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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È LA PASSIONE PER CREARE LA BIBLIOTECA PUBBLICA ...

Lezione N.: 
5

Prof. Giuseppe Nibbi    Lo sapienza poetica ellenistica 2009    4- 5- 6 novembre 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È LA PASSIONE

PER CREARE LA BIBLIOTECA PUBBLICA ...

     Il primo tratto del nostro Percorso è caratterizzato da un vasto paesaggio intellettuale nel quale spicca la figura, umana e divinizzata, di Alessandro Magno – il monarca assoluto per eccellenza di uno dei più grandi imperi che si sono formati sulla faccia della terra –: del personaggio di Alessandro Magno abbiamo disegnato i contorni soprattutto in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Abbiamo studiato e abbiamo capito che il primo tema di questo grande movimento culturale che si chiama l’Ellenismo – sappiamo già che è un tema dominante che ci accompagnerà strada facendo – ruota intorno ad una significativa parola-chiave, la parola "passione", e contiene un concetto significativo, quello che, nel bene e nel male (visto che la parola "passione" ha molti significati) riguarda la cosiddetta "scoperta delle passioni".

     Il periodo precedente all’Ellenismo – sappiamo che, convenzionalmente, l’inizio dell’età ellenistica coincide con la morte di Alessandro (323 a.C.) e di Aristotele (322 a.C.) – prende il nome di periodo ellenico (quindi, prima di tutto, impariamo a distinguere i termini), che è caratterizzato dalla presenza, sul territorio dell’Ellade, delle polis democratiche, e la cultura delle polis (le città-Stato di cui Atene rappresenta il modello) è, in primo luogo, permeata dalla "ragione" (dal logos). Durante il cosiddetto periodo ellenico (precedente al periodo ellenistico) la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele (lo scorso anno abbiamo viaggiato su questo sentiero attraversando il territorio dell’Ellade) tende ad imbrigliare la passionalità (il pathos) cercando di far prevalere la razionalità (il logos).

     Con la crisi delle Istituzioni democratiche e con la sconfitta delle polis elleniche a causa dell’introduzione di regimi populisti e demagogici (che parlano un linguaggio rivolto più agli istinti che alla ragione di chi ascolta), anche la passionalità (il pathos) prende il sopravvento sulla razionalità (il logos). Quindi, durante il periodo ellenico (con il pensiero di Socrate, di Platone e di Aristotele) la scoperta della razionalità porta a mettere in secondo piano le passioni che tuttavia non possono essere messe fuori gioco ma continuano a covare sotto le ceneri del sistema della polis che sta andando in frantumi.

     Se il sistema democratico della polis ellenica ha preferito (almeno in apparenza) mettere al centro della propria cultura la "ragione" a scapito della "passione", ebbene, il nuovo assetto politico, sociale, antropologico e culturale prodotto dall’Ellenismo porta alla scoperta e al prevalere delle passioni ma, come sempre succede nei corsi e ricorsi storici (e poi anche perché è difficile separare il pathos dal logos e il logos dal pathos, perché è difficile – come ci ha insegnato la sapienza poetica orfica – separare Apollo e Dioniso), sarà proprio lo scatenamento delle passioni in età ellenistica a far ripensare alla razionalità (al logos) in termini nuovi. Se vogliamo usare una similitudine possiamo dire che in età ellenica la Ragione scaccia dalla porta la Passione che, però, rientra dalla finestra, mentre in età ellenistica la Passione scaccia dalla porta la Ragione ma la Ragione, da prima alla chetichella, rientra dalla finestra.

     In età ellenistica, che cosa significa pensare alla razionalità in termini nuovi? La risposta a questa domanda si presenta in modo molto articolato e quindi ora facciamo solo un accenno tanto per cominciare a conoscere e a capire.

     Durante l’età ellenica il luogo dell’esercizio della ragione è l’agorà (è la piazza della polis): sulla piazza della polis (o agli angoli delle strade, come nel caso della Scuola itinerante di Socrate), con il metodo del dialogo (del dialogo serrato, e sono esemplari i Dialoghi di Platone), la razionalità viene messa al servizio della politica, della creazione dell’opinione pubblica che significa non pensiero unico ma pensiero razionalmente diversificato: l’opinione pubblica è la fucina nella quale si delineano idee diverse rispetto alla soluzione dei vari problemi pratici da affrontare, e le idee devono essere presentate in modo logico perché diventino tesi di governo, materia legislativa, da mettere al voto in assemblea (nella bulé). Durante l’età ellenica l’esercizio della ragione ha quindi una funzione pubblica nell’ambito dell’esplicitarsi del regime democratico mentre la passione (nel bene e nel male) viene coltivata nel privato.

     In età ellenista – come stiamo studiando – è l’esercizio delle passioni ad avere una funzione pubblica, una diffusione di massa che serve anche per disincentivare il formarsi di un’opinione pubblica a vantaggio delle monarchie assolute e della creazione di pensieri unici dominanti, e quindi la ragione viene coltivata nell’ambito dell’interiorità: per semplificare potremmo dire che la passione invade gli spazi pubblici e la ragione si apparta (in forma di dissenso) dentro il perimetro delle Scuole e, strada facendo, a questo proposito, vedremo dove ci porta (e ad incontrare chi) il nostro Percorso.

     Nell’itinerario della scorsa settimana – come ricorderete – abbiamo riflettuto sulla comparsa di nuove figure sociali emergenti e abbiamo dato forma ad un catalogo che comprende le figure del monarca assoluto, del burocrate, del soldato mercenario, del mercante spregiudicato, del pellegrino intellettuale, del bibliotecario. Alcuni connotati di queste figure tipiche dell’Ellenismo si fonderanno insieme facendone nascere di nuove – e lo vedremo strada facendo – come, per esempio, la figura del monaco anacoreta (eremita, solitario).

     Ci siamo accorti che il nuovo assetto sociale, rappresentato da queste nuove figure, interessa però piccole fette (una minoranza) della popolazione degli Stati ellenistici che si vanno formando. Ci siamo rese e resi conto che gli individui qualunque, la totalità dei sudditi (il popolo minuto asservito al lavoro manuale spesso schiavistico) non reagisce, non ha gli strumenti per reagire, di fronte allo sfaldamento delle sicurezze collettive (legate ad alcuni diritti fondamentali) – quelle sicurezze che poteva garantire (almeno in parte) la Costituzione democratica della polis ellenica – e quindi si verifica nell’insieme dei sudditi il fenomeno della rinuncia generalizzata e incondizionata alla libertà di pensiero (si estingue l’opinione pubblica) come se fosse un qualcosa di superfluo. La libertà di pensiero (legata all’esercizio della razionalità e della riflessione) – che sarà rivendicata nel corso dell’Ellenismo da una serie di Scuole che, come abbiamo detto, incontreremo strada facendo – è frutto dello "studio", e lo "studio" (il diritto all’apprendimento permanente, il dovere di esercitare le azioni cognitive) nei regni ellenistici comincia ad essere sistematicamente negato a tutti i membri delle classi subalterne e, in alternativa, il sistema propone alle masse dei sudditi una ricerca della salvezza che sta fuori del cerchio della ragione e dentro al perimetro (ben disegnato dagli apparati di potere) dei culti esoterici, magici, superstiziosi: un marchingegno attraente e alienante che garantisca il perpetuarsi dell’ignoranza e della soggezione. L’ignoranza e la soggezione sono, da sempre, i principali strumenti che assicurano il potere di ogni regime autoritario.

     Sulla scia di queste considerazioni noi rientriamo sul terreno della didattica della lettura e della scrittura per puntare ancora la nostra attenzione sul breve romanzo di Leone Tolstoj intitolato Padre Sergij di cui la scorsa settimana abbiamo già letto le pagine iniziali: perché dobbiamo puntare l’attenzione su questo racconto? Dobbiamo puntare l’attenzione su questo racconto perché i personaggi che Tolstoj mette in scena – a cominciare da quello principale, il principe Stepàn Kasàtskij – corrispondono, con le dovute differenze storiche, alla stratificazione sociale e al clima che si va predisponendo con l’Ellenismo.

     Sappiamo già che il principe Stepàn Kasàtskij entra in monastero e diventa padre Sérgij, scegliendo di servire il Dio buono e misericordioso dei Vangeli, quando viene a sapere (e abbiamo letto questa pagina) che la fanciulla, sua promessa sposa, è l’amante dello zar. Per Kasàtskij, che è un militare di professione, lo zar rappresenta un dio in terra ma, tutto ad un tratto, si rende conto che questa figura divinizzata – la figura del "piccolo padre" che per ogni suddito avrebbe dovuto incarnare la giustizia sulla terra – è moralmente riprovevole e non si fa scrupolo di utilizzare il suo potere perché sa di non dover rendere conto a nessuno e Kasàtskij non si è sentito tanto tradito dalla fidanzata quanto piuttosto dal sovrano divinizzato. Per giunta questa fanciulla – entrata nel novero delle cosiddette "favorite" – non può far altro che cedere ed è persino soddisfatta di aver raggiunto questo ambìto obiettivo, e si sente coperta e giustificata dalla propria madre ed aspira legittimamente ai privilegi concessi in questo caso e si meraviglia che anche il futuro marito non pensi di poter trarre vantaggio da questa situazione "favorevole": lei è addirittura orgogliosa di essere tra le amanti dello zar perché potrà facilitare la carriera del marito nell’esercito.

     Ma Kasàtskij è indignato perché, improvvisamente, prende coscienza del fatto che l’immunità del monarca assoluto corrisponde all’impunità: è diventato paradossalmente un uomo (un uomo qualunque) che non si deve giustificare con nessuno neppure con il Dio che è nei cieli perché lui (come i monarchi ellenistici divinizzati) si sovrappone a Dio stesso.

     Padre Sérgij entra in monastero e diventa un anacoreta (e questa figura dell’eremita solitario nasce proprio nel periodo dell’Ellenismo in dissenso con le aberrazioni dei monarchi assoluti divinizzati). Padre Sérgij vive in solitudine in modo rigorosamente essenziale senza minimamente cedere a qualsiasi forma di seduzione e non cede neppure ad una giovane e affascinante nobildonna che scommette di farlo cadere in tentazione e lo va a trovare fingendo di essere in crisi esistenziale ma è lei che viene, diciamo così, sedotta dalla terribile coerenza del monaco (andate a scoprire, leggendo, a che cosa corrisponde l’aggettivo "terribile") e questa signora, toccata spiritualmente, entra, quasi per miracolo, in convento.

     Le notizie sulla condotta esemplare di padre Sérgij fanno crescere intorno a lui una fama popolare che comincia ad additarlo come «un santo» agli occhi dei più e vengono anche le miracolose guarigioni a testimoniare questo fatto e una processione ininterrotta di persone comincia ad accorrere dal padre taumaturgo.

     Ma, nell’intimo di Stepàn, di padre Sérgij, scoppia un violento conflitto, esplode una crisi di coscienza perché lui lo sa che tutto quel che sta compiendo non lo offre al Dio buono e misericordioso presso il quale si è rifugiato per lo sdegno verso lo zar che ha la presunzione – con l’immunità e l’impunità – di fare il dio in terra: tutto quello che padre Sérgij sta compiendo come guaritore dei corpi (e lui, anche se si sforza di crederci, non si rende neppure conto come mai abbia dei poteri taumaturgici) tutto quello che sta compiendo la dedica al suo orgoglio smisurato, al suo autocompiacimento; egli prende coscienza del fatto di essere diventato anche lui una specie di dio in terra con un potere esagerato ma, non solo, è diventato anche una specie di burocrate (figura che, come sappiamo, si struttura in età ellenistica) di una Chiesa che vede in lui una fonte di guadagno e di consenso e che lo utilizza brutalmente come una risorsa materiale.

     Padre Sergij comincia a capire di essere diventato, in buona fede, lo strumento di un sistema alienante che – proprio a cominciare dall’età ellenistica – propone alle masse popolari la ricerca della salvezza al di fuori del cerchio della ragione ma dentro ad un perimetro (anche se lui si sforza di rimanere negli schemi della liturgia) contenente culti esoterici, riti magici, cerimonie superstiziose le quali allontanano dal messaggio evangelico e non servono ad altro che a far aumentare l’ignoranza, la dipendenza e lo sfruttamento. Lui vorrebbe che il suo amore per gli altri fosse la "caritas", fosse la virtù di cui parla Paolo di Tarso nelle sue Lettere, ma invece, oltre tutto, scopre che nel suo animo c’è sempre in agguato la superbia, la boria, l’immodestia, e un inconfessabile culto della propria superiorità morale e capisce che, in realtà, tutto questo costituisce un ostacolo nel suo tentativo di avvicinarsi al Dio buono e misericordioso dei Vangeli.

     E ora, a questo proposito, leggiamo alcune pagine nelle quali possiamo cogliere la significativa – e tuttora valida – riflessione di Tolstoj sulla necessità di dare un senso alla vita umana:

LEGERE MULTUM….

Leone Tolstoj, Padre Sérgij (postumo 1911)

 Padre Sérgij viveva già da varie settimane con un solo incessante pensiero: se avesse fatto bene ad accettare la situazione in cui non tanto s’era cacciato da sé, quanto l’avevano costretto il suo archimandrita (la massima autorità monastica) e il suo priore. La cosa era iniziata dopo la guarigione del quattordicenne; da allora, di mese in mese, di settimana in settimana, di giorno in giorno, Sérgij sentiva che la sua vita interiore si andava distruggendo e veniva sostituita da una esteriore. Come se l’avessero rivoltato e messo in mostra.

Sérgij s’accorgeva d’essere un mezzo per attrarre al monastero visitatori e donatori e che per questo le autorità del monastero gli avevano predisposto condizioni di vita tali da essere il più utile possibile. Per esempio, non gli davano più l’occasione di faticare. Lo provvedevano di tutto quanto potesse essergli necessario, ed esigevano da lui solo che non facesse mancare la sua benedizione ai visitatori che andavano da lui. Per sua comodità avevano organizzato i giorni in cui riceveva. Avevano organizzato una sala-udienze per gli uomini e un posto recinto da transenne di modo che le visitatrici che gli si precipitavano addosso non lo facessero cadere, un posto in cui potesse benedire le pellegrine. Se dicevano che la gente aveva bisogno di lui, che, mettendo in pratica la legge dell’amore di Cristo, non poteva rifiutare la richiesta della gente di vederlo, che sarebbe stato crudele tenersi a distanza dalla gente, non poteva non essere d’accordo, ma nella misura in cui si lasciava andare a quella vita, sentiva che la sua interiorità si trasformava in esteriorità, che in lui s’andava esaurendo la fonte dell’acqua di vita, che quel che faceva lo faceva sempre più per gli uomini e non per Dio.

Se faceva la predica alla gente, se semplicemente la benediva, se pregava per gli infermi, se dava loro consigli su come indirizzare la vita, se prestava ascolto alla riconoscenza delle persone che aveva aiutato o con la guarigione, come gli dicevano, o con la dottrina, lui non poteva non rallegrarsene, non poteva non preoccuparsi per le conseguenze di quanto faceva, di quanto questo influiva sulla gente. Pensava d’essere una lampada ardente, e quanto più lo sentiva, tanto più avvertiva affievolirsi, spegnersi la divina luce di verità che ardeva in lui. "Quant’è quello che faccio per Dio, e quant’è quello che faccio per gli uomini?" ecco la domanda che continuava a tormentarlo e a cui non tanto non poteva, quanto non si decideva mai a rispondere. Nel profondo dell’anima egli sentiva che il diavolo aveva sostituito tutto il suo agire per Dio con l’agire per gli uomini. Lo sentiva perché, quanto prima gli era penoso che lo strappassero alla solitudine, tanto gli era penosa la solitudine stessa. Era stufo dei visitatori, se ne era stancato, ma nel profondo dell’anima se ne compiaceva, si compiaceva degli elogi di cui veniva circondato.

C’era stato anche un momento in cui aveva deciso d’andarsene, di sparire. Aveva persino pensato ben bene come farlo. S’era preparato un camicione da contadino, dei calzoni, un caffettano e un berretto. Aveva spiegato che gli erano necessari per darli ai questuanti. E s’era tenuto quel vestiario escogitando come si sarebbe travestito, si sarebbe tagliato i capelli e sarebbe andato via. Dapprima avrebbe preso il treno, avrebbe fatto più di trecento chilometri, ne sarebbe poi disceso andandosene per le campagne. Aveva interrogato un vecchio soldato per sapere come faceva lui, se gli davano l’elemosina e gli davano accoglienza. Il soldato gli aveva raccontato dove e come gli davano di più e l’accoglievano meglio, ed era così che avrebbe voluto fare anche padre Sérgij. Una volta, di notte, s’era anche vestito e voleva mettersi in cammino, ma non sapeva se era bene rimanere o fuggire. In un primo momento era rimasto indeciso, poi l’indecisione era svanita, s’era abituato e rassegnato al diavolo, e gli abiti da contadino gli ricordavano solo i suoi pensieri e sentimenti.

Di giorno in giorno venivano da lui sempre più persone e gli rimaneva sempre meno tempo per fortificarsi spiritualmente e per pregare. Talvolta, nei momenti di luce, pensava d’essere divenuto simile ad un luogo dove un tempo c’era stata una fonte. "C'era un’esile fonte d’acqua viva (dal Libro di Geremia 2, 13.) che sgorgava piano piano da me, attraverso di me. Quella era la vera vita, quando lei (ricordava sempre con trasporto quella notte e lei, che adesso era madre Àgnija) l’aveva tentato. Lei aveva assaporato quell’acqua viva. Ma da allora l’acqua non riusciva più a raccogliersi quando gli assetati giungevano, s’accalcavano spingendosi l’un l’altro. Vi hanno cacciato dentro di tutto, è rimasto solo fango". Così pensava, nei rari momenti di luce; ma la sua condizione più consueta era di stanchezza, e di pietà e tenerezza nei confronti di se stesso per quella stanchezza.

 

Era primavera, la vigilia della festa di Mesopentecoste (festa che si celebra il 25° giorno dopo la Pasqua). Padre Sérgij celebrava il vespro nella sua chiesa nella grotta. C’era tanta gente quanta ce ne poteva stare, una ventina di persone. Erano soltanto signori e mercanti, - gente ricca. Padre Sérgij aveva dato il permesso a tutti, ma quella selezione l’avevano fatta il monaco che gli avevano messo accanto e quello di turno che veniva mandato ogni giorno al suo romitaggio dal monastero. La folla di gente, un’ottantina di persone in pellegrinaggio, in special modo contadine, s’accalcava all’esterno in attesa dell’uscita di padre Sérgij e della sua benedizione. Padre Sérgij celebrò e quando uscì salmodiando diretto alla tomba del suo predecessore, vacillò e sarebbe caduto se non l’avessero afferrato un mercante che gli stava dietro e il monaco dietro a lui che aveva fatto da diacono.

- Cosa vi capita? Reverendo padre! Padre Sérgij! Beneamato! Oh, Signore! - presero a dire le voci delle donne. - Siete sbiancato come un fazzoletto.

Ma padre Sérgij si riprese subito e, benché molto pallido, allontanò da sé il mercante e il diacono e continuò a cantare. Il diacono padre Serapiòn, e i chierici, e donna Sòfja Ivànovna, che passava la vita nei pressi del romitaggio ad accudire padre Sérgij, si misero a chiedergli di interrompere la funzione.

- Non è nulla, - proferì padre Sérgij sorridendo appena percettibilmente sotto i baffi, -non interrompete la funzione. "Sì, i santi fanno così", pensò.

- Un santo! Un angelo di Dio! - colse immediatamente dopo la voce di Sòfja Ivànovna dietro di sé, ed anche quella del mercante che l’aveva sorretto. Non diede retta alle esortazioni e continuò la funzione. Accalcandosi nuovamente, tutti tornarono indietro per le strettoie verso la piccola chiesa e lì, sebbene abbreviandolo un po’, padre Sérgij finì di celebrare il vespro.

Immediatamente dopo la funzione padre Sérgij benedisse i presenti e si diresse a una panchina sotto gli olmi vicino all’ingresso delle grotte. Voleva riposare, respirare aria fresca, sentiva che gli era necessario, ma era appena uscito che la folla gli si riversò addosso, implorando la benedizione e chiedendo consigli e aiuto. C’erano delle pellegrine sempre in cammino da un santo luogo a un altro, da uno starec (padre spirituale) all’altro, che si commuovevano sempre a ogni cosa sacra e a ogni starec. Padre Sérgij conosceva bene quel tipo consueto di persone, il meno pio, il più freddo e convenzionale; c’erano anche dei pellegrini, per lo più soldati in congedo, dei vecchi sradicati dalla vita sedentaria, in miseria e per lo più dediti al bere, che bighellonavano da un monastero all’altro solo per tirare a campare; c’erano poi contadini e contadine ignoranti con le loro egoistiche richieste di guarigione o di soluzione dei loro dubbi sulle faccende più pratiche: una figlia da accasare, una bottega da affittare, un terreno da acquistare oppure un peccato da farsi perdonare, un figlio soffocato nel sonno o un figlio naturale. Tutto ciò padre Sérgij lo sapeva da un pezzo, e non lo interessava. Sapeva che non avrebbe appreso nulla di nuovo da individui del genere, che individui del genere non avrebbero suscitato in lui nessun sentimento religioso, però gli piaceva vederli, come una folla cui erano necessari e cari lui, la sua benedizione, la sua parola, e pertanto quella folla lo stufava e insieme gli faceva piacere. Padre Serapiòn aveva preso a scacciarli dicendo che padre Sérgij era stanco, ma lui, ricordandosi in proposito le parole del Vangelo: "Non impedite loro (ai fanciulli) di venire a Me" e, Padre Sérgij commuovendosi da sé a quel ricordo, disse che li lasciassero accostare.

S’alzò, s’avvicinò alle transenne alle quali s’accalcavano, cominciò a benedirli e a rispondere alle loro domande con una voce il cui debole suono lo commuoveva. Ma, malgrado lo desiderasse, non poté accoglierli tutti: di nuovo gli si offuscarono gli occhi, barcollò e s’aggrappò alla ringhiera. Avvertì di nuovo un afflusso di sangue alla testa e in un primo momento impallidì, e poi d’un tratto avvampò.

- Sì, come vedete, continuerò domani. Adesso non sono in grado, - disse e, dopo averli benedetti tutti insieme, andò verso la panchina. Il mercante lo aveva di nuovo sorretto e l’aveva accompagnato sotto braccio facendolo poi sedere.

- Padre! - si sentì tra la folla. - Reverendo padre! Non abbandonarci. Siamo perduti senza di te!

Il mercante, dopo aver fatto sedere padre Sérgij sulla panchina sotto l’olmo, s’assunse il servizio d’ordine e prese a scacciare la gente in modo molto perentorio. E il mercante scacciò tutti. Il mercante ci s’era messo con zelo sia perché amava l’ordine e gli piaceva mandar via la gente, comandare a bacchetta, sia e principalmente perché padre Sérgij serviva a lui. Era vedovo, aveva un’unica figlia, malata, non maritata, e l’aveva portata per quasi mille e cinquecento chilometri da padre Sérgij, perché padre Sérgij la guarisse. Erano già due anni di malattia che curava questa figlia in diversi posti. Prima in clinica, nel capoluogo del governatorato dove c’era l’università, niente; poi l’aveva portata da un contadino nel governatorato di Samara, era stata un po’ meglio; poi l’aveva portata da un dottore di Mosca, aveva sborsato un sacco di soldi, non era servito a niente. Adesso gli avevano detto che padre Sérgij compiva guarigioni, e così ce l’aveva portata. Sicché quando il mercante ebbe mandato via tutta la gente, s’avvicinò a padre Sérgij e, messosi in ginocchio senza tanti preamboli, disse ad alta voce:

- Padre santo, voglia tu sanare la mia figliuola malata. Ardisco accorrere per aiuto ai tuoi santi piedi. - E mise una mano sull’altra a pugni chiusi. Fece e disse tutto questo come se facesse qualcosa di ben chiaramente definito dalla legge e dall’uso, come se si dovesse e bisognasse richiedere la guarigione per una figlia proprio in quel modo, e non in una qualche altra maniera. Lo fece con una tale sicurezza che anche a padre Sérgij parve che si dovesse dire e fare tutto ciò precisamente così. Ma tuttavia gli ordinò d’alzarsi e di raccontare di che si trattava. Il mercante raccontò che sua figlia, una ragazza di ventidue anni, s’era ammalata due anni prima dopo la morte improvvisa della madre, aveva preso su, così s’espresse, e da allora era stata male. E così lui l’aveva portata per mille e cinquecento chilometri, e lei stava aspettando nella foresteria che padre Sérgij ordinasse di portargliela. Di giorno non andava in giro, aveva paura della luce, e poteva uscire solo dopo il tramonto del sole.

- Ma che, è molto debole?

- No, nessuna particolare debolezza, anzi è ben piantata, solo che è nonrasténica ("nevrastenica", e nel termine russo c’è un'interferenza che suona come "non-matura"), come ha detto il dottore. Se adesso padre Sérgij ordinasse di portarla, volerei in un batter d’occhio. Padre santo, ridate vita al cuore d’un genitore, ristabilite la sua prole, salvate con le vostre preghiere la sua figliuola dolente.

E di slancio il mercante cadde un’altra volta in ginocchio e, piegato da una parte il capo sulle due mani serrate a pugno, rimase immobile. Padre Sérgij gli ordinò nuovamente d’alzarsi e, col pensiero di quanto fosse difficile la sua attività e di come, ciò malgrado, la assolvesse con ubbidienza, dopo un silenzio di qualche secondo disse: - Va bene, portatemela questa sera. Pregherò per lei, ma adesso sono stanco. - E chiuse gli occhi. - Vi manderò a chiamare io, a suo tempo.

Il mercante s’allontanò camminando sulla sabbia in punta di piedi, ragion per cui gli stivali scricchiolavano ancora di più, e padre Sérgij rimase solo.

Tutta la vita di padre Sérgij era nutrita di funzioni e di visitatori, ma quella volta era stata una giornata particolarmente faticosa. La mattina c’era stato un importante dignitario di passaggio che aveva conversato a lungo con lui; dopo di lui, una dama col figlio. Quel figlio era un giovane professore, miscredente, che la madre, fervida credente e devota a padre Sérgij, aveva portato lì e aveva supplicato padre Sérgij di parlare un po’ con lui. La conversazione era stata molto penosa. Palesemente il giovanotto non desiderava entrare in discussione col monaco, gli dava ragione in tutto come a una persona insignificante, ma padre Sérgij aveva capito che il giovane era miscredente e che, ciò malgrado, stava bene, era tranquillo e pacifico. Adesso padre Sérgij ricordava con disappunto quella conversazione.

- È ora di pranzo, reverendo padre, - disse il cellario.

- Ma sì, portatemi qualcosa.

Il cellario andò in una celletta costruita a una decina di passi dall’ingresso nella grotta, e padre Sérgij rimase solo.

Era ormai passato molto tempo da quando padre Sérgij viveva da solo e si faceva tutto da sé, e si nutriva solo di piane bianco (pane usato per l’eucarestia nel rito ortodosso) e di pane normale. Già da tempo gli avevano fatto capire che non aveva il diritto di trascurare la sua salute, e gli davano da mangiare vivande di magro, ma sostanziose. Ne approfittava poco, ma assai più di prima, e spesso mangiava con particolare piacere, e non come prima, con disgusto e con l’idea di commettere peccato. Così avvenne anche allora. Mangiò un po’ di semolino, bevve una tazza di tè e spolverò la metà d’un pane bianco.

Il cellario andò via, e lui rimase da solo sulla panchina sotto l’olmo.

Era una splendida serata di maggio, il fogliame era appena spuntato su betulle, tremoli, olmi, maraschi e querce. Gli arbusti di marasco dietro l’olmo erano in piena fioritura, non erano ancora appassiti. Degli usignoli, uno vicinissimo ed altri due o tre in basso, tra gli arbusti del fiume, trillavano e gorgheggiavano. Lontano, dal fiume, si poteva sentire il canto di braccianti che evidentemente stavano tornando dal lavoro; il sole era tramontato oltre il bosco e sprizzava raggi frastagliati attraverso gli alberi. Tutto quel lato era verde-chiaro, l’altro, con l’olmo, era scuro. I maggiolini volavano, sbattevano e cadevano.

Dopo aver cenato, padre Sérgij s’accinse alla preghiera mentale: "Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di noi", poi si mise a recitare un salmo e d’un tratto, nel bel mezzo del salmo, un passerotto, spuntato vattelapesca da dove, planò a terra da un arbusto e pigolando e saltellando gli s’avvicinò, si spaventò per qualcosa e se ne volò via. Lui stava recitando una preghiera in cui parlava del suo abbandono del mondo e aveva fretta di completarla al più presto per mandare a chiamare il mercante con la figlia malata, che lo interessava. Lo interessava perché era una distrazione, era un volto nuovo, e perché lei e suo padre lo ritenevano un giusto la cui preghiera veniva esaudita. Lui lo negava, ma nel profondo dell’anima si considerava tale.

Spesso si stupiva come gli fosse capitato, a lui, Stepàn Kasàtskij, di giungere ad essere un giusto tanto straordinario, anzi proprio un taumaturgo, ma non nutriva proprio nessun dubbio d’esserlo: non poteva non credere ai miracoli che aveva constatato lui stesso, a muovere dal ragazzo infermo fino all’ultima vecchietta che aveva riacquistato la vista per le sue preghiere. Per strano che fosse, era proprio così. Dunque la figlia del mercante lo interessava perché era un volto nuovo, perché riponeva fede in lui, e anche perché gli veniva proposto di confermare in lei la sua potenza di guarigione e la sua fama. "Vengono da mille miglia, ne scrivono sui giornali, il Sovrano ne è al corrente, lo sanno in Europa, nell’incredula Europa", pensava. E d’un tratto si vergognò della propria vanagloria, e riprese a pregare Iddio. "Signore, re dei cieli, consolatore, spirito di verità, vieni e dimora in noi e purificaci da ogni iniquità e salva, Tu santo, le anime nostre. Purificami dalla bruttura della vanagloria umana di cui sono preda", ripeté e si ricordò quante volte aveva pregato per questo e quanto vane fossero state sinora le sue preghiere in proposito: la sua preghiera faceva miracoli per gli altri, ma per se stesso non era in grado di ottenere da Dio la liberazione da quelle infime passioni.

     Non casualmente sulla parola "passioni" – la parola-chiave più significativa che abbiamo incontrato sul territorio della sapienza poetica ellenistica – interrompiamo (la riprenderemo dopo) la lettura di queste pagine. Interrompiamo la lettura di queste pagine tolstojane per avanzare sul sentiero che stiamo percorrendo. Se leggerete o rileggerete questo breve romanzo a questo punto verrete a sapere dallo scrittore che padre Sérgij ha già vissuto nove anni in monastero e altri tredici in eremitaggio da anacoreta.

     Sappiamo che la figura dell’anacoreta ha le sue radici nell’epoca dell’Ellenismo e noi ci domandiamo come possa soprattutto una persona resistere alla solitudine, e come faccia a vincere quello stato di insicurezza che la solitudine – più che la vita frugale in se stessa – procura. Sappiamo già che c’è un oggetto utile per contrastare l’insicurezza.

     Tutta una categoria di persone (una piccola minoranza) in epoca ellenistica si rende conto dell’importanza di possedere una cultura di riferimento e questa presa di coscienza determina il desiderio e la ricerca dei libri: i libri hanno sempre rappresentato e rappresentano un punto fermo e uno strumento per lenire una sete di sapere e di nuova identità.

     Padre Sérgij, da anacoreta, vive – secondo la tradizione inaugurata durante l’Ellenismo – in un grotta (potremmo dire in un dammuso), dove l’arredamento è scarno, una branda, un piccolo baule, un tavolo, due sedie, una piccola dispensa e una scansia per i libri: i libri di cui padre Sérgij si nutre – perché l’anacoreta pensa a nutrire prima di tutto lo spirito piuttosto che il corpo – sono quelli della Letteratura beritica, dell’Antico Testamento, della Letteratura dei Vangeli e della Patristica (i commenti dei Padri della Chiesa ai Libri dell’Antico e del Nuovo Testamento) e Tolstoj allude alle letture di padre Sérgij inserendo nelle parole della sua conversazione molte citazioni in particolar modo dai Libri dei Profeti e dal Libro dei Salmi.

     Il libro diventa lo strumento perché la persona – in questo caso l’anacoreta – possa intavolare una conversazione con se stessa e possa riflettere sulla propria identità. Queste caratteristiche che il libro possiede – sede della sapienza, nutritore dello spirito, interlocutore privilegiato, segnalatore di identità – si sono consolidate, nel periodo dell’Ellenismo, prima ancora che con la figura dell’anacoreta, con la figura dell’intellettuale laico, il quale passa tutto il suo tempo libero in una biblioteca come se fosse a casa sua. Così facendo, tramite questi nuovi intellettuali, la cultura procede dall’alto verso il basso, ma dobbiamo ribadire che questo è un fenomeno che riguarda una minoranza, un fenomeno che investe l’esigua minoranza degli alfabetizzati i quali leggono i testi classici dell’Età assiale; in realtà – come abbiamo già detto – in modo molto più evidente si fa strada un nuovo tipo di cultura (dovremmo dire di sotto-cultura) che sale, per così dire, dal basso: una cultura di carattere irrazionale (fatta di superstizioni, di astrologie, di culti misterici e spiritistici) che diventa un comodo rifugio per l’intelligenza impaurita (e questo, lo sappiamo, è un argomento di grande attualità).

     E allora, una delle strutture più importanti create in epoca ellenistica è la biblioteca, e la parola "biblioteca" – insieme alle parole: mondo, strada, passione, viandante, burocrate, mercenario, eremita, tentazione – entra a far parte del catalogo dei termini significativi della sapienza poetica ellenistica. Le più grandi città ellenistiche – Antiochia, Pergamo e, naturalmente, Alessandria – si caratterizzano per la loro biblioteca.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Vi ricordate quando siete entrate o entrati, per la prima volta, in una biblioteca?... Avete mai visitato una biblioteca considerata “famosa”?... Qual è l’ultimo libro con cui avete arricchito la vostra biblioteca domestica?...

Scrivete quattro righe in proposito…

     E ora sulla scia della parola "biblioteca" entriamo in quella di Alessandria. Sapete tutte e tutti che nella città di Alessandria, nel periodo ellenistico, nascono due grandi istituzioni: la famosa Biblioteca che raccoglie tutti i tesori letterari del passato (circa 700.000 volumi), e il Museo che è una specie di università (il "museo" – molte e molti di voi dovreste ricordarlo – nasce come una Scuola d’Arte, esclusivamente femminile, fondata dalla poetessa Saffo sull’isola di Lesbo). Il Museo di Alessandria è una spaziosa e confortevole costruzione dove, intorno al tempio delle Muse, i letterati, i filosofi, gli scienziati si dedicano, a spese dello Stato, allo studio, alla ricerca e all’insegnamento.

     Ad Alessandria queste due istituzioni, la Biblioteca e il Museo, favoriscono la fioritura degli studi di filologia e di grammatica, e i risultati di queste applicazioni rappresentano un capitolo molto importante non solo della sapienza poetica ellenistica ma di tutta la Storia del Pensiero Umano. Questi studi – la filologia, la grammatica – hanno anche il merito di favorire la messa a punto, contenutistica e formale, di quello straordinario oggetto che è il libro. Le caratteristiche che il libro possiede – sede della sapienza, nutritore dello spirito, interlocutore privilegiato, segnalatore di identità (le ripetiamo perché è bene impararle queste caratteristiche) – si sono consolidate (abbiamo detto), nel periodo dell’Ellenismo, prima ancora che con la figura dell’anacoreta, con la figura dell’intellettuale laico, il quale passa tutto il suo tempo libero in biblioteca fino a far aggregare intorno a sé dei lettori meno competenti per dar vita prima ad un gruppo di studio e poi ad una vera e propria Scuola filologica.

     Possiamo identificare qualcuno di questi maestri bibliofili? Possiamo incontrare – e li abbiamo già incontrati in altri Percorsi – i rappresentanti più significativi della Scuola di Alessandria, detti i "grammatici alessandrini".

     La Scuola di Alessandria è la prima importante scuola filologica della Storia della cultura che fiorisce in età ellenistica: dobbiamo ai "grammatici alessandrini" la formalizzazione e la conservazione delle più importanti opere dell’Età assiale della Storia: senza il loro lavoro, contenutistico e formale, molte opere (molti classici) che oggi possiamo leggere sarebbero andate perdute e noi saremmo più ignoranti ancora. Chi sono i famosi "grammatici alessandrini" che abbiamo visto al lavoro tanto in relazione a Le Storie di Erodoto (negli anni 2005-2006-2007) quanto in riferimento alla traduzione in greco dei Libri della Bibbia  (negli anni 2007-2008).

     Il primo intellettuale alessandrino su cui dobbiamo concentrare la nostra attenzione è un personaggio importante perché si tratta del primo bibliotecario della Biblioteca di Alessandria, come dire: l’archetipo, il prototipo di tutte le bibliotecarie e di tutti i bibliotecari. Questo personaggio si chiama Zenodoto di Efeso (325-260 circa a.C.) ed ha curato la prima edizione critica dei due poemi omerici, Iliade e Odissea, e li ha divisi in 24 libri ciascuno, come le lettere dell’alfabeto greco. Tra le studiose e gli studiosi, c’è chi sostiene che Zenodoto di Efeso abbia anche curato la forma (la divisione in libri) de Le Storie di Erodono.

     Il secondo personaggio che dobbiamo annoverare tra i grammatici alessandrini si chiama Eratostene di Cirene (275-195 circa a.C.). Anche Eratostene è stato bibliotecario della Biblioteca di Alessandria ed è stato il primo ad assumere, in contrapposizione con i filosofi, il titolo di "filologo" (questo è quindi un termine prettamente ellenistico) cioè di persona erudita in modo vario e molteplice che si adopera per raccogliere, catalogare, conservare e mettere a disposizione di chi studia i prodotti della cultura (ecco l’identikit del "bibliotecario"). Eratostene è considerato il fondatore della "cronografia" perché ha composto una Cronaca nella quale sono raccolte le date, in ordine cronologico, degli avvenimenti più importanti (sociali, politici, culturali) dalla caduta di Troia alla morte di Alessandro.

     Il terzo personaggio che dobbiamo ricordare tra i grammatici alessandrini si chiama Aristofane di Bisanzio (245-165 circa a.C.) e, anche lui, è stato bibliotecario della Biblioteca di Alessandria. Aristofane ha curato la pubblicazione dei testi di molti autori (Omero, Esiodo, i poeti lirici e tragici), inoltre si è occupato di "linguistica" dando un grande impulso a questa scienza, studiando le "analogie" tra le varie lingue e ponendosi una domanda fondamentale: in origine c’era una lingua comune che poi si è trasformata, per cause da stabilirsi, in molteplici lingue? Oppure dalle origini ci sono molte lingue diverse che tendono a convergere in una lingua comune (in una koiné) che s’impone per motivi economici, politici, sociali, culturali? Ancora oggi stiamo dibattendo su questo tema.

     Il quarto personaggio che dobbiamo ascrivere tra i grammatici alessandrini si chiama Aristarco di Samotracia (205-131 a.C.) il quale è stato discepolo di Aristofane di Bisanzio e suo successore come bibliotecario della Biblioteca di Alessandria. Aristarco di Samotracia è considerato il più grande filologo dell’antichità, e ha curato la più importante edizione critica dei poemi di Omero e il suo nome è diventato sinonimo (essere un Aristarco) di critico rigoroso e severo.

     Questi personaggi – Zenodoto di Efeso, Eratostene di Cirene, Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia – meriterebbero un’attenzione maggiore di quella che noi gli abbiamo dedicato questa sera.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Questa sera noi abbiamo voluto dedicarci alle azioni del conoscere e del capire, per quanto riguarda l’azione dell’applicarsi potete benissimo cavarvela da sole e da soli, quindi: continuate voi la ricerca utilizzando la biblioteca (appunto), l’enciclopedia e la rete perché ci sarà sicuramente qualche sito da cercare…

Chi vuole poi saperne di più sulla famosa biblioteca di Alessandria, la quale per un lungo periodo di tempo ha incarnato il sogno surreale che vi possa essere, o sia esistito da qualche parte, un luogo di raccolta di tutti i testi di tutto il mondo, può consultare o riconsultare (in biblioteca) un libro che s’intitola La biblioteca scomparsa dell’antichista Luciano Canfora (Sellerio, 1986)…

     Perché quando si parla della Biblioteca di Alessandria si parla di biblioteca "scomparsa"? Perché la biblioteca dei Tolomei fu devastata da un grande incendio (il fuoco è sempre stato il pericoloso consorte dei libri di ogni tempo). Sembra che questo incendio sia avvenuto durante la guerra (nel 47 a.C.) tra Giulio Cesare e l’ultimo dei Tolomei (il fratello minore di Cleopatra), ma oggi si possono fare anche delle altre ipotesi, e a chi interessa indagare dentro a questi avvenimenti un po’ misteriosi (e affascinanti) della Storia della cultura non resta che leggere. La lettura di La biblioteca scomparsa di Luciano Canfora va affrontata con cautela: si tratta di un saggio scritto sotto forma di romanzo e prevede la paziente consultazione delle note che spiegano i molti e interessanti riferimenti culturali.

     Dobbiamo dedicarci per un momento alla didattica della lettura per ribadire che, dal punto di vista formale, è necessario usare il metodo del "legere multum" che consiste (come sapete, ma è bene ricordarlo) nel prendere la (buona) abitudine di leggere quattro pagine al giorno – bastano circa dieci minuti per fare questo esercizio (quindi l’alibi di non avere tempo, non regge per la lettura, e neppure per la scrittura) –, da interpretare con costanza e con attenzione: significa che si può leggere molto (in quantità) e bene (in qualità) se si legge poco e costantemente (4 pagine al giorno, difatti, sono circa 1500 pagine all’anno: un pacchetto che ha una certa rilevanza) e anche questo proficuo paradosso – "se vuoi leggere molto: leggi, costantemente, poche pagine al giorno" – lo dobbiamo ai grammatici alessandrini. L’abitudine acquisita ad utilizzare il metodo del "legere multum" consente inoltre, poco per volta, di allungare ancora i tempi di lettura (ma non è così importante) e di aumentare ulteriormente la quantità di pagine lette (ma non è così rilevante): quattro pagine al giorno per dieci minuti al giorno costituisce già un’ottima cura per l’intelletto.

     Ma è chiaro che l’acquisizione dell’abitudine al "legere multum" consente anche di imparare (a fare le lettrici e i lettori s’impara) a moltiplicare i momenti di lettura durante la giornata, dando ai libri un appuntamento quotidiano: possiamo leggere quattro pagine di un libro che abbiamo collocato in cucina o nel tinello, subito dopo la colazione e all’ora del tè (al posto della merenda), e possiamo leggere altre quattro pagine di un libro in bagno (se non avete un antibagno), un luogo della casa nel quale dovremmo stare seduti (anche se non si tratta proprio di una poltroncina) almeno dieci minuti al giorno, poi possiamo leggere quattro pagine di un libro che teniamo sul comodino in camera da letto, dieci minuti prima di dormire (e di arrenderci al sonno…). Tre momenti di lettura al giorno per un totale di trenta minuti danno un frammento di dodici pagine, che costituisce un patrimonio di lettura di circa 4400 pagine in un anno.

     Il metodo del "legere multum" è efficace per qualità ("multum") e per quantità (per il "legere multa"): è bene che le cittadine e i cittadini (il 77% degli italiani dichiara di non leggere mai!) prendano questa abitudine cominciando da un frammento quotidiano. Purtroppo gli insegnamenti dei "grammatici alessandrini", provenienti dal cuore dell’Ellenismo, non hanno ancora fatto breccia in una società contemporanea che considera sintomo di normalità il non leggere e il non scrivere.

     Nell’età ellenistica, abbiamo detto, le qualità dei bibliofili, le prerogative dei filologi laici vengono assunte dagli anacoreti (dai monaci che vivono in solitudine) i quali portano nella loro grotta, nel loro eremo, un frammento di biblioteca perché il libro – e lo abbiamo imparato – è un antidoto contro l’insicurezza, il fatto è che bisogna leggerlo perché, in realtà, è l’esercizio della lettura ad essere un antidoto contro l’insicurezza.

     E ora torniamo al libro, di cui abbiamo letto qualche pagina, che ci sta servendo da battistrada per riflettere sui temi ellenistici che l’età moderna e contemporanea ha ereditato.

     Abbiamo letto che un giorno, tra i tanti pellegrini che quotidianamente vanno a trovare padre Sérgij per ottenere la guarigione, c’è anche un mercante (la categoria dei mercanti spregiudicati e privi di scrupoli l’abbiamo vista prendere forma nell’età ellenistica), che, dopo aver affrontato un lunghissimo viaggio, conduce la propria figlia, affetta da una non ben identificata malattia psichica, da padre Sérgij affinché la guarisca visto che tutte le altre cure a cui si è sottoposta non sono servite a nulla.

     L’incontro tra padre Sérgij e questa persona, e questa ragazza ventiduenne, è determinante. Questa creatura (ci siamo domandati la scorsa settimana in finale di itinerario), che porta padre Sérgij a prendere un’importante decisione e a cambiare vita, che cosa rappresenta: è il diavolo tentatore oppure è un angelo salvatore mandato da Dio?

     Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Leone Tolstoj, Padre Sérgij (postumo 1911)

 Padre Sérgij ricordò le proprie preghiere nei primi tempi dell’anacoresi, quando pregava che gli venissero concesse purezza, umiltà e carità e che Dio, così gli sembrava allora, ascoltasse le sue preghiere, lui era puro e s’era mozzato un dito, e sollevò il moncone tutto rugoso e lo baciò; gli sembrava d’esser stato umile allor-quando aveva costantemente provato ripugnanza di sé per la propria peccaminosità, e gli sembrava di aver avuto anche amore allorquando ricordava con quale umiltà avesse allora accolto il vecchio passato da lui, quel soldato ubriaco che chiedeva soldi; e lei. Ma adesso? E si domandava: amava qualcuno, lui, amava Sòfja Ivànovna, padre Serapiòn, aveva provato un sentimento d’amore nei confronti di tutti quegli individui che erano stati or ora da lui, nei confronti di quel giovane studioso con cui aveva conversato in modo così didattico, preoccupato solo di mostrargli la propria intelligenza e di non essere culturalmente retrogrado? A lui faceva piacere, il loro amore gli era necessario, ma lui non provava amore per loro. Ora non aveva carità, non aveva neanche umiltà, non aveva nemmeno purezza.

Gli aveva fatto piacere apprendere che la figlia del mercante avesse ventidue anni, e aveva voglia di sapere se fosse bella. E, chiedendo se fosse debole, di preciso voleva sapere se fosse o meno attraente come donna.

"Sono davvero caduto così in basso?" pensò. "Signore, aiutami, ristabiliscimi, Signore e Dio mio". E congiunse le mani e si mise a pregare. Gli usignoli gorgheggiavano. Un maggiolino gli volò addosso e gli si mise a strisciare sulla nuca. Lo scacciò. "Ma Lui, c’è? E se stessi bussando a una casa chiusa dall’esterno? La serratura sta sulla porta, e io potrei vederla. Quella serratura sono gli usignoli, i maggiolini, la natura. Non avrà ragione il giovane?" E si mise a pregare ad alta voce, e pregò a lungo, fin quando quei pensieri scomparvero e lui si sentì di nuovo tranquillo e sicuro. Suonò il campanello e disse al cellario subito accorso che adesso potevano venire da lui quel mercante con la figlia.

Il mercante condusse sua figlia sotto braccio, la fece entrare nella cella e uscì immediatamente.

La figlia era una ragazza bionda, straordinariamente bianca, pallida, pienotta, estremamente affabile, dal viso infantile spaventato e dalle forme femminili molto sviluppate. Padre Sérgij era rimasto sulla panchina all’ingresso. Quando la ragazza era passata e s’era fermata accanto a lui e lui l’aveva benedetta, era inorridito di se stesso per come le aveva esaminato il corpo. Lei era passata oltre, ma lui s’era sentito punto sul vivo. Dal viso s’era accorto che era sensuale e debole di mente. S’alzò ed entrò nella cella. Lei stava seduta su uno sgabello, aspettandolo.

Quando lui entrò, s’alzò in piedi.

- Voglio andare dal mio papà, - disse.

- Non aver paura, - disse lui. – Cos’è che ti fa male?

- Mi fa male tutto, - disse lei, e d’un tratto il suo volto s’illuminò d’un sorriso.

- Ti rimetterai, - disse lui. - Prega.

- Perché pregare, ho pregato, non serve a niente. - E continuava a sorridere. - Pregate voi piuttosto e imponetemi le mani. Vi ho visto in sogno, sapete.

- E come mi hai sognato?

- Ho sognato che mi mettevate la mano sul petto, ecco così. - Gli prese la mano e se la strinse al petto. - Ecco, qua.

Lui le aveva lasciato prendere la mano destra.

- Come ti chiami? - chiese tremando in tutto il corpo e sentendo d’esser sconfitto, d’aver perduto il controllo sul desiderio e sulla sua passione.

- Màr’ja. E allora?

Prese la mano e la coprì di baci, quindi lo circondò con le braccia ai fianchi e se lo strinse a sé.

- Che ti prende? - disse lui. – Màr’ja. Tu sei il diavolo.

- E allora, che fa?

E, abbracciandolo, si mise a sedere sul letto con lui.

 

     Padre Sérgij cede a questa inoffensiva creatura, si arrende alla pallida bellezza di questa ragazza (la quale è davvero ammalata? È lei da guarire oppure è la guaritrice? È il diavolo tentatore oppure è un angelo salvatore?) e si accorge che il "peccato (tra virgolette)" lo ha reso libero: lo ha affrancato dal culto della propria superiorità morale che lo faceva sentire un dio in terra (un usurpatore del Dio buono e misericordioso che sta nei cieli) e così può mettersi finalmente in cammino per la Russia, come un pellegrino qualsiasi privo di documenti, vivendo di espedienti, e proprio in questo modo comincia a sentirsi davvero un semplice servo di Dio alla ricerca della sua vera identità.

     Leggiamo ancora una pagina:

LEGERE MULTUM….

Leone Tolstoj, Padre Sérgij (postumo 1911)

All’alba lui uscì sullo spiazzo coperto dell’ingresso.

"Ma è proprio accaduto, tutto ciò? Verrà suo padre. Lei glielo racconterà. È proprio il diavolo. E allora, che farò io? Eccola qua, l’accetta con cui mi sono troncato il dito" (chi legge questo romanzo per intero scopre come quando e perché padre Sérgij si è tagliato un dito con un colpo d’accetta). Prese l’accetta ed andò alla cella. Il cellario gli venne incontro. - Volete che spacchi la legna? Favoritemi l’accetta. Gli diede l’accetta. Entrò nella cella. Lei era distesa e dormiva. La guardò terrorizzato. Attraversò la cella, raccolse l’abito da contadino, si vestì, prese le forbici, si tagliò i capelli e s’avviò lungo il sentiero ai piedi della montagna verso il fiume, dove non era più stato da quattro anni.

Lungo il fiume correva una strada; vi s’incamminò e andò avanti fino all’ora di pranzo. All’ora di pranzo s’inoltrò in un campo di segala e vi si distese. Verso sera giunse a un villaggio sul fiume. Non entrò nel villaggio, ma andò verso il fiume dove c’era un dirupo.

Era mattina presto, una mezz’ora prima del levar del sole. Era tutto nuvolo e buio, e da occidente tirava un freddo vento antelucano. "Sì, bisogna farla finita. Dio non esiste. Come farla finita? Gettarsi giù? Io so nuotare, difficile annegare. Impiccarsi? Sì, ho qui la fusciacca, va attaccata a un ramo". Gli sembrò una cosa tanto accessibile e prossima che ne provò terrore. Avrebbe voluto mettersi a pregare, come gli era solito nei momenti di disperazione. Ma non c’era nessuno da pregare. Dio non esisteva. Stava disteso appoggiandosi su un gomito. E d’un tratto sentì un tale bisogno di dormire che non poté più sorreggere la testa col braccio, allora distese il braccio, vi appoggiò su la testa e s’addormentò immediatamente. Ma quel sonno durò solo un istante; si svegliò altrettanto rapidamente e cominciò come a sognare o a ricordare.

Ed ecco, si vedeva quasi bambino, a casa di sua madre in campagna. Si avvicina loro un calesse e dal calesse scendono: lo zio Nikolàj Sergéevič, con un’enorme barba nera a ventaglio, e con lui Pàšen’ka, una bimba mingherlina dai grandi occhi miti e un viso pietoso, timido. E questa Pàšen’ka viene condotta da loro, nel loro gruppo di ragazzetti. Bisogna giocare con lei, ma è noioso. È una stupida. Finisce che la canzonano e la costringono a far vedere come fa a nuotare. Lei si stende a terra e fa la dimostrazione sull’asciutto. Tutti sghignazzano e la fan passare per scema. E lei se ne accorge e arrossisce a chiazze e fa pena, tanta pena che c’è da vergognarsi e da non potersi più dimenticare quel suo sorriso forzato, buono, sottomesso. E Sérgij si ricorda di quando l’aveva rivista in seguito. La vide molto tempo dopo, poco prima di diventare monaco. Era andata in moglie a un tale, un proprietario terriero che aveva dissipato tutta la sostanza di lei, e che la picchiava. Aveva avuto due figli: un maschio e una femmina. Il maschio era morto da piccolo.

Sérgij ricordava d’averla vista infelice. Poi l’aveva vista, vedova, al monastero. Era sempre la stessa, non si può dire stupida, ma insipida, insignificante e penosa. Era giunta con la figlia e col suo fidanzato. Ed erano già poveri. In seguito aveva sentito dire che viveva in un certo posto, nel capoluogo d’un distretto, e che era molto povera. "Perché sto pensando a lei?" - si domandava. Ma non riusciva a smettere di pensarci. "Dove sarà? Che le sarà capitato? Sarà sempre infelice com’era quando per terra faceva mostra di nuotare? E che me ne importa, di pensare a lei? Che mi succede? Bisogna farla finita".

E provò di nuovo paura e, per vincere quel pensiero, si rimise a pensare a Pàšen’ka.

Stette a lungo così disteso, pensando ora alla sua inevitabile fine, ora a Pàšen’ka. Pàšen’ka gli appariva come la salvezza. Alla fine s’addormentò. E in sogno vide un angelo che venne da lui e gli disse: "Va’ da Pàšen’ka e impara da lei che cosa devi fare, e in che consiste il tuo peccato, e in che risiede la tua salvezza".

Si svegliò e, una volta deciso che quella era stata una visione mandata da Dio, si rallegrò e decise di fare ciò che gli era stato detto nella visione. Sapeva in che città viveva lei, si trovava a trecento chilometri, e vi si diresse.

     Questo romanzo breve non termina qui, c’è ancora un capitolo e la Scuola non può far altro che consigliare di leggerlo tutto intero (sono sessanta pagine) questo racconto. Alla fine emerge – come abbiamo letto – la figura di Pàšen’ka che è un classico personaggio tolstojano: questa donna qualunque è un emblema dell’umiltà, e la personificazione della semplicità che conduce direttamente alla carità cristiana.

     Nell’ultimo capitolo di questo breve romanzo Tolstoj fa dire a padre Sérgij parole che non sarebbero state gradite dalla censura e difatti quest’opera viene pubblicata postuma nel 1911. Tolstoj proclama l’autonomia del Vangelo rispetto a tutte le strutture di potere – e attira su di sé la scomunica (che lo investe tuttora ingiustamente) – ma il suo pensiero è ortodosso ed è molto chiaro: Dio non esiste, non si configura nel potere del monarca assoluto né nel potere autoritario e temporale della Chiesa, perché questi poteri annullano l’esistenza di Dio, mentre lo Spirito di Dio permea persone anonime che non pretendono di farne le veci ma, senza neppure saperlo, ne fanno la volontà.

     Leggiamo, in proposito, questo frammento significativo:

LEGERE MULTUM….

Leone Tolstoj, Padre Sérgij (postumo 1911)

 "Pàšen’ka è proprio ciò che avrei dovuto essere io, e che non sono stato. Io ho vissuto per gli uomini con la scusa di Dio, lei vive per Dio credendo di vivere per gli uomini. Sì una sola buona azione, una scodella d’acqua offerta senza pensare alla ricompensa, vale di più di tutte le opere buone che ho fatto io per la gente. Ma c’era, vero, almeno un po’ d’impulso sincero a servire Iddio?" si chiedeva padre Sérgij, e la risposta era: "Sì, però è stato tutto profanato, pervaso dalla gloria umana. Sì non c’è Dio per chi ha vissuto come me, per la gloria umana. Mi metterò alla ricerca di Lui".

     Questo racconto – e andate a verificarlo personalmente – non termina con una vera e propria conclusione, ma con una specie di postfazione: c’è una chiusa finale di carattere interlocutorio che invita alla riflessione così come succede nei testi dei Libri sapienziali e poetici dell’Antico Testamento soprattutto nel Libro dei Salmi, e abbiamo potuto constatare come questi libri trovino posto sulle scansie nelle essenziali dimore degli anacoreti dopo aver preso posto nelle biblioteche sorte nelle grandi città ellenistiche (Alessandria, Pergamo, Antiochia). In età ellenica le biblioteche più fornite erano quelle delle due Scuole di eccellenza nate ad Atene: la biblioteca dell’Accademia di Platone e soprattutto la molto più fornita biblioteca scientifica del Liceo di Aristotele.

     Il fatto è che – come sappiamo – dopo la battaglia di Cheronea nella quale, nel 338 a.C., Filippo il Macedone risulta vittorioso sugli Ateniesi e sui Tebani, Atene è una città sottomessa che, naturalmente, per la sua fama, continua a rimanere tra le città più importanti dell’Ellenismo. Atene però ormai ha perso l’autonomia ed è assoggettata al dominio macedone e gli Ateniesi (orgogliosi come sono) si sforzano – facendo finta – di comportarsi come se fossero ancora indipendenti e pensano alla loro città, proprio per il peso che ha avuto nel passato (nei due secoli precedenti), come se fosse una specie di capitale ad honorem di un mondo culturale, quello dell’ecumene, che non è più polarizzato, ma si estende dalle colonne d’Ercole a ovest, fino al fiume Indo ad est. Durante l’Ellenismo ci sono tanti centri culturali i quali si sviluppano all’ombra del potere che li finanzia per poterli controllare e per poterli utilizzare, e ad Atene il potere politico è debole e i due grandi centri intellettuali – l’Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele – con le loro piccole ma qualificate biblioteche, languono piuttosto che crescere.

     Sappiamo che il centro culturale per eccellenza in età ellenistica è quello di Alessandria, nato per opera di Tolomeo il diadoco, il generale di Alessandro Magno (un personaggio che abbiamo già incontrato) che dà origine, dopo la morte del grande condottiero macedone, alla dinastia dei Tolomei in Egitto.

     Ad Atene, abbiamo detto, i due grandi centri intellettuali – l’Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele – languono e quindi molti membri di queste due gloriose istituzioni decidono di emigrare: molti platonici dell’Accademia di Atene si erano, già da tempo, stabiliti in Egitto. Ad Alessandria emigra poi un consistente gruppo di peripatetici, di esponenti del Liceo di Aristotele (soprattutto dopo la morte del maestro nel 322 a.C.): questi aristotelici – subito accolti ben volentieri da Tolomeo – danno un contributo fondamentale alla crescita intellettuale e allo sviluppo culturale della città di Alessandria, in particolare alla creazione della grande Biblioteca pubblica. Alessandria d’Egitto, sul ramo Canopico del Nilo, diventa una metropoli di cultura greca, la capitale dell’Ellenismo.

     La fortuna della città di Alessandria nasce da un felice incontro del diadoco Tolomeo, che mette a disposizione le strutture senza badare a spese, e un prestigioso nucleo formato da intellettuali platonici e aristotelici provenienti da Atene i quali nell’Attica si guardavano in cagnesco ma, nell’esilio alessandrino, sono costretti a collaborare più che a polemizzare tra loro.

     Tra coloro che da Atene si trasferiscono ad Alessandria c’è anche un personaggio, sul quale dobbiamo puntare l’attenzione, che si chiama Demetrio Falerèo (nato a Falero, una cittadina a sud di Atene). Demetrio Falerèo (350-285 circa a.C.) è uno scrittore prolifico, ha scritto testi di morale (a commento dell’Etica Nicomachea di Aristotele, un’opera che abbiamo studiato lo scorso anno) e testi di grammatica (su come si scrivono, si costruiscono e si conservano i libri) e poi ha scritto un’opera autobiografica per descrivere soprattutto la sua esperienza di governo: purtroppo però tutte queste opere sono andate perdute, ma ne sono rimasti una serie di significativi frammenti conservati in preziose pergamene. Demetrio Falerèo è stato anche un oratore molto ammirato, e come intellettuale peripatetico (come studioso aristotelico), si è dedicato alla politica e, dal 317 al 307 a.C. ha ricevuto l’incarico (piuttosto ingrato perché sono tempi difficili) di fare il governatore di Atene dal generale Cassandro.

     Per capire come stanno le cose dobbiamo mettere l’occhio – per un brevissimo sguardo – sullo scenario della complessa e tormentata storia della guerra di successione dopo la morte di Alessandro e il disfacimento del suo impero.

     In Macedonia e in Grecia, dopo la morte di Alessandro, prende il potere un generale che si chiama Cassandro (354 circa-297 a.C.) il quale era stato emarginato nel regno macedone e, quindi, covava forti rancori e uno spirito di vendetta. Chi di voi (su richiesta del REPERTORIO E TRAMA del terzo itinerario del nostro Percorso) ha fatto ricerca sui parenti stretti di Alessandro Magno - su sua madre Olimpiade, su sua moglie Rossane e su suo figlio Alessandro Junior (soprannominato Brèfos, il Bambino) - avrà certamente incontrato il personaggio di Cassandro perché è colui che ordina l’uccisione di queste tre persone, eliminando soprattutto il piccolo Brèfos Alexandros, l’erede diretto del condottiero macedone.

     Ebbene Cassandro nomina Demetrio Falerèo governatore di Atene, e Demetrio, con spirito di servizio, sul modello della Politica di Aristotele cerca di riordinare l’economia e la morale (emana un famoso Editto contro il lusso e contro gli sprechi), e realizza anche il primo censimento ad Atene in funzione di un più equo sistema fiscale a vantaggio dei meno abbienti. Ma nel 307 a.C. – mentre Cassandro è a combattere in Oriente – la Grecia viene conquistata da un suo avversario: un altro Demetrio, il Poliorcète (Assediatore di città), quello che si addobbava, come si è detto (ricordate?), con il "mantello cosmico". Demetrio Falerèo deve scappare, prima a Tebe e, poi, su invito di Tolomeo si trasferisce ad Alessandria e siccome è un autorevole membro del Liceo convince anche Stratone di Làmpsaco, che in questo momento (nel 307 a.C.) è lo scolarca del Liceo di Atene, ad emigrare in Egitto portando con sé gran parte dell’apparato scientifico, della biblioteca e del materiale di ricerca della Scuola di Aristotele. Quindi il nucleo delle due più importanti strutture pubbliche – la Biblioteca e il Museo – che nascono ad Alessandria in età ellenistica arriva da Atene sulla scia di Demetrio Falerèo e del Liceo di Aristotele.

     Secondo la mentalità enciclopedica del Liceo aristotelico nella Biblioteca pubblica di Alessandria vengono raccolte, con ingenti finanziamenti fatti da Tolomeo, tutte le opere allora conosciute.

     Secondo la mentalità scientifica del Liceo aristotelico le opere raccolte vengono trascritte in rotoli (volumi) di papiro e, per la prima volta, vengono corredate di un titolo e del nome dell’autore: si va così codificando la forma moderna del libro e il libro diventa un ben definito oggetto artigianale, sempre più maneggevole, molto costoso ma non inaccessibile a chi ha le risorse per entrarne in possesso; nasce quindi e si sviluppa il desiderio – che diventa una vera e propria passione (la parola-chiave "passione" continua ad accompagnarci) – di possedere libri in una propria Biblioteca domestica che diventa il cuore della casa dei ricchi illuminati.

     Secondo la mentalità esegetica del Liceo aristotelico le opere raccolte e ordinate vengono esaminate per constatare se siano state manomesse e, se ci sono le fonti e i riscontri, vengono ristabilite nel loro testo autentico.

     Tutto ciò – secondo la mentalità filologica del Liceo aristotelico – comporta la determinazione precisa delle regole di grafìa e di grammatica: nasce così – come abbiamo studiato prima incontrandone gli esponenti più importanti – la Scuola grammaticale e filologica alessandrina.

     Per far fronte a questa grande operazione bibliografica assistiamo al primo significativo intervento di politica protezionistica della storia perché il governo di Alessandria proibisce l’esportazione del papiro coltivato nel delta del Nilo per non fornire materia prima alle sorgenti Biblioteche di altre importanti città ellenistiche, in modo da accaparrarsi il monopolio sulla cultura, riconosciuta, ormai, come potente strumento di potere. Ed è così che nella città di Pergamo – la capitale del regno degli Attalidi che comprende la Misia, la Lidia, la Caria, la Frigia e la Panfilia e che ormai gareggia con Alessandria – quando viene fondata la Biblioteca (anche Pergamo ha la sua bella e ben fornita biblioteca) si para il colpo usando, in sostituzione del papiro (scomparso dal mercato), la pelle di pecora opportunamente lavorata e nascono così le pergamene: un altro tipico oggetto di carattere ellenistico.

     Con l’epoca ellenistica il libro – in papiro o in pergamena – entra così decisamente nel costume intellettuale, con la conseguenza che da allora l’esercizio preferito dell’intelligenza diventa l’esegesi vale a dire: il commento delle opere contenute in biblioteca. E si sviluppa anche una nuova consuetudine, un nuovo costume, un nuovo interesse, una nuova frenesia, una nuova passione tipicamente ellenistica, che è stata chiamata: il "furore di possedere libri": forse questa passione l’abbiamo provata un po’ tutte e tutti noi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

C’è un libro che – in passato oppure attualmente – avete desiderato particolarmente?...

Scrivete di quale libro si tratta e perché lo avete desiderato…

     In che cosa consiste l’idea ellenistica del "furore" di possedere libri? E perché per definire questo tema si usa il termine "furore"? Non è casuale il fatto che si usi questo termine perché in greco il termine "furore" corrisponde alla parola "entousiasmòs" la quale descrive la grande eccitazione che coinvolge le menadi (o le baccanti) nelle danze durante i rituali orfico-dionisiaci (un argomento che quasi tutte e tutti voi conoscete bene: anche lo scorso anno la cultura orfico-dionisiaca è stata materia di studio).

     Il tema del "furore di possedere libri" emerge per la prima volta proprio in uno dei frammenti che possediamo di Demetrio Falerno. Questo frammento dice: «Molti di noi furono presi dal furore di possedere libri». E, per definire la parola "furore", Demetrio usa il temine "entousiasmòs", usa volutamente un termine di carattere orfico-dionisiaco.

     E ora, per concludere, ci rimane solo il tempo per dire che c’è un libro che s’intitola proprio: Del furore d’aver libri. Il fatto è che questo titolo, Del furore d’aver libri, – il quale, dopo l’itinerario di questa sera, ci risulta famigliare – non corrisponde al titolo originale dell’opera che questo libro contiene: come mai? Non è difficile ipotizzare una risposta per noi che stiamo attraversando il territorio dell’Ellenismo: questa dicitura, il "furore di possedere libri", è diventata famosa nella Storia del Pensiero e introduce un tema significativo della sapienza poetica ellenistica. Ai più tutto questo sfugge, ma a noi non sfugge il fatto che questo titolo "sovrapposto" risulta molto evocativo. Chi ha scritto l’opera contenuta nel libro intitolato Del furore d’aver libri e perché?

     Come vedete quando si studia sui sentieri di un Percorso di alfabetizzazione funzionale le domande si moltiplicano e così il viaggio continua.

     Ci auguriamo che continui con "entousiasmòs" perché un pizzico di "furore orfico-dionisiaco" – e un pizzico di "furore" per frequentare la Scuola pubblica degli Adulti ci vuole! – fa bene alla mente.

     E la Scuola è qui, in modo che possa costituire lo spazio per i "nostri furori", per il nostro desiderio di apprendimento perché l’Apprendimento permanente è un diritto della persona…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Novembre 6, 2009