non si conosce il nome. Democrito nasce e cresce in una ricca famiglia di latifondisti e, quando muore il padre, rinuncia alla sua parte di terreni e si fa dare solo un po’ di soldi in contanti. È però una bella sommetta quella che riceve (erano ricchi!) perché Diogene Laerzio parla di cento talenti, come dire circa cinquecentomila euro. Democrito accetta questo denaro – scrive Diogene Laerzio – solo per poter realizzare un progetto a cui lui tiene particolarmente: quello di girare tutto il mondo e di incontrare quanti più maestri fosse stato possibile. Questo progetto di Democrito è documentato, è ricordato nella letteratura: facciamo un esempio, che è anche uno dei più famosi e che viene dalla cultura dell’Ellenismo. Il poeta latino Orazio (65-8 a.C.) – che, strada facendo, abbiamo già incontrato – descrive nella sua Epistola prima (la prima Lettera), con una pennellata di sapienza poetica ellenistica, lo spirito di Democrito viaggiatore, il quale anche quando torna a casa con il corpo continua a viaggiare con la mente.

     Leggiamo questo frammento:

LEGERE MULTUM….

Quinto Orazio Flacco,  Epistole [I  12,12]

Qual meraviglia se il bestiame entra nei campi di Democrito e guasta le messi, mentre l’animo di lui, immemore del corpo, se ne va errando veloce

     Democrito è stato un instancabile viaggiatore per motivi di apprendimento: ha studiato l’astronomia con i Caldei, la teologia con i Magi e la geometria con gli Egizi. Diogene Laerzio c’informa che Democrito ha visitato l’Etiopia, si è bagnato nel Mar Rosso e – come se fosse un ellenista ante litteram – ha raggiunto perfino l’India dove ha avuto modo di conoscere i Gimnosofisti [gymnos, in greco, significa nudo, quindi ci vengono in mente i santoni indiani”]. Clemente Alessandrino (noto esponente dell’Ellenismo cristiano che abbiamo già incontrato qualche volta, e anche nel Percorso dello scorso anno) nella sua opera intitolata Stromata [Tappeti] riporta un’affermazione fatta da Democrito sul suo essere viaggiatore: leggiamo questa affermazione.

LEGERE MULTUM….

Clemente Alessandrino, Stromata [Tappeti]  (tra il 202 e il 215)

«Io, Democrito, tra i miei contemporanei, sono quello che ha percorso la maggior parte della Terra, facendo ricerca delle cose più strane; e vidi delle terre numerosissime; e udii la maggior parte degli uomini dotti; e nella composizione di figure geometriche, con relativa dimostrazione, nessuno mi superò»

     Democrito – scrive Diogene Laerzio – nei suoi viaggi è stato sempre aiutato dai re di Persia, e il re Serse, quando ha attraversato la Tracia per andare ad attaccare l’Ellade all’epoca della seconda guerra persiana, è stato ospite a casa di suo padre. Naturalmente Democrito sbarca anche ad Atene e qui – sostiene Diogene Laerzio – «non si curò di diventare noto perché disprezzava la gloria. Egli ascoltò Socrate ma da Socrate non fu conosciuto, e le sue parole furono: Venni ad Atene e nessuno mi conobbe». Diogene Laerzio, nella sua Raccolta, ha avanzato anche un’ipotesi che deve essere spiegata: Platone ha scritto un’opera (per lo meno, a lui viene attribuita) che s’intitola I rivali d’amore. Ebbene, Diogene Laerzio sostiene che Democrito potrebbe essere il personaggio anonimo, il giovanotto sconosciuto che, in quest’opera, parla con Socrate: questi, infatti, in questo dialogo, sostiene che il filosofo è come un pentatleta (il pentatlon è un’antica disciplina in cui l’atleta deve misurarsi in cinque discipline diverse), una persona cioè capace di essere il primo nella graduatoria finale, pur non avendo vinto in nessuna specialità particolare, e Democrito, per l’appunto, si vanta di essere un esperto in Fisica, in Etica, in Scienze Enciclopediche, in Arte e in Matematica.

     Quando Democrito torna ad Abdera, dopo tutti questi viaggi, dei soldi che aveva ereditato non ha più nemmeno una dracma e allora non può far altro – scrive Diogene Laerzio – che andare a vivere in casa dei suoi fratelli come parente povero. Ma una legge della Tracia – prosegue Diogene Laerzio – punisce il cittadino che dilapida le sostanze ereditate dal padre, e la pena consiste nel non poter essere sepolto in patria. Democrito viene condannato come dilapidatore e, allora, per evitare di esser buttato in mare dopo morto, legge in pubblico – scrive Diogene Laerzio – uno dei suoi libri: la Grande Cosmologia [che in realtà assomiglia molto all’opera di Leucippo intitolata Grande Ordinamento]. Le cittadine e i cittadini di Abdera, colpiti da tanta scienza, non solo gli garantiscono i funerali a spese dello Stato, ma – scrive Diogene Laerzio in modo un po’ ironico – fanno una colletta e gli restituiscono pure i cento talenti che aveva speso (ma si sa che i cittadini di Abdera – non so se ve lo ricordate o se lo avete sentito dire – hanno fama di essere un po’ strani).

     Comunque da ciò che scrive Diogene Laerzio nella sua Raccolta il personaggio di Democrito appare assai contraddittorio: da una parte è un burlone, sempre pronto a ridere e a scherzare, dall’altra è un serio studioso che ama ritirarsi in solitudine. Probabilmente in Democrito ci sono entrambi questi aspetti: non a caso è stato soprannominato contemporaneamente sia il Derisore che il Sapiente. Celebre in tutta la Grecia è la risata fragorosa di Democrito…

     Per questo motivo – scrive Diogene Laerzio – è stato sempre criticato nei circoli intellettuali ateniesi e di lui si dice: «È di Abdera, dove di solito nascono gli imbecilli». Ci sono alcuni paesi che vengono bersagliati in questo senso e ciò nasce anche dalla rivalità che si sviluppa tra le varie polis (permangono ancora – dappertutto e anche qui in Toscana – i modi di dire fortemente ironici tra Pisani, Fiorentini, Livornesi e via dicendo). Per esempio voi sapete che uno dei paesi più bersagliati da questo punto di vista è Nazareth. Nella Letteratura dei Vangeli – è letteratura ellenistica e la ristudieremo a suo tempo – tutti si domandano come sia possibile pensare che il Messia possa venire da Nazareth, un posto «dove di solito nascono gli imbecilli».

     E ora, a questo proposito, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, dobbiamo (senza perdere il filo) aprire una parentesi che ci ricorda un Percorso di qualche anno fa (del 2004) nel territorio del Romanticismo titanico. Dobbiamo spostarci nel 1780 nel ducato (questo è un momento in cui sul suolo tedesco ci sono tanti piccoli Stati) di Sassonia-Weimar. Questo ducato è governato da una donna: la duchessa Anna Amalia di Sassonia-Weimar, la quale – rimasta vedova – prende su di sé la responsabilità del governo del piccolo ducato e riesce, con grande intelligenza, a far diventare, ai primi dell’800, la città di Weimar simile all’Atene del V secolo a.C..

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Spero che voi abbiate visitato la bella città di Weimar, se così non fosse (o se non vi ricordate com’è) utilizzate una guida della Germania oppure la rete e fate un’escursione a Weimar dove si respira aria di Ellenismo…

     La duchessa Anna Amalia si cura soprattutto della formazione culturale e dell’educazione intellettuale dei suoi figli: ha due figli Carlo Augusto e Costantino, e in particolare vuole occuparsi della formazione del primogenito Carlo Augusto, in modo da prepararlo ad assumere degnamente il governo di quel piccolo Stato. La duchessa Anna Amalia invita nella capitale del suo piccolo Stato molte e molti intellettuali: tutte persone che abbiamo incontrato a suo tempo e tutte competenti soprattutto nelle tematiche riguardanti la sapienza poetica ellenistica. La duchessa Anna Amalia raduna tutte queste importanti figure intellettuali intorno ad un Cenacolo perché possano costruire (anche se non era cosa facile farli lavorare insieme) un progetto culturale che possa avere una ricaduta positiva sulla convivenza sociale, sull’economia, sulla politica dello Stato: un’esperienza veramente degna di nota!

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Adesso noi non abbiamo il tempo per fare l’elenco di tutte le figure intellettuali che sono passate dal Cenacolo dove è stato creato e si e sviluppato il programma culturale di Weimar ma se – utilizzando la guida della Germania – andate (con quello strumento formidabile che è la lettura) a fare una visita alla città le potete incontrare quasi tutte perché hanno lasciato il segno…

     Adesso noi concentriamo la nostra attenzione – è solo una parentesi quella che abbiamo aperto – su una sola persona. La duchessa Anna Amalia chiama a corte, come precettore del figlio, Christoph Martin Wieland, un professore di filosofia, ma soprattutto uno scrittore, un poeta. Ora, al di là delle chiacchiere (sembra che lo scrittore e la duchessa si piacessero): perché la duchessa Anna Amalia invita proprio Wieland alla corte di Weimar a occuparsi dell’educazione dei figli? on certamente soltanto per ragioni di simpatia e di affetto, ma le ragioni della scelta stanno in quello che Wieland ha prodotto come intellettuale che guarda verso le forme e i contenuti della sapienza poetica ellenistica.

     Ma chi è Christoph Martin Wieland? L’esperienza culturale di Christoph Martin Wieland (1733-1813) è esemplare, e ricalca quella di molti intellettuali europei del settecento. Wieland cresce e viene educato – come Kant – nella tradizione pietista: la corrente più intransigente del movimento protestante e, fino a trent’anni, coltiva un pensiero mistico-religioso, poi aderisce – come Kant – alle idee dell’Illuminismo e il suo modo di pensare si laicizza e il suo comportamento diventa anti-conformista.

     Christian Martin Wieland è autore di molte opere importanti (saggi, poemi, romanzi): noi adesso vogliamo occuparci di una sola delle sue opere (e probabilmente molte e molti di voi se la ricorderanno), che ci riguardA. A Weimar, nel 1781, Wieland pubblica un romanzo satirico che, in parte, aveva già messo in circolazione dal 1774, a puntate, sulle pagine della rivista Mercurio tedesco: questo romanzo s’intitola Gli Abderitani. E gli Abderitani sono gli abitanti della città di Abdera, e ora si capisce anche perché abbiamo aperto questa parentesi.

     Questo romanzo è scritto con l’ironia tipica delle opere di Voltaire – cioè in perfetto stile illuminista – ma nel suo complesso risente dei generi letterari fioriti con la sapienza poetica ellenistica. Il romanzo Gli Abderitani racconta una serie di episodi che avvengono in Abdera, nel periodo della piena fioritura della civiltà ateniese. Sappiamo già che gli Abderitani, nell’antichità, hanno avuto – soprattutto presso gli Ateniesi e i Romani – una fama particolare: sono considerati gente sciocca e sempliciotta, dei bischeri (diremmo noi a questa latitudine)! Da questo concetto Wieland prende spunto – ne fa un pretesto – per fare ironia, sulla superficialità, sulla banalità, sull’imbecillità che lui riscontra nella società in cui vive e questo, purtroppo, non è un tema che è passato in secondo piano ma si tramanda da Atene, a Weimar, fino ai nostri giorni.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quali manifestazioni di imbecillità vi colpiscono maggiormente? 

Scrivete quattro righe in proposito…

     Gli Abderitani – scrive Wieland – prendono ogni parola, detta in metafora, per pura verità. Si lasciano trasportare dalla loro fantasia, e agiscono sotto l’impulso delle prime impressioni, senza riflettere, passando con rapidità e senza alcun nesso logico da un’azione all’altra. Ignorano completamente l’importanza dell’arte, della filosofia e della scienza, mentre le frivolezze diventano eventi straordinari, e le sciocchezze diventano faccende di Stato. Una sola cosa importa agli Abderitani: imitare la grande  Atene e sentirsi pari agli Ateniesi.

     Per descrivere – in modo satirico – la mentalità frivola degli Abderitani lo scrittore utilizza il personaggio di Democrito di Abdera, e anche per questo motivo abbiamo aperto questa parentesi. Wieland, nel testo del suo romanzo, approfitta anche per spiegare che Democrito di Abdera, discepolo di Leucippo e maestro di Epicuro, ha scoperto gli atomi e ha fondato la Scuola atomistica e con questo lo scrittore vuole ribadire che non tutti erano grulli ad Abdera ma solo la stragrande maggioranza della popolazione. Democrito – scrive Wieland – dopo dieci anni di viaggi per il mondo, torna in patria con idee nuove e ragionamenti nuovi: ha imparato molte cose viaggiando, soprattutto in Oriente, e vorrebbe riformare gli usi, i costumi della città secondo le esperienze che ha fatto: Che cosa hai visto – gli domandano – che possa essere utile per noi?. Ma gli Abderitani non ne vogliono sapere, ritengono che ogni rinnovamento, in Abdera, sia un male e sia un errore, anzi: «per salvarsi dalla sventura di avere altri cittadini come Democrito, gli Abderitani fanno una legge con la quale si proibisce ai giovani di viaggiare».

     Un giorno – scrive Wieland – ad Abdera arriva Euripide con la sua compagnia teatrale per rappresentare una sua tragedia in versione musicale. Ma i bravi Abderitani – che in un primo momento sono entusiasti della presenza del grande tragediografo nella loro città – non gradiscono affatto la rappresentazione e, annoiati dai temi esistenziali proposti dalla tragedia, abbandonano il teatro prima ancora che lo spettacolo si concluda dicendo ad alta voce che preferiscono il loro teatro: il varietà, che non affatica troppo il cervello e non mette la mente in movimento.

     Tutta la seconda parte del romanzo di Wieland verte su un singolare processo intentato da un mercante d’Assiria a un dentista di strada. Il mercante ha affittato un asino al dentista perché possa svolgere il suo lavoro di cavadenti in città: allora i dentisti erano ambulanti. Il dentista, attraversando un luogo assolato della città, si siede all’ombra dell’asino. Il mercante pretende di essere pagato anche per l’ombra fornita dal suo asino al dentista, e tutta la città finisce per essere coinvolta in questo terribile caso e si formano subito due partiti: il partito dell’ombra e il partito del cavadenti e la discussione non avrà mai fine.

     Intanto, tra gli Abderitani, si scatena una controversia religiosa di grandissima importanza intorno ai rospi sacri a Latona: in quale tonalità devono cantare i rospi sacri per rendere onore alla dèa? Poi succede che – scrive sarcastico Wieland – per tutta una serie di contrattempi una gran parte della popolazione di Abdera emigri verso nuovi lidi. E così gli Abderitani – annuisce ironico Wieland – si sono sparpagliati per il mondo, pur rimanendo sempre Abderitani e, molti di loro, sono arrivati fin qui! Non proprio qui perché – allude Wieland – gli Abderitani a Scuola non ci vengono! (Forse sono quelli che quando li incontrate esclamano meravigliati: «Vai a Scuola? Ma che cosa vuoi diventare?». Democrito risponderebbe che A Scuola ci si va per Essere, non per diventare). Nel romanzo intitolato Gli Abderitani Wieland prende soprattutto di mira la sua città natale, Biberach, raffigurando se stesso in Democrito, inascoltato e sbeffeggiato dai suoi concittadini sciocchi e superficiali.

     Wieland, nelle sue opere, e anche in questo romanzo, esalta uno dei concetti-cardine dell’Ellenismo: il cosmopolitismo, l’essere cittadini del mondo e si schiera contro tutte le forme di stretto nazionalismo che si vanno affermando: proprio lo studio delle tradizioni popolari deve servire per allargare i nostri orizzonti nella prospettiva ellenistica dell’Ecumene e non, scrive Wieland: «Per chiuderci in un localismo asfittico, inconcludente e pericoloso».

     E ora leggiamo – per chiudere la parentesi – una pagina da Gli Abderitani:

LEGERE MULTUM….

Christoph Martin Wieland,  Gli Abderitani   (1781)

Una volta venne loro in mente che una città come Abdera era giusto possedesse anche una bella fontana. Doveva essere eretta nel mezzo della loro grande piazza del mercato, e per sopperire alle spese fu istituita una nuova imposta. Fecero venire un celebre scultore da Atene per eseguire un gruppo di statue, le quali rappresentavano il dio del mare su un cocchio tirato da quattro cavalli marini e circondato da ninfe, tritoni e delfini. I cavalli marini e i delfini avrebbero dovuto schizzare dalle narici copiosi getti d’acqua. Ma quando tutto fu pronto, essendoci sulla piazza del mercato solo un umile pozzo, si trovò che vi era appena abbastanza acqua per inumidire il naso di un unico delfino, quindi al momento in cui si fece sprizzare l’acqua parve che tutti quei cavalli marini e tutti quei delfini avessero il raffreddore. Decisero allora di trasportare tutto il gruppo di statue nel tempio di Nettuno, ma, anche lì, dove sgorgava solo un esile zampillo naturale la fontana non funzionava!

Ogni volta che il gruppo di statue veniva mostrato a qualche forestiero, il custode con grande serietà esprimeva in nome dell’esimia città di Abdera il rincrescimento che una così magnifica opera d’arte fosse condannata a rimanere inservibile per l’avarizia della natura, e quando il visitatore domandava: «Ma non vi eravate accorti prima che in quel luogo e in questo luogo c’è penuria d’acqua?». La guida cittadina, piccata, rispondeva: «Ma non s’è mai visto che una fontana dedicata a Nettuno, bella e costosa per giunta, non attiri acqua di per sé, pensate forse che sia Nettuno che debba andare all’acqua? Sarà ben l’acqua che va a Nettuno! È l’acqua che va alla fontana, quando mai è la fontana che va all’acqua?».   

Un’altra volta acquistarono una bellissima statua di Afrodite in avorio, che era annoverata tra i capolavori di Prassitele. Era alta cinque piedi circa e doveva esser posta su un altare della dea dell’Amore. Quando la statua giunse, tutta Abdera andò in visibilio per la bellezza della sua Afrodite: gli Abderitani infatti si spacciavano per fini intenditori ed entusiastici amanti dell’arte. «È troppo bella – esclamarono unanimi – per stare su un posto basso; un capolavoro che fa tanto onore alla città ed è costato tanto denaro deve stare più in alto possibile: dev’essere la prima cosa che balzi all’occhio del forestiero quando entra in Abdera!». Conforme a questa felice idea posero la piccola leggiadra immagine in cima a un obelisco alto ottanta piedi; e sebbene ormai fosse impossibile riconoscere se raffigurasse Afrodite o un caprone pretendevano che ogni forestiero dichiarasse che: una cosa più perfetta non si era mai vista! Infatti, l’Afrodite di Abdera, divenne famosa perché: non si era mai vista! Ma loro, gli Abderitani erano convinti che, quello che in alto sta, sempre più bello è

     Christoph Martin Wieland, nell’utilizzo della vena satirica, s’identifica con Democrito e anche con gli scrittori epigrammatici dell’Ellenismo.

     Democrito è un burlone che sa essere un estroverso ma tende anche ad essere introverso. La tendenza all’introversione – scrive Diogene Laerzio – si manifesta in Democrito fin da giovanissimo: da bambino si costruisce, nella zona più nascosta del giardino di casa, un capannino, una specie di tana, dove si rifugia per tenersi lontano dagli occhi di tutti, e in età matura – racconta sempre Diogene Laerzio – è solito trascorrere lunghi periodi di tempo nella solitudine del deserto o tra le tombe dei cimiteri per poter dare maggior spazio alla propria immaginazione.

     E ora leggiamo un frammento, tratto dalle Lettere dell’imperatore Giuliano detto l’Apostata (331-363) che, nel periodo del secondo Ellenismo, racconta un episodio della vita di Democrito, un episodio di natura allegorica:

LEGERE MULTUM….

Giuliano l’Apostata, Lettere [CCI]

Un giorno Democrito di Abdera non sapendo come consolare il Grande Dario, il re dei Persiani, per la morte della moglie, gli disse: «Procurami tutte le cose che ho scritto su questo foglio e io ti prometto che la farò resuscitare». Il re si dette subito da fare affinché il saggio fosse accontentato in ogni particolare, ma non fu possibile soddisfare l’ultima delle sue richieste, quella cioè d’incidere sulla lapide della regina il nome di tre uomini che nella vita non avessero mai provato un dolore. Al che Democrito disse: «Sei una persona irragionevole, tu piangi senza ritegno come se fossi il solo essere al mondo ad aver sofferto una simile sventura»

     La tradizione mitica racconta che Democrito, una volta diventato vecchio, si sia privato spontaneamente della vista, esponendo i propri occhi ai raggi del sole riflessi da uno scudo argentato: non voleva – scrive Cicerone nelle Tusculanae disputationes che «la vista del corpo gl’impedisse quella dell’anima». Tertulliano, invece, sostiene, nell’Apologeticum, che il vecchio gaudente Democrito «si è accecato per non vedere più le belle donne, dal momento che non era più in condizione di amarle». A testimonianza di questo fatto drammatico, rimane una poesia di Laberio Decimo, tramandataci da Aulo Gellio, nelle Notti Attiche, un’opera di sapienza ellenistica su cui abbiamo soffermato altre volte la nostra attenzione.

LEGERE MULTUM….

Aulo Gellio, Notti Attiche (seconda metà del II secolo)

Laberio Decimo porta testimonianza, nei suoi versi, sul dramma della cecità di Democrito di Abdera:

Democrito di Abdera, nello studio della  fisica, campione

rivolse uno scudo d’argento proprio verso la parte dove sorge Iperione

per potersi togliere la vista nell’intenso celeste splendore,

così coi raggi del sole egli si privò della luce degli occhi, per vedere solo col cuore.

     Porfirio di Tiro (un altro personaggio che abbiamo incontrato sulla scia di Pitagora) in una sua opera intitolata L’astinenza scrive che Democrito ha affermato: «Spesso il vivere a lungo non è un lungo vivere ma un lungo morire». Democrito, superati i cento anni, decide di togliersi la vita e leggiamo come Diogene Laerzio descrive la morte di Democrito:

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Democrito, superati i cento anni, decide di togliersi la vita e diminuisce progressivamente la propria razione di cibo fino a non mangiare più nulla. Giunto allo stremo delle forze, stava quasi per rendere l’anima, quando la sorella, anch’essa centenaria, si lamentò che, se fosse morto, il lutto le avrebbe impedito di partecipare alle feste Tesmoforie. Il filosofo allora, con molta pazienza, chiese che gli venissero portati dei pani caldi e se li accostò al viso. Sopravvisse ancora tre giorni, poi chiese alla sorella: «Sono finite le feste?». Lei rispose «sì, sono finite» e lui chiuse gli occhi per sempre.  Democrito di Abdera per tre giorni trattenne in casa la morte offrendole solo il caldo odore dei pani. La sua fama si diffuse e di lui parlò bene persino Timone di Fliunte [l’uomo più maldicente dell’antichità].   

     L’unico irriducibile detrattore di Democrito di Abdera è Platone il quale si rifiuta sempre di nominarlo e vorrebbe che le opere di Democrito sparissero dalla circolazione ma gli scritti di Democrito erano diffusi dappertutto e dappertutto riscuotevano consensi. Platone non sopporta il fatto che Democrito lasci troppe domande in sospeso.

     Ma in che cosa consiste il pensiero di Democrito: quel pensiero che è stato assorbito completamente da Epicuro? E quali sono le domande che Democrito di Abdera lascia in sospeso?

     Per Democrito – così come per Epicureo – la realtà è costituita dagli atomi e dal vuoto. Gli atomi sono dei corpuscoli, infiniti di numero, assolutamente compatti, quindi indivisibili, uguali per qualità, ma diversi per forma geometrica e per grandezza. Il vuoto invece è semplicemente un «non-qualcosa», in greco oudén. Il vuoto, il «non-qualcosa», esiste così come esiste il «qualcosa» in greco  den. Il termine den in greco è l’ente, e oudén vuol dire «niente» o, per meglio dire, «ni-ente».

     Quindi il mondo – come dice Cicerone nel De finibus, citando Democrito – sarebbe formato da pezzettini di materia, durissimi, fatti a forma di palline, di cubetti, di dodecaedri e via dicendo, che si muovono all’interno di uno spazio fisico fatto di niente. Questi pezzettini, chiamati atomi, a volte s’incollano tra di loro e altre volte si staccano.

     Questa descrizione su come è fatto il mondo non fa una piega però – come ci ricorda Platone – viene subito spontaneo chiedersi: chi ha fatto gli atomi e il vuoto, chi fa muovere gli atomi, chi ha dato loro la prima spintarella, chi li incolla e chi li stacca? Qui le risposte di Democrito sono meno convincenti. Gli atomi – risponde Democrito – sono infiniti ed esistono da sempre, così come da sempre si muovono nel vuoto. Gli atomi ruotano in un turbine [dìnos] e, di tanto in tanto, si urtano. I rimbalzi [apopàllesthai], le scosse [palmós], gli sfioramenti [epìspasis] e i contraccolpi [sunkroùesthai] danno luogo a formazioni di ammassi che poi, in definitiva, sarebbero gli oggetti che ci circondano.

     La teoria fisica e cosmologica di Democrito è facilmente criticabile. Se gli atomi si muovano «da sempre» lungo percorsi circolari, due sono le ipotesi: o le traiettorie sono parallele, e allora non si capisce come sia avvenuto il primo scontro (a meno che non si sia trattato di un tamponamento!), o le traiettorie non sono parallele e allora gli scontri hanno avuto luogo fin dal primo istante. Ma come si fa ad ipotizzare un primo istante se Democrito ha appena detto che gli atomi si muovono «da sempre»? Epicuro cerca di risolvere questo problema e avanza l’ipotesi che gli atomi, in quanto diversi per grandezza lo siano anche per peso, e che questa diversità abbia provocato un’inclinazione nei loro percorsi: una parénklisis, secondo la terminologia di Epicuro, un clinamen secondo quella di Lucrezio, altro convinto atomista (che incontreremo a suo tempo). Ma tanto l’intervento di Epicuro, quanto quello di Lucrezio, non elimina i dubbi sul modo di aggregarsi degli atomi.

     Nel pensiero atomistico di Democrito non c’è posto per niente che non sia il pieno o il vuoto, perfino l’anima, il pensiero e le sensazioni sono fatti di materia. Gli atomi dell’anima sono più rotondi, più mobili e più lisci di quelli del corpo. L’essere umano – secondo Democrito – vive fin tanto che riesce, con la respirazione, a equilibrare gli atomi dell’aria con quelli dell’anima. Le sensazioni vengono percepite perché ogni oggetto emana un effluvio materiale, anche se invisibile, chiamato éidolon, che si scontra con l’aria interposta e che, dopo una serie di urti a catena, impressiona gli atomi dei sensi, i quali, a loro volta, trasmettono l’urto agli atomi del pensiero. Tutto – secondo Democrito – avviene attraverso contatti fisici. La conoscenza per Democrito – e anche per Epicuro – è un fatto soggettivo in quanto dipende dal mezzo interposto e dalla capacità del soggetto che riceve.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Spesso gli oggetti impressionano in modo particolare i nostri sensi: c’è qualcosa che vi dà fastidio toccare che vi procura una sensazione sgradevole e qualcosa che, invece, toccate volentieri?  

Scrivete quattro righe in proposito

     Democrito ha tentato di mettere d’accordo le due importanti Scuole di pensiero che hanno caratterizzato il suo secolo: la corrente di Parmenide di Elea con quella di Eraclito di Efeso. Da una parte ci sono i sostenitori dell’Essere di Parmenide e dall’altra quelli del divenire di Eraclito. Per i sostenitori di Parmenide l’Essere è Uno ed è qualcosa d’immobile, di eterno e di indivisibile. Per i sostenitori di Eraclito non c’è nulla al mondo che riesca a stare fermo o che possa essere paragonato a se stesso nemmeno dopo un istante.

     Come fare per conciliare queste due tesi opposte? Democrito propone la teoria atomistica anche con l’intento di conciliare queste due tesi: di mettere insieme l’Essere con il Divenire. Il concetto dell’atomo è vicino al pensiero di Parmenide perché l’atomo è l’essere immutabile, eterno, indivisibile e, al suo interno, è privo di vuoto. L’atomo ha le prerogative dell’Essere ad eccezione dell’immobilità perché l’atomo è mobile. Il concetto del vuoto è vicino al pensiero di Eraclito: il vuoto è uno spazio fisico dove gli atomi possono muoversi a loro piacimento e dove la materia può aggregarsi e disfarsi in un continuo divenire.

     Con la teoria atomistica Parmenide ed Eraclito potrebbero (il condizionale è d’obbligo) ritenersi entrambi soddisfatti. Invece ad essere scontenti sono i filosofi successivi: Socrate, Platone e Aristotele. Costoro – come abbiamo studiato nel Percorso dello scorso anno – vogliono fare luce sulla causa prima delle cose e sullo scopo finale della realtà. Per Socrate, per Platone e per Aristotele è come se Democrito avesse raccontato la trama di una commedia saltando la prima e l’ultima scena. D’altra parte l’affermazione che gli atomi sono stati mossi, in principio, da un Creatore, non risolverebbe il problema: Democrito, da buon materialista, chiederebbe subito: «E il Creatore chi l’ha creato?».

     Con il pensiero di Democrito, nella Storia del Pensiero Umano, prendono forma due temi importanti che verranno sviluppati nel periodo dell’Ellenismo: il materialismo e l’universalismo. In questa cornice materialista non c’è nessuno spiraglio metafisico, non c’è nessuna possibilità di prendere contatto con realtà ultraterrene che, per Democrito, sono un’ipotesi assolutamente impossibile. Anche per Democrito, come per Parmenide, l’Essere corrisponde alla necessità: solo che la necessità democritèa non è quella della giustizia o del destino, ma è una necessità causale che mette insieme, anello dopo anello, l’intera serie dei fenomeni della natura. Di conseguenza – pensa Democrito – i princìpi della morale non sono scritti nel Destino (non è il Destino che premia e punisce) ma devono essere elaborati con la ragione.

     Democrito, riflettendo sulla necessità causale, ha descritto l’origine della vita sul pianeta, lo sviluppo delle specie animali e, fra queste, della specie umana, fino al costituirsi della vita associata e all’invenzione del linguaggio (il lògos). In questo quadro evolutivo Democrito spiega l’origine delle leggi e della religione che è generata dal timore che gli esseri umani, fin dagli albori, provano di fronte ai grandi fenomeni della natura. Il nostro mondo è, per Democrito, uno degli infiniti mondi possibili nati dal vortice originario degli atomi: la persona, chiusa in una vicenda meccanica che la precede e la sovrasta, non ha altra via di saggezza che quella di sentirsi cittadina del mondo, secondo le misure date dalla ragione e non secondo le passioni egoistiche o gli interessi speculativi. Il materialismo – secondo Democrito – dà all’essere umano, in virtù della ragione, una visione della vita di respiro universale.

     Leggiamo questo significativo frammento tratto dalla sua opera che anticipa la mentalità ellenistica:

LEGERE MULTUM….

Democrito di Abdera, Frammenti [Fr. 247]

Ogni paese della terra è aperto alla persona saggia: perché la patria dell’animo virtuoso è l’intero universo

     E ora possiamo rispondere alle domande che si siamo fatte, che ci siamo fatti all’inizio di questo itinerario ospiti del Giardino (o dell’Orto) di Epicuro. Egli scrive: Di tutti i beni che la saggezza ci porge, il più prezioso è l’amiciziae questa è la chiave per capire il suo pensiero. Ma perché dobbiamo coltivare l’amicizia? Da che cosa dipende il fatto che dobbiamo coltivare l’amicizia con tutte le sue caratteristiche positive: l’utilità, il diletto, la consolazione, la motivazione per la conoscenza? Secondo Epicuro la ragione per cui dobbiamo coltivare l’amicizia dipende da come è fatto l’Universo. E l’Universo – ed Epicuro condivide la teoria di Democrito, a parte alcune variazioni non particolarmente rilevanti – è formato dall’aggregazione materiale, meccanica, causale e necessaria degli atomi e quindi la morale nasce dalla ragione umana e la ragione (di fronte al silenzio dell’Universo) suggerisce che l’amicizia – sostenuta dall’equilibrio e dalla prudenza – sia la condizione necessaria per costruire il bene tra le persone.

     Epicureo, a questo proposito, può cogliere da Democrito anche altri motivi di riflessione. Democrito, durante la sua lunga vita – vive fin verso il 370 a.C. –, fa esperienza del sorgere e del disgregarsi del sistema democratico ateniese che sfocia nella demagogia e nel populismo. Democrito è un sincero democratico ed è fautore della divisione dei poteri, e quindi ad un certo punto – cadute queste prerogative – preferisce tenersi in disparte per meglio tutelare la virtù che egli vuole insegnare nella sua Scuola. La virtù che Democrito vuole insegnare attraverso il suo piano di studi è l’euthymia: il buon umore, la gioia di vivere. Questa virtù – l’euthymia – si acquisisce se la persona impara a vivere con moderazione e con benevolenza, e anche con fermezza di carattere e con una solida disciplina interiore. Di questa disciplina fa parte anche la serena accettazione dei limiti temporali della vita umana, a diversità di «coloro che – scrive Democrito – non sanno che la natura materiale è destinata a dissolversi e si mettono in mente un mucchio di favole su ciò che avviene dopo la morte».

     Dal materialismo di Democrito – che invita la persona ad accettare serenamente e ragionevolmente i suoi limiti – comincia a prendere forma un’idea di umanesimo che si sviluppa poi nel periodo dell’Ellenismo producendo e potenziando concetti come quello di cosmopolitismo (siamo tutti cittadini del mondo), come quello di universalismo (siamo tutti figli di questo Universo materiale), come quello di ecumenismo (la terra abitata è la patria di tutti) e come quello di convivenza amichevole (philia) che trova in Epicuro il suo massimo codificatore.

     Epicuro però rispetto a Democrito si concede una riflessione di carattere teologico polemizzando sia contro le religioni astrali basate sulla superstizione e sui rituali scaramantici sia contro la fiducia eccessiva che gli studiosi del Museo di Alessandria danno alla ricerca scientifica. Per Epicuro gli dèi esistono perché è opinione comune tra gli esseri umani ma questa affermazione sembra essere un pretesto per sostenere una riflessione su un tema che lui vuole trattare, come spesso fa, in modo originale e provocatorio.

     Abbiamo già detto che Epicuro è stato uno scrittore molto fecondo, si dice abbia scritto circa trecento libri (trecento papiri) e la sua opera fondamentale, la summa del suo pensiero, è il trattato intitolato Peri physeos [Sulla natura], in trentasette libri, che è andato quasi tutto perduto e se ne possediamo ampi stralci è perché sono stati conservati (per fortuna) da altri autori nelle loro opere come Lucrezio nel De rerum natura, come Cicerone nel De natura deorum e nel De finibus, come  Diogene Laerzio nella Vita di Epicuro, come Seneca nelle Lettere a Lucilio, come Plutarco nell’opuscolo polemico Contro Colote.

     Ebbene, in questo quadro, ha costituito una fortuna davvero insperata il recupero, nel secolo scorso (negli anni ’50), dei papiri semicarbonizzati contenuti nella biblioteca di Filodèmo di Gàdara (l’intellettuale che abbiamo incontrato la scorsa settimana e che, nel I secolo a.C., ha diffuso l’Epicureismo in Italia) posta nella sua bella casa di Ercolano che è rimasta sepolta, nel 79 d.C. (lui era già morto da tempo ma c’erano i suoi eredi), sotto le ceneri del Vesuvio per circa due millenni. Da questi papiri semicorbonizzati (il più significativo ritrovamento archeologico che sia stato fatto ad Ercolano) sono stati recuperati molti frammenti del trattato Peri physeos [Sulla natura] di Epicuro. Una serie di questi frammenti trattano il tema degli dèi e li possiamo leggere e se li possiamo leggere è per merito del prof. Marcello Gigante, il più grande studioso della produzione letteraria dell’Italia meridionale in età antica, che ha pubblicato il Catalogo dei papiri ercolanesi (1979)  ritrovati negli scavi di Ercolano e poi di questi papiri ne ha curato la ricomposizione e la pubblicazione. Dobbiamo ricordare che tra le tante opere che Marcello Gigante ha prodotto c’è anche, del 1962, la traduzione e il commento dell’opera di Diogene Laerzio intitolata Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi che noi citiamo puntualmente.

     E ora leggiamo i frammenti in cui Epicuro riflette sul tema degli dèi in modo provocatorio e poetico:

LEGERE MULTUM….

Epicuro, Peri physeos [Sulla natura]

Gli dèi esistono, lo dice la comune opinione dell’umanità Sembra che la loro esistenza non cada sotto i nostri sensi, eppure di essi abbiamo una conoscenza evidente Gli dèi sono composti di atomi come ogni altro essere corporeo, ma estremamente sottili Gli dèi hanno forma e funzioni umane e vivono in infinita lontananza da noi, negli spazi vuoti tra mondo e mondo [intermundia]

Le loro immagini percorrono una distanza grandissima per giungere fino alla nostra mente: sono simulacri leggeri e sottili, attraversano i sensi senza impressionarli, ma noi ne afferriamo comunque l’esistenza con l’apprensione intuitiva, per inferenza Al numero delle persone che vivono negli innumerevoli mondi devono corrispondere tanti dèi negli infiniti spazi tra mondo e mondo

Gli dèi sono immortali e se perdono materia quando emanano le loro immagini queste perdite vengono risarcite da una forza interna che fa continuamente affluire nuovi atomi di ricambio

Questi esseri sono beati perché sono immuni dal timore della morte, e sono eternamente felici e sereni, non hanno disposto né dispongono nulla riguardo ai movimenti dei corpi celesti, sono indifferenti nei confronti dei dolori e dei mali che affliggono gli esseri umani Gli dèi sono il modello ideale a cui la persona saggia deve uniformare la propria vita

È cosa giusta rendere onore agli dèi e partecipare agli atti di culto e alle feste tradizionali I riti sono gesti di amicizia e atti comunitari che danno gioia e serenità alla persona che li compie come se partecipasse all’eterna e costante felicità degli dei

     Plutarco e molti altri autori accusano Epicuro di ateismo ma Epicuro disegna i tratti di una religione liberata dal terrore che tiene in schiavitù le persone, polemizzando con la religione di Stato degli dèi dell’Olimpo imposta alle masse popolari come forma di alienazione e di potere e polemizzando, soprattutto, con la nuova religione astrale che, sulla scorta di un’interpretazione arbitraria del Timeo e delle Leggi di Platone (ma anche delle opere di Aristotele e di Teofrasto), trova consensi tra le classi dirigenti e anche tra le classi colte. Come gli dèi anche l’anima – scrive Epicuro – è formata da particelle sottili.

     Ma leggiamo questi interessanti frammenti sul tema dell’anima:

LEGERE MULTUM….

Epicuro, Peri physeos [Sulla natura]

L’anima è composta da un corpo sottile, assai simile ad un soffio e avente in sé una certa misura di calore Nell’anima risiede la causa della sensazione ma è senziente solo grazie al complesso di anima e di corpo dotato di determinati moti che è l’organismo umano Quando il corpo si dissolve, l’anima si disperde e non possiede più le stesse capacità né il movimento, per cui perde anche la capacità di sentire L’anima non può essere incorporea, o spirituale, se lo fosse non potrebbe né agire né patire, mentre noi possiamo cogliere chiaramente nell’anima questi due attributi Insensate sono le dispute intorno all’immortalità dell’anima

     Queste affermazioni sulla mortalità dell’anima sono costate ad Epicuro l’emarginazione tanto da parte del Neoplatonismo quanto da parte del Cristianesimo. Il testo delle Massime di Epicuro – l’opera che si è meglio conservata e che incontreremo da vicino la prossima settimana – ha circolato molto nel Medioevo e nel Rinascimento (anche se questo testo non sarebbe potuto uscire dalla Biblioteca Vaticana, dov’è conservato, essendo all’Indice) per cui anche Dante Alighieri conosce bene il pensiero di Epicuro e lo conosce attraverso Aristotele, attraverso Cicerone e attraverso Seneca. Dante quindi non può fare a meno di citare Epicuro nella Divina Commedia: naturalmente lo deve mettere all’Inferno ma lo colloca – lui e tutti i suoi seguaci– in mezzo ai teologi eretici (per i quali Dante nutre una certa simpatia e vuole parlare con uno di loro) che non credono all’immortalità dell’anima.

     La Scuola vi invita a fare un esercizio visto che in tutte le biblioteche domestiche c’è una Divina Commedia

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Col pretesto di incontrare Epicuro nel sesto cerchio degli eretici potete leggere il canto X dell’Inferno della Divina Commedia… Questo è il canto in cui Dante Alighieri incontra un personaggio con cui desidera ardentemente parlare: Farinata degli Uberti

Ricordate che cosa si dicono questi due personaggi?  Leggete e saprete…

     Ora noi leggiamo solo un frammento – la citazione dantesca di Epicuro – dal canto X dell’Inferno:

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno  X, 4-15

(Dante si rivolge a Virgilio che lo accompagna…)

«O virtù somma, che per empi giri 

mi volvi» cominciai, «come a te piace»

parlami e satisfammi a’ miei desiri.

La gente che per li sepolcri giace,

potrebbesi veder? Già son levati

tutti i coperchi, e nessun guardia face».

Ed egli a me: «Tutti saran serrati,

quando di Josafàt qui torneranno

coi corpi che lassù hanno lasciati.

Suo cimitero da questa parte hanno

con Epicuro tutti i suoi seguaci,

che l’anima col corpo morta fanno

     E ora avviamoci alla conclusione di questo itinerario durante il quale abbiamo visitato anche la città di Abdera i cui abitanti, la maggioranza di loro, hanno fama di essere degli emeriti imbecilli. E il delicato tema dell’imbecillità ci riporta ai personaggi di un romanzo di cui, la scorsa settimana, abbiamo letto l’inizio.

     Questo romanzo, pubblicato postumo nel 1882, – e lo ricordate – s’intitola Bouvard e Pécuchet ed è stato scritto da Gustave Flaubert che non è riuscito però a portarlo a termine. I personaggi di questo romanzo sono due persone semplici, due impiegati che per la precisione fanno i copisti: uno in una ditta di commercio, l’altro al Ministero della Marina. Bouvard e Pécuchet sono due uomini mediocri, ingenui, patetici, comici e anche un po’ imbecilli, i quali raccolgono i frutti dell’educazione che hanno ricevuto, fatta di luoghi comuni. Bouvard e Pécuchet sono due antieroi e l’amicizia che nasce tra loro, e che imparano utilmente a coltivare, diventa la consolazione della loro vita.

     Bouvard e Pécuchet si conoscono a Parigi nella calda estate del 1838 e scoprono di essere nati ambedue nel 1791 e di fare entrambi il medesimo lavoro di copisti. Bouvard è vedovo e senza figli, Pécuchet è scapolo e senza parenti. Bouvard è alto, robusto, ha i capelli biondi e ricciuti, Pécuchet è magro, ha i capelli neri e lisci e ha un grande naso.

     Tre anni dopo il loro incontro i due inseparabili amici decidono di trasferirsi in campagna e di fare un viaggio insieme attraverso il sapere umano e cercano di studiare l’archeologia, la letteratura, la medicina, la religione: questa è – abbiamo detto – una formidabile idea di Flaubert che conduce le lettrici e i lettori alla dissacrazione di quel grande stupidario, di quella gigantesca discarica dell’intelligenza alla quale attinge la maggioranza delle persone e che a tutt’oggi è un fenomeno di grande attualità.

     Flaubert (che è un esperto in materia) fa imbattere i nostri due antieroi anche nell’amore e anche nelle sue pratiche, anche più invereconde. Bouvard e Pécuchet sono in fondo la stessa moneta che però ha due facce ben diverse l’una dall’altra e, in amore, i due personaggi si presentano in perfetta antitesi: Bouvard è audace, speranzoso, spendaccione, mentre Pécuchet è prudente, pessimista, economo.

      Ma per sapere come vanno le cose, a questo proposito, è meglio leggere queste due pagine:

LEGERE MULTUM….

Gustave Flaubert, Bouvard e Pécuchet  (1882)

Da un po’, infatti, Bouvard tutte le sere usciva per suo conto. Mortagli la moglie, avrebbe ben potuto risposarsi, ora avrebbe al suo fianco una donna che lo accudirebbe, gli terrebbe in ordine la casa. Ma ormai Troppo tardi per pensarci! Tardi? Bouvard si guardò nello specchio. Il colorito era ancora giovanile, i capelli s’arricciolavano come una volta, non un dente che vacillasse. E, all’idea di potere ancor piacere, si sentì come ringiovanire. L’immagine della Bordin gli si presentò. Più volte la donna aveva lasciato capire d’aver per lui qualcosa di più che della simpatia: la prima volta, quando s’era incendiato il raccolto, la seconda, in occasione dell’invito a pranzo, poi, durante la recita, e adesso, dimentica dello sgarbo ricevuto, erano tre domeniche di fila che veniva a trovarlo. Andò dunque da lei e vi tornò, promettendosi di sedurla.

Dal giorno che l’aveva vista attinger acqua, Pécuchet si tratteneva più spesso a discorrere con la Melia, e, in qualunque lavoro lei fosse occupata, scopasse il corridoio o stendesse il bucato o rimestasse nelle casseruole, di guardarla mai si saziava, sorpreso lui stesso di quello che provava: un turbamento quale si prova nell’adolescenza e che di questo aveva le febbri e i languori. Chiese a Bouvard come si comportano i dongiovanni per sedurre le donne. - Le donne? Si fan loro dei regali, si conducono a cena fuori. - Benissimo. Ma poi? - Dipende. Ce ne sono che fingono di svenire perché l’uomo le porti sul sofà, altre lascian cadere in terra il fazzoletto.  Le più oneste van diritte allo scopo: ti fissano addirittura un appuntamento -.  E Bouvard prodigava descrizioni, che accesero la fantasia di Pécuchet come stampe oscene.

- La prima cosa da tener presente: non credere a quello che dicono. Io ne ho conosciute che avevan l’aria di monachelle ed erano delle vere messaline! Anzitutto, audacia! 

Ma l’audacia non si compra nelle botteghe. E Pécuchet rimandava sempre al giorno dopo, intimidito anche dalla presenza della Germana.

Nella speranza che questa si licenziasse, la sovraccaricò di lavoro, notava le volte che la trovava ubriaca, rilevava ad alta voce ch’era sporca, ch’era pigra. Tanto fece che Bouvard la mandò via.

Allora Pécuchet fu libero!

Con che impazienza aspettava che l’amico uscisse! come gli batteva il cuore appena si chiudeva la porta!

Seduta su uno sgabello nel vano della finestra, la Melia agucchiava alla luce d’una candela, ogni tanto spezzava il filo coi denti, poi aguzzava gli occhi per farlo entrare nella cruna dell’ago.

Pécuchet esordì col chiederle che genere di uomini le piaceva: mica quelli sul tipo di Bouvard? Oh, no: preferiva i magri. Allora lui, preso coraggio, le domandò se aveva avuto dei fidanzati. - Mai! - Poi, facendolesi vicino, contemplava quel nasino ben fatto, la piccola bocca, l’ovale del viso. Le rivolse dei complimenti, e la esortava a mantenersi onesta com’era stata finora. Chinandosi su di lei, intravedeva per lo scollo del busto bianche forme, per quanto lieve, il tepore che ne emanava, gli bruciava la guancia. Una sera sfiorò con le labbra i ricciolini folli della nuca, e ricevette come una scossa che gli si propagò sin nel midollo delle ossa. Un’altra volta, la baciò sul mento; era così dolce quella pelle che dovette dominarsi per non morderla. Lei gli rese il bacio. La stanza si mise a girare, gli si ottenebrò la vista.

Le regalò un paio di scarpette, e spesso le offriva un goccio d’anisetta Perché la ragazza non si stancasse, si alzava di buon’ora, spaccava la legna, accendeva il fuoco, spingeva le sue premure per lei sino a lucidar lui le scarpe di Bouvard.

Ma la ragazza non svenne, non lasciò cadere il fazzoletto, e Pécuchet non sapeva più che fare, mentre per la paura di esaudirlo il suo desiderio s’acuiva.

Bouvard intanto stringeva sempre più d’assedio la Bordin. Lei lo riceveva attillata nell’abito di seta cangiante, che scricchiolava come la bardatura d’un cavallo, gingillandosi per darsi contegno con la lunga catenella d’oro. La conversazione s’aggirava sugli abitanti di Chavignolles, sulla «buonanima di mio marito», già usciere a Livarot. Poi, lei lo interrogava sul suo passato: - Deve averne fatte di belle da giovinotto! - senza parere, s’informò della sua situazione finanziaria, gli chiese per quali interessi era legato a Pécuchet.

Lui ammirava il modo come teneva la casa, e, cenando da lei, com’era disimpegnato il servizio, la squisitezza della tavola. Un susseguirsi di piatti saporosi, intercalati al momento giusto da un bicchiere di vecchio pomard, li portavano alle frutta. Indugiavano a lungo a sorbire il caffè, aspirandone ingorda l’aroma, lei immergeva nella tazza il labbro carnoso, scurito da una lieve peluria. Un giorno gli si presentò in abito scollato. Le sue spalle affascinarono Bouvard. Seduto davanti a lei su una sedia bassa, finì che a un certo punto non resse: le passò carezzevole le mani sulle braccia. La vedova s’adontò. Bouvard non lo fece più, ma il fugace contatto era bastato a fargli fantasticare curve di una opulenza e d’una sodezza meravigliose.

Una sera che l’inesperienza culinaria della Melia lo aveva più del solito scontentato, che rifiato di sollievo fu entrare nel salotto della Bordin! Altra aria! Era lì che avrebbe dovuto vivere! Il globo della lampada diffondeva intorno una luce eguale, che il paralume sfumava di rosa. Lei era seduta presso il caminetto, una scarpetta affacciata all’orlo della gonna. Qualche convenevole, e la conversazione morì. Ma la donna intanto lo guardava: uno sguardo languido, insistente, che filtrava di sotto le ciglia semichiuse. A quello sguardo, Bouvard non poté resistere, si lasciò cadere in ginocchio: - Io l’amo! - tartagliò. - Sposiamoci!

La Bordin trasse un profondo sospiro, poi, con l’aria più candida, disse che certo scherzava, la gente riderebbe, non era una cosa ragionevole, la sua dichiarazione la coglieva di sorpresa.

Bouvard ribatté ch’eran liberi entrambi e per sposarsi non avevano bisogno del consenso di alcuno. - Allora? che cosa la trattiene? Non avrà neppure da mutare la cifra sul corredo! i nostri cognomi cominciano tutti e due per B! - Toh! è vero! – disse lei ridendo. Ma c’era qualcosa di più importante che le impediva di decidersi prima della fine del mese. - Ebbene, aspetterò! - disse lui, mogio. E la Bordin gentilmente lo riaccompagnò alla porta, scortata da Marianna che faceva lume.

L’un con l’altro, i due amici della loro passione non avevano fiatato. Dei suoi rapporti con la domestica, Pécuchet contava di non lasciar trasparir nulla sino alla fine. Se Bouvard si opponeva, porterebbe altrove la ragazza  - in Algeria, alla peggio, dove la vita non è punto cara. Ma erano possibilità che si prospettava di rado: tutto preso dal suo amore, non si curava delle conseguenze. Bouvard dal canto suo progettava di fare del museo la camera nuziale, se mai Pécuchet vi si opponesse, ebbene, allora andrebbe ad abitare in casa della sposa.

Un pomeriggio della settimana successiva, la Bordin si fece trovare in giardino. Le piante cominciavano a buttare, in cielo, rade nuvole e grandi squarci di azzurro. Lei si chinò a cogliere delle violette, e nell’offrirgliele: - Dica grazie alla signora Bouvard! - Come? sul serio? - Lui volle stringerla fra le braccia, lei lo respinse: - Che uomo! - Poi, fattasi seria, lo avvertì che, prima, aveva però un favore da chiedergli.                   - Concesso sin d’ora! - Stabilirono che il giovedì seguente avrebbero firmato il contratto. Sino all'ultimo momento, nessuno doveva saper nulla. - Intesi! Bouvard se ne andò con gli occhi al cielo, leggero come un capriolo.

Pécuchet il mattino di quello stesso giorno s’era giurato la morte se non otteneva i favori della Melia, ed era sceso in cantina con lei, sperando che il buio gli desse ardire. A più riprese, la ragazza aveva parlato di tornar su, ma ogni volta lui la tratteneva con un pretesto: o perché contasse le bottiglie, o scegliesse dei panconcelli o ispezionasse il fondo delle botti.

La cosa durava da un pezzo, quando - lei gli stava davanti, ritta sotto il lucernario, le palpebre abbassate, l’angolo della bocca un po’ rialzato - Pécuchet a bruciapelo: - Mi vuoi bene? - Certo che gliene voglio! - Ebbene, - lui, pigliando fuoco, - allora, provamelo! - E, abbracciandola per il fianco, con l’altra mano cominciò a slacciarle il corpetto. - Mi farà male? - No, mio angioletto, non temere. - Se il signor Bouvard   - Non saprà niente sta’ tranquilla! - C’era alle spalle della ragazza un mucchio di fascine, lei vi si lasciò cadere, i seni fuori della camicia, la testa riversa. Poi si nascose il viso; e un altro avrebbe capito che non mancava di esperienza.

Poco dopo, Bouvard rincasò per cena. Cenarono in silenzio, temendo ciascuno di tradirsi. La Melia li serviva impassibile, come sempre. Pécuchet evitava d’incontrarne gli occhi, mentre Bouvard fissava le pareti, progettando delle migliorie.

Otto giorni dopo, il giovedì, rientrò furente: - Sgualdrina della malora! - Chi mai? - La Bordin - E Bouvard confessò che, nella sua dabbenaggine, era stato lì lì per farne sua moglie, ma, un quarto d’ora prima, nello studio di Marescot, tutto tra loro era finito. La donna aveva messo per condizione alle nozze che le fosse assegnato in dote il podere delle Ecalles, di cui lui non poteva, tra l’altro, disporre, avendolo acquistato, come la fattoria, con danari in parte non suoi. - Eh già! - disse Pécuchet. - E io che ero stato così allocco da prometterle di fare ciò che avrebbe chiesto, ad occhi chiusi! Erano le Ecalles che voleva! Ho tenuto duro, anche per vedere se era a me che voleva bene o al podere! - La Bordin invece era trascesa in ingiurie, l’aveva sbeffeggiato per il suo fisico, la sua pancia. - Pancione, io! ma ti pare!

Qui, notando che l’amico più volte s’era assentato durante il racconto e vedendo che camminava a gambe larghe: Che hai? ti senti male? - Non mi dire! - e, andato a chiuder l’uscio, Pécuchet, dopo molte reticenze, confessò che s’era scoperta una malattia - una di quelle malattie, sai - Tu?! - Proprio io! - Oh mio povero amico! E chi te l’ha attaccata? - Pécuchet diventando anche rosso ed abbassando ancor più la voce: - La Melia! non può esser stata che lei! - Bouvard restò di sasso. Primo provvedimento che s’imponeva: licenziare la ragazza.

La Melia protestò con aria di candore.

Ma sebbene ciò che s’era buscato non fosse cosa da poco, Pécuchet dal medico non aveva il coraggio di andare: si vergognava. Che fare? Bouvard pensò di ricorrere a Barberou. Gli inviarono un esposto dettagliato della malattia, pregandolo di sottoporlo a un dottore che la curerebbe per corrispondenza. Barberou si prese a cuore la cosa, persuaso che l’ammalato fosse Bouvard, scrivendogli, lo gratificò di scavezzacollo impenitente, pur non nascondendogli la sua ammirazione.                     - Alla mia età! - sospirava Pécuchet. - E ben brutto! Ma lei, perché farmi questo servizio? - Le piacevi, si vede! - Se così fosse, m’avrebbe avvertito! - Bravo! come se con la passione si ragionasse!

     E la parola-chiave passione continua a seguirci e, in fin dei conti, è qui che volevamo arrivare ed è per questo motivo che noi abbiamo utilizzato le avventure dei due amici e antieroi flaubertiani Bouvard e Pécuchet.

     E Flaubert – attraverso i suoi personaggi – è come se ci facesse sentire la voce di Epicureo: «Bravi! Pensate che in preda alle passioni si possa ragionare con lucidità? Compito dell’educazione (Epicuro dice della filosofia) è quello di insegnare a governare le passioni». Ma come si fa? Sembra facile!

     «È perché non riflettiamo» – risponde Epicuro. «Se riflettessimo – dice Epicuro – dovremmo ammettere che la persona è un essere in cerca di felicità: è vero o no? E dovremmo anche ammettere che le passioni non hanno mai procurato la felicità ma una finta euforia che subito si trasforma in disagio, quindi, se vuoi essere felice – ribadisce Epicuro – impara a star lontano dalle passioni». «E la prima regola da seguire – afferma Epicuro – è làthe biósas: vivi nascosta, vivi nascosto, stai appartata, stati appartato, non affannarti ad apparire, ma siccome è bello socializzare, per stare in compagnia, – ammonisce Epicuro – frequenta una Scuola (un Giardino o un Orto) dove si possa apprendere ad attutire le fatiche del corpo e ad attenuare i turbamenti dell’anima».

     E allora seguiamo l’ammonimento di Epicuro: frequentiamo la Scuola! Io non so se questa Scuola sarà in grado di insegnare ad attutire le fatiche del corpo e ad attenuare i turbamenti dell’anima, so però che la prossima settimana la Scuola potrà informare su ciò che propone Epicuro a questo proposito con le sue celebri Massime capitali [Kyriai doxai]. La troppa quiete – scrive Epicuro – è accidia e l’esagerata attività è folliaquindi venite a Scuola con equilibrio [eunomìa] e con prudenza [frònesis].

     La Scuola è qui…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 22, 2010