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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA C’È LA FORMAZIONE DI NUOVE FIGURE SOCIALI: IL MONARCA, IL BUROCRATE, IL SOLDATO MERCENARIO…

Lezione N.: 
4

Prof. Giuseppe Nibbi     Lo sapienza poetica ellenistica 2009    28-29-30 ottobre 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA

C’È LA FORMAZIONE DI NUOVE FIGURE SOCIALI: 

IL MONARCA, IL BUROCRATE, IL SOLDATO MERCENARIO…

     Il primo paesaggio intellettuale che si può osservare appena si entra nel territorio della sapienza poetica ellenistica contiene la significativa immagine di Alessandro Magno.

     La scorsa settimana abbiamo raccontato – a grandi linee – gli avvenimenti più importanti (accreditati storicamente) della vita e dell’impresa di questo celebre condottiero. Poi abbiamo nominato più volte il cosiddetto Romanzo di Alessandro. Il cosiddetto Romanzo di Alessandro è un grande apparato letterario composto di un gran numero di testi che sono stati prodotti dall’età antica passando per l’età di mezzo fino all’età moderna e contemporanea: per secoli la figura di Alessandro è stata sempre motivo di ispirazione per opere in prosa e soprattutto in versi. Se noi ci mettessimo anche solo a scorrere il catalogo delle opere che fanno parte di questo grande apparato letterario che è Il Romanzo di Alessandro non ci basterebbe il tempo di un intero itinerario. Quindi non è solo un libro che corrisponde al titolo Il Romanzo di Alessandro, ma oggi questo titolo indica un’intera biblioteca formata da decine di opere. Queste opere mettono insieme realtà e leggenda, e la leggenda – come sempre succede – ha finito per prendere il sopravvento: che cosa racconta la leggenda che è andata formandosi, dall’età ellenistica in avanti, attorno al personaggio di Alessandro?

     Nei secoli è andato formandosi un catalogo di argomenti che, divisi per capitoli, sono diventati tipici e che, oggi, costituiscono l’indice tradizionale di quel vasto apparato letterario che è stato definito Il Romanzo di Alessandro. Il catalogo degli argomenti che sono diventati tradizionali e che costituiscono l’indice generale (della biblioteca) del vasto apparato letterario che è stato definito Il Romanzo di Alessandro inizia con il capitolo dei prodigi che hanno preceduto e hanno accompagnato il momento del parto e la nascita del grande conquistatore: la leggenda racconta la presenza di stelle comete nei cieli, le eclissi di sole e di luna, le eruzioni vulcaniche, le scosse di terremoto, e molti altri fenomeni (gli animali parlanti) con i quali la Natura ha dato segni particolari di partecipazione all’evento del parto e della nascita del figlio del re macedone. Il capitolo dei prodigi nel Romanzo di Alessandro fa da modello ai racconti della nascita di personaggi speciali: fa da modello anche al Vangelo dell’infanzia di Gesù (il cosiddetto testo Proto-lucano, i primi due capitoli del Vangelo secondo Luca scritti da Clemente Romano), ma da qui parte un altro tortuoso sentiero che non possiamo ancora imboccare.

     Il capitolo seguente del Romanzo di Alessandro racconta di come il futuro condottiero, da adolescente, abbia usufruito dell’insegnamento del saggio Aristotele e questa, come sappiamo, è una realtà storica: l’elemento leggendario sta nel descrivere Alessandro come se fosse uno studente dalle capacità di apprendimento eccezionali tanto da superare ben presto il maestro. In verità tutte le testimonianze rivelano che il ragazzo è intelligente, è molto curioso ma non ha così tanta voglia di studiare e soprattutto è un po’ indisciplinato e vuole far pesare il fatto – e questo non è piaciuto per nulla ad Aristotele che lo boccia – di essere figlio del re e quindi esonerato dalla disciplina.

     Il capitolo (forse) più interessante del vasto apparato letterario chiamato Il Romanzo di Alessandro è quello che si è sviluppato in Europa soprattutto dall’anno mille con tutta una serie di poemi epici, chiamati Alessandreidi, che descrivono feste, tornei e ogni sorta di fantasticherie sentimentali perché trasformano le leggende alessandrine in veri e propri romanzi cortigiani che equiparano Alessandro ad un cavaliere medioevale e ne raccontano, in vari modi, l’investitura. Durante il rito dell’investitura a cavaliere Alessandro – racconta la leggenda – riceve in dono, con l’armatura, anche una spada (fatata) fabbricata dal dio Vulcano nella sua fucina nel cratere dell’Etna: questo è un riferimento omerico che richiama la figura di Achille al quale Alessandro amava paragonarsi davvero, infatuato dall’Iliade di Omero (tanto per far arrabbiare Aristotele che non considerava troppo educativa la letteratura eroica).

     L’elenco dei poemi epici – scritti in diverse parti d’Europa: Gran Bretagna, Spagna, Germania, Francia, Italia – che fanno riferimento al personaggio di Alessandro, è molto lungo e variegato: che cosa unisce questi poemi chiamati Alessandreidi? Le poetesse e i poeti che scrivono le Alessandreidi, mentre trasformano in chiave letteraria la figura di Alessandro in cavaliere medioevale, colgono soprattutto l’occasione per tradurre la mitologia pagana (orfico-dionisiaca) – con tutti i suoi elementi fantastici e meravigliosi – in termini cristiani e ha inizio una contaminazione culturale che poi darà i suoi frutti più maturi nella Letteratura e nell’arte del Rinascimento (ricordate l’affresco intitolato La Scuola di Atene, solo per fare un esempio?).

     Quindi le autrici e gli autori di questi poemi epici scrivono non tanto per esaltare propriamente il personaggio di Alessandro: il fatto è che su Alessandro sono state tramandate molte leggende e, quindi, questa figura diventa un pretesto per soddisfare "il piacere di novellare in versi" (come dirà il Pulci) e per questo motivo si appassionano alle cose mirabili che Il Romanzo di Alessandro tramanda. Quindi la prima cosa che unisce le autrici e gli autori delle Alessandreidi è "il piacere di novellare in versi" e quindi si lasciano attrarre dagli elementi fantasiosi e meravigliosi che sono presenti nei racconti leggendari su Alessandro e li adoperano e li elaborano liberamente in modo da presentare al pubblico delle corti i sogni, le magie, i prodigi, le visioni di tesori di grande splendore, il ricordo di cose rare e di straordinari fenomeni naturali, i paesi incantati, le popolazioni esotiche, le sirene incantatrici, le fanciulle a forma di fiore, le esplorazioni in fondo al mare, le ascensioni in cielo. Tutti questi elementi fantasiosi e meravigliosi servono alle poetesse e ai poeti epici per costruire un’immagine di Alessandro così come, poi, è rimasta nell’immaginario collettivo (anche nel nostro): quella di un eroe dedito ad avventure, peripezie e viaggi senza pausa, un semidio instancabile e un insuperabile guerriero, curioso d’ogni sapere, specialmente di quello occulto, dotato, al di là di ogni limite, della dote della galanteria, tipica dei trovatori.

     E, in definitiva, la figura di Alessandro finisce per assomigliare ai cavalieri d’avventura che dal XII secolo fino all’età dell’Ariosto e di Cervantes hanno deliziato molte lettrici o ascoltatrici e molti lettori o ascoltatori. Tanto il personaggio di Orlando Furioso quanto quello di Don Chisciotte de la Mancha sono assidui lettori e fanatici imitatori dei cavalieri d’avventura medioevali, tanto da perdere – o forse da guadagnare (perché no?) – il lume della ragione.

     Il secondo motivo che unisce gli autori delle Alessandreidi è l’intento religioso: si procede ad un’operazione di cristianizzazione di Alessandro Magno nella quale lo si rappresenta come un cavaliere senza macchia e senza paura, pio e giusto, che deve farsi perdonare il grave peccato di essersi voluto paragonare a Dio come raccontano le leggende narrate nella parte più antica di quel grande apparato letterario che è stato chiamato Il Romanzo di Alessandro.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

 

Se andate a leggervi o a rileggervi il primo capitolo del Don Chisciotte di Cervantes – cercatelo in biblioteca se a casa non lo possedete – potete trovare citato il nome di Alessandro Magno: per quale motivo Cervantes cita Alessandro nel descrivere il protagonista del suo romanzo?...

Andate alla ricerca: basta leggere due paginette e chi cerca trova…

     Adesso – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è obbligatorio citare uno di questi poemi: quello che viene ritenuto, dalle studiose e dagli studiosi, il più significativo e che s’intitola Alexandreis. Il poema Alexandreis (scritto in lingua latina) è stato composto da un poeta che si chiama Gautier (o Gualtiero) de Lille o de Châtillon, vissuto alla fine del XII secolo. Gautier (o Gualtiero) de Lille o de Châtillon (1135-1201) ha studiato teologia all’università di Bologna e ha scritto alcuni interessanti trattati teologici (siamo nel periodo della Scolastica latina), poi ha proseguito i suoi studi a Roma dove si è dilettato anche a scrivere (firmando con uno pseudonimo) una serie di Satire contro la curia pontificia. Quando torna in Francia, dopo aver arricchito il suo bagaglio culturale, viene nominato canonico di Amiens e comincia a dedicarsi con impegno alla poesia epica.

     Alexandreis è il più riuscito poema epico medioevale di intonazione virgiliana: il modello di quest’opera, scritta in latino, è l’Eneide di Virgilio. Quest’opera, Alexandreis, è formata da 5464 esametri ed è stata composta in cinque anni, dal 1178 al 1182, ed è divisa in dieci libri. Il poema Alexandreis è preceduto da una breve prefazione in prosa e inizia, in modo classico, con l’invocazione alla Musa e la dedica a Guglielmo, arcivescovo di Reims perché il poeta Gautier (o Gualtiero) de Lille o de Châtillon è diventato poi il segretario dell’arcivescovo Guglielmo di Reims.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

 

Avete notato come, in un colpo solo, abbiamo tirato in ballo una serie di città – Reims, Lille, Châtillon sur Seine, Amiens – che meritano di essere visitate, o rivisitate, utilizzando l’enciclopedia, la guida della Francia o la rete: fate una breve escursione virtuale tra la Fiandra (l’Artois), la Picardia, la Champagne e la Borgogna, è un’esplorazione molto interessante, buon viaggio…

     Il poema Alexandreis – mescolando e traducendo (come abbiamo già detto) molti significativi elementi del mito greco in termini cristiani – si conclude, sempre in modo classico, con una preghiera alle Pieridi (alle Muse, che abitavano in Pièria, una regione della Macedonia) e termina con un nuovo devoto omaggio all’arcivescovo di Reims.

     Gautier (o Gualtiero) de Lille o de Châtillon scrive in latino classico con grande perizia e la sua opera si rifà, per quanto riguarda la forma, al modo di scrivere di Virgilio e, per quanto riguarda il contenuto, utilizza soprattutto l’opera di uno storico latino del I secolo d.C. che si chiama Curzio Rufo.

     Nell’età del secondo Ellenismo Curzio Rufo ha raccolto molto materiale di quel grande apparato letterario che viene chiamato Il Romanzo di Alessandro, lo ha studiato, ha fatto una serie di scelte significative e ha scritto una Storia di Alessandro nella quale dà particolare risalto – perché lo appassionano di più – ai racconti leggendari per cui il personaggio di Alessandro appare come un guerriero che compie azioni prodigiose sostenuto dalla Fortuna (con la F maiuscola). Nell’opera di Curzio Rufo emerge un interrogativo – e lui dà una sua risposta – che poi continuerà ad accompagnare la figura di Alessandro. Ebbene, questo interrogativo era già stato posto da Plutarco di Cheronea (in età ellenistica gli "intrecci filologici" sono numerosi), uno scrittore – un grande informatore culturale – che incontriamo spesso sui nostri Percorsi.

     Plutarco di Cheronea – vissuto tra il 46 e il 127 d.C., celebre autore delle Vite parallele – ha un ruolo importante nel movimento della sapienza poetica ellenistica e la sua fama va ben oltre il periodo in cui è vissuto perché la sua opera è vastissima e i suoi scritti trattano un’infinità di temi: nei suoi scritti – che abbiamo incontrato spesso – Plutarco s’interessa e si occupa di molteplici e svariati argomenti che sono stati raccolti in un’opera intitolata Opuscoli morali; uno di questi Opuscoli s’intitola proprio Intorno alla fortuna e alla virtù di Alessandro. In questo Opuscolo Plutarco di Cheronea descrive ed analizza una controversia che si è sviluppata intorno alla figura del grande conquistatore Macedone e a proposito della sua straordinaria avventura, una polemica che si è tramandata nei secoli: quella di Alessandro fu "fortuna" o fu "virtù"? Plutarco di Cheronea, nel suo Opuscolo, pone il problema, analizzando le due posizioni, riflettendo su entrambe le ipotesi (quella della "fortuna" considerata in senso negativo e quella della "virtù" in senso positivo), senza però aderire a nessuna delle due e questo (fare scrupolosamente l’inventario di tutte le ipotesi che emergono intorno ad una questione) è un classico atteggiamento dell’ellenismo greco.

     Invece Curzio Rufo – che è un rappresentante dell’ellenismo latino – preferisce scegliere e parlare di "Fortuna" scrivendo però questa parola con la F maiuscola come se questo termine facesse riferimento non a qualcosa di negativo ma a qualcosa di "provvidenziale": quella di Alessandro – scrive Curzio Rufo – non fu "virtù" sua propria ma fu "Fortuna" (con la F maiuscola) perché qualche "potenza superiore" ci ha messo lo zampino.

     Quindi Gautier (o Gualtiero) de Lille o de Châtillon scrive il poema Alexandreis in latino classico al modo di Virgilio e, per quanto riguarda il contenuto, utilizza soprattutto il filo delle leggende raccolte nella Storia di Alessandro di Curzio Rufo.

     Per quanto riguarda la polemica se l’avventura di Alessandro sia dovuta alla "fortuna" o alla "virtù" Gautier (o Gualtiero) de Lille o de Châtillon, da buon "scolastico", ritiene che tanto la "fortuna" quanto la "virtù" abbiano contribuito a far crescere in Alessandro la "sete di sapere", il "desiderio di conoscenza" e ritiene, quindi, che sia la "sapienza" il motore che spinge Alessandro ad agire e ad affermarsi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

 

Spesso vi è capitato di dire: “Quella volta ho avuto fortuna!”… Quando è successo?... E perché potete dire di aver avuto fortuna quella volta?

Scrivete quattro righe in proposito…

     La trama del poema Alexandreis di Gautier (o Gualtiero) de Lille o de Châtillon – sulla scia della Storia di Alessandro di Curzio Rufo – si rifà soprattutto all’argomento che riguarda i viaggi e le imprese militari in Oriente del grande condottiero Macedone, e quello dei viaggi e delle imprese militari in Oriente è il capitolo più vasto di quel grande apparato letterario che viene chiamato Il Romanzo di Alessandro. Nel poema Alexandreis – così come nella Storia di Alessandro di Curzio Rufo – prevale l’elemento leggendario, domina il racconto meraviglioso e ciò avviene in funzione di un’idea tipica del movimento culturale della Scolastica che lo scrittore vuole perseguire, ma ora citiamo soltanto alcuni elementi della trama.

     Nel poema Alexandreis si racconta che Alessandro, prima di intraprendere la sua avventura verso Oriente, visita innanzitutto le rovine di Troia (e in un poema epico la citazione omerica non può mancare) e rende anche omaggio alla tomba di Achille (il personaggio di Alessandro è stato sempre paragonato alla figura di Achille con tutto ciò che di bene e di male questo comporta) e, subito dopo, muove contro l’esercito persiano di Dario, sconfiggendolo ripetutamente ed entrando da trionfatore nella meravigliosa città di Babilonia. Ma non appena apprende che Dario sta per cadere vittima di un tradimento, Alessandro cerca di soccorrerlo (è un cavaliere magnanimo), ma è troppo tardi: Dario viene assassinato dai subdoli satrapi persiani. Alessandro si commuove dinanzi al cadavere del re ucciso e fa innalzare alla sua memoria un ricco e grande monumento, poi insegue e sconfigge i traditori e (come un galante cavaliere) sposa anche Razena, la figlia di Dario. Dopo Alessandro prosegue ancora la sua avanzata vero Oriente e si scontra con Poro, un principe indiano che si presenta possente con i suoi elefanti e che lotta valorosamente per difendere il suo territorio fino a rimanere ferito in combattimento ma Alessandro, magnanimo, lo accoglie nella sua tenda, lo cura e con lui coltiva una (cavalleresca) amicizia.

     Poi il poeta Gautier (o Gualtiero) de Lille o de Châtillon – sempre sulla scia della Storia di Alessandro di Curzio Rufo – utilizza racconti che sono ancora più spiccatamente leggendari e narra che, avanzando e conquistando l’Oriente, Alessandro giunge al mare e, volendo visitare il regno delle acque, si fa calare in profondità chiuso dentro una specie di campana di vetro, ma contro questa impresa così ardimentosa, che affronta il mistero per conoscerlo e per violarlo, la Natura si adira e suscita contro Alessandro le ire dell’Inferno e la sua esplorazione marina deve interrompersi. Ma Alessandro non si sazia nella sua sete infinita di sapere e, dopo aver saggiato il mistero delle acque oceaniche e aver conosciuto molti altri prodigi e meraviglie, egli desidera salire nell’alto dei cieli "per contemplare tutta la terra secondo la sua disposizione e ordine". E così Alessandro si solleva nell’aria dentro un sacco di cuoio, fuori del quale tiene soltanto la testa, trasportato da due grifoni, dinanzi ai quali con una pertica fa ondeggiare sempre più in alto un pezzo di carne. Ma sulla terra lo attende il tradimento perché, mentre egli esplora il cielo e contempla il movimento delle stelle e misura con lo sguardo l’immensità della terra e del mare, nella sua reggia i traditori sobillati da Antipatro congiurano contro di lui, riuscendo più tardi a propinargli un veleno mortale.

     Il poema Alexandreis si presenta, in definitiva, come la storia di un’anima che, attraverso un’esistenza avventurosa di carattere cavalleresco, vuole acquisire la "sapienza", che è il primo bene a cui la persona deve aspirare. Nel poema di Gautier (o Gualtiero) de Lille o de Châtillon – così come nella Storia di Alessandro di Curzio Rufo – prevale l’elemento leggendario, domina il racconto meraviglioso ma la narrazione allegorica, non è fine a se stessa, costituisce un pretesto in funzione di un’idea tipica del movimento culturale della Scolastica che si sviluppa sull’impronta del pensiero di Socrate, di Platone, di Aristotele e delle correnti dell’Ellenismo: lo scrittore persegue l’intento di esaltare la "sapienza" come prima virtù (divina e umana) alla quale la persona (in questo caso la figura del "cavaliere") deve tendere.

     Leggiamo ora un frammento dall’incipit di questo poema che – a questo proposito – risulta indicativo:

LEGERE MULTUM….

Gautier de Lille o de Châtillon, Alexandreis (1178-1182)

 

Cantami, o Musa, la meravigliosa impresa di Alessandro,

il gran sovrano esploratore ardimentoso della terra e del cielo,

il quale quando fu al vertice delle sue fortune tornò verso la Grecia

con un viaggio lungo e periglioso per dare alla sua patria lustro e fama.

Qui giunto poté finalmente sostare e volgere lo sguardo alla Sapienza

riflettendo con l’aiuto di Aristotele, il maestro più saggio e più sapiente,

e poté così donarsi con sommo desiderio alla ricerca finché

contemplò l’Intelletto Universale posto nel cielo delle stelle più lontane

che, con la sua mente edotta per il puntiglioso studio, giunse a perforare

e poté dischiudere, nascostamente agendo, anche la porta dei celesti arcani.

Per avere una sicura guida Alessandro si mise sulle tracce di quanto di più utile,

nel corso dei secoli, nella lingua greca, era stato pensato ed era stato detto.

Ebbe poi reminiscenza di tutte le parole che dagli Annali dei Re persiani

scorrevano come acqua di sorgente, fresche e briose, nella sua memoria

e a tutti i filosofi ordinò di tradurre ciò che fosse connesso alla Sapienza

e da ogni porta s’adoprò per fare uscire una perla lucente di Saggezza

e da tutte quelle perle si formò un lungo fiume immenso e quando

la greca conchiglia fu ricolma d’ogni genere di preziose perle

da essa prese a straripare come d’incanto un mondo di tesori.

E grazie a questo grande Re, esploratore del mondo e anche del cielo,

videro la luce molte opere dell’Intelletto e molte primizie dello Spirito.

In virtù di tanta sapienza e di sì profonda consapevolezza il giorno in cui

il Grande Alessandro salì al trono questo decreto fu proclamato al mondo:

«Presso di noi acquisisce valore solo la persona saggia, nessuno cerchi di prevalere

sul prossimo suo, se non sulla via dell’incoraggiamento alla virtù perché il rango

del virtuoso supererà sempre quello del ricco, del potente o del presuntuoso» …

     Tutte le Alessandreidi – i poemi medioevali che fanno parte di quel grande ed eterogeneo apparato letterario chiamato Il Romanzo di Alessandro – utilizzano il racconto leggendario sul condottiero Macedone come pretesto per esaltare la virtù della "sapienza" e hanno lo stesso intento educativo delle Scuole filosofiche dell’Ellenismo che incontreremo strada facendo.

     E ora torniamo sul sentiero specifico dell’ellenismo dove – come abbiamo detto – si assiste alla prima considerevole trasformazione del modo di vedere il mondo: nella cultura dell’Ellade il mondo, per la persona, è tutto contenuto dentro la polis (dentro le mura della città-stato), con l’Ellenismo la persona vede che il mondo si dilata sulla terra abitata e prende forma il concetto dell’ecumene. Il termine "ecumene" ("fin dove si estende la terra abitata", fin dove arriva la strada) è la prima parola-chiave che abbiamo incontrato sul nostro Percorso. Con questo non è che la città perda d’importanza ma la sua fisionomia si trasforma: la città comincia a debordare oltre le mura e viene rifondata con un carattere universale e cosmopolitico e quindi sorge un nuovo modello di territorio urbano, un modello in antitesi al carattere particolaristico che è tipico delle polis dell’Ellade.

     Nelle nuove città ellenistiche tendono a scomparire le differenziazioni specifiche tra genti di regioni diverse che le abitano. Alessandro Magno fonda sul vastissimo territorio del suo impero molte città con queste caratteristiche di universalità e di cosmopolitismo e questo fatto favorisce (nel bene e nel male) la scoperta delle passioni che si traduce in nuovi interessi culturali e in nuove curiosità per le differenze, che si traduce nel sorgere di nuovi desideri e nella manifestazione più esplicita dei sentimenti, e che si manifesta anche negli scontri provocati dalle diversità.

     La parola-chiave "passione" – con tutti i suoi significati – ci accompagna sul territorio dell’Ellenismo soprattutto in funzione della didattica della lettura e della scrittura secondo la natura del nostro Percorso, ed è proprio la "scoperta delle passioni" che (come sappiamo) favorisce la nascita e lo sviluppo del genere letterario del "romanzo".

     Sappiamo che Alessandro riesce però appena ad avviare la rivoluzione culturale universalista e cosmopolita sul territorio del suo vastissimo impero – bagnato dai fiumi sacri della cultura umana, il Nilo, l’Eufrate e l’Indo – perché questo enorme Stato, subito dopo la sua morte (avvenuta nel 323 a.C.), va in pezzi: si scompone in molte monarchie in mano ai suoi generali (ai diadochi). Sappiamo anche che scoppia subito una guerra di successione tra i diadochi (tra i generali dell’esercito di Alessandro) perché ciascuno di loro vuole conquistare un potere più ampio. Dopo vent’anni di conflitti (tanto dura la guerra di successione) – dopo la battaglia di Ipso (nel 301 a.C.) – i contendenti si riducono a tre: Antigono che governa la Macedonia a cui è soggetta anche la Grecia con la capitale Atene, Seleuco che governa la Siria con la capitale Antiochia e Tolomeo che governa l’Egitto e sceglie per capitale Alessandria, la città fondata da Alessandro Magno.

     Sul territorio dell’Ellenismo si formano quindi, dal 301 a.C., tre regni diversi che però si assomigliano molto e i caratteri di somiglianza di questi regni corrispondono anche ai tratti distintivi che assume l’Ellenismo. I regni ellenistici si assomigliano, prima di tutto, per l’organizzazione del potere che ha tre strutture essenziali: il monarca, la burocrazia amministrativa e l’esercito. Queste tre strutture, nell’epoca dell’Ellenismo, hanno assunto un modello che è stato ereditato dai sistemi imperiali successivi e che ha resistito fino a non molto tempo fa e che – sebbene sia cambiata la terminologia – ancora oggi resiste.

     La figura del monarca – e, a questo proposito, abbiamo studiato il processo di divinizzazione (il culto della personalità) a cui è stato sottoposto Alessandro – è avvolta in un involucro (in un alone) di carattere religioso, una situazione già presente nella tradizione orientale, a cominciare da quella cinese. Ciò che ci colpisce è il fatto che, anche nella Grecia laica e razionalistica che ha creato le Istituzioni democratiche, si afferma il culto del principe: un culto che fa scatenare passioni contrapposte.

     Con l’Ellenismo assistiamo alla caduta definitiva del sistema democratico nell’Ellade dove si afferma anche l’idea che gli dèi della pòlis (sempre più invisibili) abbiano fallito mentre il monarca assoluto si presenta materialmente con tutta la sua potenza, come se fosse un "salvatore" e come se fosse il solo "benefattore". Questa immagine mitizzata crea larghi consensi nella massa popolare dei sudditi che hanno perso tutti i diritti dati dalla cittadinanza e si accontentano del fatto che, periodicamente – secondo le scadenze di una specie di anno liturgico che regolamenta il culto del monarca divinizzato – ricevono un obolo (un sussidio alimentare).

     Racconta a questo proposito Plutarco di Cheronea (che spesso incontriamo perché è uno dei nostri più significativi informatori ellenistici) che a Demetrio Poliorcete e a suo padre Antigono, ad Atene, sono stati attribuiti onori divini, tanto che, ad un certo punto, ha preteso di alloggiare nel Partenone, accanto ad Atena. Gli è stato dedicato anche un inno, divenuto popolarissimo, nel quale Demetrio viene invocato come un dio provvidente e in altre parti di questo inno gli dèi sono descritti come stelle che stanno attorno a lui. Demetrio ha preso veramente sul serio questo elogio astrale ed è solito avvolgersi in un mantello con sopra ricamato lo zodiaco: il "mantello cosmico" che indosseranno gli imperatori medioevali e, in certe occasioni, anche quelli moderni. Se questo accadeva ad Atene, è facile immaginare quel che dovesse accadere in Egitto o in Asia dove, da sempre, i re venivano e ascendevano al cielo.

     Nella iconografia cristiana il "mantello cosmico" viene attribuito a Maria, in quanto Madre di Dio: nella Chiesa ortodossa russa – secondo la visione di Andrej, un beato del X secolo – la Madre di Dio protegge l’Umanità con questo "manto-pokròv" e la liturgia ortodossa, per ricordare questo avvenimento, celebra anche la festa della Protezione: fra pochi minuti incontreremo questa festa sulle pagine della Letteratura.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

 

Tutte noi e tutti noi – senza pretese imperiali e sapendo che “le stelle stanno a guardare” – pensiamo di avere un “mantello cosmico”: quali stelle o pianeti ci sono nel vostro “mantello cosmico”?...

Scrivete quattro righe in proposito…

     Leggiamo un frammento tratto da uno degli Opuscoli morali di Plutarco di Cheronea (un’opera da cui spesso abbiamo attinto e alla quale attingeremo ancora) che s’intitola Sull’inopportunità di rendere culto divino agli umani:

LEGERE MULTUM….

Plutarco di Cheronea, Sull’inopportunità di rendere culto divino agli umani

A Demetrio fu dedicato anche un inno, divenuto popolarissimo, nel quale veniva invocato come un dio provvidente e che inizia con queste parole:

O Demetrio Poliorcete sia ringraziato il cielo che sei sceso tra noi.

Sii salutato figlio del potente dio Posidone e di Afrodite.

Gli altri dèi sono così lontani da noi che non ci porgono orecchio.

Forse anche non esistono più e non possono badare a noi.

Te noi vediamo presente, non di legno né di pietra, ma effettivo e vivo.

Perciò noi ti preghiamo: anzitutto dacci la pace, o prediletto, tu che ne sei Signore.

     Dobbiamo aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura a proposito di questo tema: il fatto che il monarca, l’imperatore, venga considerato e si presenti come un dio che ha il potere di vita e di morte sui sudditi e la facoltà di prelazione su tutti i beni dei sudditi. Il monarca, l’imperatore, è considerato e si presenta come un dio "ambiguo", come una divinità che ha delle caratteristiche non positive, e la prima di queste caratteristiche non positive (da cui ne dipendono poi molte altre) è quella di non essere moralmente irreprensibile con l’aggravante di godere dell’immunità (per volontà divina) e dell’impunità (con decreto istituzionale perché le leggi le fa lui). Naturalmente questa situazione non può che far scatenare passioni contrapposte: chi venera il monarca assoluto pensa che, siccome certi comportamenti immorali li tiene l’imperatore (con la benedizione di Dio), anche il suddito possa, nel suo piccolo, imitarne la condotta, chi dissente da questa situazione invece tende a contrapporre al dio ambiguo ed ipocrita incarnato dal monarca assoluto, il Dio dell’Antico Testamento il latore della Torah (della Legge uguale per tutti) o il Dio della Letteratura dei Vangeli intriso di bontà e di misericordia. Questo scontro ha trovato posto nella Letteratura e si manifesta bene soprattutto nei romanzi dell’800.

     E a questo proposito – come avevamo annunciato – compare ancora sul nostro Percorso la figura di Leone Tolstoj (1828-1910). Il racconto delle scrittrici e degli scrittori come Tolstoj non si esaurisce nel narrare delle storie (la scrittura non scivola in superficie) ma si concretizza in una continua riflessione sulla condizione umana e sulle "passioni" che, nel bene e nel male, determinano questa condizione (la scrittura è lo strumento che favorisce un’immersione nel profondo dell’interiorità). Tolstoj tratta il tema ellenistico-alessandrino della "passione" anche e soprattutto nei suoi tre celebri romanzi brevi della maturità che s’intitolano La Sonata a Kreutzer – di cui abbiamo parlato e di cui abbiamo letto alcune pagine nei due itinerari precedenti –, La morte di Ivan Il’ič e Padre Sérgij. Sappiamo che questi tre brevi e significativi romanzi – che Leone Tolstoj ha scritto a partire dai primi anni ’80 dell’Ottocento e che (come abbiamo spiegato la volta scorsa) vengono definiti "dostoevskiani" – sono affini tra loro proprio perché la riflessione tolstojana sulle "passioni" (e sull’influenza che hanno sull’esistenza) li accomuna.

     Questa sera vogliamo puntare la nostra attenzione sul breve romanzo intitolato Padre Sérgij. Il protagonista di questo celebre racconto si chiama Stepàn Kasàtskij ed è uno spavaldo ufficiale di carriera il quale per il suo zar Nicola I – di cui è infatuato e che venera come un dio – avrebbe il coraggio di «sacrificare tutto se stesso». Ma questo giovane indomito – e destinato a far tutte le cose alla perfezione – quando apprende che la sua fidanzata è l’amante del suo dio in terra, è una delle tante "favorite" dello zar, allora sceglie l’altro Dio, quello buono e misericordioso, quello che siede nell’alto dei cieli, e decide – per dissenso, per orgoglio, ma anche per profonde ragioni spirituali – di farsi monaco: diventa padre Sérgij.

     Ma leggiamo l’inizio di questo romanzo di cui la Scuola consiglia la lettura o la rilettura, infatti ci sono persone che hanno già letto questo racconto ma, periodicamente, determinati testi, che ormai sono dei classici, è bene rileggerli perché il loro significato cambia nella misura in cui anche noi cambiamo così come si trasforma il mondo in cui viviamo.

LEGERE MULTUM….

Leone Tolstòj, Padre Sérgij (postumo 1911)

A Pietroburgo, negli anni Quaranta, capitò un caso che stupì tutti quanti: un bell’uomo, un principe, comandante di squadrone nel reggimento corazzieri della cavalleria imperiale, al quale tutti presagivano la nomina ad aiutante di campo e una brillante carriera nella Russia di Nicola I, un mese prima delle nozze con una bellissima damigella di Corte che godeva del favore particolare dell’imperatrice, presentò le dimissioni, troncò il rapporto con la fidanzata, cedette alla sorella la sua modesta tenuta e si ritirò in un monastero con l’intenzione di diventarvi monaco. Il fatto pareva singolare e inspiegabile a chi non ne conosceva le intime ragioni; mentre per lui, il principe Stepàn Kasàtskij, tutto ciò avvenne in maniera tanto naturale da non potersi neanche immaginare come avrebbe potuto comportarsi diversamente.

Il padre di Stepàn Kasàtskij, un colonnello della guardia a riposo, era morto quando il figlio aveva dodici anni. La madre, per quanto le dispiacesse mandare il figlio via di casa, non se la sentì di venir meno alla volontà del defunto marito il quale aveva lasciato per testamento, nel caso fosse morto, di non tenere suo figlio a casa, bensì di mandarlo all’Accademia militare, e così lo iscrisse all’Accademia. Lei, la vedova, si trasferì a Pietroburgo con la figlia Varvàra per vivere dove stava suo figlio, e prenderlo con sé nei giorni festivi.

Il ragazzo spiccava per le sue doti brillanti e per un enorme amor proprio, ragion per cui era il primo della classe sia in scienze, e specialmente in matematica, per la quale nutriva particolare predilezione, sia nell’addestramento militare e in equitazione. Malgrado la sua statura superiore alla media, era bello e agile. Inoltre, non fosse stato per la sua irascibilità, sarebbe stato un cadetto esemplare. Non beveva, non si dava alla dissolutezza ed era straordinariamente sincero. L’unica cosa che gli impediva d’essere esemplare erano gli scatti d’ira, durante i quali perdeva ogni controllo e diventava brutale. Una volta aveva quasi scaraventato giù dalla finestra un cadetto che aveva cominciato a canzonarlo per la sua collezione di minerali. Un’altra volta stava quasi per distruggere la sua carriera: aveva scaraventato sull’economo un piatto intero di polpette, s’era scagliato su un ufficiale e, così si dice, l’aveva colpito perché quello era venuto meno alla parola e gli aveva mentito in faccia. L’avrebbero degradato a soldato semplice se il direttore dell’Accademia non avesse coperto tutta la cosa e non avesse cacciato l’economo.

A diciott’anni, una volta diplomato, era entrato come ufficiale nell’esclusivo reggimento della guardia. L’imperatore Nikolaj Pavlovič l’aveva conosciuto ancora all’Accademia e successivamente l’aveva notato nel reggimento e se n’era anche interessato, cosicché gli avevano predetto che sarebbe diventato suo aiutante di campo. Anche Kasàtskij lo desiderava ardentemente non solo per ambizione, ma soprattutto perché fin dai tempi dell’Accademia aveva amato appassionatamente Nikolaj Pavlovič, d’un amore davvero appassionato.

Ogni volta che Nikolaj Pavlovič giungeva in Accademia - e ci andava spesso -, quando entrava con passo gagliardo quella imponente figura in finanziera militare, col petto in fuori, col suo naso gibboso sui baffi e le basette a spazzola, e salutava i cadetti con la sua voce possente, Kasàtskij provava il rapimento d’un innamorato, lo stesso che avrebbe provato in seguito, a incontrare l’oggetto del suo amore. Solo che il rapimento innamorato per Nikolaj Pavlovič era più intenso. Avrebbe voluto manifestargli la sua sconfinata dedizione, donargli in sacrificio qualcosa, tutto se stesso. E Nikolaj Pavlovič sapeva di suscitare quel rapimento e lo provocava di proposito. Scherzava con i cadetti, se ne circondava rivolgendosi loro una volta con semplicità infantile, un’altra amichevolmente, un’altra ancora in modo solenne e maestoso. Dopo l’ultima storia di Kasàtskij con l’ufficiale, Nikolaj Pavlovič non aveva detto nulla a Kasàtskij ma quando quello gli s’era avvicinato, l’aveva allontanato teatralmente e, fattosi scuro in volto, l’aveva minacciato col dito e poi, al momento della partenza, gli aveva detto:

- Sappiate che mi è noto tutto, ma certe cose non voglio saperle. Però le serbo qui.

E aveva indicato il cuore.

Quando gli si erano presentati i cadetti dopo il diploma, non se ne ricordava più, e disse come sempre che tutti loro avrebbero sempre potuto rivolgersi direttamente a lui, che servissero fedelmente lui e la patria, e lui sarebbe sempre rimasto il loro migliore amico. Come sempre restarono tutti commossi e Kasàtskij, al ricordo di quel che era successo, versò calde lagrime e fece voto di servire con tutte le forze il suo amato zar.

Quando Kasàtskij entrò al reggimento, sua madre si trasferì con la figlia dapprima a Mosca e poi in campagna. Kasàtskij cedette alla sorella la metà delle sue sostanze. Quanto gli rimaneva era appena sufficiente per mantenersi nel lussuoso reggimento nel quale prestava servizio.

Dall’esterno, Kasàtskij pareva il più normale giovane, brillante ufficiale della guardia intento a far carriera, ma dentro di lui si stava svolgendo un complesso e intenso travaglio. Un travaglio che andava avanti fin dalla sua infanzia, apparentemente nelle forme più diverse, ma che in sostanza era sempre lo stesso, e che consisteva nel raggiungere, in tutte le cose che gli si presentavano per via, la perfezione e un successo tale da suscitare le lodi e la meraviglia della gente. Se si trattava dello studio, delle varie materie, vi s’applicava e ci faticava fino a quando lo lodavano e l’indicavano a modello per gli altri. Raggiunta una cosa, si accingeva ad un’altra. Aveva così raggiunto il primato nelle varie discipline, e sempre così, quand’era ancora all’Accademia, avendo una volta notato d’avere qualche impaccio nella conversazione in francese, riuscì a padroneggiare il francese al pari del russo; e così poi, quando cominciò con gli scacchi, ancora all’Accademia, riuscì a diventare un ottimo giocatore.

A parte la vocazione generale della sua vita, che consisteva nel servire lo zar e la patria, aveva sempre di mira un qualche scopo e, per quanto insignificante fosse, vi si dedicava tutto e viveva solo per quello fino a che non l’avesse raggiunto. Ma non appena raggiunto lo scopo che s’era proposto, subito nella sua coscienza ne sorgeva un altro e sostituiva il precedente. Una sorta di aspirazione ad emergere e, per emergere, a raggiungere il fine che s’era posto, riempiva la sua vita. Così, quand’era diventato ufficiale, s’era posto come fine la massima perfezione possibile nelle cognizioni del suo servizio e ben presto era diventato un ufficiale esemplare, benché ancora con quel difetto dell’irrefrenabile irascibilità che lo trascinava, anche in servizio, ad azioni sgradevoli e nocive alla sua affermazione. In seguito, avendo avvertito una volta, in una conversazione mondana, un suo difetto di cultura generale, si propose di colmarlo e si dedicò ai libri ottenendo quel che desiderava. Poi si propose di raggiungere una posizione brillante nell’alta società, imparò a ballare perfettamente e ben presto ottenne d’essere invitato a tutti i balli del gran mondo e ad alcune serate. Ma quella posizione non lo soddisfaceva. Era abituato ad essere il primo, e in quel campo era ben lontano dall’esserlo.

L’alta società era allora costituita, e io penso che sarà costituita sempre e ovunque, da quattro tipi di individui: 1) quelli ricchi e con accesso a Corte; 2) quelli non ricchi, ma nati e cresciuti a Corte; 3) quelli ricchi che cercano d’entrare nelle grazie della gente di Corte; 4) quelli non ricchi e senza accesso a Corte, che cercano d’entrare nelle grazie degli uni e degli altri. Kasàtskij non apparteneva ai primi. Kasàtskij veniva accolto volentieri negli ultimi due ambienti. Anche entrando nel gran mondo, si propose di legarsi a una donna aristocratica, e inaspettatamente per lui, lo ottenne presto. Ma ben presto si accorse che gli ambienti che lui frequentava erano gli ambienti inferiori, e che c’erano ambienti più elevati, e che in quegli ambienti più elevati, anche se veniva accolto, restava un estraneo; erano cortesi con lui, ma il comportamento generale indicava che c’erano quelli come "loro", e che lui non era dei loro. E Kasàtskij volle diventarvi uno dei "loro". Per questo bisognava o essere aiutante di campo - e lui s’aspettava di diventarlo - o prender moglie in quell’ambiente. E decise che l’avrebbe fatto E scelse una fanciulla, una bellezza, una dama di Corte che non solo era dei "loro" nella società in cui voleva entrare, ma era talmente "su" che tutti coloro che facevano parte nel senso più elevato e stabile dell’ambiente superiore, cercavano di stringere rapporti con lei. Era la contessina Korotkòva. Kasàtskij si mise a corteggiarla non solo per far carriera: era straordinariamente attraente, e lui ben presto se ne era innamorato. Sulle prime era piuttosto fredda con lui, ma in seguito era mutata tutto d’un tratto, ed era diventata affettuosa, e sua madre lo invitava con molta insistenza.

Kasàtskij aveva fatto la proposta di matrimonio ed era stata accettata. Era stupito dalla facilità con cui aveva raggiunto una tale fortuna, e da un che di particolare, di strano, nel modo di fare di madre e figlia. Era molto innamorato e accecato, e pertanto non s’accorse di quello che in città sapevano praticamente tutti cioè che da un anno a quella parte la sua fidanzata era l’amante di Nikolaj Pavlovič.

Due settimane prima del giorno fissato per le nozze Kasàtskij stava in villa dalla sua fidanzata, a Càrskoe Selò. Era una calda giornata di maggio. Il promesso sposo e la sua fidanzata passeggiavano per il giardino e si sedettero su una panchina in un ombroso viale di tigli. Mary era particolarmente bella nel bianco vestito di mussolina. Pareva l’incarnazione dell’innocenza e dell’amore. Stava seduta, ora a capo chino, ora gettando uno sguardo all’imponente bell’uomo che parlava con lei con particolare tenerezza e cautela, temendo d’offenderla con ogni suo gesto o parola, di profanare l’angelica purezza della sua fidanzata. Kasàtskij apparteneva a quel tipo di uomini degli anni Quaranta che non ci sono più, quelli che, pur tollerando consapevolmente per sé e, non condannando nell’intimo l’impurità per quanto concerne il sesso, esigevano dalla moglie una purezza ideale, celestiale, e attribuivano quella purezza celestiale a ogni donna del loro ambiente, e si comportavano con loro di conseguenza. In un tale modo di vedere c’era molto di falso e un che di nocivo nella licenza che si concedevano gli uomini, ma per quanto riguarda le donne quel modo di vedere, così distante da quello dei giovani d’oggi, che scorgono in ogni fanciulla una femmina in cerca del proprio maschio, - quel modo di vedere, penso, era salutare. Le fanciulle, vista una tale idealizzazione, si sforzavano di essere più o meno delle dee. Anche Kasàtskij considerava le donne in quel modo, e così guardava alla sua fidanzata. Quel giorno era straordinariamente innamorato, e non provava nessuna sensualità per la fidanzata, anzi, la guardava con tenerezza, come qualcosa d’irraggiungibile.

S’alzò in tutta la sua statura e rimase in piedi davanti a lei, con entrambe le mani appoggiate sulla sciabola.

- Solo adesso ho conosciuto la felicità che può provare un uomo. E siete stata voi, sei stata tu, - disse sorridendo timidamente, - a farmela provare!

Era in quella fase in cui non s’era ancora abituato al "tu", e gli sembrava spaventoso dare del "tu" a quell’angelo al quale guardava moralmente dal basso in alto.

- Ho conosciuto me stesso grazie a te, ho compreso d’essere migliore di quanto pensassi.

- Lo sapevo da un pezzo. È stato proprio per questo che ho imparato ad amarvi.

Un usignolo s’era messo a gorgheggiare lì vicino, il fogliame fresco a frusciare sotto il venticello che aveva preso a tirare.

Le prese la mano e la baciò, e gli spuntarono le lagrime agli occhi. Lei capì che la stava ringraziando per quello che gli aveva detto, per il fatto che lo amava. Lui fece due passi, tacque, poi s’avvicinò, si sedette.

- Sapete, sai, insomma fa lo stesso. Mi sono accostato a te non senza un interesse, volevo stabilire dei rapporti con l’alta società, ma poi Quant’è diventato insignificante tutto ciò rispetto a te, quando ti ho conosciuto. Non ti arrabbi con me, per questo?

Lei non rispondeva e sfiorò soltanto la sua mano con la propria.

Lui capì che questo significava: "No, non mi arrabbio".

- Ecco, sì, hai appena detto - si confuse, gli sembrava troppo audace, - hai detto di amarmi, ma, devi scusarmi, credo che ci sia qualcos’altro che ti turba e ti agita. Di che si tratta?

"Sì, adesso o mai più," pensò lei. "Lo saprà comunque. Ma adesso non mi lascerà. Ah, sarebbe tremendo se dovesse andarsene!"

E con sguardo amoroso abbracciò tutta la sua figura grande, nobile, possente. Adesso lo amava più di quanto amasse Nikolaj e, non fosse stato per la dignità imperiale, non avrebbe dato questo per quello.

- Sentite. Non posso non essere sincera. Vi debbo raccontare tutto. Mi avete chiesto di che si tratta? Si tratta che io ho già amato.

Gli pose la mano sulla sua con un gesto supplice.

Lui taceva.

- Non volete sapere chi? Sì, lui, il Sovrano.

- Lo amiamo tutti, m’immagino che voi, all’istituto

- No, dopo. Quella è stata un’infatuazione, ma poi è passata. Ma vi devo dire

- Beh, che cosa, allora?

- No, io non ho solamente

E si coprì il volto con le mani.

- Come? Vi siete concessa a lui?

Lei taceva.

- Come amante?

Lei taceva.

Lui s’alzò di scatto, e le stava davanti pallido come la morte, con gli zigomi che tremavano. In quel momento si ricordò di Nikolaj Pavlovič che, quando lo aveva incontrato sul Corso Nevskij, gli aveva fatto i suoi affettuosi auguri.

- Mio Dio, che cosa ho fatto, Stìva (Diminutivo di Stepàn)!

- Non mi toccate, non toccatemi! Ah, è davvero troppo!

Si girò e si diresse verso l’edificio. Dentro casa incontrò la madre.

- Che avete, principe? Io - Vedendo il suo volto, tacque. D’un tratto il sangue gli era salito al capo.

- Voi lo sapevate, e volevate coprirli con me. Se non foste una donna, - gridò levando su di lei un enorme pugno e, voltatosi, scappò via.

Se quello che era l’amante della sua fidanzata fosse stato uno qualunque, l’avrebbe ucciso, ma era l’adorato zar, adorato come un dio.

Il giorno seguente si mise in congedo e rassegnò le dimissioni, si diede malato per non veder nessuno, e partì per la campagna.

Trascorse l’estate nella sua campagna, sistemando le sue cose. Quando l’estate finì, non tornò a Pietroburgo, ma si recò in un monastero e vi si fece monaco.

La madre gli aveva scritto per dissuaderlo da quel passo supremo. Lui le aveva risposto che la vocazione di Dio è superiore a ogni altra considerazione, e che lui la sentiva. Lo capiva soltanto la sorella, orgogliosa e piena d’amor proprio quanto il fratello.

Capiva che s’era fatto monaco per porsi al di sopra di coloro i quali volevano mostrargli d’essere superiori a lui. E capiva bene. Diventando monaco, mostrava di disprezzare tutto quanto sembrava così importante agli altri, e anche a lui, all’epoca in cui prestava servizio, e s’era elevato a una nuova altezza tale da poter guardare dall’alto in basso quelli che prima invidiava. Ma non era solo quel sentimento a guidarlo, come pensava sua sorella Vàren’ka. C’era in lui anche dell’altro, un sentimento autenticamente religioso che Vàren’ka non conosceva, che lo guidava intrecciandosi col senso di orgoglio e col desiderio di supremazia. L’offesa e la delusione per Mary (la sua fidanzata) che s’era immaginato quale un angelo, erano state così forti da portarlo alla disperazione, e dove lo portava la disperazione? a Dio, a una fede infantile che in lui non s’era mai spenta.

Il giorno della Protezione (Pokròv, lett. "manto cosmico" che, secondo una visione del beato Andrej, X sec., la Deipara, la Madre di Dio, avrebbe steso per protezione sui fedeli) Kasàtskij entrò in monastero.

Il monaco anziano del monastero era un gentiluomo, dotto scrittore e starec (guida spirituale), apparteneva cioè a quella catena di monaci, originata in Valacchia, i quali si sottomettono docilmente al maestro e guida che si sono scelti. Il monaco anziano era discepolo del famoso starec Amvròsij, discepolo di Makàrij, discepolo dello starec Leonìd, discepolo di Paìsij Veličkòvskij (ucraino di Pollava, 1722-1794). Kasàtskij si affidò a quel monaco anziano come suo starec.

A parte il senso di consapevolezza della propria superiorità sugli altri che Kasàtskij provava in monastero, anche lì dentro, come in tutte le cose che faceva, Kasàtskij trovava gioia nel raggiungere la massima perfezione tanto esteriore quanto interiore. Come al reggimento era un ufficiale non solo irreprensibile, ma anche in grado di fare più di quanto richiesto, estendendo i limiti della perfezione, così cercava d’essere perfetto anche da monaco: sempre al lavoro, frugale, umile, mite, puro non solo negli atti ma anche nei pensieri, e obbediente. Quest’ultima qualità o perfezione, in particolare, gli addolciva la vita. Se molte esigenze della vita monastica, in un monastero vicino alla capitale e assai frequentato, non gli andavano a genio perché lo inducevano in tentazione, veniva tutto annullato dall’obbedienza: non è affar mio ragionare, affar mio è osservare l’obbedienza stabilita, sia che si tratti di stare accanto alle reliquie, di cantare nel coro, o di fare i conti della foresteria. Ogni possibile dubbio a qualsiasi proposito spariva con quell’obbedienza al suo starec.

Non fosse stato per l’obbedienza, gli avrebbero pesato sia la lunghezza che la monotonia dei servizi religiosi, e il trambusto dei visitatori, e i tratti sgradevoli della confraternita, ma ormai tutto ciò non solo veniva sopportato gioiosamente, ma costituiva una consolazione e un sostegno nella vita.

     Chiudiamo temporaneamente questa parentesi e torniamo sul sentiero specifico dell’Ellenismo e sulle caratteristiche di quest’epoca.

     Nello Stato ellenistico attorno al monarca c’è la corte e dalla corte si ramifica la burocrazia amministrativa, necessaria per mettere in contatto il re con il popolo, con la popolazione dispersa nell’immenso territorio. I tre poteri fondamentali dello Stato non sono più separati come lo erano nella polis democratica: il potere legislativo (il consiglio della corona), il potere esecutivo (il primo ministro) e quello giudiziario (i giudici) sono nelle mani del re e questi poteri il monarca li trasmette, li trasfonde attraverso il ferreo e rigidamente gerarchico sistema burocratico. Tra le funzioni della burocrazia c’è quella fiscale (gli esattori) che costituisce il supporto indispensabile per finanziare le iniziative di guerra.

     La società ellenistica quindi si arricchisce – ma sarebbe meglio dire si corrompe – con questa nuova classe che ha la caratteristica di essere servile e rapace, la quale pesa sul cittadino che è diventato ormai suddito: il cittadino della pòlis, con l’Ellenismo, perde le sue prerogative, perde i suoi diritti di cittadinanza e viene a trovarsi alla mercé di un potere esclusivamente impositivo di cui non riesce più a controllare le dinamiche perché i poteri non si controbilanciano più.

     La classe burocratica – con la sua gerarchia (dall’ispettore generale all’impiegato dell’ultimo livello), con i suoi riti, con le lotte per la conquista di posizioni di privilegio – s’impone con i regni ellenistici e avrà un futuro nei secoli (fino ad oggi). Negli imperi eurasiatici dell’800 – la lettura di Tolstoj ci ha portato nell’impero zarista – è la classe burocratica che costituisce la spina dorsale del potere e che è capace di riprodursi nei passaggi tra un regime e l’altro.

     Tutti i rappresentanti (dai più alti fino ai più infimi livelli) della classe burocratica sono diventati (come sappiamo) significativi personaggi letterari (trattati anche, molto spesso, con ironia, con sarcasmo, con comicità) e gli esempi da fare, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, sarebbero molti ma noi ora ci atteniamo ancora alla trilogia dei brevi romanzi tolstojani – La Sonata a Kreutzer, Padre Sérgij e La morte di Ivan Il’ič – con i quali siamo entrati in contatto.

     L’incipit del romanzo La morte di Ivan Il’ič di cui la Scuola propone la lettura o la rilettura ci fornisce un esemplare spunto di riflessione. Ora noi non ci fermiamo a commentare nei particolari il testo di questo romanzo che è considerato spietato e di avanguardia e che ha lasciato un’impronta indelebile nella letteratura universale prima di tutto perché tratta di un argomento scomodo, di un tabù (che viene sistematicamente rimosso) come quello della morte, ma ci sono altri temi nel testo di questo romanzo che fanno riflettere.

     Per avviare alla lettura di questo racconto dobbiamo dire che il personaggio di Ivan Il’ič non rappresenta solo un uomo qualunque che riflette sul tema della morte ma mostra anche un alto burocrate, un solido altoborghese (con figli, rendite, privilegi) che fa l’esame di coscienza per riconoscere che ha vissuto – proprio per il ruolo che ha avuto – una vita basata sulla "convenienza", ed è costretto ad ammettere, assumendo una vena sarcastica, che questa condizione porta all’impossibilità di manifestare la solidarietà umana (tanto sbandierata, a parole, nella società cristiana in cui lui vive) perché in realtà la società borghese è schiava dell’ambizione che è una componente costitutiva del carattere burocratico. L’esame di coscienza di Ivan Il’ič, alla fine, è costruttivo e il suo animo si calma e si consola anche perché – per contrasto – viene assistito, aiutato, amato con naturalezza e generosità dal suo servo contadino Gerasim: un personaggio tipicamente tolstojano al quale lo scrittore fra costruire edificanti trame educative.

     Ora leggiamo solo un frammento dell’inizio del romanzo dove emergono subito gli elementi costitutivi (la convenienza, l’ambizione, l’ambiguità, l’ipocrisia) del carattere burocratico che ha cominciato a formarsi in età ellenistica.

LEGERE MULTUM….

Leone Tolstòj, La morte di Ivan Il’ič (1886)

Nell’imponente Palazzo di Giustizia, durante la pausa di un’udienza del processo Mel’vinskij, i componenti della Corte e il pubblico ministero si riunirono nello studio di Ivan Egorovič Šebek e il discorso cadde sul famoso processo Krasovskij. Fëdor Vasil’evič si infervorava nel sostenere la non colpevolezza, Ivan Egorovič restava della sua idea, mentre Pëtr Ivanovič, che fin dal principio non si era intromesso nella discussione, non si pronunciava, limitandosi a sfogliare l’ultimo numero delle Notizie:

- Signori! - disse - È morto Ivan Il’ic!

- Possibile?!

- Ecco, leggete, - disse a Fëdor Vasil’evič, porgendogli il giornale fresco di stampa.

Nell’inserzione listata a lutto era scritto: "Praskov’ja Fëdorovna Golovina, profondamente addolorata, annuncia a parenti e amici la morte del suo amato consorte, il funzionario del Tribunale Ivan Il’ic Golovin, avvenuta il 4 febbraio del corrente 1882. I funerali avranno luogo venerdì alle ore tredici".

Ivan Il’ic era collega dei signori lì riuniti e tutti loro gli volevano bene. Era malato ormai da alcune settimane e si diceva che fosse un male incurabile. Il posto per ora era ancora suo E così, avendo sentito che Ivan Il’ic era morto, il primo pensiero di ognuno dei signori riuniti in quello studio fu di considerare che ruolo avrebbe avuto quella morte nel trasferimento o nella promozione dei presenti o dei loro conoscenti.

     I regni ellenistici sono degli Stati assoluti che vivono in perpetuo stato di guerra e quindi l’esercito diventa un apparato necessario e permanente formato quasi sempre di mercenari, per lo più macedoni o greci, ma anche con cospicue componenti orientali. L’esercito è uno degli elementi principali che favorisce la mescolanza delle razze e delle culture che – come sappiamo – Alessandro ha perseguito facendo anche uso della politica dei matrimoni misti, messa in pratica anche personalmente. Quella del militare diventa anche una professione che non ha più nulla a che fare con la milizia civica (con l’esercito popolare) della polis: contro l’esercito di professione voluto da Alessandro si scaglia, inutilmente, Aristotele.

     Quindi, con l’Ellenismo, le classi sociali si modificano e le aristocrazie cittadine (che avevano avuto un ruolo importante nella pòlis) traggono ben poco vantaggio dalla crisi della democrazia, perché devono cedere il potere alle caste dei burocrati, dei militari e poi dei commercianti che traggono molto vantaggio dall’apertura delle frontiere e s’impongono anche politicamente pur non avendo nessun retroterra di prestigio sociale e culturale.

     Le conquiste di Alessandro hanno messo in circolazione ingenti quantità di argento (l’oro non è in uso tra gli antichi come metallo per fabbricare monete) con la conseguenza dell’incremento degli scambi, dei prestiti bancari, della mobilità del capitale. Il risvolto negativo di questa mobilità della ricchezza è lo spodestamento dei "demiurghi", cioè degli artigiani che avevano fatto la fortuna di tutte le grandi città dell’Ellade. Le botteghe degli artigiani rimangono chiuse nei confini delle mura della pòlis e i "demiurghi" restano tagliati fuori dalle grandi linee del commercio e indeboliti dalla concorrenza massiccia di una nuova forza-lavoro a basso costo che arriva dall’oriente ed è dotata, non di rado, anche di grandi abilità tecniche.

     La migrazione di manovalanza verso la Grecia, e poi verso Roma, è stata ingente anche per il fatto che la schiavitù (la forza-lavoro gratuita) diventa la condizione normale dei prigionieri di guerra che dà adito ad un mercato vero e proprio, le cui regole – come sappiamo (e le abbiamo ereditate) – sono fuori da ogni limite di umanità. Parecchi milioni gli schiavi vengono trapiantati in Grecia, e poi in Italia, e questo produce un cospicuo innesto etnico che crea grandi modificazioni culturali in questo periodo detto dell’Ellenismo.

     Inoltre i più poveri tra gli abitanti dell’Ellade, senza i servizi che la pòlis garantiva, diventano sempre più poveri e a loro volta sono costretti a migrare e si sviluppa un continuo flusso di popolazione greca verso Oriente, dove la fondazione di grandi metropoli offre nuove possibilità di vita. È tipico il caso di Alessandria: la città egiziana, nella parte occidentale del delta del Nilo, fondata ex novo da Alessandro, la quale, per via delle migrazioni di molta gente dall’Ellade, acquista caratteri culturali spiccatamente greci.

     Il rimescolamento delle razze e delle culture crea un tipo di persona con delle caratteristiche diverse dall’epoca precedente ed emerge la "persona ellenistica", la quale ha perduto il senso della propria identità culturale legata alla pòlis. La polis per la persona ellenistica non risulta più una realtà significativa perché il potere è in mani lontane e a questo nuovo soggetto, che ha perduto il diritto di cittadinanza, arrivano decisioni già prese sotto forma di ordini spesso incomprensibili. L’agorà, la piazza pubblica, non è più il luogo degli animati dibattiti politici e culturali: la persona ellenistica è senza centro, o meglio, con un centro che può essere dovunque.

La lingua greca non è più in esclusiva la lingua della pòlis ma il greco si parla ormai dovunque e si modifica notevolmente (subisce una contaminazione): abbiamo studiato due anni fa che perfino gli Ebrei di Alessandria, perduto l’uso della lingua d’origine, parlano in greco e, dal III secolo a.C., sentono il bisogno di scrivere in greco e di far tradurre in greco (è la traduzione dei cosiddetti Settanta) i loro Libri sacri e abbiamo assistito, con molto interesse, allo scontro (molto fecondo dal punto di vista intellettuale) tra filotraduzionisti e controtraduzionisti. Abbiamo imparato che i controtraduzionisti, per difendere e salvaguardare la lingua e la cultura ebraica, sono "costretti" a scrivere una serie di opere significative in lingua greca e alcune di esse entreranno anche nel canone biblico giudaico-alessandrino. Ricordiamo anche che l’Epistolario di Paolo di Tarso – dagli anni 50 – assume un ruolo significativo anche perché è scritto in lingua greca ellenistica. E anche il più antico storico di Roma, Quinto Fabio Pittore (260 circa - 190 a.C.), ha scritto in greco perché durante la Seconda guerra punica, dopo la terribile sconfitta dei Romani contro Annibale a Canne nel 216 a.C. (c’era anche Quinto Fabio Pittore tra i sopravissuti di questa drammatica battaglia), fu inviato a Delfi dove ha scritto in greco la Storia di Roma dalle origini ai tempi suoi, in modo che, se Annibale avesse distrutto Roma, sarebbe rimasta la storia dell’Urbe a testimoniarne la grandezza, ma poi Annibale non si è rivolto contro Roma e le cose sono andate in un altro modo. Dobbiamo dire che perfino Catone il Censore (234-149 a.C.) è stato costretto ad apprendere la lingua greca, lui che i Greci, e la loro filosofia, non li poteva sopportare. Dal III secolo a.C., dall’India alla penisola Iberica, il greco ellenistico è ormai una lingua comune, una koinè, con cui è possibile intendersi.

     Fuori dallo spazio della polis la persona ellenistica perde gradualmente il suo rapporto con il passato, e determinate tradizioni si allontanano dalla memoria del singolo individuo. Del passato la persona ellenistica sceglie ciò che gli giova di più, senza tenere conto dei percorsi culturali: questa indeterminatezza di fronte al passato potrebbe passare per libertà, ma non lo è; anzi, la mancanza di precisi confini spazio-temporali (la perdita delle radici e della memoria) fa aumentare nella persona ellenistica l’insicurezza. Ed è proprio l’insicurezza – come nel caso della comunità ebraica della diaspora di Alessandria – a far sì che la persona ellenistica si renda conto dell’importanza di possedere una cultura di riferimento e questa presa di coscienza determina in sempre più persone il desiderio e la ricerca dei libri: i libri cominciano a rappresentare un punto fermo e uno strumento per lenire una sete di sapere (e di nuova identità) che prima era privilegio di pochi individui. Il libro diventa lo strumento perché la persona possa intavolare una conversazione con se stessa e possa riflettere sulla propria identità.

     Si consolida così la figura dell’intellettuale che passa tutto il suo tempo libero in una biblioteca come se fosse a casa sua. In questo caso, tramite questi nuovi intellettuali, la cultura procede dall’alto verso il basso, ma questo è un fenomeno che riguarda una minoranza, che investe l’esigua minoranza degli alfabetizzati che leggono i testi classici dell’Età assiale, perché in modo molto più evidente si fa strada un nuovo tipo di cultura che sale, per così dire, dal basso, attraverso il potente influsso delle tradizioni orientali che hanno avuto una grande presa nel rimescolamento etnico di cui si è detto. Questa nuova cultura è di carattere irrazionale, e diventa un comodo rifugio per l’intelligenza impaurita (questo è un argomento di grande attualità).

     Tra le discipline che hanno più successo c’è l’astrologia, inventata a Babilonia, passata in Egitto e di qui in tutto il mondo ellenistico, per mezzo di testi sacri che si dice siano stati scoperti nei templi dell’Oriente. Insieme all’astrologia si diffondono – provenienti sia dall’Oriente che dalle tradizioni popolari autoctone mescolate insieme – superstizioni di ogni genere, spesso a carattere demoniaco, con l’inevitabile corredo di amuleti e di scongiuri.

     In un certo senso l’Ellenismo diventa anche l’epoca della rivincita di Dioniso su Apollo, dell’irrazionale sulla disciplina del Logos (sul ragionamento logico). E i culti dionisiaci tornano a moltiplicarsi con chiare caratteristiche magiche: al centro del culto spesso ci sono arcane ricette ritrovate su antichi papiri che, imparate a memoria, assicurano, in futuro, "l’immortalità", mentre nel presente servono a perpetuare l’ignoranza.

     Del resto anche le scuole filosofiche dell’epoca (pensiamo alle centinaia di Scuole che vengono aperte ad Alessandria) hanno un carattere terapeutico: l’aula delle conferenze è per il maestro ellenistico-alessandrino una specie di ambulatorio per anime malate, impaurite, insicure. E le persone, come sempre avviene quando si sfaldano le sicurezze collettive, come quelle che poteva dare la polis, preferiscono rinunciare alla libertà di pensiero, frutto dello studio, per cercare la salvezza fuori del cerchio della ragione.

     Questa riflessione ci riporta brevemente – ormai siamo alla fine di questo itinerario – ad occuparci ancora del principe Stepàn Kasàtskij che è diventato, nel breve romanzo omonimo di Tolstoj, padre Sérgij. Padre Sérgij diventa un anacoreta, un monaco che vive in solitudine in modo rigorosamente essenziale senza minimamente cedere a qualsiasi forma di seduzione: non cede neppure ad una giovane e affascinante nobildonna che scommette di farlo cadere in tentazione e lo va a trovare fingendo di essere in crisi esistenziale… Ma non si può raccontare questo significativo, corposo e simbolico episodio, quindi leggete o rileggete questo breve romanzo per gustare le finezze della scrittura tolstojana!

     Le notizie sulla condotta esemplare di padre Sérgij (visto che la giovane nobildonna tentatrice non solo non lo seduce ma decide di farsi monaca) fanno crescere intorno a lui una fama popolare e i più cominciano ad additarlo come «un santo» e naturalmente vengono anche i miracoli a testimoniare questo fatto e una processione ininterrotta di persone comincia ad accorrere dal padre taumaturgo. Ma nell’intimo di Stepàn, di padre Sérgij, scoppia un violento conflitto, esplode una crisi di coscienza perché lui lo sa che tutto quel che sta compiendo non lo offre al Dio buono e misericordioso presso il quale si è rifugiato per lo sdegno verso lo zar che ha la presunzione – con l’immunità e l’impunità – di fare il dio in terra: tutto quello che padre Sérgij sta compiendo (e lui non si rende neppure conto come mai abbia dei poteri taumaturgici) in realtà lo dedica al suo orgoglio smisurato, al suo autocompiacimento, e anche lui è diventato una specie di dio in terra con un potere esagerato. Lui vorrebbe che il suo amore per gli altri fosse la "caritas", fosse la virtù che insegna Paolo di Tarso nelle sue Lettere, ma invece nel suo animo c’è sempre in agguato la superbia, la boria, l’immodestia, e un inconfessabile culto della propria superiorità morale.

     Un giorno, tra i tanti pellegrini che quotidianamente lo vanno a cercare per avere il miracolo, c’è anche un padre, un mercante, che gli conduce, affinché la guarisca, la propria figlia affetta da una non ben identificata malattia psichica. Questa creatura, che porta padre Sérgij a prendere un’importante decisione, è il diavolo tentatore oppure è un angelo mandato da Dio?

     Non si può rispondere a questa domanda con una battuta: Tolstoj, con la sua scrittura, c’invita a riflettere e la prossima settimana rifletteremo.

     Il viaggio sul sentiero della sapienza poetica ellenistica continua: la Scuola è qui e ogni persona ha diritto all’Apprendimento…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Ottobre 30, 2009