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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È LA VISIONE DE “LA CHIOMA DI BERENICE” ...

Lezione N.: 
11

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica     16-17-18  dicembre  2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È  LA VISIONE

DE “LA CHIOMA DI BERENICE” ...

     Strada facendo siamo arrivati anche a percorrere l’ultimo itinerario dell’anno 2009 ma il nostro viaggio di studio non è finito – abbiamo percorso soltanto un terzo del nostro cammino – e, dopo la vacanza natalizia, il nostro tragitto di alfabetizzazione culturale e funzionale continua nel tempo del nuovo anno che verrà. Questo è tempo di Avvento e il tempo dell’Avvento ci fa, inevitabilmente, alzare lo sguardo verso il cielo e nel cielo dell’Avvento si muove la Stella.

     L’astrologia e l’astronomia sono due discipline – come sappiamo – ben inserite nel contesto della sapienza poetica ellenistica e l’interesse per il firmamento è forte da parte di tutte le persone che hanno vissuto questo periodo e questo interesse ha creato dei presupposti che sono andati al di là dell’Ellenismo: pensate a quanto l’astrologia ancora oggi sia seguita, non c’è giornale o televisione che non abbia una rubrica astrologica seguita da milioni di persone.

     Ebbene, una fetta di firmamento fa anche da copertura al paesaggio intellettuale al quale siamo di fronte da qualche settimana. Noi, da qualche settimana, e lo ricorderete senz’altro, stiamo osservando un significativo paesaggio intellettuale – collocato nell’area alessandrina – che ha due versanti.

     Il primo versante – come sappiamo – è occupato dalla figura di un grande poeta epico di cui abbiamo studiato l’opera: Apollonio Rodio che ha scritto un celebre poema intitolato Le Argonautiche di cui, a grandi linee, abbiamo studiato le caratteristiche. Il secondo versante del paesaggio intellettuale al quale siamo di fronte è occupato da Callimaco di Cirene, il maestro di Apollonio Rodio. Come sappiamo, i due sono anche i protagonisti di una delle più significative polemiche culturali dell’antichità che possiamo sintetizzare in una formula interlocutoria: è più importante e bisogna dedicarsi alla poesia epica (secondo lo stile di Omero) oppure è più importante e bisogna dedicarsi alla poesia elegiaca (secondo lo stile di Esiodo)? Callimaco di Cirene – il quale sostiene la poesia elegiaca – viene considerato il più famoso tra i poeti alessandrini.

     Questa sera ci troviamo ancora di fronte a questo vasto paesaggio intellettuale proprio perché dobbiamo occuparci – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – di un’opera di Callimaco di Cirene che deve essere presa in considerazione. Nell’itinerario della scorsa settimana le abbiamo studiate a grandi linee tutte le opere, ormai ridotte in frammenti, di Callimaco (Giambi, Inni sacri, Epigrammi, Epilli).

     Il testo più celebre di Callimaco di Cirene – per quel che ne rimane  – è il poemetto in distici elegiaci intitolato La Chioma di Berenice che fa parte del IV Libro di un’opera che s’intitola Cause (Aitia-Aitia). Sappiamo che La Chioma di Berenice (o semplicemente La Chioma) è anche una costellazione, formata da una ventina di stelle poco luminose, che si presenta piuttosto bassa rispetto alla linea dell’orizzonte.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Potete fare – utilizzando l’enciclopedia, la rete, o un dizionario astronomico che trovate in biblioteca, o con un cannocchiale – un piccola ricerca sulla costellazione che si chiama “La Chioma di Berenice”… Scrutare il firmamento è un esercizio di sapienza poetica ellenistica

     Abbiamo detto che il poemetto in distici elegiaci di Callimaco di Cirene intitolato La Chioma di Berenice fa parte del IV Libro di un’opera che s’intitola Cause (Aitia). Quest’opera è una raccolta, in quattro libri, di elegie – infatti questa raccolta viene anche comunemente chiamata Elegie – e si presenta come una specie di grande enciclopedia mitologico-storica, in cui il poeta canta tutti quei miti che, come indica il titolo, erano stati la causa e avevano dato origine a un culto o a una festa o a una istituzione. Si tratta di composizioni molto erudite e con poca ispirazione lirica, ma scritte in una forma preziosa ed elegante che ha fatto scuola (il territorio della sapienza poetica ellenistica è come se fosse, nel suo complesso, la sede di una grande Scuola): difatti queste elegie sono state prese a modello da molti autori, in particolare dallo scrittore latino Properzio nelle Elegie romane, e anche Ovidio, ne Le metamorfosi, ha preso molti spunti da quest’opera. Elegia, con l’Ellenismo romano, diventa sinonimo di composizione malinconica e nostalgica.

     Si sono conservati anche vasti frammenti del Prologo delle Cause (Aitia-Aitia) i quali sono molto interessanti perché riportano le idee letterarie di Callimaco di Cirene. I frammenti del Prologo delle Cause (Aitia) si presentano come una sorta di manifesto letterario della poetica dell’Ellenismo. Callimaco prescrive: testi brevi, linguaggio erudito, contenuto formato da episodi mitologici meno noti ma efficaci, forma meno roboante ma più ricercata ed elegante e afferma che queste direttive gli sono state impartite da Apollo Licio. La citazione di Apollo Licio non si riferisce ad una visione, ad un suggerimento divino ma è una metafora semplice da interpretare e significa che lui queste regole le ha apprese quando ha studiato al Liceo, quando si è formato intellettualmente alla Scuola di Aristotele.

     E ora leggiamo alcuni frammenti del Prologo delle Cause (Aitia) che si presentano come una sorta di manifesto letterario (l’unico che possediamo) della poetica dell’Ellenismo. Callimaco se la prende – e usa parole pesanti – contro una categoria di scrittori che lui chiama i Telchini e questo termine, coniato da Callimaco, si riferisce in generale a tutti coloro i quali non vogliono rispettare le regole aristoteliche dettate dal Liceo per quanto riguarda la scrittura poetica. Il nome Telchini è un neologismo inventato da Callimaco che contiene le parole tékein - rodersi e èpar - il fegato, i Telchini sono una razza buona a rodersi il fegatoe quindi non possono comporre poesia gorgheggiando in modo dolce ed elegante come gli usignoli.

     Ora leggiamo questi frammenti, macchinosi, per l’incalzare delle metafore…

LEGERE MULTUM….

Callimaco di Cirene, Cause (Aitia)  Prologo

Contro il mio canto poetico mormorano i Telchini, ignoranti che della Musa non nacquero amici, perché non ho composto un poema uno e continuato in molte migliaia di versi, in onore di re o di eroi, ma svolgo soltanto un piccolo rotolo di poesia, come se fossi un principiante, mentre le decadi dei miei anni non sono poche. Ma questo io rispondo ai Telchini: «O razza spinosa capace solo di struggervi il fegato (tékein èpar) sì sì! io fui sempre poeta di pochi versi, ma la benefica Demètra tira molto giù (nel piatto della bilancia) la grossa Quercia (il chicco di grano, il breve testo elegiaco, è molto più saporito della ghianda, il pesante testo epico). Voli pure dall’Egitto alla Tracia la gru (il poema epico) che gode del sangue dei Pigmei, i canti di usignolo (le elegie), anche così, sono più dolci. Andate alla malora, figli esiziali dell’Invidia. E per l’avvenire giudicate il talento poetico sulla base dell’arte, non con la pertica dei Persiani (dalla qualità non dalla quantità del testo). Non cercate da me un poema di alto rimbombo: tuonare non è affar mio, ma di Zeus».

Ed in verità, quando per la primissima volta posi sulle mie ginocchia la tavoletta cerata, Apollo Licio (quando cominciai a frequentare il Liceo) così mi parlò: «Poeta, la vittima si deve nutrire quanto più pingue sia possibile, ma la Musa, o mio caro, è sottile. Inoltre anche questo ti ordino, di non calcare le vie che battono i carri, di non spingere il tuo cocchio sulle orme comuni degli altri né per la strada larga, ma per sentieri non calpestati dagli altri, anche se così ti spingerai per la via più faticosa».

A lui obbedii; che noi cantiamo fra quelli che amano il suono stridulo della cicala, non il raglio assordante degli asini. Altri ragli come l’orecchiuto animale, ma io sia la piccola, l’alata cicala, ah sì! sotto ogni rispetto, affinché la vecchiezza, la rugiada io possa cantare attingendo questo cibo rugiadoso dall’etere divino; e poi di quella possa io spogliarmi, della vecchiezza che grava su me opprimente come l’isola tricuspide (la Sicilia) sull’esiziale Encelado (Encelado è il più forte dei Giganti e Atena, lottando con lui, gli aveva gettato addosso la Sicilia). Che le Muse non abbandonano canuti quelli che giovani guardarono con occhio non malevolo.

     Ecco il manifesto poetico di Callimaco: testi brevi, linguaggio erudito, contenuto mitologico meno noto, forma elegante, regole dettate dalla Poetica di Aristotele.

     E allora, come abbiamo già ripetuto più di una volta il frammento più consistente che rimane e che fa parte del IV Libro delle Cause (Aitia) è il poemetto in distici elegiaci intitolato La Chioma di Berenice. Callimaco in questo poemetto canta il voto che ha fatto la regina Berenice II (269-221 a.C.), la sposa (nel 247 a.C.) di Tolomeo III Evérgete il re dell’Egitto. Berenice è la figlia di Magas, il re di Cirene, la città natale di Callimaco. La regina Berenice – che è famosa per la sua bellissima capigliatura, simbolo di potenza e di regalità – nel momento in cui il marito parte per la guerra contro Seleuco II di Siria, promette di offrire la sua lunga e consistente treccia al tempio di Arsìnoe Zefiritide (di Afrodite), se il re fosse tornato sano e salvo. Il re ritorna incolume da questa pericolosa campagna militare e Berenice mantiene la promessa e il terzo giorno dal ritorno del consorte compie il rito dell’offerta: dopo il taglio la treccia viene adagiata in una teca e posta sull’altare del tempio ma il mattino dopo i sacerdoti, scesi nel tempio per le funzioni sacre, constatano che la chioma di Berenice è scomparsa e il re Tolomeo va su tutte le furie. Comincia un’affannosa ricerca che non dà alcun frutto ma la notte stessa l’astronomo Conone – che osserva metodicamente il firmamento – fa una nuova scoperta e all’alba si presenta a corte per annunciare di aver avvistato una nuova costellazione che prima non c’era nella volta celeste (in realtà non si tratta di una e propria figura ma sono – secondo l’affermazione di Conone – sette stelle una in fila all’altra) e dichiara di aver  dato a questa conformazione astronomica il nome di Chioma di Berenice. Callimaco – che è amico del re e frequenta assiduamente la corte –, con questo poemetto, vuole anche cogliere l’occasione per esaltare il nobile gesto di Berenice: figlia del re della sua città natale, Cirene.

     Prima di leggere – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – i versi (i frammenti) che sono rimasti del poemetto in distici elegiaci intitolato La Chioma di Berenice, dobbiamo fare alcune considerazioni. Perché ci dedichiamo alla lettura di questi brandelli poetici?  Che cosa abbiamo da imparare, oggi, da questi avanzi lessicali ellenistico-alessandrini?

     Il testo che ci rimane de La Chioma di Berenice è, prima di tutto, un esempio efficace di un’operazione letteraria che si chiama katasterismòs. Che cosa significa katasterismòs? Significa collocazione tra gli astri, ed è una manovra di carattere mitico che non è mai venuta meno tra gli umani, anzi, si è intensificata a mano a mano che è cresciuto il potere mediatico sulle coscienze e quanti firmamenti pieni di stelle sono andati e si vanno creando! E questa creazione avviene a scapito tanto della qualità di ciò che è umano (ciascuna persona è una stella che, nel bene e nel male, brilla di luce propria) quanto a scapito dell’originaria letteratura mitica che dobbiamo imparare a decodificare con lo studio come strumento in funzione della didattica della lettura e della scrittura e non a subire pesantemente sul mercato del pettegolezzo, del malcostume e dell’immoralità dichiarata.

     Zeus, il re degli dèi, è dichiaratamente immorale – e sono proprio le opere della sapienza poetica ellenistica a mettere ben in evidenza questo fatto –, Zeus è l’astro più brillante e suscita un’emulazione che ha una ricaduta nefasta (questo è il termine che usa spesso Ovidio quando, ne Le metamorfosi, racconta gli adulteri di Zeus) sulla società. La creazione di firmamenti – delle stelle del cinema, del calcio, della televisione, della politica spettacolo e via dicendo (si producono dizionari dei firmamenti dei divi e delle dive!) – porta a svalutare la qualità umana, e già Callimaco di Cirene allude a questo fatto, e il katasterismòs (la collocazione tra gli astri di oggetti o personaggi a fini commerciali) finisce per causare una inumana divisione tra le anonime persone qualunque (che non hanno la possibilità di apparire nel loro flebile riverbero e aspirano soltanto a raggiungere, con ogni mezzo, questo obiettivo) e gli individui camuffati da presunte celesti divinità che vogliono, con spirito di onnipotenza, far sfoggio soprattutto dei loro vizi perché siano amplificati dai potenti e compiacenti riflettori mediatici che riescono a trasformare, illuminandole ambiguamente, forme di malcostume come se fossero pregi da prendere a modello, doti da preservare, virtù da praticare.

     E capiamo sempre meglio come mai Augusto ha mandato in esilio Ovidio, il quale, facendo, in senso ellenistico, un uso corretto della mitologia – che è strumento da studiare in funzione della didattica della lettura e della scrittura –  mette in evidenza i loschi trasformismi (le metamorfosi negative) del potere.

     Ebbene, dopo circa duemilatrecento anni (nonostante l’indicazione data dalla sapienza poetica ellenistica) l’Umanità non è ancora in grado di demolire o, per lo meno, di diminuire l’alienante rilevanza dei firmamenti artificiali, anzi, il fenomeno è in crescita con tutto ciò che comporta sul piano delle distorsioni economiche, sociali, culturali e morali. Quindi occorre una riflessione intellettuale, e la Scuola – nel suo impegno di alfabetizzazione culturale e funzionale – deve farsene carico così come Callimaco di Cirene, da sapiente scrittore ellenistico, ha utilizzato ad arte la poesia (con grande perizia allusiva) per smascherare i catasterismi, per rivelare come i firmamenti mitologici siano la proiezione della discriminazione sociale e rafforzino la negazione dell’eguaglianza tra gli esseri umani che devono avere pari diritti e pari opportunità.

     Il firmamento virtuale creato dall’invadenza mediatica produce un baccano assordante, il firmamento reale, in quanto tale (come c’insegnano Montaigne e Pascal, due grandi eredi della sapienza poetica ellenistica),  è muto: siamo noi – attraverso l’efficacia del nostro immaginario e la potenza del racconto, scrive Callimaco di Cirene – a farlo parlare (a creare il genere letterario del katasterismòs) popolandolo di oggetti straordinari, di figure eccezionali, di personaggi meravigliosi, di simboli sorprendenti. E Callimaco, quindi, sente la necessità di rinnovare il modo di proporre il racconto mitico eliminandone l’afflato di carattere religioso, liturgico, superstizioso, e sostituendolo con l’ispirazione poetica di carattere erudito attraverso la quale mette in evidenza le Cause (Aitia) leggendarie che danno origine alla celebrazione dei riti e delle cerimonie, pratiche sacrali che servono anche per dare una giustificazione alle nostre insicurezze senza cercarne le ragioni. E, non a caso, Callimaco ha raccolto le sue elegie in un volume che s’intitola Cause (Aitia) di cui il frammento più consistente è La Chioma di Berenice.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Noi compiamo tutti dei piccoli riti e delle piccole cerimonie che servono per dare un senso alla nostra vita… Qual è la “causa” da cui dipende un rito o una cerimonia che voi avete deciso di compiere? 

Scrivete quattro righe in proposito…

     Il cambiamento di stile apportato da Callimaco nel testo de La Chioma di Berenice lo si nota subito dal modo originale con cui questa elegia è stata composta sia per quanto riguarda la forma sia per quanto riguarda il contenuto del racconto. La prima cosa originale sta nel fatto che questo racconto è un monologo: la chioma viene rappresentata come un oggetto che parla senza alcuna tensione sacrale ma con degli accenti di carattere erotico ed esistenziale. Questo racconto è un monologo con cui la chioma si rivolge alla lettrice e al lettore con familiarità, senza particolari formalità, e questo stile risulta innovativo rispetto alle narrazioni degli antichi catasterismi di impronta tipicamente liturgica e solenne.

     La chioma – racconta Callimaco – tagliata con un attrezzo (una forbice) di ferro si sofferma a riflettere sull’onnipotenza di questo metallo e cita il taglio del monte Athos da parte dei Persiani e fa un altro riferimento (lo spiedo … della tua madre Arsìnoe) che non si riesce a capire bene perché mancano le parole. Dopo essersi rammaricata per la scoperta del ferro e per le sue nefaste conseguenze, la chioma, che per volontà di Afrodite è ascesa tra le stelle, dichiara la sua preferenza: avrebbe scelto volentieri – altro che firmamento freddo e desolato! – di rimanere sul capo di Berenice e impregnarsi dei profumi cari a lei ora che è diventata una regina e dopo aver provato il piacere di assorbire i profumi che lei adoperava da fanciulla. Callimaco, ironicamente, descrive – per bocca della chioma – la disapprovazione del katasterismòs come un atto di prevaricazione che disumanizza e questo suo pensiero è di grande attualità.

     E ora leggiamo quel che resta de La Chioma di Berenice cercando di coglierne il senso senza scendere nei particolari perché l’interpretazione – soprattutto per quanto riguarda i personaggi, i fatti e i luoghi mitici citati – è molto complessa e i risultati delle ricerche delle studiose e degli studiosi di filologia alessandrina spesso non concordano perché Callimaco fa un uso molto sofisticato della mitologia attingendo anche a fonti che sono andate perdute: leggiamo senza fare commenti, per ora.

LEGERE MULTUM….

Callimaco di Cirene, La Chioma di Berenice (Cause, Aitia IV)

Colui che vide nei segni celesti l’orbita, là dove si volgono

Conone (l’astronomo alessandrino) scorse me nell’ètere, ricciolo di Berenice,

che ella consacrò a tutti gli dèi [pegno della notturna lotta?] [magnanima?]

lo giurai sul tuo capo e sulla tua vita a forma di spiedo per buoi,

della tua madre Arsìnoe, il luminoso figlio di Thia (Elios, il Sole) travalica,

e le funeste navi dei Medi attraversarono l’Athos. Cosa potremmo fare

noi, riccioli, se tali montagne cedono al ferro? Perisca la stirpe dei Càlibi!

Per primi scoprirono il ferro, mala pianta che spunta dalla terra, e insegnarono

l’opera dei martelli. Mi piangevano, tagliata appena allora, le sorelle chiome

e subito irrompeva, muovendo a cerchio le veloci penne, un lieve vento,

fratello dell’etiope Mèmnone (Zefiro), cavallo della locrese Arsìnoe

dalla cintura di viole mi [rapì] in un soffio e portandomi nelle brume

dell’aria mi depose nel seno di Cipride. Proprio la Zefiritide, che abita

la riva di Canòpo, allo scopo lo Perché per gli uomini

annoverata tra le molte stelle, non solo della sposa figlia di Minosse (Arianna),

ma anch’io vi fossi, bella chioma di Berenice, Cipride mi pose,

mentre salivo bagnata dalle acque verso gli immortali, nuova stella tra le antiche.

prima al tramonto nell’Oceano ma se anche perché non

s’adiri nessun bue tratterrà la parola l’ardire altre stelle

non mi sono tanto gradite queste cose, quanto mi addolora non poter

più toccare il suo capo, lontano dal quale non potei godere dei profumi femminili,

io che molti semplici ne ho bevuti, finché era ancora vergine.

vicini Acquario e Orione.

     Questi versi, sebbene frammentari – anche a proposito delle considerazioni che abbiamo fatto sui firmamenti artificiosi, e sulle difficoltà di interpretazione– hanno sempre suscitato, e per la forma e per il contenuto, un vasto interesse nel mondo della cultura: mettersi a ricercare tra le righe de La Chioma di Berenice è diventata una sfida intellettuale produttiva per l’apprendimento che è continuata nei secoli.

     I versi frammentari del poemetto La Chioma di Berenice hanno sempre attirato l’attenzione prima di tutto dei poeti latini della seconda generazione ellenistica, quella che si sviluppa a Roma tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., e difatti è stato il poeta Valerio Catullo (87-54 circa a.C.) a tradurre in latino e a completare questa elegia dimostrando un grande interesse filologico e riuscendo a esprimere l’eleganza e l’erudizione dei versi di Callimaco.

     Dobbiamo precisare che queste dotte operazioni di trasposizione in lingua latina dalla poesia elegiaca greca – condotte da Catullo, da Ovidio, da Properzio, ed eseguite più con spirito erudito che poetico (non è facile per noi riscontrarlo con esattezza ma è bene che lo si sappia) – sono state molto utili proprio per migliorare la qualità della lingua latina che è una lingua piuttosto rude e con poca malleabilità rispetto al greco. Sappiamo poi che a cavallo tra il 1700 e il 1800 in Europa e in Italia – e lo abbiamo già studiato a suo tempo – si diffonde tra le poetesse e i poeti un grande interesse per il mondo greco, in particolare per i generi letterari creati nel periodo ellenistico.

     Ugo Foscolo (1778-1827) – che tutte e tutti voi conoscete – è stato un grande interprete e un appassionato commentatore filologico del mondo poetico ellenistico e, difatti, nel 1803, ha tradotto (ha volgarizzato) nella sua lingua poetica La Chioma di Berenice facendo sfoggio di erudizione ma impegnandosi soprattutto in un esercizio di apprendimento.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Ora però noi dobbiamo fare una riflessione di carattere autobiografico in relazione alla parola “chioma”…  Curare la propria chioma è, per donne e per uomini, un fatto importante: quali accorgimenti adottate?… La frequentazione della parrucchiera e del parrucchiere è un rito periodico che tutte le persone celebrano e, quindi, scrivete quattro righe in proposito…

     E ora, per curiosità e in funzione della didattica della lettura e della scrittura, leggiamo un certo numero di versi dalla trasposizione de La Chioma di Berenice di Valerio Catullo, contenuta in un’opera che s’intitola Il libro di Catullo, e poi leggiamo anche (per non far torto a nessuno) una serie di versi dalla trasposizione de La Chioma di Berenice di Ugo Foscolo. Questo esercizio è impegnativo ma – come abbiamo già ricordato – è anche propedeutico per osservare la differenza dei linguaggi su un tema comune: il linguaggio del primo ellenismo alessandrino di Callimaco, quello del secondo ellenismo romano di Catullo e quello neoclassico-protoromantico di Ugo Foscolo.

     Noi adesso leggeremo solo alcuni brani delle composizioni di Catullo e del Foscolo e quindi la Scuola, a questo proposito, propone un compito. La Scuola propone di cercare in biblioteca (anche nella biblioteca domestica se avete delle Antologie), oppure sulla rete, i testi delle due trasposizioni de La Chioma di Berenice: quella composta in latino da Valerio Catullo, che si trova nell’opera intitolata Il libro di Catullo ed è il componimento numero 66, e il Volgarizzamento della versione latina di Valerio Catullo realizzato da Ugo Foscolo nel 1803 e che si trova in una delle tante Antologie che contengono l’opera completa del poeta: visto che avete acquisito delle nozioni in proposito, potete cimentarvi a leggerli anche tutti i versi di queste due trasposizioni. Non è una lettura semplice perché non sono testi facili da decodificare e per la comprensione è necessaria la pazienza per consultare le note, e le note impegnano perché, quasi sempre, propongono i dibattiti interpretativi in corso.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Questo compito è però un interessante esercizio di erudizione filologica in senso ellenistico perché la positività del cercare non sta solo nel trovare ma sta soprattutto nell’attività stessa della ricerca perché l’investigazione mette in moto le azioni dell’apprendimento (conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare, valutare): fate la prova…

     Inoltre questo esercizio di lettura di testi scritti con lo stile dell’elegia (e a me deve essere successo così quando il giorno di Ferragosto stavo preparando questa Lezione, anticipando anche il Natale) può anche farci provare la sensazione di essere in una delle ampie sale della Biblioteca di Alessandria in compagnia di Callimaco di Cirene mentre è impegnato a riordinare l’enorme patrimonio librario di questa straordinaria struttura che ormai vive nella nostra mente come una eloquente metafora del mondo della cultura e come una significativa allegoria della capacità, che noi possiamo acquisire, di investire in intelligenza. Callimaco probabilmente c’inviterebbe, da una delle terrazze della Biblioteca di Alessandria, ad assistere ad un tramonto sulla parte occidentale, canopica, del delta del Nilo e ci confesserebbe che lui non sarebbe in grado di magnificare questo evento con il dovuto e sentito spirito dionisiaco dei cantori orfici, saprebbe però con lo stile elegiaco – interpretando perfettamente il gusto del suo tempo – descrivere questo avvenimento in modo formale: con grazia, con finezza, con eleganza, con preziosità, anche con ironia, che sono le doti con cui Callimaco ha saputo colorire tanto i temi più eruditi (come quelli della mitologia) quanto le cose più tenui e fugaci come un tramonto alessandrino sul ramo canopico del delta del Nilo, il momento che precede il crepuscolo e che introduce, gradualmente, con l’attenuarsi della luce la comparsa del firmamento. Questi pensieri devono essere frullati anche nelle menti di Gaio Valerio Catullo e di Ugo Foscolo quando hanno deciso – forse osservando lo spettacolo del firmamento –di completare i frammenti de La Chioma di Berenice di Callimaco di Cirene.

     Prima di leggere tre brani da La Chioma di Berenice poeticamente ricomposta in latino da Gaio Valerio Catullo è bene acquisire alcuni dati fondamentali su questo personaggio: chi è Valerio Catullo? Gaio Valerio Catullo nasce, in una famiglia agiata e importante, a Verona probabilmente, secondo San Gerolamo, nell’87 a.C., e ha poco più di vent’anni quando nel 61 a.C. si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con l’ambiente colto e mondano della città e in particolare frequenta il gruppo dei cosiddetti neòteroi - i poeti nuovi, cioè quegli scrittori – come Licinio Calvo, Elvio Cinna, Ortensio Òrtolo – che si considerano degli innovatori perché compongono le loro opere in stile ellenistico. Questi giovani scrittori – che amano la sapienza poetica greca – sono quasi tutti emigrati a Roma dalle città della Gallia cisalpina e fondano un Circolo letterario che coltiva le idee del manifesto poetico di Callimaco di Cirene contenute nel Prologo dell’opera intitolata Cause (Aitia-Aitia), che abbiamo letto poco fa. È proprio vero che spesso le innovazioni (ed è stato Cicerone ad ironizzare per primo su questo fatto) arrivano dal passato perché le idee dei cosiddetti neòteroi - i poeti nuovi sono le idee di Callimaco di Cirene – la raffinatezza stilistica, la brevità dei testi, l’uso di contenuti mitologici rari e ricercati –, e queste idee sono state scritte circa un secolo e mezzo prima: ma nel presente – scrive Cicerone – è utile guardare al passato se si vuole costruire il futuro.

                 La vicenda centrale della vita di Catullo è la sua passione per Lesbia, e questo personaggio letterario corrisponde ad una signora che si chiama Clodia ed è la sorella del tribuno Publio Clodio e la moglie di Quinto Metello Celere, console nell’anno 60 a.C. e membro del partito di Giulio Cesare. Nel 59 a.C. Catullo conosce Clodia e comincia a scrivere in versi la storia di questa relazione che è diventata emblematica (tutte le poetesse e i poeti che hanno cantalo l’amore vi hanno attinto). Clodia – che ha una decina d’anni più di Catullo – viene descritta come una donna bellissima e colta e il soprannome di Lesbia fa riferimento alla raffinata intelligenza della poetessa Saffo. Le notizie che si hanno su questa persona riguardano anche la sua presunta corruzione ed è (ancora una volta) Cicerone che, in un suo discorso, sospetta che sia stata lei ad avvelenare il marito che è morto nel 59 a.C.. La storia d’amore tra Clodia e Catullo si presenta come un’esperienza assai complessa che è stata ben documentata, in versi, dal poeta che, con grande competenza e sincerità, descrive gli entusiasmi, le depressioni, gli ardenti messaggi d’amore, i propositi d’oblio, i nuovi ardori, le rotture, le ingiurie, le pacificazioni, fino alla rottura conclusiva dopo circa cinque anni. Per dimenticare Lesbia, e anche per riassestare le proprie finanze, Catullo parte per la Bitinia al seguito del pretore Gaio Memmio al quale fa da segretario e viene a trovarsi quindi nel territorio dove è nato l’Ellenismo. Conclusa la sua permanenza in Bitinia Catullo torna in Italia e si trasferisce nella sua bella villa a Sirmione, dove trascorre gli ultimi anni della sua vita.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Avete mai visitato la penisola di Sirmione sul lago di Garda: “la pupilla di tutte le penisole”, così scrive Catullo… Si consiglia, utilizzando la guida della Lombardia, o con l’ausilio della rete, di fare una visita a Sirmione e, in particolare, un’escursione (virtuale in preparazione di quella reale) alle Grotte di Catullo, buon viaggio…

     Gaio Valerio Catullo muore, probabilmente, nel 54 a.C. a soli 33 anni e la sua opera è raccolta in un volume che s’intitola Il Libro di Catullo e che contiene 116 componimenti di varia natura, ordinati secondo criteri metrici (per epigrammi, per elegie), alcuni sono brevi (detti nugae, cose da nulla), altri sono più ampi ed eruditi (detti carmina docta), composti imitando i modelli ellenistici e tra questi componimenti è compresa La Chioma di Berenice.

     E ora de La Chioma di Berenice, vale a dire del LXVI carme de Il Libro di Catullo leggiamo tre brani e, in corsivo, leggiamo anche una serie di note che accompagnano il testo poetico: ricordiamoci che è la chioma che parla in prima persona.

LEGERE MULTUM….

Gaio Valerio Catullo, Il libro di Catullo  LXVI - La Chioma di Berenice

Chi scrutò dell’immenso firmamento tutte le luci, e chi apprese delle stelle

albe e tramonti e come il fiammeggiante lume del sole rapido si oscuri

e in tempi fissi le costellazioni vengano meno e come il dolce Amore

tra le rocce del Latmo di nascosto spinga lontano Trivia

(Trivia è la Luna, che aveva fugaci incontri con il suo amante Endimione nascosta

dietro le rocce del monte Latmo, una catena montuosa tra la Caria e la Ionia),

dirottandola dal suo giro nell’aria, quel Conone (è l’astronomo più celebre alla corte de re Tolomeo Evérgete)

nel chiarore celeste vide me,

una ciocca recisa dalla chioma di Berenice, fulgida splendente,

che, tendendo le braccia levigate, ella promise a molte dèe, nel tempo

in cui, accresciuto dalle nuove nozze

(Berenice va sposa a Tolomeo III Evérgete nel 247 a.C. e porta in dote, essendo la figlia del re, il territorio di Cirene),

il re si era recato a devastare le terre degli Assiri.

Con sé aveva dolci le tracce del notturno assalto

condotto alla conquista della vergine (Tolomeo quando parte per fare la guerra all’Assiria ha ancora

addosso i segni della prima notte di nozze). Hanno davvero un odio per l’amore

le nuove spose, oppure è falso il fiume di lacrimette, sparso sulla soglia

della stanza nuziale, a render vana la letizia del padre e della madre?

Così mi favoriscano gli dèi, non sono vere lacrime: l’ho appreso dal pianto intenso della mia regina,

quando il nuovo marito era sul fronte di sinistre battaglie.

O non piangevi, rimasta sola, il letto abbandonato, ma piuttosto il distacco doloroso

da un amato fratello (Tolomeo e Berenice sono cugini)? Quanto in fondo fin nelle fibre invase da tristezza l’ansia ti consumò!

Come la mente per la totale angoscia venne meno e i sensi ti mancarono! Ma pure avevo conosciuto il tuo coraggio da quando

eri bambina. O non ricordi l’azione ben condotta - nessun altro ne avrebbe con più forza l’ardimento -

con cui ottenesti per marito un re? (Berenice a quindici anni fa uccidere il suo pretendente,

Demetrio di Macedonia, che era l’amante di sua madre, e così ha potuto sposare Tolomeo)

Ma che tristi parole hai pronunziate allora, alla partenza dello sposo!

E gli amanti perché mai non vogliono restare separati dal corpo amato? E allora

agli dèi tutti mi promettesti per il dolce sposo - ed il sangue di toro non mancava -

se ottenesse il ritorno. In breve tempo egli (Tolomeo) aggiunse ai confini dell’Egitto

la conquista dell’Asia. Ed io per questo, resa al consesso dei celesti, sciolgo,

con un’offerta nuova, un voto antico. Regina, a malincuore dal tuo capo, a malincuore, mi staccai.

Lo giuro su te e sul capo tuo. Chi giura il falso abbia la giusta pena.

Ma col ferro chi può stare alla pari? Anche quel monte, il più alto di quanti sulla terra

travalichi passando il luminoso figlio di Thia (Elios, il Sole), venne abbattuto, quando

dettero vita i Medi a un nuovo mare e in mezzo all’Athos navigò su flotta la gioventù dei barbari

(Si dice che Serse, re dei Persiani, nel 583 a.C., abbia fatto scavare un canale tra il monte Athos e la penisola Calcidica).

Se al ferro cedono cose tali, dei capelli cosa faranno mai? Tutta la razza possa andare, per Giove,

alla malora dei Càlibi e di quanti sotto terra per primi ricercarono la vena e la tempra forgiarono del ferro!

Piangevano il mio caso le sorelle della chioma, staccate poco prima, quando il gemello dell’etiope Mèmnone si presentò da me,

cavallo alato della Locrese Arsìnoe, aprendo l’aria

col moto oscillatorio delle penne. E, portandomi via, passò tra le ombre

del cielo in volo e dentro il casto grembo di Venere mi pose. A questo scopo

aveva delegato il servo suo la greca Zefiritide, abitante sui lidi di Canòpo (

Mèmnone corrisponde a Zefiro, re dei venti, che si presenta sotto forma di cavallo alato,

e Arsìnoe II è la madre di Tolomeo III, il marito di Berenice, la quale era venerata come Arsìnoe Afrodite

in un tempio che si trovava sul promontorio Zefirio, tra Alessandria ed il Canòpo,

che è il braccio più occidentale del delta del Nilo ed è per questo motivo che viene chiamata Zefiritide).

Qui la dea, - perché non solo la corona d’oro dalle tempie di Arianna avesse posto nel vario lume del divino cielo

(Qui si ricorda un altro catasterismo perché anche la corona di Arianna è stata trasformata in costellazione da Dioniso),

ma vi mandassi luce anch’io, la spoglia offerta

in dono da una testa bionda (Berenice è bionda perché è di origine macedone), -

mi pose, tra  le antiche, stella nuova che si accostava al tempio degli dèi umida un poco d’acqua. … 

Tu, regina, quando, guardando le costellazioni, nelle feste farai propizia Venere,

non lasciare che resti io che son tua senza offerte di unguenti, ma piuttosto onorami con doni sontuosi.

Magari rovinassero le stelle!  Vorrei tornare chioma di regina:

presso l’Acquario splenda pure Orione!

     La Letteratura ellenistica è complessa – forma poetica e contenuto mitologico ne determinano la complessità – ma questo non giustifica il fatto che debba essere rimossa: deve essere studiata per la sua attualità. Il verso finale – presso l’Acquario splenda pure Orione!– è quello che suscita, tra le studiose e gli studiosi, il maggior interesse interpretativo perché è sorta una questione complessa e molto dibattuta che riguarda i dati astronomici contenuti nella chiusa de La Chioma di Berenice e questo perché il tramonto di Acquario non sarebbe oggi più contemporaneo alla levata della Chioma ma sarebbe di poco posteriore alla levata di Orione, una costellazione che contiene – come riferisce anche Callimaco – le due stelle più luminose del cielo autunnale. Quindi l’astronomo Conone, nell’autunno del 245 a.C., o ha dato dei dati non veritieri o ha sbagliato i suoi calcoli oppure qualcosa, negli ultimi due millenni, è cambiato nella disposizione celeste: il dibattito è in corso e, in proposito, sono stati scritti una serie di saggi.

     E ora, per non far torto a nessuno, è nostro dovere leggere anche un po’ di versi composti da Ugo Foscolo e pubblicati nel 1803 per Il Volgarizzamento della versione latina di Valerio Catullo de La Chioma di Berenice. Diciamo subito che anche la lettura del Volgarizzamento foscoliano è piuttosto complicata perché Foscolo ci tiene a fare un esercizio erudito, a compiere una sofisticata esperienza di studio e a realizzare una difficile sperimentazione. E, quindi, invece di domandare (superficialmente): che cosa la leggiamo a fare questa pagina? Sarà bene domandare: che cosa ha imparato Foscolo da questo esercizio, da questo compito che si è dato e da questa sperimentazione di carattere filologico? Il senso che ha quest’opera di Foscolo – di difficile lettura – lo si capisce se si viene a conoscenza di un particolare fondamentale: quale?

     Il Volgarizzamento della versione latina di Valerio Catullo de La Chioma di Berenice scritto da Ugo Foscolo e pubblicato nel 1803 è corredato da un ampio Apparato introduttivo formato da quattro Discorsi introduttivi, da un Catalogo di note esplicative sul linguaggio mitologico e di quattordici Considerazioni. Questo Apparato che accompagna l’esercizio di Volgarizzamento della versione latina di Valerio Catullo de La Chioma di Berenice è un testo importante in cui il Foscolo ribadisce come sia utile e necessario in tempo di crisi di ideali – ricordiamoci che Foscolo vive, con grande lucidità intellettuale, un periodo critico della storia d’Italia e d’Europa in cui la spinta rivoluzionaria del 1789 si era esaurita, in cui Napoleone aveva mostrato il suo volto di dèspota deludendo tutta una generazione, in cui la Restaurazione, in tutta Europa, stava prendendo campo – guardare ai Classici della Storia del Pensiero Umano e per lui i Classici sono le opere dell’Ellenismo greco e latino che contengono un patrimonio di valori che ci sono stati lasciati in eredità: un’eredità da far fruttare nel presente. Questo Apparatofoscoliano è il primo manifestodella cosiddetta poetica neoclassicache apre la strada al Romanticismo.

     Le Considerazioni di Ugo Foscolo sono simili a quelle di Callimaco di Cirene nel Prologo dell’opera intitolata Cause che abbiamo letto questa sera. Foscolo sostiene, prima di tutto, che le poetesse e i poeti debbano dedicarsi alla ricerca formale esercitandosi (traducendo, elaborando e riflettendo) sulle opere dei Classici greci e latini per creare un linguaggio erudito che però non sia roboante ma sia elegante, raffinato, ricercato, secondo le direttive impartite da Apollo Licio (dalla Scuola aristotelica): i poeti sono chiamati a dare lustro alla lingua italiana come elemento che possa prefigurare l’unità nazionale. Foscolo poi sostiene che le poetesse e i poeti debbano studiare la mitologia (e di conseguenza la filologia) per derivarne metafore utili a sostenere le idee della rivoluzione (la lotta contro i tiranni) e della democrazia (l’avversione contro i regimi assoluti che snaturano i concetti di libertà, di uguaglianza e di fraternità) in un momento di dolore e di scetticismo a causa della triste situazione politica italiana ed europea. Foscolo prescrive inoltre che le poetesse e i poeti debbano attingere al dizionario delle parole dei Classici, al catalogo dei termini di rilevanza culturale (chi non parla bene non pensa bene) in modo da descrivere – con grazia, con finezza, con eleganza, con preziosità, e anche con ironia, con nostalgia e con malinconia –, in modo da descrivere l’irrequietudine, i tormenti, le ricchezze delle esperienze sentimentali e passionali (che è un termine tipico dell’Ellenismo) e i valori intellettuali, mettendo insieme temi eruditi (come quelli della mitologia) con argomenti più eterei, più sfumati, più effimeri.

     Adesso leggiamo (proviamo a leggere) una serie di versi corrispondenti a quelli della versione latina di Catullo che abbiamo letto prima e quindi abbiamo tolto le note (ce ne vorrebbe una per ogni verso). Ricordiamo che i pronomi me e iocorrispondono alla Chioma di Berenice che parla in prima persona.

LEGERE MULTUM….

Ugo Foscolo, La Chioma di Berenice. Vogarizzamento della versione latina

di  Valerio Catullo  (1803)

Quei che spiò del mondo ampio le faci 

Tutte quante, e scoprì quando ogni stella

Nasca in cielo o tramonti, e del veloce

Sole come il candor fiammeo si oscuri,

Come a certe stagion cedano gli astri,

E come Amore sotto a’ Latmii sassi

Dolcemente contien Trivia di furto

E la richiama dall’aëreo giro,

Quel Conon vide fra’ celesti raggi

Me del Berenicèo vertice chioma

Chiaro fulgente. A molti ella de’ Numi

Me, supplicando con le terse braccia,

Promise, quando il re, pel nuovo imene

Beato più, partìa, gli Assiri campi

Devastando, e sen gìa con li vestigi,

Dolci vestigi di notturna rissa

La qual pugnò per le virginee spoglie.

Alle vergini spose in odio è forse

Venere? Forse a’genitor la gioia

Froderanno per false lagrimette

Di che bagnan del talamo le soglie

Dirottamente?

Dal caro corpo dipartir gli amanti

Non sanno mai? Tu quai voti non festi,

Propizïando con taurino sangue,

Per lo dolce marito agli Immortali

S’ei ritornasse! Né gran tempo volse

Ch’ei dotò della vinta Asia l’Egitto.

Per questi fatti de’ Celesti al coro

Sacrata, io sciolgo con novello ufficio

I primi voti. A forza io mi partìa,

Regina, a forza; e te giuro e il tuo capo;

Paghinlo i Dei se alcun invan ti giura; 

Ma chi presume pareggiarsi al ferro?

E quel monte crollò, di cui null’altra

Più alta vetta dall’eteree strade

La splendida di Thia progenie passa, 

Quando i Medi affrettaro ignoto mare

E con le navi per lo mezzo Athos

Nuotò la gioventù barbara. Tanto

Al ferro cede! or che porìano i crini?

Tutta, per Dio! de’ Càlibi la razza

Pèra, e le vene a sviscerar sotterra

E chi a foggiar del ferro la durezza

A principio studiò. - Piangean le chiome

Sorelle mie da me dianzi disgiunte

I nostri fati, allor che appresentosse,

Rompendo l’aer con l’ondeggiar de’ vanni,

Dell’Etïope Mènnone il gemello

Destrier d’Arsìnoe Locrïense alivolo:

Ei me per l’ombre eteree alto levando

Vola, e sul grembo di Venere casto

Mi posa: ch’ella il suo ministro (grata

Abitatrice del Canopio lito)

Zefiritide stessa avea mandato

Perché fissa fra’ cerchi ampli del cielo

La del capo d’Arianna aurea corona

Sola non fosse. E noi risplenderemo

Spoglie devote della bionda testa.

Tu volgendo, regina, al cielo i lumi

Allor che placherai ne’ dì solenni

Venere diva, d’odorati unguenti

Lei non lasciar digiuna, e tua mi torna

Con liberali doni. A che le stelle

Me riterranno? O! regia chioma io sia,

E ad Idrocoo vicin arda Orïone.

     Ugo Foscolo non è nato istruito, e sua madre, la greca Diamantina Spathis non lo ha partorito sapiente sull’isola di Zacinto. Ugo Foscolo (che in realtà si chiamava Niccolò ma ha voluto cambiarsi il nome) la mitologia (per quanto riguarda il contenuto) e i generi letterari (per quanto riguarda la forma) se li è dovuti studiare e, ai suoi tempi, studiare era più difficile di oggi: a Zacinto, per la sua formazione, non ha neppure potuto contare su suo padre Andrea, il dottor Andrea Foscolo, chirurgo di vascello, che aveva una formazione scientifica e che non era quasi mai a casa e che, purtroppo, è scomparso prematuramente.

     A Zacinto, il ragazzo Ugo Foscolo, ha potuto contare, per quanto riguarda lo studio, sull’aiuto di una zia la quale deve aver contribuito a potenziare l’interesse di Ugo per la cultura greca, per la sapienza poetica ellenistica. Foscolo, quindi, ha studiato e si è esercitato e il Volgarizzamento della versione latina di Valerio Catullo de La Chioma di Berenice è un tipico esempio di esercizio erudito che il poeta fa e che propone alla lettrice e al lettore per approfondire la conoscenza della mitologia e per cimentarsi nell’uso delle forme classiche.

     Foscolo non nasce poeta neoclassico-protoromantico ma lo diventa attraverso gli strumenti propri della sapienza poetica ellenistica: la ricerca, l’investigazione, la sperimentazione, l’amore per lo studio e l’attenzione per il liberarsi delle passioni. Il lavoro di ricerca, di investigazione e di sperimentazione sulle opere (sui contenuti e sulle forme) della sapienza poetica ellenistica dà la possibilità a Foscolo di costruire il suo stile e, a questo proposito, è utile fare alcuni esempi significativi che ci fanno capire come la cultura dell’Ellenismo sia penetrata nelle coscienze delle intellettuali e degli intellettuali moderni e contemporanei.

     Per esempio: ne La chioma di Berenice – a cominciare dalla versione greca di Callimaco e poi in quella latina di Catullo – è forte la presenza del personaggio di Venere (di Afrodite) secondo la distinzione che fa Platone. Platone – soprattutto nel dialogo intitolato Simposio (che abbiamo studiato lo scorso anno) – distingue tra la Afrodite (Venere) celeste, simbolo dell’idea dell’amore spirituale (dell’intelligenza) e la Afrodite (Venere) terrena simbolo dell’amore materiale (della sensualità). Foscolo si esercita su questo concetto nel Valgarizzamento de La Chioma di Berenice e poi lo applica nelle sue opere: l’esempio più significativo è quello del verso 179 del poemetto intitolato Dei Sepolcri: un’opera che tutte e tutti noi abbiamo sentito nominare.

     Leggiamo sette versi per constatare questo fatto: sette versi nei quali Foscolo loda Firenze, loda Dante Alighieri (il Ghibellin fuggiasco) e la sua opera (la Divina Commedia) e loda Francesco Petrarca (il labbro di Calliope, la musa della poesia elegiaca) che con i suoi versi è stato capace (interpretando Platone) di adornare con un velo spirituale l’amore che i greci e i romani avevano cantato sensualmente.

LEGERE MULTUM….

Ugo Foscolo,  Dei Sepolcri  (versi 173-179)

E tu prima, Firenze, udivi il carme (La Divina Commedia)

Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco (Dante Alighieri),

E tu i cari parenti e l’idioma Desti a quel dolce di Calliope labbro

(il labbro di Calliope – la musa della poesia elegiaca – è Francesco Petrarca che aveva genitori fiorentini)

Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma

D’un velo candidissimo adornando (Petrarca con la sua poesia adorna con

un velo spirituale l’amore che i greci e i romani avevano cantato sensualmente),

Rendea nel grembo a Venere Celeste

(Foscolo riprende la distinzione che fa Platone nel Simposio tra una Venere spirituale

e una Venere sensuale rifacendosi al linguaggio de La Chioma

 di Berenice: “Vola, e sul grembo di Venere casto  Mi posa”).

     Però non solo nella poesia ma soprattutto nella prosa Foscolo applica i temi ellenistici e, in particolare, quegli argomenti su cui ha potuto riflettere traducendo in modo lirico La Chioma di Berenice e questo fatto avvalora anche l’idea che ci accompagna da quando siamo partiti: i modelli letterari sperimentati nell’età ellenistica – ci siamo occupati, anche nell’itinerario di questa sera, dell’elegia – contribuiscono a creare il genere del romanzo.

     A questo proposito, facciamo un esempio prendendo in considerazione un celebre romanzo, l’opera in prosa più significativa di Ugo Foscolo, una delle opere più importanti della Letteratura europea: Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Penso che molte e molti di voi abbiano letto questo romanzo epistolare, un romanzo che descrive in modo emblematico un particolare momento storico sul quale, oggi, (noi Italiane ed Italiani) dovremmo fare un’approfondita riflessione nel momento in cui sorgono ideologie di bassa lega e il concetto di libertàha subìto un processo di degrado inaccettabile. Ora, chi volesse leggere o rileggere questo romanzo deve sapere che la conoscenza delle parole-chiave e delle idee-cardine della sapienza poetica ellenistica è utile (è fondamentale) per la comprensione di questo testo, il cui autore, Foscolo (così come Goethe a cui si ispira), è imbevuto di cultura greca, di sapienza mitologica, di erudizione e coltiva un interesse particolare per le forme elegiache.

     Ugo Foscolo si è applicato per oltre vent’anni – a mano a mano che la sua competenza sulla sapienza poetica ellenistica si arricchiva – sul testo di questo romanzo epistolare che è apparso in una prima stesura del tutto parziale nel 1798 (quando Ugo aveva vent’anni). Poi, dopo l’edizione milanese del 1802, il romanzo è stato ancora rimaneggiato ed arricchito in due successive ristampe: quella di Zurigo del 1816 e quella di Londra del 1817. Foscolo si rifà a I dolori del giovane Werther di Goethe ma le studiose e gli studiosi sono d’accordo nel dire che nel testo dell’Ortis Foscolo si dedica più puntigliosamente alla ricerca filologica: ci troviamo comunque di fronte a due capolavori.

     L’Ortis narra la storia di un fuggiasco, Jacopo, il quale da Venezia, dopo il trattato di Campoformio – con il quale Napoleone (tradendo le aspettative dei patrioti italiani) ha ceduto il territorio veneziano all’Austria – si ritira sui nativi Colli Euganei, e lì incontra Teresa, la figlia del conte T., della quale s’innamora in modo furtivo (e frustrante) perché lei è già promessa sposa ad Odoardo. Nel personaggio letterario di Jacopo lo scrittore fa emergere alcune caratteristiche romanzeschefondamentali: la dura vita del profugo, l’ardente passione amorosa senza speranza, la disperazione per il fallimento dei propri ideali politici e per il miserevole spettacolo di un’Italia divisa, succube dello straniero. In mezzo a tutta questa disperazione Jacopo, ad un certo punto, riceve un bacio da Teresa e questo gesto lo divinizza: il bacio d’amore rende divini. E voi capite – perché lo abbiamo studiato questa sera e anche Berenice è coinvolta, per il suo atto d’amore verso il marito, in un processo di divinizzazione – che questo procedimento di divinizzazione è parte integrante dello stile dell’elegia ellenistico-alessandrina, uno stile che si affaccia puntualmente nel romanzo del Foscolo. Poi il contegno di Teresa, che era da principio sincero e pieno d’affettuosa fiducia verso Jacopo, diventa di giorno in giorno più riservato e la situazione precipita.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A questo punto, in un percorso di didattica della lettura e della scrittura, non si può fare a meno di chiedere alle studentesse e agli studenti di fare memoria del loro primo (o anche secondo o terzo…) bacio: chissà se – come scrive Foscolo – è stata un’esperienza “divinizzante” o se il processo di divinizzazione lo crea la scrittura?…  

Scrivete quattro righe in proposito…

     E ora leggiamo – sempre in funzione della didattica della lettura e della scrittura – alcune pagine significative da Le ultime lettere di Jacopo Ortis facendo attenzione agli elementi che rimandano al territorio della sapienza poetica ellenistica sul quale stiamo compiendo il nostro viaggio di studio.

LEGERE MULTUM….

Ugo Foscolo,  Le ultime lettere di Jacopo Ortis  (1817)

13  Maggio.

S’io fossi pittore! che ricca materia al mio pennello! L’artista immerso nella idea deliziosa del bello addormenta o mitiga almeno tutte le altre passioni. - Ma se anche fossi pittore? Ho veduto ne’ pittori e ne’ poeti la bella, e talvolta anche la schietta natura; ma la natura somma, immensa, inimitabile non la ho veduta dipinta mai. Omero, Dante e Shakespeare, tre maestri di tutti gl’ingegni sovrumani, hanno investito la mia immaginazione ed infiammato il mio cuore: ho bagnato di caldissime lagrime i loro versi; e ho adorato le loro ombre divine come se le vedessi assise su le volte eccelse che sovrastano l’universo a dominare l’eternità. Pure gli originali che mi veggo davanti mi riempiono tutte le potenze dell’anima, e non oserei non oserei, s’anche si trasfondesse in me Michelangelo, tirarne le prime linee. Sommo Iddio! quando tu miri una sera di primavera ti compiaci forse della tua creazione? tu mi hai versato per consolarmi una fonte inesausta di piacere, ed io la ho guardata sovente con indifferenza. Su la cima del monte indorato da’ pacifici raggi del Sole che va mancando, io mi vedo accerchiato da una catena di colli su’ quali ondeggiano le messi, e si scuotono le viti sostenute in ricchi festoni dagli ulivi e dagli olmi: le balze e i gioghi lontani vanno sempre crescendo come se gli uni fossero imposti su gli altri.

La vista intanto si va dilungando, e dopo lunghissime file di alberi e di campi, termina nell’orizzonte dove tutto si minora e si confonde. Lancia il Sole partendo pochi raggi, come se quelli fossero gli estremi addio che dà alla Natura; e le nuvole rosseggiano, poi vanno languendo, e pallide finalmente si abbujano: allora la pianura si perde, l’ombre si diffondono su la faccia della terra; ed io, quasi in mezzo all’oceano, da quella parte non trovo che il cielo.

Jer sera appunto dopo più di due ore d’estatica contemplazione d’una bella sera di Maggio, io scendeva a passo a passo dal monte. Il mondo era in cura alla Notte, ed io non sentiva che il canto della villanella, e non vedeva che i fuochi de’ pastori. Scintillavano tutte le stelle, e mentr’io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva un non so che di celeste, ed il mio cuore s’innalzava come se aspirasse ad una regione più sublime assai della terra. Mi sono trovato su la montagnuola presso la chiesa: suonava la campana de’ morti, e il presentimento della mia fine trasse i miei sguardi sul cimiterio dove ne’ loro cumuli coperti di erba dormono gli antichi padri della villa: - Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce - umana sorte! men infelice degli altri chi men la teme. -Spossato mi sdrajai boccone sotto il boschetto de’ pini, e in quella muta oscurità, mi sfilavano dinanzi alla mente tutte le mie sventure e tutte le mie speranze. Da qualunque parte io corressi anelando alla felicità, dopo un aspro viaggio pieno di errori e di tormenti, mi vedeva spalancata la sepoltura dove io m’andava a perdere con tutti i mali e tutti i beni di questa inutile vita. E mi sentiva avvilito e piangeva perché avea bisogno di consolazione - e ne’ miei singhiozzi io invocava Teresa.

14 Maggio.

Anche jer sera tornandomi dalla montagna, mi posai stanco sotto que’ pini; anche jer sera io invocava Teresa. Udii un calpestio fra gli alberi; e mi parea d’intendere bisbigliare alcune voci. Mi sembrò poi di vedere Teresa con sua sorella - sbigottitesi a prima vista fuggivano. Io chiamai per nome, e la Isabellina raffigurandomi, mi si gittò addosso con mille baci. Mi rizzai. Teresa s’appoggiò al mio braccio, e noi passeggiammo taciturni lungo la riva del fiumicello sino al lago de’ cinque fonti. E là ci siamo quasi di consenso fermati a mirar l’astro di Venere che lampeggiava su gli occhi. - Oh! diss’ella, con quel dolce entusiasmo tutto suo, credi tu che il Petrarca non abbia anch’egli visitato sovente queste solitudini sospirando fra le ombre pacifiche della notte la sua perduta amica? Quando leggo i suoi versi io me lo dipingo qui - malinconico - errante - appoggiato al tronco di un albero, pascersi de’ suoi mesti pensieri, e volgersi al cielo cercando con gli occhi lagrimosi la beltà immortale di Laura. Io non so come quell’anima, che avea in sé tanta parte di spirito celeste, abbia potuto sopravvivere in tanto dolore, e fermarsi fra le miserie de’ mortali - oh quando s’ama davvero! - E mi parve ch’essa mi stringesse la mano, e io mi sentiva il cuore che non voleva starmi più in petto. - Si! tu eri creata per me, nata per me, ed io - non so come ho potuto soffocare queste parole che mi scoppiavano dalle labbra. - E saliva su per la collina ed io la seguitava. Le mie potenze erano tutte di Teresa; ma la tempesta che le aveva agitate era alquanto sedata. - Tutto è amore, diss’io; l’universo non è che amore; e chi lo ha mai più sentito, chi più del Petrarca lo ha fatto dolcissimamente sentire? Que’ pochi genj che si sono in[n]alzati sopra tanti altri mortali mi spaventano di meraviglia; ma il Petrarca mi riempie di fiducia religiosa e d’amore; e mentre il mio intelletto gli sacrifica come a nume, il mio cuore lo invoca padre e amico consolatore. - Teresa sospirò insieme e sorrise.  La salita l’aveva stancata: riposiamo, diss’ella: l’erba era umida, ed io le additai un gelso poco lontano. Il più bel gelso che mai. E alto, solitario, frondoso: fra’ suoi rami v’ha un nido di cardellini - ah vorrei poter innalzare sotto l’ombre di quel gelso un altare! - La ragazzina intanto ci aveva lasciati, saltando su e giù, cogliendo fioretti e gettandoli dietro le lucciole che veniano aleggiando - Teresa sedea sotto il gelso ed io seduto vicino a lei con la testa appoggiata al tronco, le recitava le odi di Saffo - sorgeva la Luna - oh! - perché mentre scrivo il mio cuore batte si forte? beata sera!

14 Maggio, a sera.

Sì; ho baciato Teresa; i fiori e le piante esalavano in quel momento un odore soave; le aure erano tutte armonia; i rivi risuonavano da lontano; e tutte le cose s’abbellivano allo splendore della Luna che era tutta piena della luce infinita della Divinità. Gli elementi e gli esseri esultavano nella gioja di due cuori ebbri di amore - ho baciata e ribaciata quella mano - e Teresa mi abbracciava tutta tremante, e trasfondea i suoi sospiri nella mia bocca, e il suo cuore palpitava su questo petto: mirandomi co’ suoi grandi occhi languenti, mi baciava, e le sue labbra umide, socchiuse mormoravano su le mie - ahi! che ad un tratto mi si è staccata dal seno quasi atterrita: chiamò sua sorella e s’alzò correndole incontro. Io me le sono prostrato, e tendeva le braccia come per afferrar le sue vesti - ma non ho ardito di rattenerla, né richiamarla. La sua virtù - e non tanto la sua virtù, quanto la sua passione, mi sgomentava: sentiva e sento rimorso di averla io primo eccitata nel suo cuore innocente. Ed è rimorso - rimorso di tradimento! Ahi mio cuore codardo! - Me le sono accostato tremando. - Non posso essere vostra mai! - e pronunciò queste parole dal cuore profondo e con una occhiata con cui parea rimproverarsi e compiangermi. Accompagnandola lungo la via, non mi guardò più; né io avea più cuore di dirle parola. Giunta alla ferriata del giardino mi prese di mano la Isabellina e lasciandomi: Addio, diss’ella; e rivolgendosi dopo pochi passi, - addio.

Io rimasi estatico: avrei baciate l’orme de’ suoi piedi: pendeva un suo braccio, e i suoi capelli rilucenti al raggio della Luna svolazzavano mollemente: ma poi, appena appena il lungo viale e la fosca ombra degli alberi mi concedevano di travedere le ondeggianti sue vesti che da lontano ancor biancheggiavano; e poiché l’ebbi perduta, tendeva l’orecchio sperando di udir la sua voce. - E partendo, mi volsi con le braccia aperte, quasi per consolarmi, all’astro di Venere: era anch’esso sparito.

     In questa significativa pagina foscoliana – dove spicca (o incombe) la presenza della Venere celeste –, tra gli elementi che rimandano al territorio della sapienza poetica ellenistica, sul quale stiamo compiendo il nostro viaggio di studio, c’è anche quello del giardinoche, in questo caso, costituisce lo scenario dell’addio. Abbiamo già evocato più di una volta la parola giardino in relazione alla sapienza poetica ellenistica e quando il prossimo anno (che sta per arrivare) torneremo a Scuola saremo ospiti di un Giardino, ad Atene: chi ci attende in questo giardino? Ci attende un personaggio che vorrebbe insegnare a mettere le briglie alle passioni perché non abbiano un affetto così lancinante: lo incontreremo…

     Con il tema della Chioma di Berenice, e della Venere celeste, questa sera abbiamo tenuto spesso gli occhi puntati verso il firmamento. In tempo di Avvento il firmamento è attraversato dalla Stella, ma il firmamento dell’Avvento è quello disegnato sulla carta che funge da cielo nei presepi. E anche la Stella, che seguono i Magi da Oriente, è scritta sulla carta nei testi della Letteratura dei Vangeli. La Letteratura cosiddetta del Nuovo Testamento – uno degli apparati fondamentali della nostra cultura formato dalle Lettere di Paolo di Tarso e dalle Lettere degli Apostoli (di Giacomo, di Pietro, di Giovanni e di Giuda), dai quattro Vangeli canonici (di Marco, di Matteo, di Luca e di Giovanni), dagli Atti degli Apostoli, dall’Apocalisse di Giovanni e da un certo numero di testi detti Apocrifi – ebbene, anche questa Letteratura è frutto della sapienza poetica ellenistica.

     La Scuola, in questi anni, si è occupata di questi temi basilari con diversi Percorsi (i più significativi sono stati quelli sulla Letteratura dei Vangeli canonici alla metà degli anni 80 del secolo scorso, sulle Lettere di Paolo di Tarso all’alba del terzo millennio), e, in questo momento, ci rendiamo conto di quanto vasto e complesso sia il territorio dell’Ellenismo che stiamo attraversando. La Scuola, secondo le sue possibilità, cercherà in futuro di riprendere e di sviluppare –con i suoi Percorsi in funzione della didattica della lettura e della scrittura – i temi legati a questo vasto e significativo argomento di studio.

     Adesso, a proposito di questo argomento, dobbiamo mettere in evidenza soltanto un concetto, ma molto significativo: uno di quei concetti che contribuisce a rivoluzionare la cultura dell’Ellenismo. Questa sera abbiamo studiato – con La Chioma di Berenice – uno dei più celebri catasterismi, una delle più famose collocazioni tra gli astri; ebbene la Letteratura dei Vangeli presenta un catasterismo alla rovescia che la tradizione ha ben interpretato con i versi di una notissima canzone popolare: «Tu scendi dalle stelle, o re del cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo». Il catasterismo alla rovescia– che presuppone poi il recupero del catasterismo vero e proprio – è uno dei concetti che contribuisce a trasformare la cultura dell’Ellenismo, ma questa è un’altra storia che presuppone altri Percorsi.

     Ora, per celebrare il Natale 2009, ricorriamo ancora – come abbiamo preannunciato la scorsa settimana e lo ricorderete certamente – ad un racconto tratto dalla raccolta intitolata Vai troppo spesso a Heidelberg di Heinrich Böll. Questo racconto, scritto nel 1954, s’intitola La notizia di Betlemme. In questo testo – lirico, elegiaco ed allegorico (in quegli anni Böll faceva il falegname) – lo scrittore vuole mettere in evidenza come la notizia di Betlemme, nella sua cruda realtà, sia sempre attuale: che cosa facciamo perché quel bambino (e tutte le altre bambine e bambini del mondo) non continui a nascere in condizioni di precarietà? Con lucida ironia lo scrittore risponde: Distribuiamo gigli giallastri o bianchi. Ma bastano gigli bianchi a riempire lo stomaco, a curare le malattie, ad attenuare l’ignoranza, o servono solo ad essere sventolati in segno di evviva di fronte all’arroganza del potere?

LEGERE MULTUM….

Heinrich Böll, Vai troppo spesso a Heidelberg

La notizia di Betlemme

La porta non era una vera porta: erano assi inchiodate, con molte fessure, e un cappio di fil di ferro infilato sul chiodo la fissava allo stipite. L’uomo si fermò e attese: «È una vergogna, però, - pensava, - che una donna debba partorire qui dentro». Staccò delicatamente il cappio dal chiodo, aprì la porta e trasalì: vide il bambino steso nella paglia, la madre giovanissima gli stava accoccolata accanto e gli sorrideva In fondo, contro il muro, stava in piedi uno che l’uomo non osava guardare in faccia: poteva essere uno di quelli che i pastori avevano creduto angeli. Quello che se ne stava là, appoggiato al muro, aveva un camiciotto color grigio topo e reggeva dei fiori a due mani: erano lunghi gigli giallastri. L’uomo senti il timore crescergli dentro e pensò: «Forse le cose incredibili che i pastori hanno raccontato in città sono vere».   A questo punto la giovane donna alzò gli occhi, lo guardò gentilmente, con espressione interrogativa, e lui, il giovane uomo, domandò sottovoce: - È qui che abita il falegname? La giovane donna scosse la testa: - Non fa il falegname, fa il carpentiere. …  - Non importa, - disse l’uomo, - saprà pure riparare una porta, se ha con sé gli attrezzi. - Gli attrezzi li ha, - disse Maria, - e una porta sa ripararla. Lo faceva anche a Nazareth. …  Dunque erano proprio di Nazareth.   

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    Tutte le sentenze, tutti i racconti che danno vita alla Letteratura dei Vangeli – in particolare i testi che riguardano il Natale e l’infanzia di Gesù – sono stati scritti nel periodo dell’Ellenismo e questo è un motivo in più, nell’anno che verrà, per continuare a percorrere il cammino che abbiamo iniziato ad ottobre tenendo conto del fatto che su questo vasto e complesso territorio altri viaggi, in futuro, dovremo intraprendere in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

    Le nostre Lezioni riprendono mercoledì 13 gennaio (alla Redi), giovedì 14 gennaio (alla Levi) e venerdì 15 gennaio (alla Don Milani).

    La Scuola augura a tutte e a tutti voi un buon Natale di studio perché lo studio, che è sinonimo di cura, giova al corpo e allo spirito, al cuore e all’intelletto: Auguri!

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 18, 2009