Autorizzazione all'uso dei cookies

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È IL PAESAGGIO INTELLETTUALE DELL’EPICA SECONDO LO STILE DI CALLIMACO DI CIRENE ...

Lezione N.: 
10

Prof. Giuseppe Nibbi             Lo sapienza poetica ellenistica        9-10-11  dicembre  2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA

C’È  IL PAESAGGIO INTELLETTUALE DELL’EPICA SECONDO LO STILE DI CALLIMACO DI CIRENE ...

     Due settimane fa il sentiero che stiamo percorrendo sul territorio dell’Ellenismo ci ha portate e ci ha portati nei pressi di un interessante paesaggio intellettuale che comprende i due versanti della cosiddetta poesia epica ellenistica.

     Nel primo versante spicca il personaggio di Apollonio Rodio che ci ha presentato la sua opera, il poema intitolato Le Argonautiche, con la quale lo scrittore vorrebbe far rivivere l’epica di stampo omerico ma, in realtà, ottiene un altro risultato. Apollonio Rodio finisce per creare uno stile nuovo prima di tutto nel contenuto, nel quale prevale l’elemento erotico passional-sentimentale che viene presentato con profonda finezza psicologica, mentre l’elemento eroico passa decisamente in secondo piano. Poi Apollonio Rodio finisce per creare una nuova tendenza nella forma, nella quale prevale un ritmo incalzante di stampo romanzescopiuttosto che l’andamento lento di carattere liturgico che possiede l’antica poesia epica. Dobbiamo ricordare ancora che Le Argonautiche di Apollonio Rodio è l’unico poema sopravissuto tra le opere di Omero, l’Iliade e l’Odissea, e Le Dionisiache di Nonno di Panopoli un poema – che molte e molti di voi conoscono bene – che è databile tra il V e il VI secolo d.C.. Quindi è bene sapere che nel lasso di tempo (più di un migliaio di anni) che va dal VI secolo a.C. al VI secolo d.C. la Storia della Letteratura e la Storia del Pensiero Umano annovera i testi di questi poemi epici: Iliade, Odissea, Argonautiche e Dionisiache. Imparare questo dettaglio significa fare ordine nel campo della didattica della lettura e della scrittura.

     Il secondo versante del paesaggio intellettuale al quale siamo di fronte è occupato dal maestro di Apollonio Rodio, colui che viene considerato il più famoso tra i poeti alessandrini: Callimaco di Cirene. Questa sera ci troviamo ancora di fronte a questo vasto paesaggio intellettuale proprio perché dobbiamo occuparci – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – delle opere di Callimaco di Cirene perché, la scorsa settimana, ne abbiamo preso in considerazione solo una.

     Callimaco – e lo abbiamo studiato la scorsa settimana – ha scritto un poemetto elegiaco intitolato Ibis, contro il suo discepolo Apollonio Rodio che, con le sue Argonautiche, vorrebbe superare il maestro. Il testo dell’Ibis di Callimaco, che viene spesso citato da molti autori nelle loro opere, è però andato perduto: è un’opera fantasma (una delle tante, purtroppo). Sappiamo che Callimaco apostrofa Apollonio con l’ingiurioso nome di Ibis perché questo uccello (è una metafora, si capisce) si ciba di tutto, anche di ogni porcheria. Il testo di questo poemetto si presentava – abbiamo detto – come un esercizio di ricerca sapienziale ed era formato da un lungo inventario di maledizioni, di imprecazioni e d’invettive tratte dalla vasta rete dei racconti mitologici. Abbiamo ribadito che Callimaco non odia Apollonio, ha con lui, come abbiamo studiato, delle forti divergenze sulla forma da dare alle composizioni poetiche, se seguire lo stile di Omero piuttosto che quello di Esiodo, ma, in fondo, lo stima: è stato il suo discepolo prediletto e se Apollonio riflette e vuol ragionare con la sua testa è anche merito del maestro. Tuttavia Callimaco non è tenero e coglie l’occasione per sommergere Apollonio con la sua enorme (in questo caso pesante) erudizione.

     Sappiamo che nella ricostruzione dell’Ibis abbiamo potuto contare sull’aiuto di Publio Ovidio Nasone (44 a.C.-17 d.C.), un nostro abituale compagno di viaggio, un poeta appartenente alla seconda generazione dell’Ellenismo romano: un movimento culturale molto fecondo che riproduce in latino le opere dell’Ellenismo greco anche con apporti originali: questo movimento lo incontreremo da vicino strada facendo, tenendo conto del fatto che ci sono circa due secoli e mezzo tra (il primo) l’Ellenismo greco-alessandrino e (il secondo) l’Ellenismo latino.

     Publio Ovidio Nasone ha scritto, con lo stesso titolo, Ibis, un poemetto satirico contro una persona molto potente che non nomina la quale, a Roma, continua a perseguitarlo. Ovidio – mandato in esilio da Augusto nella sperduta località danubiana di Tomi apparentemente senza una precisa motivazione (ma si capisce che il pensiero di Ovidio infastidisce l’imperatore e la sua ironia e le sue allusioni in chiave mitologica urtano la suscettibilità del monarca assoluto) –, per comporre il suo poemetto satirico, ha certamente mutuato da Callimaco non solo il titolo ma ne ha anche preso a modello il genere e si pensa abbia anche imitato le imprecazioni stesse del maestro alessandrino (la scorsa settimana ne abbiamo letto un frammento). Quindi anche la composizione di versi ingiuriosi ed insultanti (giambi, epodi, epigrammi) comporta, nell’età dell’Ellenismo, una minuziosa attività di ricerca per individuare, nelle opere mitologiche del passato, gli spunti adatti che possano dare spessore culturale all’invettiva senza cadere nella banalità e nella trivialità. E questa indagine favorisce l’esercizio della decodificazione e della ricomposizione delle metafore: un compito che asseconda l’acquisizione di significati e la creazione di nuovi contenuti e di nuove forme allegoriche.

     Callimaco di Cirene ha scritto circa 800 opere le quali sono andate tutte perdute e sono rimasti solo i frammenti – anche interi brani ma pur sempre frammentari – di un certo numero di testi. Tuttavia questi brandelli poetici sono stati sempre considerati molto importanti nel quadro della sapienza poetica ellenistica e questa forma frammentaria ha spronato molte poetesse e molti poeti successivi a compiere operazioni di ricerca e di ricomposizione: possiamo dire che Callimaco di Cirene è stato il più grande fornitore di spunti creativi alla generazione successiva di ellenisti, soprattutto a quelli latini. Spesso, anche solo due righe di un frammento di Callimaco di Cirene, hanno suggerito, soprattutto ai poeti latini della seconda generazione ellenistica (e sono loro stessi a dichiararlo), la composizione di interi brani delle loro opere.

     Callimaco è stato autore dei Giambi, ma in queste composizioni poetiche tradizionali Callimaco, a differenza degli antichi giambografi e seguendo i principi estetici di Aristotele e dei Peripatetici, elimina gli elementi volgari ed aggressivi, e introduce temi che riguardano la moralità, le favole, gli aneddoti, le questioni letterarie. Il verso giambico nasce, probabilmente, nel corso delle feste di Demetra quando piccoli gruppi di buontemponi si mettevano ai bordi delle strade e infastidivano (in greco questo verbo corrisponde al termine iambein iàmbein da cui deriva la parola giambo), prendevano di mira i passanti con rime licenziose, con scherzi satirici.

     L’antico poeta giambico più importante è Archiloco di Paro vissuto nel VII secolo a.C. e figlio, secondo la tradizione, del nobile Telesicle e di una schiava di cui non si conosce il nome. Sempre secondo la tradizione Archiloco avrebbe avuto un carattere impulsivo e violento e avrebbe condotto, dopo essere caduto in miseria, una vita agitata ed errante, sarebbe emigrato dall’isola di Paro a quella di Taso e si sarebbe arruolato nell’esercito di quest’isola ma, nei suoi scritti, si vanta di aver sempre gettato lo scudo per aver salva la vita – scrive Archiloco – in tutte le guerre a cui presi parte con quelli di Taso. Poi da Taso – che lui definisce una schiena d’asino coperta di selva selvaggia– Archiloco torna a Paro e s’innamora perdutamente di una fanciulla che si chiama Neobule, ma il padre di lei, Licambre, prima gliela promette in sposa, ma poi, dopo aver raccolto informazioni su di lui, non mantiene la promessa, al che il poeta comincia a scrivere contro la fanciulla e contro il padre una serie di gambi così feroci che – secondo la tradizione – padre e figlia s’impiccarono entrambi. Archiloco è morto in battaglia (e questa volta, forse, non ha gettato lo scudo per arrendersi oppure non ha fatto in tempo) contro l’esercito dell’isola di Nasso: la leggenda narra che quando l’uccisore del poeta andò ad interrogare l’oracolo di Delfi si sentì, tonante, la voce di Apollo che gli intimava di uscire dal tempio perché – e forse questo soldato non se n’era neppure reso conto – aveva ucciso un geniale ministro delle Muse. L’unico dato certo che riguarda la vita di Archiloco è la data di un’eclissi di sole che lui descrive nei suoi versi avvenuta il 6 aprile del 648 a.C..

     Callimaco di Cirene segue l’opera di Archiloco (di cui si conserva un centinaio di frammenti) solo nella forma metrica ma non per quanto riguarda il contenuto perché la satira di Archiloco ha un carattere esclusivamente personale mentre quella di Callimaco affronta temi di argomento culturale; poi Archiloco si esprime con una grande immediatezza (usando un linguaggio molto colorito) sia quando lancia l’invettiva più feroce sia quando canta l’amore o la gioia dei banchetti: Sono – scrive Archiloco – una cicala che stride forte se alcuno la piglia per l’ale, mentre Callimaco mira all’eleganza e all’equilibrio. Anche dei Giambi di Callimaco di Cirene rimangono solo dei frammenti conservati su diversi papiri.

     Poi Callimaco è autore di sei celebri Inni religiosi dedicati a Zeus, ad Apollo, ad Artemide, a Delo, a Demetra e ai lavacri di Pallade Atena. Questi Inni sono profondamente diversi da quelli di Omero, perché sono completamente privi di sentimento religioso mentre sono dotati di una grande ricercatezza metrica e formale, di erudizione mitologica, anche di adulazione verso i principi Tolomei, e di allusioni nei confronti di avvenimenti contemporanei. Poi Callimaco è autore di 63 Epigrammi: i frammenti di queste composizioni sono disseminati nell’Antologia Palatina e appartengono per lo più alla giovinezza del poeta.

     Che cos’è l’Antologia Palatina? L’Antologia Palatina è un voluminoso codice dell’XI secolo che si compone di 15 libri divisi per materie, (secondo una tradizione che comincia con l’Ellenismo) nel quale sono stati raccolti, in fasi successive, gli Epigrammi di molti autori (greci, romani, bizantini), e così queste brevi composizioni – che racchiudono in pochi versi (di vario metro) delle sentenze pungenti, ironiche, polemiche – si sono conservate. Gli Epigrammi di Callimaco sono per lo più composizioni di carattere votivo, funebre e letterario, pochi sono i componimenti di argomento amoroso. Questo codice si chiama Antologia Palatina perché è conservato nella Biblioteca palatina della pittoresca città tedesca di Heidelberg.

     La città di Heidelberg, protetta idealmente dal suo storico castello, si trova in una bellissima posizione adagiata sulle rive del fiume Neckar, nella regione del Baden-Württemberg, a poca distanza dalla valle del Reno, è veramente ricca di monumenti ed è sede di una famosa Università: questa città l’abbiamo già visitata qualche anno fa perché è considerata la culla del Romanticismo tedesco e negli anni 2004 e 2005 (molte e molti di voi c’erano) abbiamo attraversato il territorio del Romanticismo titanico e galante e quindi ci siamo fermati anche ad Heidelberg.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida della Germania, oppure sulla rete, fate (o rifate) una capatina ad Heidelberg, buon viaggio

     Ma ora noi, a proposito di Heidelberg, cogliamo l’occasione per aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Il nome di questa città (se vogliamo assecondare un’inferenza di carattere lessicale, un intreccio filologico) è contenuto nel titolo di una raccolta di racconti, pubblicata nel 1979, scritti da un autore (che tutte e tutti voi avete sentito nominare) che si chiama Heinrich Böll (1917-1985), al quale nel 1972 è stato assegnato il premio Nobel e che noi abbiamo incontrato, in questi anni, già in altri Percorsi. Tra questi diciotto racconti, che sono stati scritti da Heinrich Böll tra il 1947 e il 1979, ce n’è uno che s’intitola Vai troppo spesso ad Heidelberg e questo racconto, che è il più articolato, dà il titolo a tutta la raccolta.

     In questo racconto del 1977, lo scrittore mette in scena la vita quotidiana di un giovane che risiede in una bella zona della Germania la cui esistenza si snoda in modo semplice e lineare e per il quale l’avvenire si annuncia rassicurante: si dedica, per passatempo, a fare delle belle gare in bicicletta, i suoi genitori sono premurosi, ha una fidanzata che lo ama (almeno sembra) con ardore, può anche godere dell’affabilità (forse un po’ affettata ma tutto sommato apparentemente sincera) dei suoi futuri suoceri. C’è soltanto una piccola questione, apparentemente trascurabile, che appare come un sassolino nell’ingranaggio – quasi perfetto – della vita del protagonista: il fatto che lui si senta dire da tutti (come una specie di tormentone che, a volte, rasenta la comicità nel racconto) che va troppo spesso ad Heidelberg. Tutti trovano un motivo per cui considerano sconveniente (anche se nessuno usa mai questa parola) questo fatto. E pian piano, il protagonista tende ad interiorizzare questa situazione ed è lui che – tra l’ironia e la preoccupazione – comincia ad anticipare i suoi interlocutori: «Sì, lo so, vado troppo spesso a Heidelberg Me lo sento dire da tutte le parti». Ma perché questo giovane va così spesso ad Heidelberg? Forse, nell’economia del racconto, non è neppure necessario lo si sappia.

     Nelle pagine di tutti i diciotto racconti contenuti in questo libro ricorrono i temi fondamentali della narrativa di Böll e sono questi che lo scrittore, con passione e con ironia, vuole mettere in evidenza. I racconti contenuti in questo libro sono brevi, talvolta sono brevissimi e – come se fossero degli Epigrammi – ricompongono dei ritratti e dei piccoli quadri esistenziali, spesso amari, in cui emerge la critica e la satira per la ricerca di un ordine che spesso si dimostra ottuso, per l’uso di una logica che diventa quasi sempre disumana, per le piccole viltà che emergono nella miseria e nella solitudine, per i riti mortificanti che prendono forma durante le crisi familiari, per i fastidi e le goffaggini che la vita di società spesso procura.

     Lo scrittore – proprio in modo epigrammatico – descrive fugaci episodi, rapidi intrecci, situazioni di vita quotidiana immerse nei colori della malinconia e illuminate di tenerezza perché la scrittura di Böll ha il sapore della lirica ellenistica. Nell’epigrafe (e questo è un altro elemento che ricorda il genere letterario degli Epigrammi) all’inizio del testo di Vai troppo spesso a Heidelberg Böll scrive: «Queste sono storie inventate da cima a fondo ma proprio per questo motivo corrispondono al vero».

     E adesso leggiamo uno di questi racconti – la Scuola non può far altro che consigliare la lettura di tutta la raccolta –; ma prima dobbiamo mettere in relazione il testo del racconto di Böll con il testo di uno degli Epigrammi di Callimaco di Cirene conservati nell’Antologia Palatina. La nostra non è un’operazione di carattere filologico ma è semplicemente la constatazione di un’affinità contenutistica probabilmente casuale: lo scritture tedesco potrebbe essersi anche ispirato all’Epigramma di Callimaco intitolato La tosse nel comporre il racconto intitolato Tosse durante il concerto. La didattica della lettura e della scrittura ha tra i suoi obiettivi anche quello di far sì che la lettrice e il lettore impari a coltivare il proprio immaginario e, a questo proposito, ci piace pensare (se ci fosse data la facoltà di aggiungere qualcosa al testo) che il giovane protagonista del racconto che dà il nome a questa raccolta di Heinrich Böll vada spesso ad Heidelberg anche per leggere gli Epigrammi contenuti nel prezioso codice dell’Antologia Palatina conservata proprio nella Biblioteca Palatina di questa bella città.

     E allora abbiamo detto che tra gli Epigrammi di Callimaco di Cirene, conservati nel manoscritto dell’Antologia Palatina, ce n’è uno che s’intitola La tosse. Ascoltate: le persone tra noi (a cominciare da me che succhio quasi in continuazione acido ascorbico) che hanno la tosse – il tamburo fastidioso di Esculapio (impariamo a nominare la tosse secondo la sapienza poetica ellenistica) – non si devono sentire in colpa: il tossire (così come lo sbadigliare) è libero! Callimaco ironizza non tanto su chi tosse ma soprattutto su chi parla in modo enfatico e poi negli Epigrammi vuole insegnare come si fa ad utilizzare in modo ironico la mitologia mediante un’elegante staffilata.

     Ebbene, leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Callimaco di Cirene, Epigrammi

La tosse

Se tu cominci a tossire in una sala gremita e silenziosa quando l’illustre oratore

sta sciorinando la sua dotta prolusione e non hai il frutto prodotto dalle api per cui

ne possa trarre beneficio la tua gola e, di conseguenza, attiri su di te tutta l’attenzione dell’uditorio c

he finge indifferenza ma in verità ingoia irritazione. E allora alza

la voce il parlatore e cova in cuor suo l’ira funesta, la stessa ira che il re

dei Mirmidoni veloce nella corsa (Achille) provò per Agamennone mendace quando

lo truffò della fanciulla amata, ma sono certo che se l’essere paragonato al Miceneo sovrano comportasse per te,

di ritorno a casa, l’incontro con la vendicativa figlia

di Tindaro (Clitennestra) che, con parole seducenti, t’invitasse al bagno non pensi

che l’inopportuna tosse, di Esculapio tamburo fastidioso, si placherebbe sull’istante

e avrebbe campo libero l’ugola del declamatore vanitoso?

     Questo è un Epigramma di Callimaco (in parte ricostruito dal trascrittore medioevale – le interpolazioni sono ben visibili – perché ci sono delle lacune nel testo originale) scritto con grande eleganza formale facendo un uso erudito ma ironico degli episodi mitologici e satireggiando anche nei confronti dei grandi oratori alessandrini che, quando sciorinano i loro discorsi ad effetto, non possono altro che far venir la tosse a chi non si lascia sedurre – scrive Callimaco in un altro Epigramma – da vuoti paroloni.

     E ora leggiamo il racconto contenuto nella raccolta Vai troppo spesso ad Heidelberg intitolato Tosse durante il concerto scritto da Heinrich Böll nel 1952.

LEGERE MULTUM….

Heinrich Böll, Vai troppo spesso a Heidelberg

TOSSE DURANTE IL CONCERTO

Mio cugino Bertram è uno di quei nevrotici che, senza essere minimamente raffreddati, durante i concerti cominciano di punto in bianco a tossire. La cosa comincia con una blanda, quasi gentile raschiatina di gola non dissimile dall’accordatura di uno strumento, poi man mano aumenta finché, con una snervante consequenzialità, assurge a un abbaiare esplosivo, che fa sventolare come leggerissime vele i capelli delle signore che siedono dinanzi a noi.

... continua la lettura ...

     Il rapporto tra lo scrittore Heinrich Böll e il poeta alessandrino Callimaco di Cirene non è propriamente un rapporto diretto ma si possono tuttavia cogliere delle affinità. Incontreremo ancora Heinrich Böll la prossima settimana durante l’ultimo itinerario dell’anno 2009, non mancate!

     Invece lo stile delle opere di Callimaco – i Poemetti satirici, i Giambi, gli Inni, gli Epigrammi – ha influenzato senza dubbio la seconda generazione ellenistica, quella degli scrittori latini: tra questi, soprattutto Quinto Orazio Flacco. Orazio (che tutti noi abbiamo sentito nominare) si è giovato anche dello stile di Callimaco per ispirarsi e per scrivere le Satire, le Odi e gli Epodi. Chi è Quinto Orazio Flacco? Quinto Orazio Flacco è nato a Venosa, una bella cittadina della Basilicata, in provincia di Potenza, l’antica colonia romana di Venusta. Quando Orazio vi nasce, nel 65 a.C., da Venusia passava la via Appia, il cui tracciato, poi, fu spostato più a nord dall’imperatore Traiano. Venosa si trova al margine orientale del territorio montuoso del Vùlture, su un pianoro che è il fondo di un remotissimo lago, scavato da una fiumara.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Fate una visita a Venosa con la guida della Basilicata o utilizzando la rete, perché ci sono dei significativi monumenti da osservare: il castello quattrocentesco, l’abbazia normanna della Trinità, le rovine romane (le terme, l’anfiteatro) dislocate in diversi punti, e non lontano dalla Cattedrale c’è anche la cosiddetta “Casa di Orazio”, così vengono tradizionalmente nominati i resti, a forma circolare, di una domus patrizia del II secolo d.C.… 

Fate una puntata (con l’esercizio della lettura) a Venosa, buon viaggio…

     Quinto Orazio Flacco è figlio di un liberto cioè di uno schiavo che è stato liberato, che è diventato cittadino romano e che ha preso il nome della gens a cui appartiene il padrone: spesso i liberti assumevano ruoli importanti nel clan del quale entravano a far parte e questo è successo al padre di Orazio il quale ha ereditato dei beni dalla gens Flacca; quindi Orazio ha avuto la possibilità (che avevano i patrizi) di essere educato a Roma e ad Atene, dove ha studiato la filosofia e la retorica. Orazio aderisce al cosiddetto movimento repubblicano dei giovani patrizi che studiavano ad Atene e, dopo l’uccisione di Cesare, si arruola nell’esercito dei congiurati guidato da Bruto e da Cassio e combatte a Filippi, dove l’esercito repubblicano viene sconfitto da Ottaviano che diventa l’augusto padrone dello Stato romano. Ottaviano, molto astutamente, firma il condono per gli sconfitti e così anche Orazio può rientrare a Roma: il condono però prevede che vengano confiscati i beni familiari a chi ha combattuto nell’esercito dei congiurati e quindi Orazio si ritrova povero in canna e senza protezioni politiche e, per sopravvivere, trova un piccolo impiego nell’amministrazione statale; poi comincia pian piano – secondo la sua vocazione – a farsi conoscere come poeta e riesce ben presto ad entrare nel mondo letterario romano dove diventa amico di Virgilio e di Varo e, quindi, gli si aprono le porte del prestigioso circolo di Mecenate, del quale entra a far parte nel 37 a.C.. Orazio muore nell’anno 8 a.C., poco dopo l’amico Mecenate che – sempre molto generoso – gli aveva fatto dono di una bella villa in Sabina, e Orazio è stato sepolto accanto a Mecenate.

     Sebbene Orazio non sia stato mai allineato con le scelte del potere politico imperiale però, per non avere grane (per non fare la fine che ha fatto Ovidio), ha pensato bene di scrivere un’opera celebrativa su Augusto e sulla grandezza di Roma intitolata Carme secolare; tuttavia Orazio ha sempre mantenuto una sua sostanziale indipendenza di giudizio. A Roma Orazio frequenta la Scuola epicurea e noi il pensiero originario del fondatore ateniese di questa importante Scuola lo studieremo a breve, il prossimo anno, dopo la vacanza natalizia.

     Orazio viene ricordato come il poeta della aurea mediocritas, cioè di quell’ideale di equilibrio che ci deve essere tra la capacità di rinuncia e la gioia di gustare i piaceri della vita (il buon cibo, l’amore, la serenità campestre, il culto della poesia), sapendo e tenendo ben in considerazione il fatto che la vita fugge e quindi bisogna vivere con intensità il presente cogliendo ogni attimo: carpe diem. Ma – secondo Orazio – l’attimo va colto con ordine: lui usa la parola latina otium, una parola-chiave tipica del secondo Ellenismo (oggi ha perso il suo significato originario), che designa il tempo della riflessione e dello studio in funzione della creatività.

     Orazio, studiando la cultura ellenistica, ha introdotto nella poesia molti metri lirici greci che hanno contribuito a migliorare e a rendere più colta la lingua latina: a questo proposito egli ha scritto un’opera importante, un’opera didattica (che è stata studiata durante tutto il Medioevo) che s’intitola Ars poetica che tratta i temi della poesia drammatica ed epica, e nella quale si prospetta l’equilibrio fra il talento naturale della persona e la tecnica (ars) che la persona acquisisce con lo studio e con l’esercizio.

     Orazio ha scritto le Epistole, le Odi, gli Epodi: tutte opere profuse di un garbato lirismo. Sempre lirico ma un po’ meno garbato Orazio è nelle Satire.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Delle Satire di Orazio – che trovate facilmente in biblioteca – la Scuola consiglia la lettura: certamente ci vuole un po’ di pazienza ma ne vale la pena per l’attualità che sprigiona da questi testi…

     Nelle Satire, scritte in esametri, Orazio ha fatto tesoro della lezione tenuta dalla prima generazione dell’Ellenismo alessandrino e, in particolare, da Callimaco di Cirene dal quale ha ereditato tanto l’eleganza nella forma quanto lo spirito polemico nel contenuto. Essendo andate perdute, come sappiamo, tutte le opere di Callimaco – tranne una serie di frammenti – ecco che possiamo, attraverso la scrittura di Orazio, farci un’idea anche dell’opera satirica di Callimaco. Leggiamo dal Libro Secondo delle Satire la settima che è intitolata Solo il saggio è padrone di se stesso: credo non ci sia da spiegare granché perché il tempo passa ma certe situazioni, legate all’immoralità privata e pubblica, sembrano ripetersi inesorabilmente.

     Nel giorno dei Faunali (il 5 dicembre) uno schiavo, Davo, dice tutto quello che pensa al suo padrone e viene fuori un quadro esemplare di una società in cui regna l’ipocrisia e l’imbecillità. Il fatto è – sostiene Orazio – che queste due caratteristiche sono così inveterate che risultano normalicomportamenti. Orazio afferma che questa assuefazione ai livelli più bassi della morale è preoccupante e nello stesso tempo si domanda: chi è libero? Forse è più libero lo schiavo del suo padrone perché ha meno possibilità di peccare? E poi Orazio dà una risposta in linea con il pensiero delle nuove Scuole ellenistiche che prossimamente incontreremo.

     Ora leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Quinto Orazio Flacco,  Satire  (Libro Secondo, 7)

SOLO IL SAGGIO È PADRONE DI SE STESSO

È da un pezzo che sto origliando e vorrei dirti due parole, ma schiavo come sono

non mi azzardo.   Davo, sei tu?” … Sì, sono Davo, servo devoto al suo padrone 

e onesto quanto basta, quel tanto cioè che tu lo possa credere longevo.

Coraggio Davo, approfitta della libertà di dicembre (dei Faunali, la festa in onore del dio Fauno

in cui le greggi e gli schiavi, per un giorno, il 5 dicembre, venivano lasciati in libertà)

visto che così hanno voluto i nostri antenati: parla, se hai coraggio, parla” …

Una parte degli uomini gode dei suoi vizi e con costanza persevera in ciò

che si è proposto; la maggior parte invece ondeggia, attaccandosi ora al bene,

ora facendosi dominare dal male. Criticato spesso per i suoi tre anelli (fedi nuziali),

mentre a volte andava con la sinistra nuda, Prisco fu così incoerente da mutar abito

da un’ora all’altra e da cacciarsi, appena lasciato un gran palazzo, in tane, da cui

un liberto un po’ ripulito difficilmente sarebbe uscito senza arrossire; un momento

era a Roma a fare il seduttore, e subito dopo ad Atene preso dal desiderio degli studi:

era nato a dispetto di tutti i Vertunno (la divinità della mutabilità del cuore umano) del mondo.

Volanerio, il buffone, dopo che l’artrite fece giustizia paralizzandogli le dita, assunse,

pagandolo un tanto al giorno, uno che per lui raccogliesse i dadi e li mettesse dentro

il bossolo: chi più s’ostina nello stesso vizio, tanto meno è infelice ed è migliore

di colui che non si dà pace e un giorno tira la corda e un altro l’allenta.

Ma vuoi dirmi una buona volta, sciagurato, a cosa miri con queste scempiaggini?

Subito: miro a te. … “Come miri a me, furfante?  A te che lodi la vita e i costumi del buon tempo antico,

ma se poi un dio ti ci riportasse, con tutte le tue forze non l’accetteresti, perché non credi che sia così giusto

ciò che vai predicando o perché ciò che è giusto non lo difendi a sufficienza, e mentre cerchi inutilmente

di cavare i piedi dal fango, vi resti impantanato. A Roma desideri la campagna, in campagna,

incostante come sei, porti alle stelle la città lontana.  Se capita che nessuno t’inviti

a cena, elogi i legumi che puoi mangiarti in pace e, come se fuori di casa tu ci andassi in catene,

ti proclami felice così e ti rallegri di non dover andare in nessun luogo

a straviziare. Ma metti che sul tardi, quando si accendono le torce, t’inviti a cena Mecenate:

Nessuno che alla svelta mi porti un profumo? non mi sentite? sbraiti,

facendo un chiasso infernale, e poi corri via. Mulvio e i buffoni se ne vanno, scagliando imprecazioni,

che è meglio non ripetere. Sì, lo confesso, ti potrebbe dire quello, mi lascio trascinare facilmente dalla gola,

levo il naso al profumo dell’arrosto, sono un debole, un infingardo e, se vuoi, metti pure un crapulone.

Ma tu, che sei come me e forse peggiore, devi proprio, senza ragione,

darmi addosso come se tu fossi il migliore e camuffare i tuoi difetti con parole belle?”  …

E che dirai se si provasse che sei persino più stolto di me, uno schiavo comperato per cinquecento dracme?

Non cercare d’atterrirmi con quel cipiglio; tieni a freno le mani e la tua bile, mentre ti espongo ciò che m’ha insegnato il portinaio di Crispino.

Tu hai un debole per la moglie di un altro, Davo ha un debole per una sgualdrinella: fra noi due chi si merita di più la croce?

Quando indomabile mi eccita l’istinto, qualunque sia la donna che al chiarore della lucerna s’è presa, tutta nuda, i colpi

del mio membro inturgidito o che agitando lascivamente le reni m’ha cavalcato mentr’ero supino,

da lei me ne vado senza essere infamato e senza il pensiero che qualcun altro,

più ricco o più bello di me, la possa cavalcare al posto mio.

Tu invece, quando gettate le insegne, l’anello di cavaliere e la toga dei romani,

ti travesti in un’ignobile Dama ed esci, nascondendo il capo profumato sotto

un mantello, non sei quello che fingi d’essere? Ti fanno entrare tutto titubante

e rabbrividisci sino alle ossa, mentre la voglia combatte contro la paura.

Che differenza c’è tra l’obbligarsi ad essere frustato o ucciso di spada e il doversi contrarre,

con le ginocchia che toccano il capo, chiuso nella lurida cassa dove

ti ha nascosto la complice dell’amante tua? È vero o no che il marito della donna infedele ha su entrambi

un potere garantito dalla legge? E più legittimo ancora

sul seduttore? In ogni caso non è lei che si traveste, che viene a trovarti e ti monta

a cavalcioni, perché, come donna, ti teme e non si fida di un amante. Coscientemente

ti esponi alla forca, rimetti all’ira del marito il tuo patrimonio e la tua vita,

e con il corpo il tuo buon nome. Poniamo che la scampi: dovresti aver paura d’ora innanzi

ed essere più cauto, vista la lezione. Macché: già cerchi il modo

per tremare di nuovo e per rischiare di nuovo la morte, schiavo mille volte che sei!

Qual è l’animale che, fuggito una volta, è tanto folle da riconsegnarsi alle catene

che ha spezzato? … “Io non sono un adultero, mi dici. Neppure io, stai certo, sono un ladro,

quando per prudenza lascio l’argenteria dov’è. Togli il rischio e subito

la natura, senza più freni, libera si sbriglierà. Tu sei il mio padrone? Tu che sei soggetto

ad ogni possibile tirannia di uomini e di cose, tanto che neppure se t’imponessero cento volte la verga,

mai e poi mai potresti liberarti dalla paura che t’angoscia?

Aggiungi a ciò che s’è detto una considerazione che non dovrebbe avere minor peso:

se chi obbedisce a uno schiavo è un vicario, come usate dire voi,

o un con-servo, che cosa sono io per te? In realtà tu che stai qui a comandarmi,

sei un infelice che servi altri, un burattino a cui altri tirano i fili. Chi è dunque libero?

Il saggio, che è padrone di se stesso e non si lascia atterrire da povertà, morte o catene, che con coraggio

tiene testa alle passioni e disprezza gli onori, che ha tutto

in sé, una sfera perfetta sulla cui superficie levigata niente di estraneo può far presa

e contro cui si scaglia impotente il destino. Puoi tu di queste qualità riconoscerne

una come tua? Cinque talenti ti chiede una donna, ti tiene sulle spine, ti mette alla porta

e t’inzuppa d’acqua gelata, poi di nuovo ti chiama Sottrai il collo a questo giogo vergognoso:

Libero, sono libero, coraggio, dillo. Non puoi: un padrone crudele grava sul tuo cuore

e ti pungola con gli sproni, se ti mostri sfinito, piegando la tua ritrosia al suo volere.

E quando davanti a un quadro di Pàusia (famoso pittore di Sicione vissuto al tempo di Alessandro Magno)

rimani incantato come uno sciocco,

in cosa sei meno colpevole di me, che in punta di piedi mi sporgo ad ammirare

i duelli di Fulvio, di Rútuba e di Pacideiano dipinti a terre rosse e carboncino,

come se quegli uomini con le armi in pugno combattessero veramente menando

e schivando fendenti? Certo Davo è una canaglia, un poltrone, mentre tu passi

per intenditore, fine, esperto d’arte antica. Io non valgo nulla se mi lascio sedurre

da una focaccia fumante, ma tu, con tutta la virtù del tuo carattere, sai forse resistere alle lusinghe d’un banchetto?

Cedere ai desideri della gola è però più dannoso a me: perché? La mia schiena si busca bastonate, certo;

ma tu sei sicuro di passarla più liscia, quando vai in cerca di quelle ghiottonerie,

che non si possono acquistare a poco prezzo? Il fatto è che i conviti inseguiti senza posa

si convertono in veleno e finisce che le gambe, ormai incerte, si rifiutano di reggere un corpo malandato.

O forse è in colpa il servo che sul far della sera, rubata una striglia,  la baratta con un grappolo d’uva,

mentre chi vende il suo podere per saziare la gola non ha niente in comune

con lo schiavo? E non basta: tu non sai stare un’ora sola con te stesso o mettere

a frutto il tuo tempo, anzi, come uno schiavo che fugge senza meta, eviti di guardarti in cuore,

e col vino o col sonno cerchi di volta in volta d’ingannare l’angoscia.

Ma non serve: tetra compagna, questa t’opprime e, se fuggi, t’insegue.

Chi mi dà un sasso?  Per farne che?  Dove sono le frecce? Quest’uomo è pazzo

o scrive versi. …“Se non ti levi subito di torno,  t’aggrego ai braccianti del mio fondo sabino,

altro che farsi venir sete a ciarlare e poi bere a sbafo il mio vino” …

     Delle opere di Callimaco di Cirene poi possediamo sette frammenti (conservati su un papiro) di un epillio (un poemetto breve) intitolato Ècale, in cui si narra l’episodio mitologico della vittoria di Teseo sul toro di Maratona. La parte più significativa di quest’opera – conservata nei frammenti – è quella che contiene il racconto dell’ospitalità che Teseo – prima della prova che deve affrontare – trova presso una povera vecchia di nome Ècale: da questa narrazione è, ancora, Publio Ovidio Nasone che trae ispirazione per comporre il famoso episodio di Filemone e Bauci nel Libro VIII de Le metamorfosi, un episodio che abbiamo letto – circa una decina di anni fa – nei nostri Percorsi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Le metamorfosi di Ovidio le abbiamo citate già più di una volta, ebbene, fate un esercizio di carattere tipicamente ellenistico (di ricerca filologica)

Andate in biblioteca – oppure potete anche utilizzare la rete – e chiedete il testo de Le metamorfosi di Ovidio e sfogliate le pagine dei volumi (spesso quest’opera è pubblicata in due volumi) e leggete i titoli degli episodi narrati che contengono, quasi sempre, i nomi dei personaggi che hanno usufruito di una metamorfosi (di una trasformazione): molti di questi personaggi li riconoscerete altri no e, quindi, esercitatevi a distinguere tra conoscenze acquisite e competenze da acquisire per quanto riguarda la mitologia… 

Di quale “trasformazione” (di una situazione, di un oggetto, di un ambiente, di un sentimento) siete state protagoniste e protagonisti ultimamente? 

Scrivete quattro righe in proposito…

     L’episodio di Filemone e Bauci ne Le metamorfosi – composto da Ovidio prendendo spunto dall’epillio intitolato Ècale di Callimaco di Cirene – è esemplare per capire la potenzialità che ha la poesia liricain tutto il periodo dell’Ellenismo, tanto nella prima fase greca (della quale possediamo soprattutto dei frammenti di opere) quanto nella seconda fase latina (di cui possediamo molte opere complete).

     E ora per prima cosa leggiamo i sette frammenti che restano dell’epillio di Callimaco intitolato Ècale, così ci rendiamo meglio conto della situazione dal punto di vista filologico, e poi – visto che è passato circa un decennio – leggiamo (anche se la traduzione non rende a sufficienza il linguaggio poetico del testo originale) i versi dell’episodio di Filemone e Bauci da Le metamorfosi di Ovidio. I frammenti dell’Ècale sono stati numerati dalle studiose e dagli studiosi di filologia perché sono frasi staccate l’una dall’altra, per mantenerne l’ordine.

LEGERE MULTUM….

Callimaco di Cirene, Ècale

1. C’era una volta una donna dell’Attica che abitava sul poggio di Eretteo

2. E tutti i viandanti la onoravano per la sua ospitalità; non teneva mai chiusa la sua casa

3. subito tolse dal fuoco la concava pentola che ribolliva

4. rovesciò l’acqua dalla bacinella; poi, dopo aver mescolato, ne attinse altra

5. prese dalla madia una sufficiente quantità di pagnotte, simili a quelle che le donne nascondono per i mandriani

6. tirando indietro il corno rovinoso della bestia feroce

7. va, buona donna, per il sentiero che non percorrono le pene che addolorano l’animo. spesso di te, nonna, della tua capanna ospitale ci ricorderemo: era un rifugio comune per tutti quanti

     E ora leggiamo l’episodio di Filemone e Bauci da Le metamorfosi di Ovidio dove si racconta che Zeus (o Iuppiter in latino, o Giove in italiano) ed Ermes (Mercurio), per mettere alla prova gli esseri umani sulla loro capacità di accoglienza, si presentano in una cittadina della Frigia, sotto mentite spoglie, nei panni – poco rassicuranti – di due mendicanti e vengono scacciati in malo modo da tutti gli abitanti ai quali si presentano a chiedere ospitalità. Solo una coppia di anziani coniugi, Filemone e Bauci, che vivono dei prodotti del loro campicello ai margini del villaggio in una casetta molto pittoresca (che tutti vorremmo abitare nei fine settimana) li accolgono con favore.

     Ma lasciamo che sia Ovidio a narrarci questa favola con la sua morale:

LEGERE MULTUM….

Publio Ovidio Nasone, Le metamorfosi  Libro VIII, 624-720  ( 3 d.C )

In Frigia c’è uno stagno, che si stende su una terra che un giorno fu abitata.

Oggi questa terra dalle acque è invasa e da uccelli palustri è frequentata.

Qui, un giorno, dopo aver preso un umano aspetto, si presentano Giove e Mercurio.

Bussano a tutte le case per domandare l’ospitalità, per poter riposare una notte

al coperto, protetti dai rigori del freddo e dall’umidità, ma tutti la porta in faccia chiudono loro senza alcuna pietà.

Sono accolti soltanto in una piccola casa da due vecchietti, Filemone e Bauci, che han sempre poveramente vissuto, ma che,

con animo sereno, accettano la loro condizione, perché è stato sempre bello vivere lì,

affrontando insieme giorno per giorno, nel bene e nel male, ogni situazione.

Filemone invita subito gli ospiti a prendere posto sulla loro unica panca scomoda,

sulla quale, prontamente, Bauci ha steso una vecchia coperta, morbida, anche se

un poco logora. Poi Bauci attizza il fuoco, rimovendo la cenere tiepida, e comincia

a darsi da fare per preparare la cena. Intanto chiacchierano in modo tale che gli ospiti non sentano la noia fatale

che procura l’attesa del pasto a chi è stanco per il cammino

ed ha fame. Bauci sistema la tavola, ma siccome una gamba è più corta, lei

ci mette sotto un coccio per renderla pari alle altre in modo da non farla ballonzolare quando ci si voglia sedere.

Filemone pulisce la tavola con un mazzetto di erbe aromatiche: il rosmarino, la salvia e la menta e poi la imbandiscono

con tutte le cose che la loro dispensa poteva fornire a chi, ora, il morso sgradevole della fame

sullo stomaco senta. Depongono in tavola, con cura, i barattoli di olive nere e verdi,

delle corniole d’autunno sotto aceto, e un piatto con l’indivia e uno col radicchio leggermente amaro, due piccole forme di cacio dolciastro, una tazza col latte cagliato

un po’ asprino, e le uova cotte, per un tempo giusto, nella cenere perché siano rapprese a puntino.

E poi, nelle scodelle, i fumanti legumi, appena cotti e insaporiti con un tocchetto di carne

affumicata di suino che pende da un trave del soffitto.

Poi Filemone sulla tavola depone un cesto con le noci, i fichi secchi, i datteri,

le prugne, le mele cotogne e i grappoli di dolce uva fatta appassire sotto il tetto,

e infine un favo di miele profumato che dona la dolcezza al cuore ed al palato.

Al centro del tavolo da una caraffa di coccio si può attingere il vino nei bicchieri intagliati nel faggio,

ed è Bauci ad accorgersi per prima che la caraffa, sebbene non trasudi, si riempie da sé tutte le volte che quasi sta per rimanere vuota, e lo dice

a Filemone che lì per lì non se lo sa spiegare e poi cominciano insieme a percepire

un intenso timore sacrale. Guardano gli ospiti e preoccupati chiedono perdono

del poco cibo e della frugale apparecchiatura. Filemone comincia a inseguire l’unica oca che, con cura,

faceva la guardia alla loro umile dimora, in modo da offrila ancora agli ospiti, ma essa,

svolazzando impaurita come se volesse dire che non ne vale

la pena perché la sua carne è oramai troppo dura, è più lesta di lui e si rifugia

tra le gambe degli dèi, speranzosa, mentre loro si manifestano in tutto lo splendore

che solo la forza divina sa dare a ogni cosa.  Gli dèi ringraziano i due vecchi

per la loro meravigliosa semplice ospitalità, e maledicono i loro vicini inospitali

meritevoli di un severo castigo per non sapere che cosa sia la pietà.

Gli dèi invitano Filemone e Bauci a seguirli sulla cima dell’altura.

Ed essi li seguono, pian pianino, aiutandosi con i loro leggeri bastoni di mirto marino.

Di lassù vedono che tutte le case sono state sommerse in una palude infeconda e soltanto la loro casetta

emerge dall’acqua stagnante che tutta la circonda. Si rattristano molto per

la sorte dei loro vicini e mentre li compiangono vedono la loro capanna trasformarsi in un tempio per i vaticini.

Allora Giove, sorridendo, chiede a loro che cosa desiderino davvero.

Filemone e Bauci si consultano e poi esprimono il loro pensiero. Domandano di poter diventare i custodi del tempio

e poi chiedono, quando l’ora fatale arriverà, di poter morire insieme nello stesso momento,

per non dover soffrire della perdita l’uno dell’altro che toglie la gioia e porta soltanto sgomento.

La loro richiesta è esaudita e un giorno Filemone e Bauci si vedono mentre l’un l’altro

cominciano a metter le fronde e vedono sui loro volti allungarsi la cima

di un albero e i loro piedi si radicano ben bene sul fianco della collina, allora

si prendono per mano e si scambiano parole d’affetto sincero fin quando non sono

trasformati ciascuno in un albero vero, e sono ancora là, a fare ombra a chi passa

per lo stagno di Tinta poco ospitale perché si sappia che Filemone e Bauci

l’ospitalità anche agli dèi, potenti ed eterni, hanno saputo insegnare.

     Ovidio certamente valorizza gli spunti che ha acquisito dal poemetto breve di Callimaco intitolato Ècale per scrivere questa celeberrima metamorfosi. Il primo spunto è quello di utilizzare e di far risaltare in concomitanza all’immaginifico linguaggio mitico una situazione autenticamente umana. Tanto la vecchia Ècale che accoglie Teseo nell’epillio di Callimaco quanto Filemone e Bauci che, nella metamorfosi di Ovidio, ospitano Zeus ed Ermes sono figure reali dotate di buone qualità che tutti gli umani dovrebbero possedere. Queste figure – descritte in un alone lirico – escono oramai dal quadro epico per entrare nello spazio dello stile romanzesco: uno spazio che, nell’età dell’Ellenismo, si allarga progressivamente attraverso il rinnovamento dei generi letterari tradizionali.

    Purtroppo – tranne i frammenti del poemetto intitolato Ècale – tutti gli epilli che Callimaco di Cirene ha scritto non si sono conservati e sarebbe stato interessante conoscerne il testo soprattutto di quelli di contenuto più spiccatamente amoroso di cui conosciamo l’esistenza perché vengono citati – e purtroppo non riportati – da altri autori. Sappiamo che Callimaco di Cirene interpreta perfettamente lo spirito e il gusto dell’età ellenistica: è un poeta squisitamente formale, dotato di grazia, di finezza, di eleganza, di preziosità con cui sa dare colore all’erudizione. Callimaco più che essere un poeta ispirato che coltiva la fantasia è uno scrittore sapiente che vuole attirare l’attenzione sul mondo della cultura e, per ottenete il suo obiettivo, è comunque capace, nei suoi poemetti, di inventare dei colpi di scena che, pur possedendo un carattere mitologico, hanno tuttavia già l’impronta dello stile romanzesco, e questo soprattutto nella fase finale della narrazione, in modo da corroborare il racconto creando uno o più motivi di riflessione.

     Questo modo di fare, questa tecnica, è entrata successivamente – come caratteristica specifica – nel genere letterario del romanzo e vogliamo fare un esempio in funzione della didattica della lettura e della scrittura incontrando un autore significativo che va conosciuto e che si chiama Gottfried Keller.

     Gottfried Keller (1819-1890) è uno scrittore svizzero di lingua tedesca, è nato a Zurigo, e viene considerato il maggior rappresentante della letteratura svizzera dell’Ottocento, ed è anche il principale esponente dell’importante corrente culturale e letteraria che ha preso il nome di realismo poetico tedesco. Keller ha avuto un’infanzia umile e tormentata perché è rimasto orfano di padre a cinque anni e, nell’infanzia e nell’adolescenza, non ha potuto fare ciò che lui desiderava di più: studiare, leggere, scrivere e dedicarsi all’arte. A vent’anni emigra a Monaco di Baviera e – mentre svolge umili lavori – frequenta (1840-1842) l’Accademia di belle arti: Keller vorrebbe fare il pittore ma forse questa non è proprio la strada giusta per lui e così decide di tornare a Zurigo dove – tra un lavoro saltuario e l’altro – studia, legge i classici, e scrive soprattutto poesie. Quando pensa di avere acquisito le competenze necessarie parte per Heidelberg (lui non c’era mai andato troppo spesso ad Heidelberg!) dove (lo sappiamo) c’è una famosa Università e s’iscrive e frequenta (1848-1850) la facoltà di lettere e di filosofia  e segue le famose Lezioni su L’essenza della religione di Ludwig Feuerbach (1804-1872) che influenzano non solo Keller ma più generazioni di pensatori. Nel 1850 Keller si trasferisce a Berlino e comincia – con una mentalità nuova – a comporre una serie di romanzi brevi (o racconti lunghi).

     Il più importante, quello che viene considerato il suo capolavoro, è il romanzo autobiografico intitolato Der grüne Heinrich (Enrico il verde). Questo romanzo documenta un fatto molto significativo, un fatto che ci fa anche pensare all’Ellenismo che si presenta come un periodo di passaggio molto importante tra l’età antica e l’età di mezzo: nel romanzo Heinrich il verde di Keller è possibile constatare il passaggio da una visione strettamente connessa al gusto romantico ad una concezione realistica, orientata verso la solidarietà sociale. Questa evoluzione si può capire dal confronto delle due stesure che ne di questo romanzo ne ha fatto l’autore in cui mette bene in evidenza la maturazione interiore del protagonista: la prima redazione (1854-55) racconta il fallimento del giovane Heinrich che, per il suo esasperato soggettivismo e la profonda conflittualità con la società, non riesce ad affermarsi né nel mondo dell’arte (il protagonista, come lo scrittore, tenta di diventare pittore) né in quello familiare, e il romanzo termina col suicidio di Heinrich. Nella seconda stesura (1879) Keller abbandona ogni atteggiamento romantico per fare spazio ad una graffiante ironia, punto di partenza per la maturazione del protagonista, e il romanzo termina con la rinuncia di Heinrich alla propria felicità personale per dedicarsi ad una attività socialmente utile.

     Altra opera importante di Keller (che inizia a scrivere nel 1856), nella quale il valore della comunità – con l’ammonimento a superare gli egoismi individualistici – risulta centrale, è La gente di Seldwyla, in cui lo scrittore mette a frutto la sua osservazione in presa diretta dell’ambiente provinciale e di quello contadino. La gente di Seldwyla è una raccolta di dieci novelle ambientate nella provincia svizzera – Seldwyla è una cittadina immaginaria – dove lo scrittore, con occhio ironico, mette in scena i vizi e le virtù della comunità contadina, la cui avidità può giungere ad avere esiti tragici che si manifestano nel testo di una delle più famose tra le dieci novelle che s’intitola Romeo e Giulietta nel villaggio. La stupida rivalità dei padri per un insignificante pezzo di terra rende impossibile ai rispettivi figli – Sali e Vrenchen, due giovanissimi che si amano appassionatamente – la realizzazione del loro amore, spingendoli così a compiere un gesto drammatico.   Il valore sociale della comunità, la funzione etica del lavoro e la continuità della tradizione hanno acquistato un’importanza sempre maggiore dopo l’incontro di Keller con la filosofia di Feuerbach, ma questo è un tema che ci porta su un altro territorio che attraverseremo a suo tempo.

     Solo a quarantadue anni, nel 1861, Keller ottiene finalmente il primo impiego fisso (non è che potesse vivere di Letteratura), un impiego modesto di segretario cantonale che però gli permette di vivere più dignitosamente e di dedicare più tempo alla cultura, alla lettura e alla scrittura.

     Keller coltiva, in modo esemplare (sulla scia del pensiero di Feuerbach), una religiosità puramente terrestre che trova la sua espressione nell’opera Le sette leggende (1872), che prende spunto da storie medioevali di santità trasformandole in storie d’amore contrassegnate da un profondo godimento per i sani piaceri dell’esistenza. Tra le opere che Gottfried Keller ha composto dobbiamo ricordare ancora il romanzo intitolato Martin Salander, la raccolta intitolata Novelle Zurighesi e poi una serie di brevi racconti uniti insieme da una trama pubblicati nel 1881 con il titolo di L’Epigramma, che ci ricorda come la sapienza poetica ellenistica abbia influenzato in tutti i secoli la Storia della Cultura, della Letteratura e del Pensiero Umano.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La Scuola deve consigliare la lettura delle opere di Gottfried Keller: il romanzo Heinrich il verde, la raccolta di novelle La gente di Seldwyla , Le sette leggende, il romanzo Martin Salander, le Novelle Zurighesi e L’Epigramma… Cercate questi testi in biblioteca: osservateli, sfogliateli e leggetene qualche pagina…

     Adesso leggiamo alcune pagine da Romeo e Giulietta nel villaggio. Il titolo di questo racconto evoca il celebre dramma Giulietta e Romeo di William Shakespeare scritto agli albori del 1600 (la datazione è incerta): cogliamo l’occasione per dire che le opere di Shakespeare (e di gran parte della modernità) non ci sarebbero se non ci fosse stata la grande esperienza letteraria della “sapienza poetica ellenistica” e, in particolare, il Poema di Apollonio Rodio, gli Epilli e gli Epigrammi di Callimaco di Cirene, le Odi e le Satire di Orazio, Le metamorfosi di Ovidio. E, quindi, prima di leggere alcune pagine da Romeo e Giulietta nel villaggio di Keller ritorniamo sul nostro specifico sentiero ellenistico per dire che in questo racconto è messo bene in evidenza il colpo di scena finale secondo lo stile degli Epilli di Callimaco e de Le metamorfosi di Ovidio.

     Anche nello stile romanzesco di Keller – sebbene tenda al realismo – emerge un afflato mitico molto significativo (con lui si parla infatti di “realismo poetico”) che vuole dare rilievo alla valenza pedagogica della sua scrittura: perché Keller scrive (e farà Scuola a questo proposito) novelle di questo genere, un po’ inquietanti? Keller scrive perché i suoi racconti (allora usava) vengano letti a veglia nella famiglia e nella comunità contadina e il colpo di scena straordinario (meraviglioso e mostruoso contemporaneamente, secondo le radici ellenistiche del genere “romanzesco”) alza il livello di attenzione e favorisce la riflessione su temi – come l’accoglienza, la solidarietà, la pietà, la comprensione – sempre in modo ipocrita esaltati nella dottrina ma quasi mai realizzati in pratica.

     L’amore contrastato di Sali e di Vrenchen è assolutamente candido e insieme assolutamente sensuale: sono due persone semplici e dirette come se fossero due creature che vivono nel Giardino dell’Eden e vengono colti da un’ebbrezza per cui – mentre i loro padri litigano e trovano una paradossale ragione di vita nell’odiarsi – il piacere puramente terrestre che Sali e di Vrenchen attingono dalla loro unione fisica (come sublime coronamento) vale molto di più della vita stessa e, naturalmente, questa è una provocazione che lo scrittore lancia per risvegliare le coscienze e indurle alla riflessione.

     E ora leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Gottfried Keller, Romeo e Giulietta al villaggio (1856)

La piccola comitiva, infiammata dal vino forte, divenne sempre più rumorosa e agitata, finché all’improvviso il violinista sollecitò la partenza. - Ci aspetta un lungo cammino, - esclamò, - ed è già passata la mezzanotte! Su! Offriremo il corteo nuziale agli sposi, e io vi precederò suonando il violino secondo le regole! - Poiché i due, derelitti e smarriti, non sapevano trovare una soluzione migliore ed erano totalmente disorientati, lasciarono fare di nuovo: furono messi in testa al corteo e le altre due coppie formarono dietro di loro un seguito chiuso dal gobbo con il suo contrabbasso sulle spalle. Il violinista nero camminava davanti a tutti e suonava come un ossesso il suo violino giù per il monte, e gli altri lo seguivano ridendo, cantando e saltando. Così la folle processione notturna attraversò i campi silenziosi e il villaggio natale di Sali e di Vrenchen, i cui abitanti dormivano già da molto tempo.

Quando passarono per i vicoli deserti e davanti alle loro case paterne li assalì una dolorosa eccitazione e ballarono dietro al violinista facendo a gara con gli altri, si baciarono, risero e piansero. Ballarono anche risalendo la collina su cui il violinista li conduceva, quella dove si stendevano i tre campi, e sulla cima il nero individuo suonava ancora una volta con impeto selvaggio, e intanto saltava e si dimenava come uno spettro, e i suoi compagni non furono da meno nell’allegria smodata, sicché sull’altura silenziosa si scatenò un vero pandemonio; persino il gobbo balzava di qua e di là ansimando sotto il suo fardello e nessuno sembrava più vedere gli altri. Sali afferrò più saldamente Vrenchen per il braccio e la costrinse a fermarsi: infatti era tornato in sé per primo. La baciò con veemenza sulla bocca per farla tacere poiché lei si era lasciata andare completamente e cantava a gola spiegata. Alla fine capì, e rimasero immobili, tacendo e ascoltando, mentre il tumultuoso corteo nuziale oltrepassava di gran carriera il campo e senza accorgersi della loro assenza scompariva in direzione del fiume. Ma il violino, le risa delle ragazze e le grida di gioia dei giovani echeggiarono ancora a lungo nella notte, finché da ultimo ogni suono si spense e ritornò il silenzio.

- A quelli siamo sfuggiti, - disse Sali, - ma come sfuggiremo a noi stessi? Come ci eviteremo?

Vrenchen non era in grado di rispondere, e stava fra le sue braccia respirando affannosamente. - Non è meglio che o ti riporti al villaggio e svegli qualcuno perché ti accolga in casa? Domani poi potrai andare per la tua strada, e te la caverai di certo.

- Cavarmela, senza di te!

- Devi dimenticarmi!

- Non lo farò mai! Tu potresti dimenticarmi?

- Questo non c’entra, - disse Sali accarezzando le guance roventi che lei gli appoggiava con passione contro il petto, - ora si tratta soltanto di te: sei ancora così giovane, le cose per te possono ancora mettersi bene dovunque tu vada.

- E per te no, caro il mio vecchietto?

- Vieni, - disse Sali, e la trascinò via. Ma fecero solo alcuni passi e si fermarono di nuovo per abbracciarsi e accarezzarsi più comodamente. Il silenzio del mondo attraversava le loro anime come un canto o una musica, si udiva soltanto il fiume, là sotto, mormorare dolce e lieve nel suo lento cammino.

- E così bello qui intorno! Non senti anche tu un suono, una specie di canto bellissimo o di scampanio?

- È il fiume che scorre! Per il resto, tutto è silenzio.

- No, c’è ancora qualcos’altro, qui, laggiù, risuona dappertutto!

- Credo che sentiamo il nostro stesso sangue rombarci nelle orecchie!

Rimasero per un poco ad ascoltare quei suoni immaginari o reali provenienti dal grande silenzio, e li scambiavano per magici effetti del chiarore lunare ondeggiante qua e là sulle bianche nebbie d’autunno che si adagiavano dense sui campi. All’improvviso a Vrenchen venne in mente qualcosa; frugò nel suo corpetto e disse:

- Ti ho comprato un ricordino che volevo darti -. E gli diede quel semplice anello e glielo infilò al dito lei stessa. Anche Sali tirò fuori il suo anellino e lo infilò al dito di Vrenchen dicendo: - Allora abbiamo avuto la stessa idea!

Vrenchen tenne la mano protesa nella pallida luce d’argento e contemplò l’anello.

- Oh, com’è grazioso! - disse ridendo. - Ma adesso siamo proprio fidanzati e promessi, tu sei mio marito e io tua moglie; pensiamolo per un momento, solo finché quel lembo di nebbia non sarà passato davanti alla luna, o finché non avremo contato sino a dieci! Baciami dieci volte!

L’amore di Sali era certo intenso quanto quello di Vrenchen, ma la questione del matrimonio non si prospettava in lui con altrettanta urgenza, non rappresentava un netto aut aut, un immediato essere o non essere come per Vrenchen, il cui sentimento si era tutto concentrato in quell’idea e che vi scorgeva direttamente, con fervida risolutezza, la morte o la vita. Ora però cominciò a capire e nel giovane il sentimento femminile della fanciulla si trasformò subito in un desiderio irruente e selvaggio, e una fiammeggiante chiarezza gli illuminò i sensi. Se già aveva abbracciato e baciato Vrenchen con tanto impeto, ora lo fece in modo diverso e più frenetico, e la tempestò di baci. Nonostante tutta la sua passione, Vrenchen notò subito questo cambiamento, e un violento tremore la percorse da capo a piedi, ma prima che quel lembo di nebbia fosse passato davanti alla luna fu assalita anche lei dallo stesso desiderio. Accarezzandosi e lottando con ardore le loro mani ornate degli anelli si incontrarono e si strinsero saldamente, come celebrando da sole un rito nuziale senza il comando di alcuna volontà. Il cuore di Sali ora batteva come un martello, ora si fermava; egli respirava a fatica, e a bassa voce disse: - Ci resta solo una cosa da fare, Vrenchen: sposarci adesso e poi andarcene da questo mondo Là c’è acqua alta, là nessuno ci separerà più e saremo stati insieme se a lungo o per breve tempo, questo non avrà più importanza per noi.

Vrenchen rispose immediatamente: - Sali quello che dici lo avevo già pensato e deciso da un pezzo per conto mio, che cioè potremmo morire e che allora sarebbe tutto finito Giurami dunque di voler farlo con me!

- E come se fosse già fatto, nessuno ti strapperà più dalle mie braccia se non la morte! - esclamò Sali fuori di sé. Vrenchen trasse un profondo respiro, lacrime di gioia le sgorgarono dagli occhi; si riscosse, e leggera come un uccello balzo oltre il campo scendendo verso il fiume. Sali le corse dietro, poiché credeva che volesse sfuggirgli, e Vrenchen credeva che lui volesse trattenerla. Così procedevano saltando l’uno dietro all’altra e Vrenchen rideva come una bambina che non vuole lasciarsi prendere. - Già te ne penti? - si gridarono a vicenda quando ebbero raggiunto il fiume e si furono afferrati. - No! Ne sono sempre più felice! - risposero entrambi. Liberi da ogni assillo camminarono giù per la riva, più veloci della corrente, tanta fretta avevano di trovare un posto dove distendersi: perché adesso la passione che li dominava vedeva soltanto l’ebbrezza della beatitudine racchiusa nella loro unione, e tutto il valore e il significato della vita si concentrava in quell’ebbrezza; ciò che sarebbe venuto dopo, tramonto e morte, era per loro un soffio, un niente, e ci pensavano meno di quanto uno sconsiderato pensi a come vivrà l’indomani mentre dissipa i suoi ultimi averi.

- I miei fiori mi precedono, - esclamò Vrenchen, - guarda, sono tutti sciupati e appassiti! - Li trasse dal seno, li gettò in acqua e intanto cantò ad alta voce:

Più dolce della mandorla è l’amor mio per te!

- Ferma! - gridò Sali. - Ecco il tuo letto nuziale!

Erano giunti su una carreggiata che dal villaggio conduceva al fiume, e lì videro un approdo dove era legata una grande barca carica di fieno. Con foga selvaggia egli cominciò immediatamente a sciogliere i robusti cavi. Vrenchen lo trattenne ridendo e disse: - Cosa hai intenzione di fare ? Vogliamo rubare ai contadini la loro barca di fieno, per finire in bellezza?

- Sarà la dote che ci offriranno, un’alcova galleggiante e un letto come non l’ha mai avuto nessuna sposa! Del resto ritroveranno la loro barca a valle, dove appunto deve andare, e non sapranno cosa le è accaduto. Guarda, già dondola e vuol salpare!

La barca era ad alcuni passi di distanza dalla riva, nell’acqua profonda. Sali sollevò Vrenchen tra le braccia ed entrò nel fiume dirigendosi verso la barca, ma lei lo accarezzava con tale impeto e si dibatteva come un pesce a tal punto, che egli non riusciva a mantenersi in equilibrio nella corrente. La ragazza si sforzava di immergere il volto e le mani e gridava: - Anch’io voglio sentire l’acqua fresca! Ti ricordi come erano fredde e umide le nostre mani, quando ce le stringemmo per la prima volta? Allora prendevamo pesci, adesso i pesci saremo noi, e due belli grossi!

- Stai ferma, diavoletto, - disse Sali, che fra la sua bella turbolenta e le onde faticava a reggersi in piedi - o la corrente mi trascinerà via!

Issò il suo fardello nella barca e saltò a bordo dietro di lei; la issò sul carico morbido e profumato, disposto in un alto mucchio e vi balzò sopra a sua volta, e quando furono lì in cima la barca a poco a poco fu sospinta in mezzo al fiume e poi, ruotando lentamente, prese a muoversi verso valle.

Il fiume passava ora attraverso alte e scure foreste che lo ombreggiavano, ora nell’aperta campagna; lambiva ora villaggi silenziosi, ora capanne solitarie; qui era così calmo che sembrava un lago tranquillo e la barca quasi si arrestava, là scorreva fra le rupi e lasciava rapidamente dietro di sé le rive addormentate; e al sorgere dell’aurora in quel preciso momento, una città emerse con le sue torri dal fiume grigioargenteo. La luna al tramonto, color dell’oro, tracciava nell’acqua una via scintillante, e su questa scese lenta la barca, attraversandola. Quando si avvicinò alla città, nel gelo del mattino autunnale due pallide figure, tenendosi saldamente abbracciate, scivolarono dalla sua massa scura giù nelle fredde onde.

Qualche tempo dopo la barca urtò senza danneggiarsi contro un ponte, e lì si fermò. Quando in seguito, più a valle, furono ritrovati i cadaveri e ne fu accertata l’identità, si poté leggere sui giornali che due giovani, figli di due famiglie finite nella miseria più nera e animate di un’implacabile inimicizia, avevano cercato la morte nel fiume dopo aver danzato ed essersi divertiti insieme di tutto cuore per un intero pomeriggio alla sagra di un paese. Quell’evento doveva presumibilmente essere posto in relazione con una barca carica di fieno proveniente dalla stessa zona e approdata in città senza nessuno a bordo: si supponeva che i due giovani avessero trafugato la barca per celebrarvi le loro nozze disperate e sacrileghe, sintomo ulteriore di quanto l’immoralità fosse ormai dilagante e le passioni degenerate.

     Intanto, come vedete, ritorna puntualmente la parola passione: parola-chiave di stampo ellenistico. Il realismo poetico di Keller – al contrario degli Epilli di Callimaco e de Le metamorfosi di Ovidio – prevede che nessun dio intervenga a trasformare Sali e Vrenchen in un luccio e in una carpa (tutti noi – come scrive Feuerbach – aspiriamo a soluzioni mitiche) ma il realismo poetico di Keller prevede una conclusione ammantata di amara ironia per mettere in guardia dai danni che, nella comunità, può fare l’inimicizia e il disaccordo.

     Abbiamo già detto la scorsa settimana che il testo più celebre di Callimaco di Cirene – per quel che ne rimane – è il poemetto in distici elegiaci intitolato La Chioma di Berenice che fa parte del IV Libro di un’opera che s’intitola Cause (Aitia).

     Sappiamo che La Chioma di Berenice è anche una costellazione che ci guarda dall’alto dei cieli e a noi appare (a sud-est dell’Orsa Maggiore) come una piccola costellazione (formata da una ventina di stelle poco luminose) anche se in essa – come ci dicono le astronome e gli astronomi – si trovano diverse galassie. Sappiamo che il firmamento – così come noi oggi lo vediamo – è andato configurandosi proprio nel periodo dell’Ellenismo.

     Nel prossimo itinerario, l’ultimo dell’anno 2009, noi osserveremo da vicino La Chioma di Berenice intesa come opera di Callimaco di Cirene: studieremo ciò che resta (il frammento che resta) di questo poemetto in distici elegiaci e soprattutto ci occuperemo de l’intreccio filologico che questo prezioso oggetto culturale mette in atto.

     E poi, a proposito di firmamento, sappiamo che anche la Stella cometa – quella descritta nel testo del Vangelo secondo Matteo – è ormai in movimento secondo il ritmo dell’anno liturgico. Ribadiamo che l’anno liturgico, disegnato dalla Letteratura dei Vangeli, è un prodotto culturale dell’Ellenismo e anche l’idea del tempo di Avvento.

     Con il prossimo itinerario si chiude l’esperienza di studio dell’anno 2009 e anche del primo decennio del nuovo millennio, ma abbiamo appena percorso un terzo del tragitto del nostro viaggio che continua nel nuovo anno che verrà.

     L’idea del tempo di Avvento, disegnata dalla Letteratura dei Vangeli (in particolare nell’Epistolario di Paolo di Tarso), è contenuta in un paesaggio intellettuale che si trova sul vasto territorio l’Ellenismo e questa idea è legata al concetto del mettersi in cammino sulla strada della conoscenza perché ogni persona ha diritto all’Apprendimento permanente.

     Per questo la Scuola è qui, e il cammino, la prossima settimana, riprende sul sentiero illuminato dalla tenue luce della Chioma di Berenice

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 11, 2009