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NEL PAESAGGIO INTELLETTUALE DELLA FILOSOFIA CRISTIANO-LATINA AI SUOI ALBORI NASCE, ALLA SCUOLA DI FONTE AVELLANA, LA CORRENTE ANTIDIALETTICA …

Lezione N.: 
10

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale     10-11-12  dicembre  2014

Dante Alighieri - Sandro Botticelli

NEL PAESAGGIO INTELLETTUALE DELLA FILOSOFIA CRISTIANO-LATINA

AI SUOI ALBORI NASCE, ALLA SCUOLA DI FONTE AVELLANA,

LA CORRENTE ANTIDIALETTICA …

 

   Questo è il decimo itinerario del nostro viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale”, l’ultimo itinerario dell’anno 2014, e ci troviamo ancora di fronte al “paesaggio intellettuale della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori” sviluppatasi sulla scia del movimento della Scolastica.

   La scorsa settimana – muovendoci all’interno di questo scenario assai complesso –  abbiamo frequentato, alle Scuole di Tours, di Corbie e di Amiens, le Lezioni di Berengario di Tours, l’esponente di spicco della corrente dei “dialettici”, e abbiamo assistito all’animata polemica [non indolore, a Berengario è costata trent’anni di galera] sul tema della “transustanziazione” tra Berengario [il quale, in linea con il sistema delle categorie di Aristotele, sostiene che la presenza della carne e del sangue del corpo di Cristo nel pane e nel vino eucaristici va intesa in modo spirituale e simbolico] e Lanfranco da Pavia abate e direttore della Scuola dell’abbazia di Bec e futuro arcivescovo di Canterbury, il quale, in linea con la Metafisica di Aristotele, sostiene che la presenza del corpo di Cristo nell’eucaristia, sotto le specie del pane e del vino, è sostanziale: c’è realmente carne e sangue. Le riflessioni di Berengario e di Lanfranco sono assai macchinose [noi abbiamo cercato di comprenderne il senso] ma lo sforzo che fanno sul piano del ragionamento è esemplare perché il lato positivo del loro impegno non sta tanto nell’obiettivo da raggiungere ma sta nell’esercizio stesso che serve a potenziare la disciplina della “dialettica” che si sviluppa alla Scuola di Tours, a quella di Corbie, a quella di Amiens, a quella di Bec e di Canterbury. E poi, una cosa la si capisce chiaramente: che anche nel dogma della “transustanziazione” troviamo lo zampino di Aristotele, oltre a quello di Platone. Si capisce inoltre che la polemica tra Lanfranco da Pavia [e poi di Canterbury] e Berengario di Tours avviene nell’ambito della stessa corrente, quella dei “dialettici”, anche se Lanfranco asserisce di non appartenere ad alcuna corrente.

   E noi, adesso, – sempre osservando il “paesaggio intellettuale della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori” [al quale siamo di fronte] – dobbiamo cominciare a riflettere sulla nascita della corrente “antidialettica” e, a questo proposito, prima di tutto, dobbiamo ribadire ciò che già abbiamo detto la scorsa settimana.

   Si potrebbe pensare, abbiamo detto la scorsa settimana, che la nascita della corrente “antidialettica” avvenga per reazione all’utilizzo di questa disciplina, ma, in realtà, gli intellettuali antidialettici non sono schierati “contro la dialettica” ma contestano l’uso che ne viene fatto, anzi, gli intellettuali antidialettici, per distinguersi dai dialettici, hanno più che mai bisogno della “dialettica” e, quindi, non disdegnano affatto questa disciplina: di conseguenza il termine “antidialettica”, utilizzato per definire questa corrente, non è propriamente conforme all’attività intellettuale che ha prodotto. La discriminante tra “dialettici” e “antidialettici”, come abbiamo detto la scorsa settimana, riguarda soprattutto il tema del rapporto tra la Fede e la Ragione.

   I “dialettici” mettono al primo posto la Ragione e preferiscono pensare che “per credere, per coltivare la Fede” bisogna far un uso corretto della Ragione [orientato verso l’idea del Bene e sostenuto da regole certe], mentre gli “antidialettici” mettono al primo posto la Fede e ritengono che “per ragionare bene, in modo corretto” bisogna prima di tutto avere Fede e, quindi, nella scala dei valori che porta alla conoscenza, al primo posto non pongono la “dialettica” ma bensì la “mistica”, ed è la “mistica” che deve illuminare la “dialettica” e non viceversa, ma la “dialettica” ha, comunque, un ruolo importante [di che cosa parliamo quando parliamo di “mistica”?].

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La mistica è anche attività contemplativa [nel senso che “contemplare” è “percepire il lato positivo e gratificante della vita elevandosi al di sopra della realtà materiale”]: che cosa favorisce la contemplazione: l’immersione nella natura [dove?], nella lettura [di che cosa?], nella preghiera [come?], oppure che cosa?…  

Scrivete quattro righe in proposito…

 

   Il movimento “antidialettico” sarebbe più corretto si chiamasse “mistico” ma questa denominazione, come abbiamo già detto la scorsa settimana, è stata riservata ad altre Scuole che incontreremo strada facendo.

   Il principale esponente del movimento “antidialettico” [come sappiamo] si chiama Pietro di Damiano [meglio conosciuto come San Pier Damiani] nato a Ravenna nel 1007 e morto a Faenza il 21 febbraio del 1072. E l’appellativo patronimico “di Damiano [in latino “Damiani”]” deriva dal nome del fratello [Damiano] che gli ha fatto da padre. Pier Damiani è un teologo, un vescovo, un cardinale, un santo, proclamato dottore della Chiesa nel 1828 da papa Leone XII ed è vissuto nel monastero di Santa Croce in Fonte Avellana. Quando nel 1057 viene nominato cardinale [da papa Stefano IX (o X)] si rende conto che non fa per lui [non si confà con la sua mentalità da monaco] vivere nella curia romana [era solito dire: «Sum Petrus, ultimus monachorum servus (Sono Pietro, ultimo servo dei monaci)»] e, quindi, ritorna nel suo monastero con l’intenzione di iniziare un’opera riformatrice e moralizzatrice della Chiesa e, come abbiamo detto la scorsa settimana, Pier Damiani agisce con l’appoggio incondizionato di papa Stefano IX [o X]: Federico dei duchi di Lorena, abate di Montecassino, un principe che si è fatto monaco benedettino il quale vorrebbe che nella curia romana si vivesse con lo stesso stile in cui si vive nelle abbazie. Ma, a questo proposito, non è mai stato facile per un papa imporsi nei confronti della curia, i papi hanno sempre dovuto fare dei compromessi [papa Stefano IX (o X) è morto a Firenze ed è stato sepolto nella Chiesa di Santa Reparata, oggi Santa Maria del Fiore].

   La fonte principale per conoscere la vita di Pier Damiani è la biografia realizzata dal monaco Giovanni da Lodi, suo segretario e discepolo prediletto, una persona particolarmente erudita da essere soprannominato “Grammaticus”, che è divenuto poi il suo successore come priore del monastero di Fonte Avellana e successivamente è stato eletto vescovo di Gubbio.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In biblioteca dovreste trovare “Vita di san Pier Damiani” di Giovanni da Lodi, tuttavia, navigando in rete trovate molte notizie sulla vita [e sull’infanzia piuttosto travagliata] di San Pier Damiani sempre tratte dalla biografia scritta da Giovanni da Lodi, andate a leggerle… 

 

   A noi interessa, ora, mettere in evidenza quali sono i tre punti del programma riformatore [di natura politica] che Pier Damiani vorrebbe fosse messo in atto.

   Pier Damiani si adopera per dividere la missione religiosa dal potere politico e si schiera contro l’istituzione dei vescovi-conti: come sappiamo, l’imperatore nominava conte un feudatario di sua fiducia e il papa lo doveva consacrare vescovo in modo da unire potere religioso e potere politico ma questo fatto aveva delle conseguenze nefaste sul piano della morale e dello svilimento della funzione ecclesiastica. Poi Pier Damiani mette in risalto l’autorità del Papa che doveva tornare ad essere il fulcro centrale della vita ecclesiale, e questo da un lato per sottrarre i vescovi all’autorità dell’imperatore [i vescovi-conti ubbidivano all’imperatore e il papato era sottomesso all’impero], dall’altro per non lasciarli liberi di utilizzare la dottrina a loro uso e consumo [era diventato normale che i vescovi-conti vendessero le cariche ecclesiastiche e le indulgenze, che assolvessero i peccati a pagamento]. Quindi Pier Damiani cerca di riformare la vita degli ecclesiastici combattendo il malcostume e proponendo come modello la vita monastica secondo la regola benedettina di impronta camaldolese [da quanto tempo non andate a fare un’escursione all’eremo di Camaldoli, in Casentino, a pochi chilometri da qui?]. Questo programma era di difficile realizzazione, bisognava, quindi, che fosse fondato su un’idea forte, che avesse una solida base intellettuale che si poteva formare solo attraverso un’intensa attività culturale: per questo Pier Damiani pensa sia necessario fondare una Scuola che possa trasmettere il pensiero riformatore, e alla Scuola del monastero di Fonte Avellana nasce la corrente [che poi verrà chiamata] “antidialettica”.

   Ma prima di occuparci dell’attività didattica promossa da questa Scuola dobbiamo puntare la nostra attenzione sull’abbazia di Fonte Avellana. Pier Damiani vive e insegna nel monastero di Fonte Avellana, dedicato alla Santa Croce, che si trova tutt’oggi nel comune di Serra Sant’Abbondio, in provincia di Pesaro e Urbino, nella regione Marche. Il monastero di Fonte Avellana è situato a circa 700 metri in bella posizione alle pendici boscose del monte Catria, alto 1701 metri. È stato fondato alla fine del X secolo, intorno al 980, da alcuni eremiti che si ispiravano a San Romualdo di Ravenna, il padre della Congregazione benedettina camaldolese che ha operato fra il X e l’XI secolo in zone vicinissime a Fonte Avellana, come Sitria, il monte Petrano e San Vincenzo al Furlo. Naturalmente un notevole impulso culturale l’abbazia di Fonte Avellana lo ha avuto per opera di Pier Damiani che qui è diventato monaco nel 1035 e priore dal 1039. Nell’abbazia di Fonte Avellana c’è ancora lo “Scriptorium San Pier Damiani” che è l’ambiente più significativo del monastero, il luogo dove i monaci amanuensi hanno quotidianamente trascritto per secoli su pergamena antichi testi classici greci e latini, realizzando preziosi codici miniati. Lo “scriptorium” di Fonte Avellana è uno dei rarissimi ancora esistenti nella sua originalità perché, provvidenzialmente, l’abbazia [che via via nei secoli è stata ristrutturata con i necessari lavori di manutenzione] non ha mai avuto bisogno di essere ricostruita a seguito di bombardamenti o di fenomeni sismici.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida delle Marche e navigando in rete fate un’escursione a Serra Sant’Abbondio [in provincia di Pesaro e Urbino] e visitate l’abbazia di Fonte Avellana: c’è più di un sito in rete che mostra delle suggestive immagini di questo luogo che non è lontano da qui, buon viaggio… 

 

   C’era una volta, così iniziano le fiabe, la famosa razza di mucche [da latte] e di vacche [da carne e da lavoro], bianche e grasse, così dette “benedettine di Fonte Avellana”. Vuoi vedere che riusciamo ad entrare in contatto [o, forse, è solo un sogno?] con almeno uno di questi meravigliosi esemplari [ormai estinti] del mondo bovino per merito di Millemosche, Pannocchia e Carestia che, quando si tratta di “carne”, non possono fare a meno né di sognare né di filosofeggiare per sillogismi! E allora leggiamo la nostra razione settimanale di Storie dell’anno Mille: anche Pier Damiani è d’accordo [purché la razione sia di natura vegetale e condita con olio d’oliva].

 

LEGERE MULTUM….

Tonino Guerra  Luigi Malerba,  Storie dell’anno Mille

LA MUCCA VA IN VACCA

Millemosche Pannocchia e Carestia stanno ancora dormendo raggomitolati sull’erba e non si sa quanto tempo è passato. Il cielo è rosso e dev’essere l’alba o il tramonto, uno dei due. Andrebbero avanti a dormire ancora chissà quanto ma d’improvviso risuona lì vicino un campanaccio. I tre si svegliano di soprassalto e dopo alcuni movimenti confusi aprono gli occhi. Prima di tutto si meravigliano di essere vivi e di essere quelli che sono e cioè Millemosche Pannocchia e Carestia. Poi si meravigliano di vedere lì a due passi una mucca grassa e lucida che li guarda con occhi mansueti.

Si guardano in faccia colpiti dallo stesso dubbio finché Millemosche si distende di nuovo sull’erba tranquillamente, come se niente fosse.

«Non illudiamoci come al solito. Stiamo sognando».

... continua la lettura ...

 

   Il cardinale Pier Damiani scappa via come il vento dalla curia romana [non vuole partecipare ai giochi di potere che vi si consumano e che considera nefasti], anche se, per la sua affidabilità e la sua competenza [conosce molto bene il latino classico], ha svolto, per tutta la vita, un’intensa attività diplomatica come ambasciatore dei papi [di Stefano IX [o X], di Niccolò II, di Alessandro II] intessendo una vasta rete di rapporti internazionali [diventa anche molto amico di un monaco molto influente, un certo Ildebrando di Soana che condivide il suo programma di rinnovamento e che, strada facendo, incontreremo], però, tra una missione politica e l’altra, Pier Damiani torna nel suo monastero a Fonte Avellana a curare l’attività didattica della Scuola che ha istituito.

   Pier Damiani sa che non è facile realizzare un programma riformatore senza un poderoso supporto culturale e lui s’impegna a costruire una salda impalcatura intellettuale perché ha delle competenze: è uno studioso cresciuto nell’ambiente scolastico, ed è stato suo fratello Damiano [che lo ha allevato], ed è arciprete a Ravenna, a curare la sua formazione mandandolo a studiare le discipline del Trivio nella migliore Scuola di Faenza e quelle del Quadrivio a Parma, finché Pier si è diplomato “magister” e ha cominciato ad insegnare alla Scuola di Ravenna fino a quando viene chiamato dall’abate Guido di Pomposa ad insegnare [dal 1030 al 1035 e poi dal 1040 al 1044] nella Scuola della grande abbazia di Pomposa [lì matura la sua definitiva vocazione monacale e sarà proprio l’abate Guido ad indirizzarlo nel 1035 al monastero di Fonte Avellana].

   L’abbazia di Pomposa, risalente al IX secolo, si trova in Emilia-Romagna, nel comune di Codigoro, in provincia di Ferrara, ed è stata, ed è ancora oggi, una delle più grandiose abbazie europee: caratteristico è il suo campanile alto ben 48 metri e mezzo del 1063. In questa abbazia sono avvenute molte cose importanti: qui, per esempio, il monaco Guido d’Arezzo [991circa-1050] ha ideato la moderna notazione musicale e ha fissato il nome delle note musicali. L’abbazia di Pomposa, inoltre, si trova a ridosso del Parco regionale del Delta del Po: un’area molto affascinante sul piano naturalistico che merita di essere visitata.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida dell’Emilia-Romagna e navigando in rete fate un’escursione all’abbazia di Pomposa e visitatela   

 

   Pier Damiani sa che il suo programma riformatore deve reggersi su un’idea forte [sul presupposto di Agostino d’Ippona secondo cui solo la Fede dà la vera conoscenza] e su una solida base culturale [la “Metafisica” di Aristotele] e, quindi, fonda la Scuola del monastero di Fonte Avellana sul principio che la Ragione [il necessario strumento della Ragione] e la dialettica [l’utile disciplina dell’arte di ragionare] devono servire per proclamare il primato della Fede e, quindi, la Filosofia deve essere considerata come “ancella” della Teologia e questo termine, ancella, diventa la parola d’ordine di una corrente di pensiero che si va formando sul territorio europeo.

   L’opera più significativa di Pier Damiani s’intitola Sulla divina onnipotenza e l’incipit di questo trattato costituisce il manifesto della corrente che, in modo non del tutto esatto, come abbiamo già detto, prende il nome di “antidialettica” [ma le denominazioni di corrente “dialettica” e “antidialettica” sono state formulate a posteriori], perché  Pier Damiani considera la “dialettica” un’utile disciplina per la conoscenza della realtà materiale [e lui la insegna, quindi il prefisso “anti” è improprio]; se mai Pier Damiani mette in evidenza i limiti e i pericoli che riguardano l’uso della dialettica [il fatto che la dialettica cessi di essere un mezzo e diventi un fine] e si domanda non tanto “che cosa possiamo fare noi con la dialettica” ma “che cosa la dialettica può fare di noi”. Pier Damiani teme che l’uso della dialettica [tanto quella platonica iperuranica che quella aristotelica categoriale] modifichi la nostra intelligenza, creata da Dio per alimentare la Fede, rendendola sempre più “convergente” alla realtà materiale [che s’identifica con la società feudale, una società disegnata dal regime aristocratico-ecclesiale senza il metro della giustizia] mentre, sostiene Pier Damiani, per accedere alle Realtà divine bisogna coltivare un’intelligenza “divergente” come fa Gesù, scrive Pier Damiani, il quale, nella Letteratura dei Vangeli, si comporta come un “segno di contraddizione” rispetto a tutti gli interessi che convergono con l’egoismo e il conformismo alimentato dalla società ipocrita in cui Gesù è vissuto, una società, sostiene Pier Damiani, molto simile a quella fintamente cristiana e per nulla evangelica dell’XI secolo. Quindi, se la dialettica potenzia la Ragione senza che la Ragione sia soggetta alla Fede, esiste il pericolo che la nostra intelligenza converga esclusivamente sulla realtà materiale e, di conseguenza, i “valori divergenti” della Fede cristiana soccombano di fronte ai tornaconti mondani, e si sa che la ricchezza è preferibile alla povertà, l’arroganza all’umiltà, la forza alla dolcezza, l’indifferenza alla solidarietà, l’invadenza alla semplicità e via dicendo, ed è per questo, sostiene Pier Damiani, che “la Filosofia [la Ragione] deve essere “ancella” della Teologia [della Fede] perché Dio è al di sopra della logica umana: la logica di Dio è divergente rispetto alla logica umana [Dante, che sta per arrivare, riveste di sapienza poetica questo concetto].

   Dio, afferma Pier Damiani che ama i paradossi, non è soggetto nemmeno al principio di non contraddizione: «potrebbe, scrive Pier Damiani, fare addirittura che Roma non sia mai stata fondata pur essendo, secondo noi, stata fondata!». Ma al di là dei suoi paradossi, la questione posta da Pier Damiani è teologicamente e filosoficamente seria [come apparirà nei secoli successivi]: la Ragione umana vincola anche la volontà di Dio, e come può Dio assicurare alla volontà umana l’indipendenza necessaria a rendere libera la sua creatura?

   Pier Damiani si difende dalle critiche che riceve per aver etichettato la Filosofia con il termine di “ancella ” [serva] della Teologia, affermando che, sul piano dell’esegesi evangelica, si tratta di «una parola ricca di fecondità divina perché usata da Maria di Nazareth per accettare la missione salvifica che le veniva affidata da Dio: “Sono l’ancella [la serva] del Signore” ha risposto, e ha cambiato il corso della storia umana, per questo come può dolersi la Filosofia di essere a servizio della Teologia?» …

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per voi l’espressione “essere a servizio” a che cosa corrisponde oggi?…

Scrivete quattro righe in proposito…

 

   Il testo dell’incipit del trattato di Pier Damiani intitolato Sulla divina onnipotenza non è soltanto il manifesto della corrente “antidialettica” ma ci fa capire qualcosa di più: ci fa comprendere che, nella prima metà dell’XI secolo, il tema centrale della Scolastica diventa decisamente quello del rapporto travagliato tra la Fede e la Ragione dal quale scaturiscono due eterogenee linee di tendenza [che compaiono nello scenario del “paesaggio intellettuale della Filosofia cristiano-latina ai suoi albori” quando l’alba ha però ormai lasciato il posto al nuovo giorno], e a queste due linee di tendenza è stato dato il nome di “razionalismo” e di “misticismo”. Il “razionalismo” cerca di risolvere con la sola Ragione i principali problemi teologici e fideistici, mentre il “misticismo” sostiene che anche la Ragione è subordinata all’illuminazione divina.

   Leggiamo il testo dell’incipit del trattato di Pier Damiani intitolato Sulla divina onnipotenza.

 

LEGERE MULTUM….

Pier Damiani, Sulla divina onnipotenza

Le deduzioni dei dialettici non vanno applicate con leggerezza al mistero della divina potenza, e le regole che abbiamo trovato e stabilito per formare dei sillogismi [ragionamenti] e trarre delle conclusioni dai nostri giudizi, si guardino bene costoro dal farle valere con ostinazione contro le leggi divine e si guardino bene dall’opporre alla divina virtù la necessità dei loro ragionamenti. E, quando viene usata la perizia dell’umana dialettica nell’esporre e nell’interpretare la Sacra Scrittura, questa abilità  non deve usurpare con arroganza il diritto che la Sacra Scrittura ha di essere sempre e comunque la maestra, ma l’umana ragione deve assecondare l’esposizione e l’interpretazione con la dovuta riverenza, come un’ancella va dietro alla sua padrona, per non smarrirsi andando innanzi, e per non perdere l’intimo lume della virtù e il retto tramite del vero.

 

   In quest’opera, Sull’onnipotenza divina, Pier Damiani vuole mettere in luce come il linguaggio, la grammatica e le regole della dialettica restino chiuse entro limiti meramente umani e, quindi, non siano in alcun modo in grado di attingere alla vera natura di Dio. Di fronte all’onnipotenza di Dio, quale è rivelata dalle Sacre Scritture, tutti gli strumenti linguistici e razionali puramente umani rivelano una totale inadeguatezza, e poiché “onnipotenza” significa poter fare ciò che si vuole senza limiti né costrizioni, Pier Damiani arriva a sostenere che “Dio può perfino far sì che il passato non sia avvenuto”, e allora parlare di “passato” non ha più senso per Dio, il quale è un “Eterno presente”, e tanto meno si può pensare che la potenza di Dio possa essere limitata da un presunto ordine intrinseco alla natura perché, in realtà, ogni evento [naturalistico e antropologico] è voluto da Dio: questa volontà è per gli esseri umani imperscrutabile e ciò significa, sostiene Pier Damiani, che ogni fenomeno, anche quello che si presenta con la massima regolarità e quello più banale, è un “miracolo [è una grazia]” e l’atteggiamento “mistico” è la capacità di usufruire di questa “grazia”.

   Pier Damiani inaugura un nuovo tipo di cristianesimo ascetico [che ha però le sue radici nell’ormai già antica esperienza dei Padri del deserto] che porta alla modifica della Regola benedettina [secondo la riforma camaldolese di San Romualdo] per cui cessa nelle abbazie il rimato della [ben organizzata e confortevole] vita comunitaria per far subentrare nell’esperienza di vita dei monaci il periodico esercizio dell’eremitaggio e, quindi, nei dintorni di ogni monastero nasce un eremo [sapete che “èremos”, in greco, significa “deserto”]: una struttura isolata, austera, frugale che consente una vita [di preghiera, di studio e di lavoro] solitaria e dedicata alla “semplicità”.

   L’elemento che dà un senso alla vita è, secondo Pier Damiani, la “simplicitas [la semplicità]” e mette in evidenza che “vivere in semplicità [il contrario della semplicità è l’invadenza]” non è cosa facile e la Scuola di Fonte Avellana prevede un’apposita “didattica della semplicità [che Pier Damiani vorrebbe imporre ai cardinali, ai vescovi-conti, a tutti gli ecclesiastici]” per imparare ad acquisire questo stile di vita.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La “semplicità” è singolarità, essenzialità, sobrietà, misura, genuinità, schiettezza, franchezza, lealtà, spontaneità, modestia…   Scegliete due di questi termini da mettere, per primi, accanto alla parola “semplicità” e scriveteli… 

 

   Uno dei motivi [se non il principale] per cui abbiamo puntato la nostra attenzione sul romanzo intitolato Viaggio alla fine del millennio di Abraham B. Yehoshua, del quale stiamo leggendo l’incipit, è perché tra i temi che in esso emergono ci sono gli argomenti di cui ci stiamo occupando e che, oggi, continuano ad essere di attualità: il rapporto tra la religione e la laicità, tra la fede e la ragione, tra il misticismo e il razionalismo, tra la vita contemplativa e la vita pratica, tra la vita comunitaria e la vita solitaria, tra l’affetto da esternare verso il prossimo e la riflessione da interiorizzare in se stesse, in se stessi.

   La riflessione del protagonista [che è quella dello scrittore] – il mercante ebreo Ben-Atar che opera in perfetto accordo con il suo socio musulmano Abu-Lutfi – riguarda soprattutto il paradosso del monoteismo: perché tre religioni diverse, in competizione tra loro, per adorare lo stesso Dio? Tre religioni che si sono proposte di “re-legare”, ossia di contenere quanto di pericoloso, di violento, di spaventoso si affacci nella vita, e sotto questo profilo hanno compiuto un’opera di terapia collettiva, portando l’umanità da uno stato selvaggio ad una condizione più civile, operando in una logica premiale, promettendo la felicità alle persone che si comportano secondo virtù; allora, di fronte a queste riflessioni – che dimostrano come in definitiva sia l’uso della ragione umana, comune a tutte le persone, ad affermarsi – perché non pensare di superare gli steccati per accedere ad una “morale laica [noi diremmo kantiana]” secondo la quale la virtù è felicità in se stessa e, per convincersene, basta farne esperienza? Questi elementi e queste riflessioni sono facilmente rintracciabili, in filigrana, nelle pagine di questo romanzo, anche in queste che ora andiamo a leggere: le ultime pagine dell’incipit di questo racconto del quale potete, se volete, continuare la lettura per conto vostro.

   Ricordate che la nave di Ben-Atar è ferma, con tutto il suo equipaggio e le sue due mogli, all’imboccatura della Senna lungo la quale navigherà fino a Parigi dove Ben-Atar deve incontrare il nipote Abulafìa, suo ex socio in affari, e sua moglie [c’è anche una delicata questione ideologica e giuridica da risolvere posta proprio dalla nipote acquisita che non approva la bigamia dello zio]. Prima che il giovane Abulafìa si sposasse, Ben-Atar, accompagnato dal suo collega arabo Abu-Lutfi, aveva periodicamente incontrato, nel corso degli ultimi dieci anni, il nipote [avventuroso commerciante e mediatore di grande abilità] nella baia di Barcellona per consegnargli le merci maghrebine che lui avrebbe venduto nei territori di Provenza e di Aquitania; quindi, oltre la baia di Barcellona Ben-Atar non aveva mai navigato e ora [dopo aver bevuto più di un bicchiere di vino Bordeaux con i suoi compagni di viaggio in sosta all’imboccatura della Senna] ricorda, con nostalgia, come si svolgevano questi periodici incontri con suo nipote: fruttuosi dal punto di vista economico ma, soprattutto, ricchi sul piano affettivo e fecondi su quello della riflessione esistenziale.

 

LEGERE MULTUM….

Abraham B. Yehoshua, Viaggio alla fine del millennio

Alla baia di Barcellona erano soliti giungere una volta all’anno, nel corso degli ultimi dieci anni, all’inizio del mese di Av [Corrispondente ai nostri luglio-agosto], con velieri carichi di merci per incontrare quell’Abulafìa, nipote e fedele mediatore, che veniva loro incontro da Tolosa, attraversando solo i monti Pirenei, talvolta mascherato da monaco, talaltra da lebbroso, poiché in tal modo poteva ben nascondere tra le pieghe del mantello, sia ai gabellieri-saccheggiatori dei piccoli principati lungo il percorso e sia ai briganti autentici, le monete d’argento e le pietre preziose ricevute in cambio della merce venduta nel corso dell’ultimo anno in Provenza e in Aquitania.

... continua la lettura ...

 

   Continuate voi a leggere questo romanzo: così potrete, in compagnia di Ben-Atar, far visita a Parigi [fondata nel luogo dove, in Età assiale, avevano i loro accampamenti le tribù dei Parisi da cui la città prende il nome].

   Parigi, intorno all’anno Mille, è un borgo con il suo centro su un’ampia lingua di sabbia, spesso tutta circondata dall’acqua, formatasi in un’ansa della Senna [chiamata poi l’Île de la Cité], ma questo borgo si sta sviluppando anche sulla collina che si erge sulla riva sinistra della Senna e che ha preso il nome di monte di Santa Genoveffa [Sainte Geneviève] perché dal VI secolo vi è stata costruita una cappella che contiene le spoglie di questo importante personaggio: la principale santa protettrice di Parigi. Il borgo di Parigi, trovandosi in posizione strategica, è, dopo l’anno Mille, in via di rapida espansione perché diventa il punto di raccordo di tutti i commerci che si sviluppano in questa zona dell’Europa [l’Île de France] e naturalmente avrà, come vedremo a suo tempo, un ruolo importante sul piano culturale per le sue Scuole nelle quali avverranno significative dispute intellettuali tanto sulla questione degli universali quanto sul rapporto conflittuale tra razionalisti e mistici.

   Nella prima metà dell’XI secolo, il tema centrale della Scolastica, come abbiamo detto, diventa decisamente quello del rapporto travagliato tra la Fede e la Ragione dal quale scaturiscono due eterogenee linee di tendenza il “razionalismo” e il “misticismo”. Il “razionalismo”, che si sviluppa soprattutto nelle Scuole di città [che si trasformano e prendono il nome di Università], cerca di risolvere con la sola Ragione i principali problemi teologici e fideistici, mentre il “misticismo”, che si sviluppa soprattutto nelle Scuole delle abbazie, sostiene che anche la Ragione è subordinata all’illuminazione divina.

   Questa sera abbiamo compreso come la disciplina della “dialettica” influenzi – con le dovute differenze [come abbiamo constatato studiando il pensiero di Pier Damiani] ambedue gli schieramenti perché tanto i razionalisti quanto i mistici sono interessati a studiare il procedimento attraverso il quale l’essere umano può giungere alla conoscenza dell’Universo, alla comprensione della Realtà. E, naturalmente, su questo tema continua a pesare l’autorevolezza di Aristotele che ha codificato, nella sua opera intitolata Fisica, la “scala di valori dell’Universo” formata da quattro gradi gerarchici: la natura inorganica, il regno vegetale, il regno animale e il regno umano, e questo disegno raffigura la stessa struttura gerarchica del mondo creato da Dio; quindi, la visione di Aristotele viene ad assumere una credibilità che si riflette anche sul modo con cui il filosofo affronta, nella Metafisica, il problema della conoscenza dei fenomeni che si manifestano nel Mondo creato e della natura e del ruolo che ha la facoltà dell’intelletto nel processo della conoscenza. E il tema che ha per oggetto “l’intelletto” diventa per la Filosofia cristiano-latina ai suoi albori di importanza strategica. Di conseguenza, tanto i razionalisti [Berengario di Tours, Lanfranco da Pavia] quanto i mistici [Pier Damiani di Fonte Avellana] sul “tema della conoscenza” e su quello riguardante “la natura e il ruolo che ha l’intelletto nel processo della conoscenza” seguono, studiano e insegnano la Lezione di Aristotele. E allora seguiamola anche noi la Lezione di Aristotele su questi temi.

   Nella Metafisica Aristotele riflette, in modo macchinoso ma seguendo una logica coerente, su come la persona possa conoscere la Realtà [i fenomeni, l’ordine naturale delle cose] e afferma che quando nasciamo la nostra anima non conosce nulla, ma è come una “tabula rasa”, cioè una lavagna ancora priva di segni su cui i sensi tracceranno le prime conoscenze. Aristotele supera l’innatismo [un po’ mitico] di Platone il quale afferma, e lo abbiamo studiato, che l’anima ha soggiornato nel mondo delle Idee e sa già tutto, poi, incarnandosi ha perso la memoria e, quindi, secondo Platone, la conoscenza è reminiscenza, è il recupero dei ricordi.

   Aristotele, invece, sostiene che, mediante i cinque sensi, noi cogliamo l’aspetto particolare e contingente [la forma] di un determinato essere e questa fase, nel suo complesso, viene denominata “sensazione”. Ma oltre ai cinque sensi speciali – il tatto, il gusto, l’olfatto, l’udito, la vista – Aristotele sostiene l’esistenza di un sesto senso, che egli chiama “senso comune”, il quale ha due compiti: il primo compito del “senso comune” è quello di farci acquisire le sensazioni [per esempio il gusto acre e il colore giallo di un limone], mentre il secondo compito è quello di coordinare le sensazioni date dai vari sensi in modo da evitare una confusione sensoriale che limiterebbe o escluderebbe la conoscenza  [pur avendo due sensazioni diverse - il gusto acre e il colore giallo - noi ci accorgiamo che esse si riferiscono alla stessa sostanza per merito del “senso comune”]. A questo punto le sensazioni, afferma Aristotele, vengono conservate da quella che lui chiama “la fantasia” o “l’immaginazione” e con questa facoltà la memoria si assicura il possesso permanente delle sensazioni.

   Poi, afferma Aristotele, le singole immagini si fondono insieme nell’immagine generica o “schema rappresentativo” che mantiene i caratteri salienti e comuni delle varie cose [persone, animali, piante, oggetti] con le quali, mediante le sensazioni, siamo venute e venuti a contatto, eliminando ciò che vi è di particolare nelle singole cose; è a questo punto che nel cammino della conoscenza si attua il passaggio dallo stadio particolare a quello universale per cui dall’immagine generica viene astratta la forma intelligibile o “concetto”: cioè la forma universale e necessaria che è contenuta in potenza nell’immagine generica, e a provocare questo processo di astrazione è “l’intelletto”: una facoltà superiore, una dote tipicamente umana, che può cogliere la forma intelligibile, cioè l’essenza di una cosa. Quando noi, da bambine e da bambini, abbiamo cominciato a vedere, a sentire, a toccare, ad annusare, ad assaggiare una “cosa [usiamo questo termine in modo generico]” abbiamo, con i sensi, fatto esperienza di sensazioni riguardanti una “sostanza”. E, con l’immaginazione, afferma Aristotele, abbiamo conservato nella memoria queste sensazioni “sostanziali”, che, fuse insieme attraverso il “sesto senso o senso comune”, hanno creato nella nostra mente lo schema rappresentativo della “cosa” , non della cosa in particolare, ma della cosa ideale: della forma intelligibile della cosa. Quindi, con “i sensi”, con “l’immaginazione” e con “il sesto senso”, mediante la facoltà dell’intelletto, noi abbiamo interiorizzato il “concetto” della cosa che per noi diventa riconoscibile perché in potenza nella nostra mente c’è la forma intelligibile della cosa.

   Aristotele è il primo “scienziato” che cerca di dare un ordine logico al processo della conoscenza e afferma che a provocare questo processo di astrazione è “l’intelletto”, cioè una facoltà superiore, una speciale dote umana, che può cogliere la forma intelligibile cioè l’essenza di una cosa.

   Ma il tema dell’intelletto si presenta in modo problematico negli scritti di Aristotele [per la gioia delle studiose e degli studiosi che, nei secoli, si sono cimentate e cimentati su questo significativo argomento]. La questione è controversa e, forse, è insolubile, perché i testi delle opere di Aristotele [la Fisica e la Metafisica] non sono troppo chiari in proposito e sono anche contraddittori. Aristotele, per rimanere fedele al suo sistema dialettico, per cui, la realtà, per esistere, deve passare dalla potenza all’atto [se c’è un albero ci vuole un frutto, se c’è un frutto ci vuole un seme, se c’è un seme ci vuole un albero], deve ammettere due tipi di intelletto perché se c’è un intelletto “che fa conoscere”, che quindi è in atto, vuol dire che c’è anche un intelletto in potenza “che giustifica questo atto” e il primo tipo di intelletto Aristotele lo chiama “passivo”, e l’intelletto passivo è “in potenza” ed è capace di cogliere la forma intelligibile di una cosa ma questa situazione è solo una parvenza di conoscenza. È una parvenza di conoscenza, afferma Aristotele, perché la forma intelligibile è in potenza nell’immagine generica e, se vogliamo conoscere davvero una cosa, la forma intelligibile deve passare dalla potenza all’atto: ora, siccome nulla passa dalla potenza all’atto senza l’intervento di un elemento già in atto, questo significa che sul nostro intelletto che è “passivo” deve agire, dal di fuori, un intelletto superiore, che Aristotele chiama “intelletto attivo” il quale, essendo già in atto, può trasformare in atto il concetto contenuto in potenza nell’immagine generica.

   Aristotele afferma che “l’intelletto attivo” non è di alcuna persona particolare, ma è unico per tutti, ed è eterno e, pertanto, potrebbe identificarsi con l’Atto puro, col Motore Immobile, però, come abbiamo detto, la questione è controversa e forse insolubile, perché i testi aristotelici non sono troppo chiari su questo punto. Di questa [utile] situazione di incertezza approfittano gli intellettuali scolastici per formulare differenti ipotesi e i razionalisti affermano che “l’intelletto attivo” è il grande contenitore di tutta la cultura universale e lo chiamano “intelletto universale in atto” [un dispositivo intellettuale che tende a salire dal basso verso l’alto], mentre per i mistici “l’intelletto attivo” è un “oggetto spirituale in atto” ed è l’ausilio concesso da Dio per propiziare la comprensione dell’ordine naturale delle cose [un dono divino che tende a scendere dall’alto verso il basso].

   Dalla Lezione, molto meditata seppur controversa, di Aristotele sul “tema dell’intelletto” la Filosofia cristiano-latina imbastirà nei decenni a venire una interessante riflessione sulle parole-chiave: ingegno, giudizio, perspicacia, furbizia, cognizione, talento.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole - ingegno, giudizio, perspicacia, furbizia, cognizione, talento - attira di più la vostra attenzione?…  

Scrivetela… 

 

   E ora, per celebrare il Natale abbiamo invitato Dante Alighieri che ha accettato volentieri di dare un contributo all’ultimo itinerario di quest’anno solare.

   Dante non poteva non occuparsi di San Pier Damiani e a lui dedica il XXI canto del Paradiso della Divina Commedia e noi – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – non possiamo certo ignorare questo particolare. È molto probabile che Dante sia stato ospite dell’Eremo dell’abbazia di Fonte Avellana quando Pier Damiani era morto da circa duecentotrent’anni ma la sua presenza [come oggi d’altra parte] si deve essere fatta sentire.

   Ora noi leggiamo 39 versi [dal 103 al 142] del XXI canto del Paradiso della Divina Commedia. Nel XXI canto del Paradiso Dante descrive la sua ascesa, accompagnato da Beatrice, al cielo degli spiriti contemplanti, il cielo di Saturno. Per la prima volta succede che Beatrice non sorride per salutare l’avvenuto passaggio ad un cielo superiore, perché la potenza di tale sorriso avrebbe abbagliato completamente Dante.

   A Dante appare una scala luminosa la cui cima sembra toccare l’empireo, e le anime contemplanti scendono e salgono con un ritmo incessante, ma una di esse si ferma accanto a lui e gli rivolge la parola invitandolo a manifestare il desiderio che, in questo momento, ha nell’animo. E difatti Dante desidera sapere due cose: perché proprio questo spirito si è fermato accanto a lui e perché in questo cielo i beati non cantano e c’è un assoluto silenzio. Lo spirito risponde che nessuna mente umana, nessuna anima beata e neppure i Serafini, che sono la gerarchia angelica più vicina a Dio, potranno mai spiegare i motivi che guidano il Creatore nella sua azione: perché Dio è al di sopra della logica umana, e la logica di Dio è divergente rispetto alla logica umana [e a questo punto noi dovremmo capire chi è questo spirito contemplante: l’Alfabetizzazione è propedeutica alla lettura di Dante].  «Nessuno, quindi [afferma questo spirito rivolto a Dante che parafrasa con la sua sapienza poetica il pensiero mistico di Pier Damiani che lui conosce bene], potrà mai sapere perché solo certe anime sono destinate a parlare con te, pellegrino che sali attraverso i cieli, e quello che tu chiedi [dice lo spirito a Dante] è nascosto nel segreto degli eterni decreti di Dio, e il volere di Dio è separato dall’intelligenza di ogni persona; e tu, quando ritornerai tra gli umani riferisci che non si può ardire a conoscere Dio e riferisci che anche l’intelligenza delle anime del Paradiso, seppure qui in cielo risplenda di luce e il cielo l’abbia assunta nella sua gloria, è impotente a penetrare il volere di Dio, e figurati, quindi, quanto possa essere avvolta dal fumo dell’ignoranza l’intelligenza umana sulla terra e poi, per quanto al silenzio dei beati di Saturno, essi tacciono [risponde lo spirito a Dante] per lo stesso motivo per cui Beatrice non ti ha sorriso, per non sopraffare le tue deboli facoltà umane». E infine, ad una nuova domanda di Dante, questo spirito rivela la sua identità e lancia una terribile invettiva contro la curia romana [è proprio Pier Damiani, e Dante ne approfitta].

   E adesso proseguiamo direttamente sul testo dantesco leggendolo e commentandolo dal verso 103 al verso 142.

 

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, Paradiso  XXI  103-142

Sì mi prescrisser le parole sue,
ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi
a dimandarla umilmente chi fue.          

Le sue parole stabilirono il termine della questione, e io lasciai cadere l’argomento e mi limitai a domandare umilmente a quest’anima chi fosse, e lo spirito rispose

«Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ’ troni assai suonan più bassi,

«Tra le due sponde d’Italia [del Tirreno e dell’Adriatico], s’innalzano, non molto lontani dalla tua patria [da Firenze], i monti dell’Appennino [sassi] tanto alti, che i tuoni risuonano assai più in basso [durante i temporali]

e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria».

… e formano una gobba, un monte che si chiama Catria, ai piedi del quale c’è un sacro eremo [il monastero di Fonte Avellana], il quale soleva essere destinato solo al servizio di Dio [latria, dal greco “latreia” che significa “adorazione”] …

Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: «Quivi
al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,

Così l’anima riprese a parlarmi per la terza volta; poi, continuando, aggiunse: «A Fonte Avellana mi dedicai con tanta vocazione al servizio di Dio, …

che pur con cibi di liquor d’ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne’ pensier contemplativi.

… che solo con cibi conditi con olio d’oliva trascorrevo agevolmente le estati e gli inverni, contento della mia vita di contemplazione.

Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.

Quel monastero soleva allora fruttare al paradiso larga messe di anime, ora è diventato così sterile, che presto ciò dovrà manifestarsi al mondo.

In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu’ ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano.

In quel monastero io vissi col nome di Pietro Damiano, e Pietro Peccatore mi chiamai nella comunità di Nostra Signora [presso Ravenna] sul litorale Adriatico.

Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa.

Rimanevano pochi anni della mia vita mortale, quando fui chiamato e indotto a prendere quel cappello cardinalizio che oggi passa soltanto da un prelato cattivo a uno peggiore.

Venne Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello.

San Pietro [Cephas, pietra] e il vaso d’elezione dello Spirito Santo [San Paolo], vennero sulla terra affamati e scalzi, accettando il cibo da qualunque casa ospitale.

Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.

Ora invece i moderni prelati vogliono chi li sorregga da una parte e dall’altra e chi li conduca, tanto sono corpulenti, e chi seguendoli tenga loro alzato lo strascico. …

Cuopron d’i manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott’una pelle:
oh pazïenza che tanto sostieni!».

Cavalcando, coi loro mantelli ricoprono anche i cavalli; sicché sotto una stessa copertura procedono due bestie [la cavalcatura e il cavaliere]: o pazienza di Dio che sopporti tanta vergogna!»

A questa voce vid’ io più fiammelle
di grado in grado scendere e girarsi,
e ogne giro le facea più belle.

A queste parole io vidi numerose luci scendere della scala di gradino in gradino e roteare su di sé, e ad ogni giro diventare più luminose.

Dintorno a questa vennero a fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;
né io lo ’ntesi, sì mi vinse il tuono.

Queste luci vennero a fermarsi attorno all’anima di Pier Damiano, ed emisero un grido così alto, che non potrebbe trovare un paragone in questa terra: né io potei capire le parole, tanto mi assordò il suo rimbombo simile ad un tuono. …

 

   Io penso che anche Dante sia d’accordo nel formulare l’ipotesi che le parole contenute nell’alto grido, che squarcia il silenzio, emesso dagli spiriti contemplanti nel cielo di Saturno del Paradiso siano quelle stesse che sintetizzano il progetto riformatore di Pier Damiani e, su questo presupposto ipotetico, celebriamo il Natale.

   Pier Damiani nell’omelia tenuta 957 anni fa per l’investitura cardinalizia [il 23 dicembre del 1057], traccia con poche [tre] parole il suo programma riformatore: leggiamole.

 

LEGERE MULTUM….

Pier Damiani, Omelia per l’investitura cardinalizia

La Chiesa ha bisogno di rinascere nel modo in cui è nato Gesù, c’è bisogno di un Natale della Chiesa [Natalis Ecclesiae] e il programma per realizzare questo è già scritto nel santo Vangelo: «Mentre Giuseppe e Maria si trovavano a Betlemme, giunse per lei il tempo di partorire, ed essa diede alla luce un figlio. Lo avvolse in fasce e lo mise a dormire nella mangiatoia di una stalla, perché non avevano trovato altro posto». Il Natale di Gesù indica la via della rinascita ecclesiale: povertà, umiltà, semplicità. …    

 

   Questa dichiarazione non è difficile da capire: quali sono le implicazioni culturali,  sociali e politiche che questa affermazione comporta dopo l’anno Mille? Possiamo dire che queste tre parole [paupertas, umilitas, simplicitas] porteranno a grandi sconvolgimenti ecclesiali, sociali e politici.

   Abbiamo percorso appena un terzo [il primo tratto] del nostro viaggio nel corso del quale abbiamo incontrato i [cosiddetti] “precursori e ordinatori” della Scolastica alle sue origini, ebbene, nell’anno che viene abbiamo appuntamento con i [cosiddetti] “mattatori [c’è chi li definisce “minotauri nei loro labirinti”]” della Scolastica: chi sono?

   Ora possiamo solo dire una cosa: tutte e tutti costoro coltivano l’idea che la nostra nascita secondo la carne debba prevedere una crescita secondo lo spirito e pensano che questa evoluzione sia favorita dallo “studio”, perché lo “studio [studium]” è sinonimo di “cura”, ed essendo il Natale la manifestazione [l’epifania per eccellenza] dell’atto del “prendersi cura” di sé e degli altri, la Scuola non può che augurare a tutte e a tutti voi un buon Natale di studio [studium et cura]!

   Il viaggio continua, arrivederci al prossimo anno: a mercoledì 7 gennaio [a Bagno a Ripoli], a giovedì 8 gennaio [ad Impruneta-Tavarnuzze], a venerdì 9 gennaio [a Firenze] 2015.

   Auguri a tutte voi e a tutti voi: buon Natale di studio

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 12, 2014