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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È "IL FURORE D’AVER LIBRI"...

Lezione N.: 
6

Prof. Giuseppe Nibbi    Lo sapienza poetica ellenistica 2009    11-12-13 novembre 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È

"IL FURORE D’AVER LIBRI"...

     Siamo in viaggio da sei settimane nel territorio della sapienza poetica ellenistica e abbiamo studiato che, dal punto di vista storico, il periodo ellenistico ha inizio con la costituzione dei cosiddetti regni ellenistici di Macedonia, di Siria, d’Egitto e di Pergamo che nascono dalla disgregazione dell’Impero di Alessandro Magno.

     Nel primo grande paesaggio intellettuale che abbiamo incontrato e osservato sul territorio dell’Ellenismo spicca, appunto, – come sappiamo – la figura di Alessandro Magno. Il grande condottiero macedone, con la conquista dell’Asia Minore, dell’Egitto, della Mesopotamia e di molto territorio asiatico aveva fatto sì che la civiltà greca, la cultura dell’Ellade si diffondesse dal bacino del Mediterraneo fino al fiume Indo.

     Sappiamo anche che la prematura morte di Alessandro (nel 323 a.C.) dà luogo ad una serie di guerre, combattute dai suoi generali o diadochi, per la successione e che durano, nel complesso, circa quarant’anni. Il risultato di queste guerre – nella loro prima fase – è la costituzione di quattro regni: quello di Macedonia (sotto la dinastia degli Antigonidi), quello di Siria (sotto la dinastia dei Seleucidi), quello d’Egitto (sotto la dinastia dei Tolomei) e, per ultimo, quello di Pergamo (sotto la dinastia degli Attalidi).

     La scorsa settimana abbiamo studiato come la polis di Atene perda in questo periodo insieme alla sua potenza politica anche il predominio intellettuale esercitato nei due secoli precedenti e questo a vantaggio di altre città: in primo luogo a favore delle capitali dei regni ellenistici. La prima città che emerge sulle altre – come sappiamo – è Alessandria d’Egitto, la capitale del regno dei Tolomei, che diventa il centro più importante della nuova cultura sulla scia della quale si sviluppa la sapienza poetica ellenistica. Sappiamo che Tolomeo detto Soter (il Salvatore), il monarca del regno d’Egitto – e poi i suoi eredi –, attirano alla loro corte artisti e scienziati, e fondano le due famose istituzioni pubbliche che conosciamo: la Biblioteca che raccoglie tutti i tesori letterari del passato (circa 700.000 volumi) e il Museo che è una specie di Università dove, intorno al tempio delle Muse (patrone delle Arti), letterati e scienziati, stipendiati dallo Stato, si dedicano all’insegnamento, allo studio e alla ricerca filologica e scientifica.

     Noi, a questo punto, potremmo dire: "ma come sono bravi questi Tolomei a promuovere la cultura!"! Questa affermazione, in parte, è anche vera ma dobbiamo completare il nostro ragionamento in proposito perché in realtà Tolomeo Soter – che accoglie con grande generosità i Platonici dell’Accademia e gli Aristotelici del Liceo emigrati in Alessandria da Atene – agisce soprattutto allo scopo di allontanare gli intellettuali dalla vita politica orientandoli (mettendo loro a disposizione le strutture) esclusivamente verso gli studi. Questa operazione finisce per snaturare il pensiero di Platone e di Aristotele a proposito dell’impegno politico: sappiamo che nelle opere dei due grandi maestri dell’Ellade (pensiamo alla Repubblica di Platone e alla Politica di Aristotele) si prescrive che siano gli intellettuali, che siano le persone sagge, private di ogni beneficio materiale fino all’essenziale, a governare in modo collegiale. È chiaro che questa idea non piace ai monarchi assoluti (che vogliono essere ricchi, potenti, ammantati di gloria, divinizzati) i quali temono gli intellettuali Platonici e Aristotelici impegnati in politica e vogliono quindi distoglierli fornendo loro strumenti efficaci e strutture funzionali perché possano soddisfare la loro sete di conoscenza purché stiano lontani dalle sedi della politica. Si determina così con l’Ellenismo una netta divisione tra le Istituzioni politiche e le Istituzioni culturali.

     Questa situazione di allontanamento degli intellettuali dalla politica viene a determinarsi ad Alessandria, la capitale del regno dei Tolomei, così come ad Antiochia, la capitale del regno dei Seleucidi, dove sorge (anche se non grande come quella di Alessandria) una bella e fornita Biblioteca, e poi a Pergamo, la capitale del regno degli Attalidi, che, come centro di cultura, gareggia per parecchi secoli con Alessandria d’Egitto e possiede anch’essa una famosa Biblioteca.

     Per curiosità dobbiamo dire che se qualcuna o qualcuno di voi ha letto (o leggerà) il saggio (che abbiamo già citato) intitolato La biblioteca scomparsa di Luciano Canfora sarà venuto (o verrà) a conoscenza del fatto che Antonio ha regalato a Cleopatra la Biblioteca di Pergamo (come se fosse un gioiello) per riparare ai danni recati da un incendio alla Biblioteca di Alessandria, durante l’assedio di questa città da parte di Giulio Cesare (nel 47 a.C.).

     Le considerazioni che abbiamo fatto finora ci portano a riflettere su un tema importante – al quale abbiamo già accennato diverse volte – un tema che dobbiamo meglio mettere a fuoco: nel periodo dell’Ellenismo la cultura dell’Ellade (la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele) subisce una profonda trasformazione. Quali sono i nuovi caratteri emergenti?

     La svalutazione dei concetti contenuti nelle opere di Platone e di Aristotele sul tema della "politica" (i meccanismi della democrazia; il ruolo centrale del Parlamento; i tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – separati e indipendenti tra loro; il governo dei saggi) non è un elemento positivo ma questa negatività è tuttavia compensata dal fatto che per distogliere gli intellettuali dalla politica si potenziano le Istituzioni culturali. Le Istituzioni culturali – avendo dei mezzi a disposizione – si trasformano e cominciano ad agire come Scuole e l’apertura di Scuole è senz’altro un fatto positivo anche se il limite di questi istituti (che sorgono nell’ambito della grande Biblioteca pubblica e del Museo) è quello di essere fortemente elitari, frequentati da pochissime e privilegiate persone appartenenti alla aristocrazia intellettuale.

     I programmi didattici di queste Scuole sono di impostazione filologica e grammaticale (abbiamo studiato la scorsa settimana il fenomeno culturale della Scuola dei cosiddetti "grammatici alessandrini") e favoriscono lo sviluppo di una serie di competenze fondamentali, utili per incrementare l’esperienza di studio: lo spirito di riflessione, di osservazione e di ricerca. L’acquisizione dello spirito di riflessione, di osservazione e di ricerca contribuisce in modo determinante all’evoluzione delle scienze esatte come la matematica, della letteratura erudita ma anche di quella didascalica, cioè divulgativa.

     Poi, la crescita dello spirito di riflessione, di osservazione e di ricerca porta a creare il senso dell’avventura e a progettare e a realizzare il viaggio di studio, il pellegrinaggio intellettuale che favorisce, nella mente di chi lo compie, la nascita del carattere universale, cosmopolitico, in perfetta antitesi – abbiamo già detto a suo tempo – col carattere particolaristico della polis che sino ad ora aveva dominato nella cultura dell’Ellade.

     L’acquisizione dello spirito di riflessione, di osservazione, di ricerca e del senso dell’avventura porta gli intellettuali ad intercettare, sul vasto territorio dell’Ellenismo, l’evento del crearsi di una nuova lingua universale, una "koinè diàlektos" (una lingua popolare di larga diffusione). Questo nuovo linguaggio è formato dalla vecchia lingua attica, la quale, trasportata da Alessandro in Oriente, si colorisce a contatto dei diversi popoli, diventando, in breve tempo, un efficace strumento di comunicazione che penetra in tutti gli strati sociali. Uno strumento di comunicazione intelligibile a tutti che stimola la curiosità degli intellettuali e finisce per influenzare i contenuti e le forme della Letteratura.

     La Letteratura quindi risente di queste nuove condizioni – della comparsa di una lingua nuova di carattere popolare rispetto ad una lingua della tradizione patrimonio esclusivo degli intellettuali – e, mentre nei periodi precedenti aveva avuto essenzialmente un carattere creativo, ora la Letteratura, per contrasto, sente il bisogno di diventare soprattutto erudita e meditata: nasce la disciplina dell’esegesi, la scienza del commento ben ponderato dei testi antichi depositati in Biblioteca e questo commento traduce il contenuto dei testi antichi in lingua moderna, nella lingua della koiné e lo divulga nell’Ecumene.

     In questo contesto incontriamo la prima parola-chiave di questo itinerario. In età ellenistica prende forma il cosiddetto "classicismo", cioè la coscienza di un profondo distacco tra la Letteratura del presente e quella del passato. Le opere del passato vengono, per la prima volta, denominate: "i classici". Perché viene usato questo termine per definire i libri antichi che appaiono come esemplari, ideali, intramontabili, imitabili, rappresentativi? La parola "classico" è un termine ellenistico, della koinè ellenistica, che nasce dalla fusione tra il sostantivo "klèos" che significa "fama", "gloria", "informazione" e il verbo "kleίo" che significa "chiudere", "recintare", "porre in alto". Quindi i libri definiti "classici" sono quelli che, per la loro fama ("klèos"), vengono conservati nei ripiani più alti ("kleìo") degli scaffali delle Biblioteche, e quindi sono più protetti perché più preziosi: un "classico" è un libro che sta nei ripiani alti. I "classici" vengono studiati con attenzione perché sono opere antiche che contengono modelli da imitare, sempre validi anche per il tempo presente.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In quale “classico” avete trovato dei modelli che ritenete sia utile imitare?...

Scrivete quattro righe in proposito…

     E ora, dopo aver fatto questa riflessione iniziale, riprendiamo l’argomento che abbiamo lasciato in sospeso nell’itinerario della scorsa settimana.

     Con l’epoca ellenistica il libro – in papiro o in pergamena che sia – entra a pieno titolo nel costume intellettuale, con la conseguenza che nel gioco dell’intelligenza si sviluppa anche una nuova consuetudine, un nuovo costume, un nuovo interesse, una nuova frenesia, una nuova passione tipicamente ellenistica, che è stata chiamata il "furore di possedere libri": una passione che abbiamo provata un po’ tutte e tutti noi.

     In che cosa consiste – ci siamo già chieste e chiesti la scorsa settimana – l’idea ellenistica del "furore" di possedere libri? E perché per definire questo tema si usa il termine "furore"? Non è casuale il fatto che si usi questo termine perché in greco il termine "furore" corrisponde alla parola "entousiasmòs" la quale descrive la grande eccitazione che coinvolge le menadi (o le baccanti) nelle danze durante i rituali orfico-dionisiaci (un argomento che quasi tutte e tutti voi conoscete bene: in questi anni la cultura orfico-dionisiaca è stata spesso materia di studio nei nostri Percorsi).

     Il tema del "furore di possedere libri" emerge per la prima volta proprio in uno dei frammenti che possediamo di Demetrio Falerèo. Demetrio Falerèo – lo abbiamo incontrato la scorsa settimana – è uno scrittore, un oratore, un intellettuale aristotelico che ha saggiamente governato Atene dal 317 al 307 a.C. nel pieno delle guerre di successione dopo la morte di Alessandro Magno. Sappiamo che Demetrio Falerèo ha scritto molte opere (di carattere morale, filologico, autobiografico) delle quali ci sono rimasti solo dei frammenti. Su uno di questi frammenti si legge: «Molti di noi furono presi dal furore di possedere libri», e questo furore (entusiasmos) si manifesta nel momento della creazione della grande Biblioteca pubblica, un momento senza dubbio "entusiasmante" quello di concentrare in un luogo l’Intelletto universale (secondo l’insegnamento di Aristotele). Per definire la parola "furore", Demetrio usa il temine "entousiasmòs", volutamente un termine di carattere orfico-dionisiaco: la cultura orfico-dionisiaca sfrattata da Atene andava a radicarsi in Alessandria.

     La scorsa settimana, alla fine dell’itinerario, abbiamo detto che c’è un libro che s’intitola proprio: Del furore d’aver libri e, dopo questa precisazione che abbiamo fatto, non è difficile intuire l’argomento di cui questo libro tratta. C’è però un fatto curioso al quale abbiamo già accennato la scorsa settimana: il titolo di questo volumetto, Del furore d’aver libri, non corrisponde al titolo dell’opera che questo libro contiene: come mai? Non è difficile ipotizzare una risposta: questa dicitura, il "furore di aver libri", attira maggiormente l’attenzione perché questa espressione è diventata famosa nella Storia del Pensiero Umano, almeno per le studiose e gli studiosi di filologia e anche per noi, a questo punto, che stiamo attraversando il territorio dell’Ellenismo sulla scia di un processo di alfabetizzazione funzionale che – come potete constatare – mette in condizione le viaggiatrici e i viaggiatori di conoscere, di capire, di applicarsi, di analizzare, di sintetizzare e di valutare: di investire in intelligenza rendendo attive le azioni dell’apprendimento. Lo sappiamo che alla maggior parte delle cittadine e dei cittadini tutto questo sfugge, ma a noi non sfugge il fatto che questo titolo "sovrapposto", Del furore d’aver libri, risulta molto evocativo e stimola il nostro spirito di riflessione, di osservazione, di ricerca e il nostro senso dell’avventura, cioè alcune tra le caratteristiche più significative che si sono sviluppate nell’età ellenistica e di cui dobbiamo fare tesoro.

     E allora: come s’intitola l’opera contenuta nel libro intitolato Del furore d’aver libri e chi l’ha scritta, e perché? Il nome dell’autore è scritto sulla copertina del volume: Gaetano Volpi. Chi è costui?

     Per presentare Gaetano Volpi dobbiamo, brevemente, occuparci della famiglia a cui appartiene: la famiglia padovana dei Volpi è stata la prima famiglia di editori in senso moderno della Storia della cultura. L’iniziatore di questa impresa è stato Giannantonio Volpi (1686-1766), il fratello di Gaetano, che ha studiato presso i Gesuiti approfondendo la lingua latina, gli studi di filosofia e di giurisprudenza ma senza mai abbandonare la passione per la Letteratura: è stata proprio questa passione che lo ha spinto, a trentun anni, a dedicarsi all’editoria per poter stampare nel migliore dei modi opere ("classici") da lui selezionate. I fratelli Giannantonio e Gaetano Volpi sono stati editori a Padova.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Conoscete la città di Padova?... L’avete mai visitata?... sapete cos’è il Bò di Padova?... Con una guida del Veneto andate a fare un breve viaggio virtuale in questa bella città che vanta una delle più antiche e rinomate Università europee (1222)… 

     I fratelli Giannantonio e Gaetano Volpi sono stati editori a Padova e, dal 1717 al 1756, hanno pubblicato a loro spese un lungo catalogo di libri rischiando in prima persona dal punto di vista imprenditoriale e associandosi al tipografo e libraio Giuseppe Comino, dando vita alla tipografia Volpi -Cominiana che si presenta come una vera e propria casa editrice concepita in senso moderno e questa impresa è simile a quella delle odierne case editrici. Giannantonio Volpi funge da direttore editoriale mentre suo fratello, l’Abate Gaetano (di cui stiamo parlando) assume la sovrintendenza, o se vogliamo la direzione generale, e l’esperto tipografo e libraio Giuseppe Comino diventa il direttore tecnico: ed ecco, con questo, configurarsi la moderna editoria.

     Ma come s’intitola l’opera contenuta nel libro intitolato Del furore d’aver libri scritta nel 1756 dal bibliofilo abate padovano Gaetano Volpi? Dopo aver sfogliato le prime quattro pagine del libro, edito dalla casa editrice Sellerio e intitolato Del furore d’aver libri, troviamo il titolo originale dell’opera di Gaetano Volpi: Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni Libri disposte per via d’Alfabeto.

     Queste Avvertenze sono un manuale che contiene, in ordine alfabetico – come se fosse una piccola enciclopedia (siamo in piena epoca illuministica ed enciclopedica) – 144 voci che spiegano fino a dove può spingersi l’amore per i libri e il furore di possederne. Gaetano Volpi non fa mistero di essere affetto, oltre che dalla bibliofilia, anche dalla bibliomanìa e, in pieno Settecento – nel secolo dell’enciclopedismo e degli studi eruditi – ci trasmette la passione per i libri anche (ed è proprio questo il bello perché lo fa con una certa ironia) nei suoi aspetti più inusuali, un po’ maniacali.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A proposito di manìe: voi riconoscete di avere qualche manìa?... Per che cosa?...

Scrivete quattro righe in proposito…

     E ora leggiamo alcuni passi tratti dalla Prefazione di quest’opera dove Gaetano Volpi spiega che lui aveva l’intenzione di pubblicare il Catalogo delle opere stampate dalla Casa editrice Volpi-Cominiana ma poi ha cambiato idea (ha cambiato disegno): ascoltiamo che cosa ci racconta nell’introduzione dedicata agli "amatori dei libri".

LEGERE MULTUM….

Gaetano Volpi, Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni Libri

disposte per via d’Alfabeto Prefazione (1756)

Io vi presento un Libro incominciato da me con un disegno, proseguito poscia, e terminato con un altro. Il primo fu di pubblicare il semplice e succinto Catalogo della nostra Domestica Libreria, per conservare in tal guisa la memoria de’ Libri in tanti anni, con non poca spesa e sollecitudine radunati, e con particolar cura ed effetto conservati; laddove voi assai comodamente, e a tutto vostro bell’agio potrete riandarla, e considerarla; coll’assicurarla altresì, in parte, dalla solita fatal disgrazia di moltissime Librerie, della nostra senza comparazione anche più ricche e riguardevoli, d’essere, dopo la morte de’ raccoglitori e possessori, del tutto smembrate, distratte, e poste in totale e perpetua dimenticanza; e ciò con danno considerabile degli Studiosi, a’ quali importa informarsi de’ buoni e rari Libri; che sempre s’incontrano nelle Librerie poste insieme da periti e diligenti formatori di esse. Onde per sì fatti motivi, replico, il mio primo disegno fu di tessere un succinto accurato Catalogo Alfabetico, per via, per lo più, de’ Cognomi degli Autori de’ Libri; ma vedendo che il Volume così riusciva di poca mole, e io non volendo imitar somiglianti Cataloghi mutai il primo disegno, e risolvetti di accrescerlo piuttosto coll’aggiungere a molti Libri varie Osservazioni Storiche, Critiche, Bibliotecarie, Ascetiche e che so io perché è in grazia a’ Libri che ognuno accresce la conoscenza propria assimilando l’esperienza dello scrittore così come la digestione trasforma il cibo in energia per l’attività del fisico; così è grazie a’ buoni Libri che sceglie il formator di Biblioteca ch’egli diviene il manutentore spirituale delle persone che si avvicendano nella vita; i Libri sono da intendersi come preziosi oggetti da conservare, da mantenere, da curare con impegno che dura nel tempo e finalmente avendo io, in tanti anni, con qualche particolare attenzione osservato varie cose appartenenti a’ Libri, e alle Librerie, ho voluto qui stenderle, affinché non perissero, e a comun benefizio, con isperanza che, partecipando alcun poco della tanto accetta grazia di Novità, (mentre non saprei dove si trovassero buona parte di queste così espresse) sien per gradirsi da voi, Dilettanti de’ buoni Libri.

Con ciò concediamo Licenza a Giuseppe Comino, stampatore in Padova, che questo tomo possa essere stampato col nostro motto: "Laudato ingentia rura exiguum colito. Esalta i grandi poderi, ma coltivane uno piccolo".

Addì 31 marzo 1756».

     In quest’opera, in queste Avvertenze, emergono tanti piccoli ma importanti segreti che riguardano l’editoria e che si riferiscono a come costruire i libri tanto come oggetti d’uso quanto come oggetti d’arte, e poi troviamo una serie di consigli pratici – su come conservare, come proteggere e come lavare i libri – consigli dati ai collezionisti perché possano definire meglio una passione (o una manìa), quella per i libri, che, dall’epoca dell’Ellenismo, resiste nel tempo.

     Nel testo delle Avvertenze del Volpi le studiose e gli studiosi di filologia hanno trovato tante fondamentali informazioni editoriali (come, per esempio, gli elenchi degli stampatori più esperti, dei rilegatori più capaci, delle città in possesso di Biblioteche ben fornite) e tante interessanti curiosità di cui – se non fossero state scritte e conservate dal Volpi – se ne sarebbero perse per sempre le tracce. Per esempio (ma gli esempi da fare sarebbero molti) Gaetano Volpi fa delle utili e anche divertenti precisazioni a riguardo di una copia del poema di Bernardo Tasso – il padre del celebre Torquato – intitolata L’Amadigi. Il Volpi precisa che questa copia – che lui sta esaminando – de L’Amadigi di Bernardo Tasso è stata pubblicata a Venezia nel 1583 ma non si tratta della prima edizione, e c’informa che esiste un’edizione precedente di questo poema, stampata sempre a Venezia da Gabriele Giolito nel 1560. A questo proposito scrive: «il qual Libro, oltre ad essere di estrema rarità, quando pur si ritrovi, non occorre sperare che sia ben conservato, ma per lo più molto unto e bisunto, e smarginato, essendosi dilettati di leggerlo fino i bottegaj, e ciò successe per le poche Edizioni che se ne fecero; quantunque l’Autore se ne mostrasse, come si vede in molti luoghi delle sue Lettere, appassionatissimo, e sperasse per esso di arricchire. Maggior fortuna ebbe senza comparazione Torquato suo figliuolo nella sua Gerusalemme Liberata, impressa innumerevoli volte, quantunque molto bersagliata da’ Critici, i quali non di meno ne promossero anzi sempre più l’esito, e la ricerca; laddove lasciato questo L’Amadigi, fu posto quasi del tutto in obblio».

     Da queste annotazioni di Gaetano Volpi possiamo dedurre che il poema capolavoro di Bernardo Tasso intitolato L’Amadigi ha avuto un grande successo popolare: magari trovassimo, scrive l’abate Volpi, una copia di quest’opera nell’edizione del Giolito del 1560 anche unta e bisunta e smarginata, visto che si sono dilettati a leggerla persino i bottegai! L’Amadigi ha avuto un grande successo popolare finché la Gerusalemme Liberata, la celebre opera del figlio Torquato, non ha fatto dimenticare l’opera del padre Bernardo.

     Che cosa c’insegna questa considerazione in rapporto alla sapienza poetica ellenistica che ha elaborato (lo abbiamo studiato poco fa) il concetto del "classicismo"? L’opera di Gaetano Volpi di cui ci stiamo occupando intitolata Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni Libri disposte per via d’Alfabeto è sicuramente un "classico" secondo i criteri che gli intellettuali ellenistici hanno attribuito a queste opere così definite: un libro può essere definito un "classico" quando (è uno dei criteri qualificanti) conserva nel suo testo e fa uscire dall’oblio un’opera significativa che era stata dimenticata e questa scoperta suscita la curiosità delle lettrici e dei lettori in modo da favorire lo svolgimento di un’esercitazione intellettuale (di carattere spiccatamente ellenistico) che mette in moto lo spirito di riflessione, di osservazione, di ricerca, e il senso dell’avventura culturale. Il manuale di Gaetano Volpi fa uscire dall’oblio molte opere interessanti e, se ci dovessimo occupare di tutte, ci vorrebbe un Percorso intero per soddisfare le tante curiosità che suscita e allora – proprio per fare un esercizio sullo stile dei "grammatici alessandrini" – soffermiamoci sull’opera da cui è partito il nostro ragionamento: L’Amadigi di Bernardo Tasso.

     Ciò che scrive Gaetano Volpi nella sua Annotazione a proposito de L’Amadigi di Bernardo Tasso stimola sicuramente il nostro spirito di riflessione, di osservazione, di ricerca, il nostro senso dell’avventura culturale e il gusto per costruire e poi per dipanare l’intreccio filologico. L’effetto che fanno i "classici" – secondo la definizione ellenistica – è quello di suscitare in noi il desiderio di conoscere e di capire, e questo desiderio trova la sua applicazione nella comparsa, nella nostra mente, di una trafila interlocutoria, di una sequenza di interrogativi (un "classico" è un’opera che pone interrogativi): chi è Bernardo Tasso? Torquato, allora, era figlio d’arte? E che opera è L’Amadigi, il poema che viene considerato il capolavoro di Bernardo? E se il titolo corrisponde ad un personaggio: chi è Amadigi? E come mai questo nome (se si tratta di un nome) non ci è nuovo: lo abbiamo già incontrato nei nostri Percorsi? Questa è proprio una bella trafila interlocutoria, è proprio un’affascinante sequenza di interrogativi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

E allora mettete alla prova il vostro spirito di riflessione, di osservazione, di ricerca, e il vostro senso dell’avventura culturale e, utilizzando l’enciclopedia o la biblioteca o la rete, cercate delle risposte alle domande della trafila interlocutoria che è andata configurandosi nella nostra mente. Chi è Bernardo tasso?... Che opera è L’Amadigi, il poema che viene considerato il capolavoro di Bernardo Tasso?... Chi è il personaggio di Amadigi?...

     Abbiamo detto che se "Amadigi" è un nome – e si capisce che è il nome di un personaggio – dovrebbe ricordarci qualcosa in funzione della didattica della lettura e della scrittura e quindi nella mente di molte e di molti di noi dovrebbero mettersi in moto delle inferenze, (l’inferenza è quell’azione dell’apprendimento che trasporta, che trasferisce una conoscenza da un oggetto all’altro: in questa parola c’è il verbo latino "fero" che significa "portare", che significa "trasferire" anche in senso intellettuale); quindi, proprio a questo proposito, dobbiamo aprire una parentesi tenendo conto del fatto che, in ragione della cultura ellenistica, ci stiamo occupando di quegli oggetti culturali che chiamiamo "i classici" (abbiamo imparato che è con l’Ellenismo e con la creazione della grandi Biblioteche che comincia a svilupparsi il concetto di "classicismo") e "i classici" sono i Libri più predisposti a generare "inferenze". Abbiamo detto che se "Amadigi" è il nome di un personaggio dovrebbe ricordarci qualcosa in funzione della didattica della lettura e della scrittura.

     Nei Percorsi di questi ultimi anni abbiamo più di una volta incontrato un "classico" per eccellenza (e la Scuola ne ha consigliato, ha cercato e cerca di favorirne la lettura e la rilettura) che s’intitola Don Chisciotte. Tutte e tutti noi sappiamo che, a cavallo fra il Cinquecento e il Seicento, la penisola Iberica ha dato alla Storia della Letteratura un capolavoro: il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes (1547-1616), la cui prima parte è stata pubblicata nel 1605 e la Scuola (la nostra Scuola, e lo ricorderete senz’altro) ha festeggiato questo avvenimento.

     Questo romanzo (apriamo una brevissima parentesi) è importante perché costituisce una sintesi della civiltà rinascimentale ma soprattutto testimonia la crisi di questa civiltà depositaria di un’antica e splendida tradizione di fronte ad una nuova, più moderna e più spregiudicata concezione della vita. La tradizione rinascimentale si era espressa con il "romanzo cavalleresco" all’interno del quale viene messo in evidenza un universo di valori etici e stilistici che con l’età moderna perde la sua centralità. Nel romanzo (o nel poema) rinascimentale spicca la figura del cavaliere "senza macchia e senza paura", una figura utopica che non trova riscontro nella realtà perché nella realtà prende campo il personaggio del mercante "senza scrupoli e senza ansie di carattere morale". Miguel de Cervantes con il suo romanzo, con il suo Don Chisciotte, descrive il momento in cui questa antica e gloriosa tradizione cavalleresca perde definitivamente la sua egemonia.

     La trama del libro di Cervantes è notissima e tutte e tutti noi sappiamo che don Chisciotte è un eccentrico hidalgo (un nobiluomo, un piccolo proprietario terriero), orgoglioso ma povero, che, esaltato dai romanzi cavallereschi di cui è un appassionato lettore, decide di farne rivivere la tradizione trasformandosi in cavaliere errante. Sappiamo che, a questo scopo, si procura un cavallo (Ronzinante) e uno scudiero (Sancho Panza), e dà inizio alla sua missione (che è quella di far trionfare il Bene in nome del Vangelo), una missione che si svolge attraverso una serie fittissima di avventure che, in realtà, sono delle disavventure talvolta esilaranti, ma quasi sempre patetiche o tragiche.

     Sappiamo che, con il personaggio di don Chisciotte, Cervantes vuole ritrarre un esemplare tipico di quella piccola nobiltà iberica orgogliosa e fiera che è incapace di comprendere e che rifiuta – considerandole disumane – le trasformazioni della modernità: don Chisciotte si perde nei sogni di un mondo cavalleresco che ormai non esiste più perché è la borghesia che, in Europa, sta prendendo il potere e non con i valori intrepidi della Cavalleria ma con i mezzi più pratici e meno nobili del mercato. Don Chisciotte – ci dice Cervantes – non lavora: vive della rendita di una piccola proprietà, peraltro trascurata, non sa e non vuole inserirsi nell’avventura mercantile della modernità che l’Europa sta intraprendendo.

     Ma la grandezza di Cervantes sta nel presentarci il personaggio non con i toni del dileggio e della derisione, ma con l’affetto e la commozione che si rivolge a qualche cosa che, pur nella decadenza, conserva le tracce di un antico splendore, soprattutto morale. La follia di don Chisciotte, perso nei suoi sogni visionari di epopee cavalleresche, non è dunque una semplice caricatura della figura dell’hidalgo, ma deve essere anche interpretata come la rivendicazione di un passato di alta e luminosa dignità di fronte alla presente miseria dei tempi: la modernità – e in questo Cervantes è stato profeta – avrebbe dovuto portare, prima che alla Rivoluzione industriare così come si è configurata con tutte le sue ambiguità (sull’idea dello sfruttamento), al Rinnovamento morale e spirituale della società imponendo al mercato le regole virtuose della Cavalleria.

     Che cosa c’entra il nome "Amadigi" con il Don Chisciotte di Cervantes? Abbiamo detto che don Chisciotte è un appassionato lettore di romanzi cavallereschi dai quali il suo spirito di avventura attinge linfa vitale in gran quantità. E allora proviamo a leggere, o a rileggere ancora una volta – ma è possibile che non tutte le persone che sono qui abbiamo letto l’incipit del Don Chisciotte – l’inizio di uno dei più classici tra i romanzi che siano mai stati scritti e chissà che non s’incontri anche "Amadigi" . L’incipit del Don Chisciotte – a scopo immunitario – andrebbe letto almeno una volta all’anno!

LEGERE MULTUM….

Miguel de Cervantes, Don Chisciotte Libro primo, capitolo I (1605)

 In un paese della Mancia, di cui non voglio fare il nome, viveva or non è molto uno di quei cavalieri che tengono la lancia nella rastrelliera, un vecchio scudo, un ossuto ronzino e il levriero da caccia. Tre quarti della sua rendita se ne andavano in un piatto piú di vacca che di castrato, carne fredda per cena quasi ogni sera, uova e prosciutto il sabato, lenticchie il venerdì e qualche piccioncino di rinforzo alla domenica. A quello che restava davano fondo il tabarro di pettinato e i calzoni di velluto per i dì di festa, con soprascarpe dello stesso velluto, mentre negli altri giorni della settimana provvedeva al suo decoro con lana grezza della migliore. Aveva in casa una governante che passava i quarant’anni e una nipote che non arrivava ai venti, più un garzone per lavorare i campi e far la spesa, che gli sellava il ronzino e maneggiava il potatoio.

L’età del nostro cavaliere sfiorava i cinquant’anni; era di corporatura vigorosa, secco, col viso asciutto, amante d’alzarsi presto al mattino e appassionato alla caccia. Ritengono che il suo cognome fosse Quijada o Quesada, e in ciò discordano un poco gli autori che trattano questa vicenda; ma per congetture abbastanza verosimili si può supporre che si chiamasse Quijana. Ma questo, poco importa al nostro racconto: l’essenziale è che la sua narrazione non si scosti di un punto dalla verità.

Bisogna dunque sapere che il detto gentiluomo, nei momenti che stava senza far nulla (che erano i più dell’anno), si dedicava a leggere i libri di cavalleria con tanta passione, con tanto gusto, che arrivò quasi a trascurare l’esercizio della caccia, nonché l’amministrazione della sua proprietà; e arrivò a tanto quella sua folle mania che vendette diverse staia di terra da semina per comprare romanzi cavallereschi da leggere, e in tal modo se ne portò in casa quanti più riuscì a procurarsene (possiamo constatare che nell’incipit del Don Chisciotte Cervantes manifesta, amplificandolo, un suo desiderio – ma potremmo dire, in senso ellenistico, "furore" – di possedere e di leggere libri), e fra tutti, non ce n’erano altri che gli piacessero quanto quelli composti dal famoso Feliciano de Silva, poiché il nitore della sua prosa e quei suoi ingarbugliati ragionamenti gli parevano una delizia, specie quando arrivava a leggere quelle dichiarazioni amorose o quelle lettere di sfida, dove in certi punti trovava scritto: "La ragione dell’irragionevole torto che alla mia ragione vien fatto, mortifica in tal modo la mia ragione, che con ragione mi dolgo della vostra bellezza". O quando leggeva: "… gli alti cieli che nella vostra divinità divinamente con le stelle vi fortificano e vi fanno meritare il merito che merita la grandezza vostra".

Con questi ragionamenti il povero cavaliere perdeva il giudizio, e stava sveglio la notte per capirli e cavarne fuori un senso, dove non avrebbe saputo cavarnelo e capirci nulla nemmeno Aristotele in persona, se fosse risuscitato apposta. Non lo persuadevano molto le ferite che Belianigi dava e riceveva, considerando che per quanto lo avessero curato grandi chirurghi, non poteva fare a meno di avere il viso e tutto quanto il corpo intieramente coperto di cicatrici e di ricordi. Ma con tutto ciò, ne lodava l’autore, perché chiudeva il libro promettendo il seguito di quell’interminabile avventura, e molte volte gli venne il desiderio di prendere la penna e scriver lui la fine, prendendo alla lettera l’invito dell’autore; e certamente lo avrebbe fatto, e vi sarebbe riuscito, se altri pensieri più importanti e più assidui non gliel’avessero impedito. Più volte si trovò a discutere con il curato del paese (che era un uomo colto, laureato a Siguenza) su chi era stato il miglior cavaliere: se Palmerino d’Inghilterra o Amadigi di Gaula (ed ecco comparire il personaggio di Amadigi!); ma maestro Nicola, barbiere della medesima località, diceva che non c’era nessuno che arrivasse al Cavaliere di Febo, e che se qualcuno gli si poteva paragonare era Galaor, fratello di Amadigi di Gaula, perché aveva eccellenti virtù in ogni cosa; non era un cavaliere svenevole, né lagrimoso come il fratello, e in quanto a valore non gli restava indietro.

Insomma, tanto s’immerse nelle sue letture, che passava le nottate a leggere da un crepuscolo all’altro, e le giornate dalla prima all’ultima luce; e così, dal poco dormire e il molto leggere gli s’inaridì il cervello in maniera che perdette il giudizio. La fantasia gli si empì di tutto quello che leggeva nei libri, sia d’incantamenti che di contese, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste ed altre impossibili assurdità; e gli si ficcò in testa a tal punto che tutta quella macchina d’immaginarie invenzioni che leggeva, fossero verità, che per lui non c’era al mondo altra storia più certa. Egli diceva che, sì, il Cid Ruiz Díaz era stato un ottimo cavaliere, ma non aveva niente a che spartire con il Cavaliere dall’Ardente Spada, che con un solo rovescio aveva spaccato a mezzo due feroci e immani giganti. Aveva più simpatia per Bernardo del Carpio, perché in Roncisvalle aveva ucciso Orlando il fatato, valendosi dell’astuzia di Ercole che strozzò fra le braccia il figlio della Terra, Anteo. Diceva molto bene del gigante Morgante, perché, pur appartenendo a quella genia di giganti, che son tutti scostumati e superbi, lui invece era affabile e educato. Ma fra tutti, prediligeva Rinaldo di Montalbano, specie quando lo vedeva uscire dal suo castello e depredare tutti quelli che incontrava, o quando in terra d’oltremare rubò quell’idolo di Maometto, tutto d’oro massiccio, a quel che dice la sua storia. Per poter dare a quel traditore di Gano di Maganza una bella scarica di calci, avrebbe dato la governante che aveva, e magari per giunta la nipote.

Così, con il cervello ormai frastornato, finì col venirgli la più stravagante idea che abbia avuto mai pazzo al mondo, e cioè che per accrescere il proprio nome, e servire la patria, gli parve conveniente e necessario farsi cavaliere errante, e andarsene per il mondo con le sue armi e cavallo, a cercare avventure e a cimentarsi in tutto ciò che aveva letto che i cavalieri erranti si cimentavano, disfacendo ogni specie di torti e esponendosi a situazioni e pericoli da cui, superatili, potesse acquistare onore e fama eterna. Si vedeva già, il poveretto, incoronato, dal valore del suo braccio, almeno almeno dell’impero di Trebisonda, e così, con queste affascinanti prospettive, spinto dallo strano piacere che vi provava, si affrettò a porre in atto le sue aspirazioni. E la prima cosa che fece fu ripulire certe armi che erano state dei suoi bisavoli, che, prese dalla ruggine e coperte di muffa, stavano da lunghi secoli accantonate e dimenticate in un angolo. Le ripulì e le rassettò come meglio poté, ma s’accorse che avevano un grave inconveniente, e cioè che invece di una celata a incastro, non c’era che un semplice morione; ma vi trovò un rimedio la sua abilità, perché fece una specie di mezza celata di cartone, che incastrata nel morione, dava un aspetto di celata intera. Vero è che per vedere se era forte e se poteva correr l’azzardo d’un colpo di spada, egli prese la sua e le assestò due fendenti, e già col primo e in un solo istante rovinò tutto il lavoro d’una settimana. Naturalmente, la facilità con cui l’aveva fatta a pezzi non mancò di produrgli una cattiva impressione, e per prevenire questo pericolo tornò a rifarla, mettendoci stavolta dei sostegni di ferro dalla parte interna; così rimase soddisfatto della sua resistenza e, senza voler fare altra prova, la giudicò e la ritenne una finissima celata a incastro.

Andò poi a guardare il suo ronzino, e benché avesse più crepature agli zoccoli e più acciacchi del cavallo del Gonnella, che tantum pellis et ossa fuit, gli parve che non gli si potesse comparare neanche il Bucefalo di Alessandro o il Babieca del Cid. Passò quattro giorni ad almanaccare che nome dovesse dargli; perché (come egli diceva a se stesso) non era giusto che il cavallo d’un cavaliere così illustre, ed esso stesso così dotato di intrinseco valore, non avesse un nome famoso; perciò, ne cercava uno che lasciasse intendere ciò che era stato prima di appartenere a cavaliere errante, e quello che era adesso; ed era logico, del resto, che mutando di condizione il padrone, mutasse il nome anche lui, e ne acquistasse uno famoso e sonante, più consono al nuovo ordine e al nuovo esercizio che ormai professava; così, dopo infiniti nomi che formò, cancellò e tolse, aggiunse, disfece e tornò a rifare nella sua mente e nella sua immaginazione, finì col chiamarlo Ronzinante, nome, a parer suo, alto, sonoro e significativo di ciò che era stato ante, quando era ronzino, e quello che era ora, primo ed innante a ogni altro ronzino al mondo.

Avendo messo il nome, con tanta soddisfazione, al suo cavallo, volle ora trovarsene uno per sé, e in questo pensiero passò altri otto giorni, finché si risolse a chiamarsi don Chisciotte; dal che, come s’è detto, gli scrittori di questa autentica storia dedussero che doveva certamente chiamarsi Quijada, e non già Quesada, come piacque ad altri sostenere. Ma ricordandosi che il valoroso Amadigi non s’era accontentato di chiamarsi Amadigi e basta, e aveva aggiunto il nome del suo regno e della sua patria, per renderla famosa, così, da buon cavaliere, volle egli aggiungere al suo il nome della sua patria e chiamarsi don Chisciotte della Mancia, e così a parer suo egli veniva a dichiarare apertamente il suo lignaggio e la sua patria, e la onorava, assumendone il soprannome.

Ripulite dunque le armi, fatta del morione una celata, battezzato il ronzino e data a se stesso la cresima, si convinse che non gli mancava ormai nient’altro se non cercare una dama di cui innamorarsi: perché un cavaliere errante senza amore è come un albero senza né foglie né frutti o come un corpo senz’anima. Egli diceva fra sé: "Se io, per dannazione dei miei peccati, o per mia buona ventura, andando in giro m’imbatto in qualche gigante, come di solito accade ai cavalieri erranti, e lo atterro al primo incontro, o lo fendo in due, o infine lo vinco e lo costringo ad arrendersi, non sarà bene che abbia a chi ordinargli di presentarsi, e che entri e s’inginocchi dinanzi alla mia dolce signora, e dica con voce umile e sottomessa: – Io sono, signora, il gigante Caraculiambro, signore dell’isola Malindrania, che è stato vinto a singolar tenzone dal non mai abbastanza lodato cavaliere don Chisciotte della Mancia, il quale mi ha ordinato di presentarmi davanti alla grazia vostra, perché la vostra grandezza disponga di me a suo talento –?". Oh, come si rallegrò il nostro buon cavaliere quand’ebbe fatto questo discorso, e più ancora quand’ebbe trovato colei a cui dar nome di sua dama! Ed è che, a quanto si crede, in un paesetto vicino al suo c’era una giovane contadina di aspetto avvenente, di cui un tempo egli era stato innamorato, benché, a quanto è dato di credere, essa non ne seppe mai nulla e non se ne accorse nemmeno. Si chiamava Aldonza Lorenzo: ed è a costei che gli parve bene dare il titolo di signora dei suoi pensieri; e cercandole un nome che non disdicesse molto dal suo, e che s’incamminasse a esser quello di una principessa e gran dama, la chiamò Dulcinea del Toboso, perché era nativa del Toboso: nome che gli parve musicale, prezioso e significativo, come tutti gli altri che aveva imposto a se stesso e alle proprie cose.

     Nel primo capitolo del Don Chisciotte Cervantes cita anche Alessandro Magno per via del suo cavallo e poi presenta il personaggio di Amadigi con un’indicazione più precisa per quanto riguarda il nome: Amadigi di Gaula. E Amadigi di Gaula, nella citazione di Cervantes, risulta essere un personaggio da romanzo; quindi possiamo dedurre che, prima di diventare il protagonista di un poema – quello scritto da Bernardo Tasso nel 1559 – sia stato il personaggio principale di un romanzo cavalleresco: di uno di quei romanzi così amati da Don Chisciotte. Ma queste sono annotazioni che rimandano e che corroborano la ricerca proposta dal REPERTORIO E TRAMA.

     Il nome di Amadigi, poi, ricorda anche un romanzo contemporaneo sul quale, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, ora possiamo puntare, solo per un momento, l’attenzione per consigliare un esercizio. Il romanzo di Italo Calvino intitolato Marcovaldo è diviso in racconti che seguono il ritmo delle stagioni in città: nel primo racconto intitolato I funghi troviamo un personaggio al quale lo scrittore dà il nome di Amadigi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se cercate in biblioteca questo libro (qualcuna e qualcuno di voi lo possiederà senz’altro nella propria biblioteca domestica) potete leggere o rileggere questo primo racconto di Marcovaldo in modo da poter fare un esercizio: per poter riflettere sul motivo per cui, secondo voi, Italo Calvino ha chiamato Amadigi il personaggio in questione ma è chiaro che, per dar corso a questa riflessione, è necessario scoprire chi sia e che caratteristiche abbia la figura di Amadigi di Gaula… Cervantes, nel capitolo iniziale del Don Chisciotte, c’informa che Amadigi di Gaula è un valoroso cavaliere, ma “svenevole e lagrimoso”: può essere questo un indizio utile per collegare questi personaggi?... Mettetevi in ricerca con diletto e diligenza…

     Seguendo il manuale di Gaetano Volpi noi potremmo dar corso a molte digressioni di questo tipo perché – come abbiamo detto – le Avvertenze dell’abate padovano contengono molte interessanti osservazioni editoriali. Ne citiamo ancora una di queste curiosità editoriali perché ci riguarda da vicino: la troviamo alla voce SCRIVERE dove Volpi raccomanda di far attenzione quando si scrive stando accanto ad un libro aperto perché lo si potrebbe macchiare con l’inchiostro. Abbiamo detto, e quindi sappiamo, che esistono solo rari frammenti delle opere di Demetrio Falerèo – vedete che questo personaggio ellenistico, che abbiamo conosciuto strada facendo, viene citato in modo esemplare anche dal Volpi – e leggendo le Avvertenze dell’abate editore abbiamo la conferma di quanto fossero considerati preziosi i resti delle opere di questo intellettuale aristotelico, Demetrio Falerno, che, dopo aver governato Atene per un decennio, è emigrato ad Alessandria, alla corte di Tolomeo, contribuendo alla creazione della grande Biblioteca e del Museo.

     Leggiamo che cosa annota Gaetano Volpi alla voce SCRIVERE delle sue Avvertenze dando naturalmente per scontato che per la lettrice e per il lettore Demetrio Falerèo sia un personaggio noto: per noi è noto e quindi captiamo l’allusione.

LEGERE MULTUM….

Gaetano Volpi, Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni Libri

disposte per via d’Alfabeto (1756)

 SCRIVERE. O non si scriva, o lo si faccia con ogni circospezione, vicino a’ Libri ottimi e aperti, affinché sovr’essi non cada inchiostro: come successe ad un nostro bellissimo e rarissimo Codice del Demetrio Falerèo commentato da Pier Vettori, sopra il quale certo Letterato che l’ebbe da noi in prestito (Volpi non ne dice il nome: dice il peccato ma non cita il peccatore), versò un calamajo, studiandovi appresso e scrivendovi

     Nell’opera di Volpi si possono trovare tanti utili consigli che possono sembrare anche un po’ stravaganti ma questa stravaganza oggi appare come un vero e proprio stile: come un modo ironico di sorridere sulla mania di possedere libri, ed è proprio questo stile che ne rende gradevole la lettura. Che cosa annota Gaetano Volpi nelle sue Avvertenze che oggi può sembrarci stravagante? Per rispondere a questa domanda facciamo un breve itinerario tra le pagine del manuale senza seguirlo per "per via d’alfabeto" ma sulla via della curiosità.

     Volpi c’informa, per esempio, della furbizia dei tarli (chi non ha avuto a che fare con questi voraci e quasi invisibili animaletti?) i quali – scrive Volpi – fuggono l’assenzio, evitano l’erba velenosa e amarissima che si usava porre al principio e alla fine dei libri reputandola grande rimedio contro di essi. Ma sembra – scrive Volpi – che i tarli sappiano come evitarla, sembra possiedano una specie di intelligenza, traforando interi e grossi volumi, percorrendoli dall’interno e lasciando maliziosamente integre le pagine imbottite con le velenose foglie di assenzio sicché queste, cadendo, possano anche imbrattare le librerie. Volpi c’informa anche che i libri perforati dai tarli possono essere accomodati da persone esperte.

     Andiamo a leggere che cosa scrive Volpi alla voce TARLI e alla voce ASSENZIO:

LEGERE MULTUM….

Gaetano Volpi, Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni Libri

disposte per via d’Alfabeto (1756)

 TARLI. I tarli, cioè i loro perforamenti, quando sono interlineari, come si veggono per lo più; schifando essi a tutto loro potere l’amarezza dell’inchiostro tipografico; riescono accomodabili da’ più pazienti e diligenti amatori de’ Libri, come era il Signor Abate Verdani, che tanti ne ajustò: ma quelli che intaccano lo stampato, (de’ quali pur accade di osservare) sono del tutto irremediabili.

ASSENZIO. Erba amarissima, posta da alcuni in principio e in fine dei Libri, supponendola un gran preservativo da’ tarli; ma, a mio parere, quasi del tutto inutile a tale effetto: mentre se i tarli sono così avveduti e ingegnosi che traforano alle volte gl’interi grossi Volumi solamente negli spazj interlineari, schivando la tenue amarezza dello stampato, quanto più sapranno evitare alcune foglie di quell’amarissima erba in due soli luoghi riposte? Oltre di che, aprendosi i Libri, cadono per lo più le dette foglie, e, imbrattando prima le Librerie, si perdono.

     Il manuale di Gaetano Volpi – come abbiamo detto – fa uscire dall’oblio molti personaggi significativi e molte opere interessanti e quindi stimola la curiosità della lettrice e del lettore: questa è, come sappiamo, una caratteristica che hanno i "classici". I "classici", secondo la definizione ellenistica, sono quei libri che hanno la capacità di suscitare in noi il desiderio di conoscere e di capire, e questo desiderio fa nascere nella nostra mente – come abbiamo già detto – una trafila interlocutoria, una sequenza di interrogativi (un "classico" è un’opera che pone interrogativi). Per esempio alla voce TARLI Gaetano Volpi cita "il Signor Abate Verdani" uno dei "più pazienti e diligenti amatori de’ Libri che tanti ne ajustò".

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Chi è il Signor Abate Verdani, questo esperto restauratore di libri?... Chissà se sull’enciclopedia, in biblioteca e sulla rete si possono trovare delle notizie su di lui?...

     Poi Gaetano Volpi ci comunica che nelle librerie deve essere assolutamente interdetta la presenza ai cani, che per abitudine – scrive il Volpi – alzano la gamba allo scopo di depositare quel liquido «perniciosissimo» per la conservazione dei volumi: un liquido che, oltre tutto, – annota il Volpi – è maleodorante specie se originato dai gatti, che sono animali, peraltro, tollerabili data la loro attitudine a cacciare i sorci, roditori che di librerie e biblioteche sono amanti ma che certamente risultano invisi ai libri di cui sono ghiotti.

     Andiamo a leggere che cosa scrive Volpi alle voci CANI, ORINA, GATTI, SORCI e INSETTI ricordando però anche che spesso gli uomini non si comportano meglio di questi animali:

LEGERE MULTUM….

Gaetano Volpi, Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni Libri

disposte per via d’Alfabeto (1756)

 CANI. Convien bandirli affatto dalle Librerie, atteso il loro istinto d’alzar la gamba nell’orinare; principalmente dove le scanzìe sono quasi fino in terra; essendo a’ Libri perniciosissima la loro orina. Vedi ORINA.

Ecco perché i "classici" van tenuti in alto!

ORINA. Di cani, di gatti, e di sorci è pestilenziale pe’ Libri, e nondimeno spesso vengono da essa infestati. Chi poi avrebbe potuto pensare di dover nominare anche quella degli uomini? e pure conviene accennarla; mentre si son trovati alcuni così svergognati, che, tenendosi in capo di certa gran Sala, ornata d’una Pubblica Libreria, tratto tratto erudite Accademie, dall’altro canto l’hanno depositata sulle stesse scanzìe de’ Libri, o tempora! o mores! cosicché si è risoluto anche perciò di mutar luogo alle dette Accademie. Ma non è ciò gran maraviglia, mentre da’ poco timorati di Dio si orina anche sovra i Sagrati, e su le pareti, e su le porte de’ Templi alla Divina Maestà consagrati, con nausea fin degli stessi Turchi, un de’ quali in celebre piazza d’una gran Metropoli schiaffeggiò sonoramente un Cherico, avendolo veduto ciò praticare; con approvazione comune. Vedi il Libro intitolato, l’Ossequio dovuto a’ Sacri Templi del Giupponi.

GATTI. Questi infestano le Librerie col natural loro vezzo di aguzzarsi l’ugne principalmente sulle carte godendo di quel fragore che in ciò da esse si forma graffiandole spesso malamente: e colla loro pestilente orina: benché da un altro canto, le tengano riguardate da’ sorcj, d’essi ancor più dannosi. Il Petrarca perciò tenea carissima una sua Gatta, il cui scheletro celebrato con versi, ancor si vede in Arquà, Villa del Padovano, nella casa già da esso abitata.

SORCI. Vedi GATTI. LIBRERIE. Gran nemici de’ Libri. Temendone il Petrarca, accarezzava la sua famosa, e co’ versi celebrata Gatta, che imbalsamata ancor si vede nella casa da esso abitata in Arquà, villa ne’ colli Euganei. Assai curiosa burla fecero i sorci una notte al nostro Comino. Il giorno innanzi avea egli riposti in iscanzìa di sua bottega tre Corpi dell’Opere di Ovidio divise in tre tometti in 12 della recension Burmanniana, impresse in Ollanda, portatigli dal legatore di fresco ben legati in pergamena. Tutti nove i Volumi furono in una sola notte nelle coperte rovinati da’ topi; avendo voluto far pruova qual d’esse riusciva la più gustosa al palato. Converrà per tanto che i Bibliotecarj si forniscano di quegli antidoti che la natura, e l’arte hanno inventati contra di essi.

INSETTI. Tenendo i Libri aperti, restano esposti all’infestazione, e alle ingiurie di varj insetti, e principalmente delle sporche e insolenti mosche, che alle volte ricamano tutti i frontispicj di essi co’ loro escrementi; alcuni de’ quali facilmente si levano: altri riescono indelebili. I Naturalisti sapranno addurre di ciò la ragione.

     Anche la lettura di queste voci ha la capacità di suscitare in noi delle curiosità che meritano di essere soddisfatte con brevi ricerche. Volpi – alla voce ORINA – cita un curioso episodio (che rimanda ad una tematica che continua ad essere, sotto certi aspetti, di attualità) tratto dal testo di un autore che si chiama Giupponi e che s’intitola Ossequio dovuto a’ Sacri Templi: l’episodio racconta che un Turco, sulla celebre piazza di una grande Metropoli, prende sonoramente a schiaffi un Chierico che, senza alcun ritegno, ha orinato sul sagrato di una chiesa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Chi è questo scrittore che si chiama Giupponi?... E questa sua opera è reperibile in biblioteca?... E sull’enciclopedia o sulla rete compare qualche informazione su quest’opera e sul suo autore?... Fate una piccola ricerca in proposito…

     Poi il Volpi – alla voce GATTI e alla voce SORCI – cita la famosa Gatta (usa persino la lettera maiuscola) del Petrarca che noi possiamo vedere imbalsamata in una teca nella Casa di Arquà.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida del Veneto (che avete già consultato) fate una visita alla casa del petrarca ad Arquà: Petrarca, che è nato ad Arezzo, è sepolto in questo piccolo paese in provincia di Padova perché qui è morto il 19 luglio 1371… In biblioteca e probabilmente anche sulla rete è possibile trovare i versi che il poeta – come ci ricorda il Volpi – ha dedicato alla sua Gatta, custode fedeli dei suoi libri… Se trovate questi versi trascriveteli a vantaggio della Biblioteca itinerante…

     Poi il Volpi c’informa che ci sono altri pericoli per l’incolumità dei Libri che vanno evitati come per esempio il fumo, i fiori e la perniciosa abitudine di sottolineare.

     Leggiamo che cosa scrive alla voci FUMMO, FIORI e LINEE:

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Gaetano Volpi, Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni Libri

disposte per via d’Alfabeto (1756)

 FUMMO. Alcuni leggono e studiano in luogo dove si fa fuoco, e per conseguenza spesso succede fummo; il quale, col tempo, non solo annerisce le coperte, ma anche gli orli, e in parte i margini de’ libri; onde è cosa da fuggirsi.

FIORI. Alcuni nel leggere van riponendo foglie di varj fiori qua e là ne’ libri, i quali perciò restano macchiati senza rimedio.

LINEE. Certi leggitori poco considerati, e poco amanti de’ buoni libri vanno tirando nel leggere incondite linee sotto le righe, credendo di segnar così le cose notabili per ricordarsene, cosa inutilissima; mentre si perde la memoria anche di questi segni, massime quando son molti ed uguali. Con un tal mezzo, affatto barbaro, si sono da’ nostri antichi guastati gran quantità di preziosi codici.

     Volpi si lamenta e sottolinea che per lo meno "gli animali amano bazzicare le librerie per diletto e per delitto" ma purtroppo gli umani fanno di peggio perché – ribadisce il Volpi – troppo spesso le librerie «da alcuni così poco si apprezzano che le hanno come un inutile ingombro nelle loro case, o palagi» e quindi se ne liberano considerando i Libri oggetti di poco valore.

     E allora leggiamo che cosa scrive l’abate editore alla voce LIBRERIE per denunciare l’incuria, la sciatteria, il poco riguardo e l’ignoranza che hanno molti "che si credon Signori" nei confronti dei Libri, ed è così arrabbiato che la sua prosa si appesantisce e si fa ancor più difficoltosa da leggere:

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Gaetano Volpi, Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni Libri

disposte per via d’Alfabeto (1756)

LIBRERIE. Da alcuni così poco si apprezzano che le hanno come un inutile ingombro delle lor case o palagi. In certa Città d’Italia da alcuni Signori fu chiesto d’una, occupante un’intera stanza, il meschinissimo prezzo di soli trenta scudi Romani; accordato subito da un avveduto ed erudito Bibliotecario; avendo avuto scrupolo di dettrarne un quattrino, e la stanza, in vece fu subito fornita di sedie e d’altri utensili alla moda. Queste chi tien troppo esposte, e chi troppo chiuse. De’ primi era certo Signore in un luogo d’Italia, che com’io vidi con nausea ed isdegno, facea stendere il grano in mezzo della Libreria lasciatagli da’ suoi antenati; incitamento a’ topi dopo d’aver gustato quel solito lor cibo, di voler assaggiare anche i Libri; i quali erano orribilmente coperti di polvere e di tele di ragni. Ma non è guari accennando io ciò ad un amico erudito, fui accertato non essere stato costui solo a ciò praticare, ma esserci al presente alcuni che lo imitano, e superano altresì, stendendoci anche l’uve; e invitando così le vespe, e le mosche a sporcare i Libri. De’ secondi furono per varj secoli certi Ecclesiastici d’una Cattedrale, i quali possedendo una pregiatissima Libreria, fornita di antichissimi Codici Manoscritti, non sapeano di possederla; e finalmente, pochi anni sono, venne scoperta, con molto profitto della sacra erudizione e letteratura. Tale fu ancora certo Signore, che avendo in una terrena camera certa copiosissima Libreria, abbondante d’ottimi antichi Codici Greci e Latini, scritti e stampati, stata d’un suo studiosissimo antenato, tutta riposta in cassette una sovra l’altra coi coperchj che si aprivano d’alto abbasso, non sapea d’averla; e da un suo confidentissimo finalmente avvertitene, la vendé per poco prezzo a chi forse non finì nemmen di sborsarglielo. Alcuni con gran difficoltà ammettono in esse gli studiosi, e desiderosi di vederle. Altri non vogliono né cartelli improntati, né titoli scritti dietro ai loro Libri, ma solo lettere e numeri, riserbandosi di ritrovarli per via di Cataloghi accennanti i medesimi; e ciò per tema che vengano loro involati. Ma ciò riesce incomodo, poco decoroso, e dannoso; come farò vedere in altro paragrafo. Si usino le dovute cautele per guardarsi da’ ladri, e non si tolga l’antica utilissima usanza d’accennare i Libri agli studiosi che visitano le Librerie famose e di conto. Avvertendo che sebbene il fuoco ecciti alle volte molto dannosi incendj, non per questo si bandisce da alcuno, ma si tien sempre acceso nelle case per moltissimi e utilissimi usi; impiegando per altro ogni diligenza affinché in avvenire più non li ecciti. Vedi TITOLI.

     Volpi auspica che le persone possano imparare ad "essere diligenti" perché abbiano il massimo rispetto per i Libri e a questo proposito, proprio perché molti che si "credon Signori" si liberano dei Libri che hanno in casa – spesso preziosi – perché ingombrano, perché occupano spazio da utilizzarsi per fini meno nobili che la lettura, il Volpi consiglia agli "amatori de’ Libri" di visitare spesso le botteghe dei venditori di formaggi e di salumi perché costoro di Libri ne comprano molti, ne comprano in gran quantità per "involgere le loro merci" .

     E quindi leggiamo che cosa scrive il Volpi alla voce VENDITORI DI FORMAGGIO, e DI SALUMI.:

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Gaetano Volpi, Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni Libri

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VENDITORI DI FORMAGGIO, e DI SALUMI. Debbono visitarsi spesso dagli amatori de’ Libri, mentre del continuo ne comperano e di stampati, e di manoscritti, per involgere le loro merci. Poggio Fiorentino ebbe la gran fortuna di ritrovare appresso uno de’ secondi, in Francia le Istituzioni Oratorie di Quintiliano, benché molto malconcie, e le portò a Roma, dove furono la prima volta da Francesco Campano pubblicate nel 1470 in foglio.

     Il Volpi non si smentisce mai in quanto "bibliofilo" perché se da una parte, con grande ironia, ci racconta che brutta fine fanno i Libri, dall’altra – come abbiamo letto – non perde l’occasione per dare una preziosa informazione editoriale: per informare le lettrici e i lettori (del suo e del nostro tempo) sul come, quando e per merito di chi le Istituzioni Oratorie di Quintiliano sono diventate un libro in senso moderno per la prima volta.

     Poi il Volpi, per mettere in evidenza ancor di più la "sordida ignoranza" di molti ricchi Signori, alla voce POVERTÀ – citando anche San Filippo Neri – scrive: «Alcuni Santi dicono che la Libreria, dopo la Chiesa, è la cosa più pregevole in un Monistero perché le Librerie sono come i Palagj della Sapienza».

     Volpi annota e ci comunica anche che lui ha potuto capire che i Libri hanno un loro proprio odore – indipendentemente dagli animali che li frequentano –, un loro odore caratteristico come gli esseri viventi. È un odore che li caratterizza rendendoli più che mai oggetti dotati di una loro vera e propria vita. Si va – scrive Volpi – dall’odore «grave, e tetro» dei libri d’Inghilterra a quello un po’ diverso, ma simile, dei volumi di Germania, all’olezzo più gentile dei libri francesi e olandesi. I libri italiani – scrive Volpi – sono invece dotati di odore «poco sensibile» e quindi inclini più di altri a trarre effluvi buoni (o cattivi) dal sito dove vengono conservati.

     E ora leggiamo che cosa scrive Volpi alla voce ODORI:

LEGERE MULTUM….

Gaetano Volpi, Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni Libri

disposte per via d’Alfabeto (1756)

 ODORI. I Libri di varj paesi odorano, a chi ciò avverte, diversamente. Quei d’Inghilterra hanno un odor grave e tetro, e così, presso a poco ancor quei di Germania, benché diverso: migliore l’hanno quei di Francia, e d’Ollanda: poco sensibile quei d’Italia. Ciò provverrà forse principalmente dall’acque. Odori buoni o rei contraggono anche i Libri dal sito in cui da lungo tempo sen giacciono, come succede ne’ scrigni odorosi: o in luoghi terreni, nitrosi, rinserrati e di cattiva aria, o vicini ad immondezze. Noi conserviamo un bel testo Greco di Sofocle in ottavo dal Colineo impresso in Parigi nel 1528 di gratissimo odore. Vedi le Lettere di S. Caterina da Siena in 4 di Venezia del 1562 spiranti soave fragranza.

     Possiamo anche apprendere dal Volpi che l’antica carta del Cinque-Seicento era considerata quasi sempre migliore di quella «moderna», migliore di quella settecentesca, ma la carta, qualunque sia – aggiunge il Volpi – è comunque sempre preziosa e va maneggiata con le mani pulite.

     Leggiamo ancora la voce MANI che inizia con una citazione dal Vangelo secondo Matteo con la quale il Volpi – provocatoriamente come è nel suo stile – vuole affermare che si può anche mangiare senza lavarsi le mani ma non si può sfogliare un Libro con le mani non ben pulite:

LEGERE MULTUM….

Gaetano Volpi, Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni Libri

disposte per via d’Alfabeto (1756)

 MANI. Si non lotis manibus manducare, come dice il Signore (Matteo 15, 20) non coinquinat hominem (Mangiare senza lavarsi prima le mani, questo non fa diventare impuri); maneggiando però i Libri con lorde mani, vengono essi ad isporcarsi. E pure non mancano di coloro che non s’astengono di trattarne alcuni anche pregevolissimi con mani molto imbrattate, con gran pregiudicio, e deterioramento loro. S. Bonaventura volea che i suoi Frati voltassero le carte de’ Libri Corali, ch’erano allora scritti per lo più in membrana, e ornati di miniature con oro frammischiate, con istecche d’avorio, per preservarli dall’untume, e dal sudor delle mani. La Venerabile Orsola Benincasa Teatina solea lavarsi le verginali sue mani prima d’adoprare i Libri Sacri.

     E ora terminiamo questa nostra parziale incursione nelle Annotazioni di Gaetano Volpi – voi potete continuare per conto vostro la lettura dei lemmi, posti in ordine alfabetico, contenuti in quest’opera – leggendo un consiglio su come sistemare la nostra biblioteca domestica: questo consiglio – dettato dal celebre architetto Vitruvio Pollione autore del famoso trattato De Architettura – lo troviamo alla voce ORIENTE:

LEGERE MULTUM….

Gaetano Volpi, Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni Libri

disposte per via d’Alfabeto (1756)

 ORIENTE. Ad Oriente, per autorità di Vitruvio, debbon situarsi le Librerie, come a parte più temperata, evitando il calore del Mezzodì, e della Sera, e l’aria umida, e pessima di Tramontana.

     E ora per concludere questo itinerario riprendiamo un discorso che abbiamo lasciato in sospeso.

     Se l’opera di Gaetano Volpi s’intitola Varie Avvertenze Utili, e necessarie agli Amatori de’ buoni Libri, disposte per via d’Alfabeto, (questo lungo titolo oggi viene semplificato in Avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni libri), come mai la Casa editrice Sellerio, nel pubblicare quest’opera, ha deciso di utilizzare come titolo Il furore d’aver libri? Con questo titolo si è voluta fare un’operazione di carattere intellettuale collegando una serie di elementi che sono emersi anche nell’itinerario di questa sera.

     Dobbiamo sapere che nel 1757 – l’anno successivo alla pubblicazione delle Avvertenze di Gaetano Volpi – è uscito a Parigi il secondo volume dell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert (nell’anno 2002 abbiamo studiato la costruzione di quest’opera). Nel secondo volume dell’Enciclopedia, frutto dell’Illuminismo, viene inserita e troviamo anche la voce: «Bibliomania». E che cosa c’è scritto sull’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert alla voce «Bibliomania»? Alla voce «Bibliomania» si legge: «Furore di avere libri e di ammucchiarli, nato con l’Ellenismo».

     Noi, questa sera, dopo aver percorso questo itinerario, possiamo affermare che i compilatori dell’Enciclopedia, per essere più precisi, avrebbero dovuto citare anche Demetrio Falerèo che ha espresso per primo il concetto del "furore di possedere Libri" in una sua opera della quale si è salvato un frammento significativo. Forse gli Enciclopedisti non erano a conoscenza dell’esistenza di questo frammento dove Demetrio Falerèo dice: «Molti di noi furono presi dal furore di possedere libri», così come non erano a conoscenza della pubblicazione, a Padova, l’anno precedente, delle Annotazioni di Gaetano Volpi che sarebbe stato – per le sue grandi competenze editoriali (come abbiamo potuto constatare questa sera) – un ottimo componente del variegato gruppo degli Enciclopedisti parigini.

     Sull’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert alla voce «Bibliomania» si legge ancora che sarebbe utile, per contrastare questa fissazione, per combattere il furore d’aver libri: «farsi una biblioteca secondo l’uso di un signor Falconet, il quale se non vi sono che sei pagine meritevoli d’esser lette, separa quelle dal rimanente, e getta l’opera nel fuoco». Anche se detta con ironia noi pensiamo che Gaetano Volpi non avrebbe condiviso questa affermazione. Avrebbe piuttosto condiviso l’ammonimento di Paul Valery: «I libri hanno gli stessi nemici che ha l’essere umano: il fuoco, l’umidità, il tempo e il proprio contenuto». Ora si capisce perché la Casa editrice Sellerio ha voluto intitolare questo libro non con il titolo dell’opera che contiene ma esprimendo il significativo concetto che emerge dal testo dell’opera contenuta: un concetto ad ampio raggio che unisce – come abbiamo visto – l’Ellenismo all’Illuminismo e all’età contemporanea.

     Ma c’è ancora, però, una cosa che lega l’abate editore Gaetano Volpi alla parola "furore": che cosa? Non si può rispondere a questa domanda con una battuta: per rispondere è necessario imbastire una riflessione nel corso del prossimo itinerario, e la Scuola è qui per ricordarci che «i libri hanno gli stessi nemici che ha l’essere umano: il fuoco, l’umidità, il tempo e il proprio contenuto» e quindi il viaggio continua sul territorio della sapienza poetica ellenistica.

     Lo "studio" è un antidoto e l’Apprendimento permanente è un diritto per ogni persona: la Scuola è qui…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 13, 2009