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NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE C’È IL CONCETTO ORFICO-PITAGORICO DELLA METEMPSICOSI ....

Lezione N.: 
16

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale      22-23-24  febbraio 2012

NEL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA ELLENISTICA DI STAMPO IMPERIALE

C’È IL CONCETTO ORFICO-PITAGORICO DELLA METEMPSICOSI ...

     Questo è il sedicesimo itinerario del nostro viaggio e per poterci mettere in cammino dobbiamo ricapitolare: dobbiamo fare il punto della situazione.

     Stiamo – come ben sapete – attraversando il territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e abbiamo costeggiato ed osservato, itinerario dopo itinerario, i primi tre paesaggi intellettuali che s’incontrano all’interno di questo vasto spazio. Prima abbiamo osservato il paesaggio più arcaico, quello del mitico “mondo di Janus”, poi il paesaggio del teatro romano delle origini e la scorsa settimana ci siamo trovate e trovati di fronte ad un terzo paesaggio intellettuale che prende il nome di “area dei miti paralleli”. Con questo quadro in mente – e per perseguire l’obiettivo didattico che si possa formare in noi una testa ben fatta piuttosto che ben piena – prendiamo il passo cercando di procedere con ordine.

     Sappiamo già che il paesaggio intellettuale dell’“area dei miti paralleli” porta questo nome perché le narrazioni leggendarie contenute in questo paesaggio – che noi conosciamo da quando eravamo bambine e bambini – scorrono parallele alla storia. Che cosa significa? Significa – e lo abbiamo già studiato la scorsa settimana, ma è necessario ripeterlo questo concetto per proseguire il cammino – che i Romani, quando prendono coscienza di essere diventati un popolo, vorrebbero far avvicinare il più possibile i racconti mitici sulle origini della loro civiltà alla storia; ma siccome far combaciare mito e storia non è possibile, cercano di collocare nella posizione più idonea rispetto alla storia le narrazioni leggendarie che riguardano la fondazione della loro città e della loro stirpe, e di qui nasce il concetto di “mito parallelo”, per cui se mito e storia non possono combaciare per lo meno procedano fianco a fianco su linee parallele. Le linee parallele generano, nella maggior parte dei casi, oggetti e strumenti funzionali.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Tra gli oggetti più funzionali generati dalle linee parallele ci sono i binari della ferrovia… Ricordate un viaggio significativo in treno che avete fatto?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     Abbiamo detto che tra tutte le grandi civiltà dell’Età assiale – sumera, assiro-babilonese, egizia, indiana, cinese, ebraica [ne abbiamo studiato le caratteristiche in questi anni] – i Romani arrivano per ultimi a compiere la spregiudicata operazione di dare ai racconti mitici, con cui raccontano le loro origini, un valore storico. I Romani – come sappiamo – arrivano tardi a riflettere sulle loro origini mitiche e questo fatto risulta vantaggioso perché fanno tesoro di tutte le debolezze presenti nella mitologia altrui e, contando anche sulla loro mentalità materialista e molto pratica, governano il tema delle loro origini potendo contare su una Letteratura appena nata, molto giovane, allo stadio verginale, quindi più facilmente plasmabile. Quindi, nel prendere il passo sull’itinerario di questa sera, dobbiamo ripetere come sono nati e come si sono sviluppati i cosiddetti “miti paralleli” di area latina.

     Abbiamo detto che la fase racchiusa nel perimetro del “mondo di Janus” – una fase arcaica che nasconde, come sappiamo, spinose questioni sociali irrisolte [in primo luogo la questione femminile] – questa fase aborigena, a Roma, nel II secolo a.C. non piace a nessuno e questo fatto trova conferma [e lo abbiamo studiato] nel genere letterario del teatro soggetto al vaglio della censura. Poi sappiamo che anche nel mondo latino delle origini – come in tutte le società basate sull’oralità tipica della cultura agraria [che ha nella veglia un elemento fondamentale per lo sviluppo della narrazione] – nasce e matura un repertorio di racconti orali che cercano di dare risposte sul tema della fondazione della stirpe: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Sappiamo che, a questo proposito, nascono narrazioni in cui si concretizzano figure che assumono sagome “reali” e contorni “materiali” per cui l’ormai antico dio Janus – per esempio – viene tirato fuori dal suo “mondo arcaico” e diventa un re che aveva fondato una città sul colle che da lui aveva preso il nome di Granicolo.

     Noi – e lo abbiamo ripetuto più volte – conosciamo a memoria la trafila di queste narrazioni, tramandate oralmente, che originariamente prendono forma nella società rurale latina [a veglia] fino a creare una tradizione che si sovrappone alla cultura aborigena del “mondo di Janus”, e che poi entra nei “carmina [le canzoni in versi saturni]” e, in seguito, diventa materia per la Letteratura quando qualcuno deciderà di scrivere in proposito.

     La scorsa settimana noi abbiamo ricordato la trafila delle narrazioni che formano l’apparato dei “miti paralleli”. Queste narrazioni le abbiamo apprese in terza elementare come se fossero paragrafi di storia anche se filtrava l’idea che si trattava di leggende, e adesso possiamo definire in modo più preciso questa situazione: si tratta di mitologia che va parallela alla storia. Questa trafila narrativa, tramandata oralmente fino al II secolo a.C., diventa una “tradizione mitica” che ha però delle caratteristiche così veristiche da formare una linea luminosa che comincia ad accompagnare in parallelo [i miti paralleli] la linea oscura della storia. Nel II secolo a.C. – come abbiamo detto – il fatto che “in principio” alla civiltà latina ci sia lo scenario del “mondo di Janus” non piace a nessuno, e quindi succede che viene ben accolto l’autore che decide di mettere per iscritto, in poesia epica, questa trafila narrativa di carattere leggendario con un intento allusivo: quello di far credere che i racconti narrati potrebbero anche essere considerati come avvenimenti storici.

     Al termine dell’itinerario della scorsa settimana ci siamo domandate e domandati: chi è lo scrittore che compie questa operazione la quale determina un parallelismo tra il mito e la storia? Per rispondere a questa domanda dobbiamo metterci in cammino sull’itinerario specifico di questa sera.

     Lo scrittore che compie questa operazione – mettere per iscritto i “miti paralleli” di area latina – si chiama Quinto Ennio e lo abbiamo già citato più volte strada facendo. Quinto Ennio è considerato il più importante poeta della Storia della Letteratura latina dell’età arcaica, e i manuali ci spiegano che questo suo primato dipende dal fatto di aver scritto il poema nazionale della Roma repubblicana. Questo poema lo imparavano a memoria gli scolaretti romani durante la lezione di Storia: abbiamo di fronte un poeta che fa lo storico? Quando i miti diventano paralleli alla storia sono i poeti che muovono la penna, e perché Quinto Ennio è un poeta importante? I manuali si dimenticano di dire che Quinto Ennio è un autore importante perché ha trasformato in poesia epica i “miti paralleli” di area latina e il fatto che abbia creato il poema nazionale della Roma repubblicana è la conseguenza, è il risultato di questo esercizio intellettuale. E in che modo Quinto Ennio muove la sua penna?

     Prima di rispondere a questa domanda – in funzione della didattica della lettura e della scrittura –, come sapete, abbiamo un appuntamento con il testo di un romanzo scritto da Irène Némirovsky nel 1931 che s’intitola Come le mosche d’autunno di cui abbiamo già letto due capitoli. Perché c’interessa quest’opera? Perché – come sappiamo – nel testo di questo romanzo-breve ci sono una serie di elementi che coincidono con il riassunto, scritto da Cicerone nella sua opera intitolata De officiis [I doveri], di un dramma di Lucio Ambivio Turpione [attore, impresario e drammaturgo su cui abbiamo puntato la nostra attenzione] che è andato perduto ma che Cicerone, con la sua perizia di filologo, ha fatto rivivere nella trama e negli elementi  metaforici.

     Come abbiamo studiato la scorsa settimana nel romanzo della Némirovsky si riscontra un’ipotesi di sviluppo letterario. La protagonista del romanzo intitolato Come le mosche d’autunno [la conosciamo, l’abbiamo incontrata la scorsa settimana] è una vecchia nutrice che si chiama Tat’jana Ivanovna la quale con i suoi modi di fare e con le sue azioni ricalca la figura della protagonista del dramma di Lucio Ambivio Turpione che si chiama Vesta. E il personaggio di Vesta, la divina nutrice, la custode del focolare domestico, – come abbiamo imparato in questi mesi di viaggio – è una figura mitica ad ampio spettro e sappiamo che dall’acquitrinoso “mondo di Janus” questa ninfa [la ninfa Carna] trasformata in dèa dopo aver subito violenza [da parte del padre Saturno] si trasferisce nell’area dei “miti paralleli” andando ad abitare in un tempio in città attorniata da giovani sacerdotesse [le Vestali]. Irène Némirovsky mette in scena la mitica figura di Vesta nel realistico personaggio di Tat’jana Ivanovna la quale ha tante preoccupazioni, si ritrova ad avere molte responsabilità: rimane sola a custodire una grande tenuta agraria di stampo feudale perché i padroni sono fuggiti e poi le tocca essere testimone di atti di violenza che, seguendo i suoi consigli, forse, non avrebbero avuto luogo.

     Leggiamo il terzo capitolo di questo romanzo:

LEGERE MULTUM….

Irène Némirovsky, Come le mosche d’autunno

Dopo aver chiuso le porte della casa vuota, Tat’jana Ivanovna salì sul piccolo belvedere posto sul tetto. Era una tranquilla notte di maggio, già tiepida e dolce. Sucharevo era in fiamme, se ne vedeva distintamente il bagliore, e si udivano grida lontane portate dal vento.

I Karin erano fuggiti nel gennaio del 1918, cinque mesi prima, e da allora ogni giorno Tat’jana Ivanovna aveva visto villaggi bruciare all’orizzonte, e le fiamme spegnersi e poi divampare ancora, a seconda che passassero dai Rossi ai Bianchi, e poi di nuovo ai Rossi. L’incendio, però, non era mai stato così vicino come quella sera: il riflesso delle fiamme rischiarava così distintamente il parco abbandonato che si scorgevano finanche i lillà del grande viale, sbocciati il giorno prima.

Gli uccelli, ingannati dalla luce, volavano come in pieno giorno I cani latravano. Poi il vento cambiò direzione, stornando il crepitio e l’odore del fuoco. Il vecchio parco abbandonato ridivenne calmo e buio, e l’aria si riempì del profumo dei lillà. Tat’jana Ivanovna aspettò ancora qualche minuto, poi sospirò e ridiscese. Dabbasso erano stati tolti i tappeti e le tende. Le finestre erano state inchiodate con assi e sprangate. L’argenteria sistemata in fondo ai bauli, nelle cantine; il vasellame prezioso l’aveva fatto sotterrare lei, nella parte vecchia e abbandonata del frutteto. L’avevano aiutata alcuni contadini, che immaginavano di potersi impossessare, un giorno, di tutte quelle ricchezze La gente, ormai, si curava dei beni altrui unicamente per impadronirsene. Perciò non ne avrebbero fatto parola con i commissari di Mosca, e più tardi, chissà Senza di loro, d’altronde, non avrebbe potuto far niente Era sola, i domestici se n’erano andati da tempo. Il cuoco Antip, l’ultimo rimasto, aveva tirato avanti fino a marzo, poi era morto. Aveva la chiave della cantina, e non chiedeva altro. «Hai torto a non bere neanche un goccio di vino, Tat’jana,» diceva «il vino è la consolazione di tutti i mali. Vedi, siamo soli, abbandonati come cani, ma finché ho il mio vino io sputo su tutto, me ne frego di tutto». A lei però non era mai piaciuto bere. Una sera, durante una delle ultime tempeste di marzo, mentre erano entrambi seduti in cucina, lui aveva iniziato a divagare, a rievocare il tempo in cui era soldato. «Non sono poi così stupidi, i giovani, con la loro rivoluzione Un po’ per ciascuno. Adesso tocca a noi! Hanno succhiato abbastanza il nostro sangue, quei porci, quei maledetti barin …». Lei non rispose. A che sarebbe servito? Lui aveva minacciato di dar fuoco alla casa, di vendere i gioielli e le icone nascoste Aveva delirato così per un po’, e all’improvviso aveva cacciato una sorta di urlo lamentoso, esclamando: «Aleksandr Kirillovič, barin, perché ci hai abbandonati?». Dalla bocca gli era uscito un fiotto di vomito, di sangue nero e di alcol; era stato in agonia fino al mattino, poi era morto. Tat’jana Ivanovna mise le catene di ferro alle porte del salone e uscì sulla terrazza dalla porticina nascosta della galleria. Le statue erano ancora imballate nelle casse di legno in cui le avevano chiuse - e poi dimenticate - nel settembre del 1916.

Guardò la casa; il delicato colore giallo della pietra si era annerito per lo sciogliersi della neve; sotto le foglie di acanto lo stucco si scrostava, mostrando macchie biancastre simili a tracce di pallottole. Alcuni vetri della serra erano stati spaccati dal vento. «Se Nikolaj Aleksandrovič vedesse tutto questo…».

Fece qualche passo nel viale e si fermò portando le mani al cuore. La sagoma di un uomo era in piedi di fronte a lei. Guardò per un attimo, senza riconoscerlo, quel volto pallido, sfinito, sotto il berretto da soldato, poi disse con voce tremante: «Sei tu? Sei tu, Juročka? …».

«Ma sì,» fece lui con un’espressione strana, esitante e fredda «puoi nascondermi per questa notte?».

«Non preoccuparti» disse lei come una volta. Entrarono in casa, nella cucina deserta. Lei accese una candela e illuminò il viso di Jurij.

«Gesù, come sei cambiato! Sei malato?».

«Ho avuto il tifo» disse Jurij con voce lenta, bassa e roca. Sono stato male come un cane, e proprio qui vicino, a Tëmnaja Ma non avevo il coraggio di fartelo sapere. Rischio l’arresto e sono passibile di pena di morte» concluse con la stessa inflessione fredda e monocorde. «Vorrei bere…».

Lei gli mise davanti una brocca d’acqua e si inginocchiò per liberarlo dagli stracci sporchi e insanguinati che gli avvolgevano i piedi nudi.

«Ho camminato a lungo» disse lui.

La vecchia sollevò la testa e chiese: «Perché sei venuto? Qui i contadini hanno perso la testa».

«Ah, è lo stesso dappertutto. Quando sono uscito di prigione, i miei erano già fuggiti. Dove potevo andare? C’è gente che va e gente che viene, chi verso nord, chi verso sud…».

Alzò le spalle, disse con indifferenza: «E dappertutto lo stesso…».

«Sei stato in prigione?» mormorò lei giungendo le mani.

«Sei mesi».

«Perché?».

«Lo sa il diavolo ».

Tacque, rimase immobile e a fatica concluse: «Sono partito da Mosca Un giorno sono salito su un treno-ospedale e gli infermieri mi hanno nascosto Avevo ancora dei soldi Ho viaggiato con loro per dieci giorni, poi ho camminato Ma mi ero preso il tifo, e in un campo vicino a Tëmnaja mi sono accasciato a terra. Delle persone mi hanno raccolto e mi hanno tenuto con sé per un po’, ma poi, all’avvicinarsi dei Rossi, hanno avuto paura, e così me ne sono andato».

«Dov’è Kirill?».

«L’hanno messo dentro con me. Ma lui è riuscito a scappare, a raggiungere il resto della famiglia; mi hanno fatto recapitare una lettera mentre ero ancora in galera. Quando sono uscito, erano già partiti per Odessa da tre settimane. Non ho mai avuto fortuna, mia vecchia njanjuška» disse sorridendo con la sua solita aria ironica e rassegnata. «Persino in prigione, Kirill era in cella con una bella donna giovane, un’attrice francese, e io con un vecchio ebreo».

Rise e subito si interruppe, quasi stupito dal tono cupo e prostrato della propria stessa voce. Appoggiò la guancia sulla mano e sospirò: «Sono così felice di essere a casa, njanjuška» e di colpo si addormentò.

Dormì per qualche ora e lei restò a guardarlo, seduta di fronte a lui, senza fare un gesto mentre lacrime silenziose le rigavano il volto pallido. Più tardi lo svegliò, lo fece salire nella camera dei bambini, lo mise a letto. Lui delirava un po’. Parlava a voce alta, toccando ora lo spazio fra le sbarre del letto di Andrej dove una volta era appesa l’icona, ora il calendario sul muro, tuttora sovrastato, come ai tempi della sua infanzia, da un ritratto a colori dello zar. Con il dito indicava il foglietto con la data del 18 maggio 1918 e ripeteva: «Non capisco, non capisco…».

Poi guardò sorridendo la tenda che oscillava lieve, il parco, gli alberi illuminati dalla luna, e quel punto vicino alla finestra dove il vecchio pavimento si affossava leggermente; la pallida luce della luna vi si raccoglieva e ondeggiava, increspandosi come una pozza di latte. Quante volte, mentre suo fratello dormiva, si era alzato ed era rimasto seduto lì per terra ad ascoltare la fisarmonica del cocchiere, le risa soffocate delle domestiche I lillà emanavano un profumo intenso, proprio come quella notte Involontariamente tese l’orecchio, aspettandosi di cogliere il suono lamentoso della fisarmonica nel silenzio. Ma solo un leggero rimbombo attraversava l’aria di tanto in tanto. Si drizzò nel letto, toccò la spalla di Tatjana Ivanovna, seduta accanto a lui, nell’ombra.

«Che cos’è?».

«Non lo so. Lo si sente da ieri. È il tuono, forse il tuono di maggio».

«Il tuono?» disse lui, e tutt’a un tratto rise, fissandola con occhi dilatati, velati dalla febbre e da una sorta di luce fredda. «È il cannone, njanjuška! Volevo ben dire Era troppo bello…».

Pronunciò qualche parola confusa, frammista a risate, poi disse distintamente: «Morire tranquillo in questo letto, sono così stanco…».

Al mattino la febbre era scesa, e lui volle alzarsi, uscire nel parco, respirare l’aria di primavera, tiepida e pura, come una volta Solo questa non era cambiata Il parco incolto, pieno di erbacce, aveva un aspetto triste, desolato. Entrò nel piccolo padiglione, si distese per terra, giocherellò distrattamente con le schegge delle vetrate dipinte, guardando la casa attraverso i frammenti rimasti. Una notte, in prigione, quando aspettava da un giorno all’altro l’esecuzione, aveva rivisto, in sogno, la casa come gli appariva oggi dalle finestre del piccolo padiglione, ma aperta, con le terrazze piene di fiori. Nel sonno aveva percepito finanche lo zampettìo dei colombacci sul tetto. Si era svegliato di soprassalto e aveva pensato: «Domani sarò morto, poco ma sicuro. Soltanto prima di morire si possono avere ricordi del genere».

La morte. Non la temeva. Ma andarsene nel tumulto della rivoluzione, dimenticato da tutti, derelitto Sciocchezze Dopotutto, non era ancora morto Chissà, forse ce l’avrebbe fatta. Quella casa Aveva creduto di non rivederla più, e invece eccola lì, con i frammenti delle vetrate che il vento mandava sempre in frantumi. Da bambino ci aveva giocato, immaginando che fossero paesaggi italiani probabilmente a causa del loro colore violaceo di sangue e di vino nero Allora Tat’jana Ivanovna arrivava e diceva: «Tua madre ti chiama, tesoro mio…».

Tat’jana Ivanovna entrò con in mano un piatto di patate e del pane.

«Come te la cavi per mangiare?» le chiese.

«Alla mia età non si ha bisogno di molto. Patate ne ho sempre avute, e qualche volta in paese si trova del pane Non mi è mai mancato niente».

Si inginocchiò accanto a lui, imboccandolo come se fosse troppo debole per portarsi il cibo alle labbra.

«Jurij e se tu partissi adesso?».

Lui aggrottò le sopracciglia e la guardò senza rispondere: «Potresti andare a piedi fino alla casa di mio nipote,» proseguì la balia «lui non ti farà certo del male: se hai dei soldi, ti aiuterà a trovare dei cavalli e potresti andare a Odessa. È lontano?».

«Tre o quattro giorni di treno, in tempi normali Adesso, chi può dirlo…».

«Che altro fare? Dio ti aiuterebbe. Potresti raggiungere i tuoi e dar loro questi. Non ho mai voluto affidarli a nessuno,» disse indicando l’orlo della gonna «sono i diamanti della collana di tua madre. Prima di partire mi aveva detto di nasconderli. Loro non hanno potuto portarsi via niente, sono partiti la notte in cui i Rossi hanno preso Tëmnaja e temevano di essere arrestati E adesso come vivranno?».

«Male, probabilmente» disse lui alzando le spalle con un gesto spossato. «Be’, ne riparleremo domani. Ma non ti illudere, è lo stesso dappertutto, e qui, almeno, i contadini mi conoscono, io non ho mai fatto loro del male…».

«Chi può sapere che cos’hanno in mente quei cani?» borbottò lei.

«Domani, domani,» ripeté Jurij chiudendo gli occhi «domani vedremo. Si sta così bene qui, mio Dio…».

Rimase lì per tutta la giornata. A sera si avviò verso casa. Era un bel crepuscolo limpido e tranquillo come quello del giorno prima. Fece il giro più lungo, costeggiando il laghetto. In autunno i cespugli che lo circondavano si erano sfogliati, ed era ancora coperto da uno spesso strato di foglie morte, rimaste sotto il ghiaccio invernale. I fiori di lillà cadevano come una pioggia leggera; l’acqua nera si scorgeva appena, a chiazze, un debole luccichio.

Entrato in casa, salì in camera dei bambini. Tat’jana Ivanovna aveva apparecchiato davanti alla finestra aperta. Lui riconobbe una delle tovagliette di tela fine che venivano usate per dar da mangiare ai bambini nella loro stanza quando erano malati, la forchetta e il coltello di vermeil antico e il vecchio boccale di metallo divenuto opaco.

«Mangia, bevi, tesoro mio. Ti ho preso una bottiglia di vino in cantina, e qui ci sono delle patate cotte sotto la cenere: una volta ti piacevano tanto…».

«Adesso non le posso più vedere,» disse lui ridendo «ma grazie lo stesso, vecchia mia».

Si stava facendo notte. Lui le fece accendere una candela e la mise su un angolo del tavolo. La fiamma ardeva, dritta e trasparente nell’oscurità immota. Che silenzio Jurij chiese: «Njanjuška, perché non hai seguito i miei?».

«Doveva pur restare qualcuno a sorvegliare la casa».

«Davvero?» fece lui con una sorta di malinconica ironia. «E per chi, mio Dio?».

Si azzittirono. Lui chiese ancora: «Non avresti voglia di raggiungerli?».

«Sì, se mi mandano a chiamare. Troverò la strada; grazie a Dio non sono né impacciata né sciocca Ma che ne sarebbe della casa?».

Si interruppe bruscamente, poi disse sottovoce: «Ascolta!…».

Qualcuno stava bussando al piano di sotto. Istintivamente si alzarono entrambi. «Nasconditi, nasconditi per l’amor di Dio, Jurij!».

Jurij si avvicinò alla finestra e guardò fuori di soppiatto. Si era alzata la luna. In piedi in mezzo al viale c’era un ragazzo, che indietreggiò di qualche passo e poi chiamò: «Jurij Nikolaevič! Sono io, Ignat!…».    Jurij l’aveva riconosciuto. Era un giovane cocchiere che era stato allevato nella casa dei Karin. Jurij aveva giocato con lui da bambino. Ed era lui che cantava nel parco, suonando la fisarmonica, nelle notti d’estate.

«Se questo qui vuole farmi del male,» pensò subito Jurij «che vada tutto al diavolo, io per primo!…».

Si sporse dalla finestra e gridò: «Sali, amico!».

«Non posso, la porta è sprangata».

«Scendi ad aprire, nijanja, è da solo».

Lei bisbigliò: «Che hai fatto, povero te?».

Lui fece un gesto stanco con la mano.

«Sarà quel che sarà Del resto, mi aveva già visto Su va’ ad aprirgli…».

La vecchia rimase ferma impalata, tremante e in silenzio, ma non appena Jurij si diresse verso la porta lo fermò, con il sangue che d’un sol colpo le affluiva alle gote. «Ma che fai? Non tocca a te scendere ad aprire al cocchiere. Aspetta».

Lui alzò appena le spalle e si risedette.

Quando lei tornò insieme a Ignat, si alzò e andò loro incontro.

«Salve, sono contento di vederti».

«Anch’io, Jurij Nikoiaevič» disse il ragazzo sorridendo. Aveva un bel faccione roseo e pieno.

«Hai mangiato a sazietà?».

«Dio mi ha aiutato, barin».

«Suoni ancora la fisarmonica?».

«Quando capita…».

«Allora avrò di nuovo occasione di sentirti Mi fermo qui per un po’…».

Ignat non rispose; continuava a sorridere mostrando i grossi denti lucenti.

«Vuoi bere? Dagli un bicchiere, Tat’jana».

La vecchia obbedì con aria seccata. Il ragazzo bevve.

«Alla vostra salute, Jurij Nikoiaevič».

Tacquero. Tat’jana Ivanovna si fece avanti: «Basta così. Adesso vattene. Il nostro barin è stanco».

«Però dovreste venire con me in paese, Jurij Nikoiaevič…».

«Ah, e perché?» mormorò Jurij con un cedimento involontario della voce. «Perché, amico?».

«È necessario».

Tat’jana Ivanovna fece per slanciarsi d’impeto in avanti, e sul suo viso mite e pallido Jurij vide improvvisamente disegnarsi un’espressione così selvaggia, così strana, che rabbrividì e disse con una sorta di disperazione: «Lascia perdere. Taci, ti supplico. Lascia perdere, non fa niente…».

Lei gridava senza ascoltarlo, le mani scarne protese come artigli: «Ah, diavolo maledetto, figlio di un cane! Credi che io non ti legga i pensieri negli occhi? E chi sei tu per dare ordini al tuo padrone?».

Ignat si girò verso di lei con una faccia mutata, gli occhi scintillanti, poi parve calmarsi, e con indifferenza disse: «Sta’ zitta, nonna. In paese ci sono delle persone che vogliono vedere Jurij Nikolaevič, tutto qui…».

«Sai almeno che cosa vogliono da me?» domandò Jurij. Di colpo si sentiva sfinito, con un solo sincero e profondo desiderio nel cuore: coricarsi e dormire a lungo. «Parlarvi della spartizione del vino. Abbiamo ricevuto ordini da Mosca».

«Ah, è per questo? Il mio vino ti è piaciuto, vedo. Ma potevate anche aspettare fino a domani, mi pare».

Si diresse verso la porta. Ignat lo seguì e sulla soglia si fermò. Per un attimo sembrò esitare, poi d’improvviso, con lo stesso movimento con cui un tempo afferrava la frusta, portò la mano alla cintura, tirò fuori la pistola e sparò due colpi. Uno colpì Jurij in mezzo alle scapole; lui emise una specie di grido stupito, poi un gemito. Il secondo penetrò nella nuca, uccidendolo sul colpo.

     Questo capitolo finisce in tragedia e la tragedia è un argomento che richiama il personaggio che stiamo per incontrare: il poeta Quinto Ennio. Chi è Quinto Ennio, e che cosa rappresenta nel territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”?

     Abbiamo già detto che Quinto Ennio viene considerato il “padre” dell’epica latina: colui che scrive il poema nazionale della Roma repubblicana. Quinto Ennio, in realtà – secondo il metro della filologia, che noi utilizziamo in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è un autore importante sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” perché ha saputo trasformare in poesia epica i “miti paralleli” di area latina che venivano tramandati per via orale, e il fatto che abbia creato il poema nazionale della Roma repubblicana è la conseguenza di questo importante esercizio intellettuale di traduzione dalla volatile oralità leggendaria alla scrittura poetica tanto somigliante alla storia. Chi è Quinto Ennio e come muove la sua penna?

     Quinto Ennio è un’importante figura di raccordo nel primo tratto della rete che costituisce l’apparato della Letteratura latina. Questo personaggio, infatti, rappresenta una sintesi degli elementi che caratterizzano la prima fase della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” e che – come sappiamo – si possono riassumere con la parola-chiave “integrazione”: con tutto il ventaglio di possibilità che il concetto di “integrazione” – a cominciare dal fondamentale incontro tra la cultura greca e la cultura latina – può offrire. Con Ennio il processo di integrazione tra la cultura greca e la cultura latina si compie definitivamente e con lui diventa anche più stretto, a Roma, il legame fra gli artisti e il potere politico ed economico [così come era successo qualche secolo prima nell’Atene di Pericle]: anche Ennio viene accolto nel Circolo degli Scipioni e il suo ingresso in questa istituzione potrebbe essere considerato una specie di tradimento e fra un po’ vedremo di che cosa si tratta.

     Dobbiamo dire che Ennio è stato il primo autore a scrivere in latino superando l’arcaico “verso saturnio” e utilizzando il “verso esametro” greco creando, quindi, un modello di stile per i poeti successivi: per Lucrezio, per Virgilio. Anche Ennio, secondo la tradizione per cui gli scrittori latini non sono romani, è – se così si può dire – uno straniero, ed è proprio facendo questo discorso che, qualche mese fa, lo abbiamo già nominato più di una volta.

     Ennio è nato nel 239 a.C., subito dopo la prima guerra punica, a Rudiae, nella regione che gli antichi chiamavano Calabria e che corrisponde all’attuale Puglia meridionale dove si incontravano la cultura osca, la greca e la latina. Ennio comprende perfettamente l’importanza di conoscere tre lingue e per questo si è sempre vantato – e lo abbiamo già citato proprio per questo particolare – di avere tre “anime”: quella osca, quella greca e quella latina. Ed Ennio ha sempre riconosciuto che l’avere tre anime ha fatto sì che lui abbia dovuto compiere un utile esercizio di integrazione culturale che ha favorito la sua capacità di investire in intelligenza.

     Possiamo, oggi, fare una visita a Rudiae? Non solo possiamo, ma dobbiamo fare una visita all’antica Rudiae! Per visitare gli scavi di Rudiae dobbiamo raggiungere Lecce: avete visitato questa città, il capoluogo storico ed economico del Salento, situata a 12 chilometri dal mar Adriatico e a 25 dal mar Ionio al centro di un tavoliere calcareo ricco di un particolare materiale da costruzione? Lecce è una città elegante, abbellita dalle fastose e raffinate costruzioni barocche edificate [nel XVII e nel XVIII secolo] – in un tessuto urbano d’impronta medioevale – nella caratteristica pietra tenera locale, di un bel colore caldo, che le danno un’impronta inconfondibile e sono la testimonianza di una singolare fioritura artistica e culturale che ha fatto sì che questa città venga chiamata la “Firenze del barocco” e la “Atene delle Puglie”.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con una guida della regione Puglia fate una visita ai monumenti della città di Lecce compresi quelli appartenenti all’epoca romana…

     Ebbene, visitando il centro di Lecce, camminando da Piazza del Duomo fino in fondo a via Giuseppe Libertini, s’incontra l’arco di Porta Rudiae o Rusce, costruito nel 1703 e sormontato dalle statue di Sant’Oronzo, San Domenico e Sant’Irene. La porta, inoltre, è ornata da quattro busti in pietra che sintetizzano la storia primordiale di Lecce: c’è il busto di Malennio, il re dei Salentini e fondatore della città, quello di Dauno, figlio e successore di Malennio, quello di Euippa, sorella di Dauno e sposa di Idomeneo, che viene raffigurato nel quarto busto e che rappresenta il secondo fondatore della città. Fuori Porta Rudiae si leva una colonna in granito grigio donata dal Comune di Roma alla città di Lecce per ricordare la figura di Quinto Ennio e qui, difatti, ci troviamo sulla strada che porta, dopo tre chilometri, a raggiungere gli scavi di Rudiae, la città messapica, poi municipio romano, dove Ennio è nato.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Puglia, o collegandovi alla rete, fate un’escursione al sito di Rudiae...

Buon viaggio…    

     E adesso riprendiamo il filo che stiamo tessendo sulla vita di Ennio per continuare a fare conoscenza con lui.

     Della sua giovinezza a Rudiae noi non sappiamo nulla, la notorietà di Ennio ha inizio quando incontra il personaggio insieme al quale abbiamo iniziato questo viaggio – e che zitto zitto continua ad accompagnarci – Catone il Censore. Ma procediamo con ordine.

     È molto probabile che Ennio si sia formato intellettualmente nel vivace ambiente culturale della ricca polis di Taranto [in ambiente orfico-pitagorico] ma, come abbiamo detto, non si sa nulla di lui fino al 204 a.C. l’anno in cui Catone il Censore – che aveva il ruolo di tribuno militare – lo conduce con sé a Roma dalla Sardegna dopo aver preso atto della sua preparazione culturale e delle sue capacità intellettuali. Che cosa ci faceva Ennio in Sardegna? Ennio in Sardegna prestava servizio militare nell’esercito romano, probabilmente come semplice centurione. Sotto la protezione di Catone Ennio si stabilisce nella capitale, si dedica all’insegnamento e si afferma come poeta e come autore di teatro. Ennio, però, ha una mentalità inter-nazionale di stampo ellenistico e, quindi, meno conservatrice rispetto a quella di Catone orientata verso il mondo agrario e di matrice nazionalistica e, di conseguenza, il Censore rompe i rapporti con lui.

     Ennio allora diventa amico di persone importanti appartenenti all’area dei mercanti illuminati, conosce i potenti Scipioni ed entra a far parte del loro Circolo culturale ed è ben accolto perché Ennio, che è cresciuto nella Magna Grecia, opera culturalmente per l’espansione della cultura greca a Roma e questa idea – come sappiamo – fa parte del programma del Circolo degli Scipioni. Nonostante la familiarità con gli Scipioni, Ennio però non accetta di vivere come ospite nella loro grande e lussuosa casa – in certe scelte è più vicino a Catone – ma continua ad alloggiare sull’Aventino, come tramanda San Gerolamo, in una modesta stanza del Collegium scribarum histrionumque [il Collegio degli scrittori di teatro e degli attori], l’istituzione, fondata da Livio Andronico per sostenere gli attori e gli scrittori teatrali, di cui Ennio assunse la direzione.

     Nel 189 a.C. Ennio accompagna in Etolia il generale Marco Fulvio Nobiliore con l’incarico di scrittore e ne celebra le imprese belliche, culminate nella conquista di Ambràcia. Non si può perdere l’occasione – utilizzando la guida della Grecia o collegandosi alla rete – di compiere un’incursione ad Ambràcia [Ambrakìa] che oggi si chiama Àrta ed è una cittadina [di circa ventimila abitanti] situata al centro dell’Epiro nella piana del fiume Àrahthos. Oggi Àrta conserva una significativa impronta turca che è stata contaminata culturalmente dalla costruzione, nel 1200, di molte chiese bizantine: il nome Àrta è di origine bizantina. L’antica Ambrakìa è stata fondata nel VII secolo a.C. da coloni provenienti da Corinto, poi nel III secolo a.C. è stata la capitale del regno di Pirro, il re dell’Epiro ed è diventata una delle più belle città ellenistiche della Grecia continentale. Nel 189 a.C. viene conquistata dai Romani: ed è presente anche Ennio a documentare con la penna questa conquista. Àrta si trova ad una ventina di chilometri dal mar Ionio, tuttavia è collocata davanti al famoso golfo Ambracico, un’insenatura dall’ingresso stretto tra due penisole che diventa un profondo bacino interno: andate ad osservarlo sulla carta geografica. Il giro del golfo Ambracico – dalle rive basse e pressoché deserte soprattutto nella parte settentrionale, nella parte meridionale la strada è panoramica ed è adiacente alla costa – è interessante perché, strada facendo, s’incontrano una serie di cittadine e di siti che rendono questa escursione significativa dal punto di vista storico, archeologico e paesaggistico. S’incontra anche il sito della città di Nikòpoli che ricorda una famosa battaglia navale che si è combattuta da queste parti e che ha determinato un fondamentale cambiamento nella storia di Roma.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Utilizzando la guida della Grecia o collegandovi alla rete fate una ricerca su Nikòpoli – la fondazione di questa città ha determinato anche la decadenza di Ambràcia – partendo da Àrta e circumnavigando il golfo Ambracico  Buon viaggio

     Torniamo a Ennio dicendo che Catone il Censore condanna duramente, come contraria alla tradizione romana, l’usanza ellenizzante di farsi accompagnare nelle campagne militari da un poeta. Il legame tra scrittori e potere politico ed economico diventa con Ennio decisamente stretto. Nel 184 a.C., segue nel Piceno Quinto Fulvio Nobiliore, figlio di Marco, che si era recato in quella regione per fondare alcune colonie militari: in questa occasione Ennio ottiene un piccolo podere e la cittadinanza romana, un riconoscimento pubblico dei suoi meriti di poeta, e assume il nome, Quinto, del suo sponsor [sponsor è una parola latina] del generale Quinto Fulvio Nobiliare. Quinto Ennio muore di gotta a Roma, nel 169 a.C. e, secondo la tradizione, gli Scipioni gli avrebbero innalzato una statua nel sepolcro di famiglia, fuori Porta Capena, accanto a quella di Scipione l’Africano.

     L’intensa attività poetica di Ennio, che dura circa un trentennio, sfocia in una produzione imponente e variegata e questo è l’indice della vastità dei suoi interessi culturali. La fama di Ennio è durata a lungo presso i Romani e lo testimoniano i numerosissimi frammenti delle sue opere, pervenuti per via indiretta, come citazioni di scrittori dei secoli successivi.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Catone il Censore e Quinto Ennio si trovano in disaccordo e rompono i rapporti tra loro… Avete vissuto l’esperienza di rompere i rapporti con persone con le quali, ad un certo punto, vi siete trovate, vi siete trovati in disaccordo di idee?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     Prima di occuparci delle opere di Ennio continuiamo a leggere il romanzo scritto da Irène Némirovsky nel 1931 che s’intitola Come le mosche d’autunno di cui abbiamo già letto tre capitoli, questo è il quarto.

LEGERE MULTUM….

Irène Némirovsky, Come le mosche d’autunno

Un mese dopo la morte di Jurij un cugino dei Karin, un vecchio mezzo morto di fame e di fatica, in viaggio da Odessa a Mosca in cerca della moglie scomparsa durante il bombardamento di aprile, si fermò una notte da Tat’jana Ivanovna. Le diede notizie di Nikolaj Aleksandrovič e dei suoi, e il loro indirizzo. Erano in buona salute, ma vivevano in estrema povertà. «Se tu potessi trovare una persona fidata…» esitò «per portar loro quello che avevano lasciato…».

La vecchia partì per Odessa con i gioielli cuciti nell’orlo della gonna. Per tre mesi camminò di strada in strada, come quando, ai tempi della sua giovinezza, andava in pellegrinaggio a Kiev, salendo a volte sui treni di affamati che cominciavano a scendere verso sud. Arrivò dai Karin una sera di settembre. Mai avrebbero scordato il momento in cui lei aveva bussato alla porta e aveva fatto la sua comparsa, sfinita ma tranquilla, con il fagotto di stracci sulla schiena e i diamanti che le sbattevano contro le gambe stanche; né avrebbero scordato il suo volto pallido da cui sembrava essere defluito tutto il sangue, o la sua voce quando aveva annunciato loro la morte di Jurij. I Karin abitavano in una stanza buia nel quartiere del porto; davanti alle finestre erano appesi sacchi di patate per attutire l’urto degli spari. Elena Vassilievna era coricata su un vecchio materasso gettato sul pavimento, mentre Loulou e Andrej giocavano a carte alla luce di un fornelletto dove finivano di consumarsi tre pezzi di carbone. Faceva già freddo, e dai vetri rotti entrava il vento. Kirill dormiva in un angolo, e Nikolaj Aleksandrovič dava inizio allora a quella che in seguito sarebbe diventata l’occupazione principale della sua vita: andare da una parete all’altra, con le mani incrociate dietro la schiena, pensando a tutte le cose che non sarebbero tornate mai più.

«Perché lo hanno ucciso?» domandò Loulou. «Perché, mio Dio, perché?». Le lacrime le scorrevano sul viso, un viso che era cambiato, invecchiato.

«Avevano paura che venisse a riprendersi le terre. Ma dicevano che era sempre stato un bravo barin, e che bisognava risparmiargli l’umiliazione di un processo e di un’esecuzione, che era meglio ammazzarlo così…».

«Che vigliacchi, che animali!» gridò Kirill con foga. «Colpirlo alle spalle! Maledetti contadini! Vi abbiamo frustati troppo poco, a suo tempo!». Mostrò il pugno alla vecchia con una sorta di odio: «Capisci? Capisci?».

«Sì,» disse lei «ma a che serve disperarsi per come è morto? Dio lo ha accolto anche senza i sacramenti, l’ho visto dal suo volto sereno. Che Dio conceda a noi tutti una fine altrettanto tranquilla Non si è accorto di niente, non ha sofferto».

«Ah, tu non capisci!».

«È meglio così» insistette lei.

Fu l’ultima volta che pronunciò il nome di Jurij a voce alta; su quel nome sembrava aver serrato per sempre le vecchie labbra. Quando gli altri parlavano di lui non rispondeva, restava muta e impassibile, fissando il vuoto con una sorta di gelida disperazione.

L’inverno fu estremamente duro. Non avevano né pane, né vestiti. Soltanto i gioielli portati da Tat’jana Ivanovna a volte procuravano loro un po’ di denaro. La città bruciava; la neve cadeva uniforme, ricoprendo le travi carbonizzate delle case distrutte, i cadaveri degli uomini e quelli dei cavalli sventrati. In altri momenti la città si riprendeva: Dio solo sa come arrivavano provviste di carne, frutta, caviale Le cannonate cessavano, la vita ricominciava, precaria e inebriante Inebriante a vederla così erano soltanto Kirill e Loulou Il ricordo di certe notti, di certe gite in barca con altri giovani, del sapore dei baci, del vento che all’alba soffiava sulle acque in tempesta del Mar Nero, non si sarebbe mai più cancellato in loro.

Il lungo inverno passò, e poi l’estate e l’inverno successivo, quando la carestia divenne così terribile che i bambini morti venivano sotterrati, a mucchi, dentro a sacchi laceri. I Karin sopravvissero. Nel mese di maggio riuscirono a imbarcarsi sull’ultimo bastimento francese che lasciava Odessa e a raggiungere Costantinopoli e di lì Marsiglia.

Sbarcarono nel porto di Marsiglia il 28 maggio 1920. A Costantinopoli avevano venduto gli ultimi gioielli, e quindi possedevano un po’ di denaro, cucito nelle cinture secondo una vecchia usanza Vestiti di stracci, avevano volti strani e sconvolti, duri e disperati. I ragazzi, nonostante tutto, sembravano allegri; ridevano con una specie di cupa indifferenza, che faceva sentire i vecchi ancora più stanchi.

L’aria limpida di maggio profumava di fiori e di spezie; la folla camminava lentamente, fermandosi davanti alle vetrine, ridendo e parlando a voce alta; le luci, la musica nei caffè, tutto sembrava irreale come un sogno.        Mentre Nikolaj Aleksandrovič prendeva le camere in albergo, i ragazzi e Tat’jana Ivanovna aspettarono fuori. Loulou, con il volto pallido proteso in avanti e gli occhi chiusi, respirava a pieni polmoni l’aria profumata della sera. Grossi lampioni elettrici illuminavano la strada con una luce azzurra e diffusa; il vento agitava i rami di certi alberelli dai tronchi sottili, riuniti in mazzetti. Passarono dei marinai e guardarono ridendo quella bella ragazza immobile. Uno di loro le lanciò garbatamente un rametto di mimosa. Loulou si mise a ridere. «Che paese meraviglioso!» disse. «Par di sognare, njanjuška, guarda…».

Ma la vecchia, seduta su una panchina, sembrava sonnecchiare, con lo scialle tirato sulla testa canuta e le mani incrociate sul grembo. Loulou vide che aveva gli occhi aperti e guardava fisso davanti a sé. Le toccò una spalla, la chiamò: «Njanjuška, che cos’hai?».

Tat’jana Ivanovna trasalì bruscamente, si alzò in piedi. In quel momento Nikolaj Aleksandrovič fece loro segno di raggiungerlo.

Entrarono, e attraversarono lentamente la hall sentendosi addosso sguardi curiosi. Gli spessi tappeti ai quali non erano più abituati sembravano incollarsi alle suole come vischio. L’orchestra del ristorante suonava. Si fermarono ad ascoltare quella musica jazz che sentivano per la prima volta, provando una specie di vago spavento, di estasi insensata. Era un altro mondo

Entrarono nelle loro camere e indugiarono a lungo davanti alle finestre a guardare le auto passare in strada. I ragazzi ripetevano: «Usciamo, usciamo, andiamo in un caffè, in un teatro…».

Fecero il bagno, spazzolarono gli abiti, si precipitarono alla porta. Nikolaj Aleksandrovič e sua moglie li seguivano con maggior lentezza, con maggior fatica, ma divorati anche loro da una sete di libertà e di aria.

Sulla soglia Nikolaj Aleksandrovič si voltò. Loulou aveva spento la luce. Avevano dimenticato Tat’jana Ivanovna seduta davanti alla finestra. Il chiarore di un lampione a gas posto di fronte al balconcino le illuminava la testa china. Era immobile, sembrava in attesa. Nikolaj Aleksandrovič chiese: «Vieni con noi, njanjuška?».

Non rispose.

«Non hai fame?».

Scosse la testa, poi di colpo si alzò, intrecciando nervosamente le frange dello scialle. «Devo disfare le valigie dei ragazzi? Quando ripartiamo?».

«Ma siamo arrivati» disse Nikolaj Aleksandrovič. «Perché vuoi ripartire?».

«Non so» mormorò con un’espressione stanca e assente. «Pensavo…».

Sospirò, allargò le braccia, disse piano: «Va bene».

«Vuoi venire con noi?».

«No grazie. Elena Vassilievna,» si sforzò di articolare «no, davvero…».

Si sentivano i ragazzi correre in corridoio. I vecchi si guardarono in silenzio, sospirando, poi Elena Vassilievna fece un gesto stanco con la mano e uscì. Nikolaj Aleksandrovič la seguì, dopo aver richiuso la porta piano piano.

     L’attività letteraria di Ennio dura circa un trentennio e la mole della sua opera è imponente ed è ispirata a molti interessi culturali che lui coltiva. I frammenti che ci sono rimasti delle sue opere sono numerosissimi e ci sono pervenuti per via indiretta, attraverso le citazioni di molti scrittori dei secoli successivi, tuttavia questa frammentazione non permette di avere un quadro esaustivo della sua produzione letteraria. Che cosa ha scritto Ennio?

     La notorietà di Ennio è dovuta soprattutto ad un’opera che s’intitola Annales [Annali]. Si tratta di un poema epico a cui Ennio ha dedicato gli ultimi anni della sua vita. Questo poema ha inizio con l’invocazione alle Muse che devono ispirare il poeta a cantare [a mettere in versi] un fantastico sogno, nel quale gli appare Omero: questo incipit del poema epico di Ennio – composto in perfetto stile omerico – fa sì che quest’opera entri nell’ambito della Storia Pensiero Umano. Che significato ha questa affermazione che fa di Ennio un poeta “filosofo”? Omero, nel sogno, rivela ad Ennio che la sua anima di poeta, e di cantore delle epiche gesta dei Greci, è rinata in lui, in Ennio, poeta di Rudiae [figlio della Magna Grecia], che deve diventare il glorificatore della Romanità.

     Lo schema iniziale del poema è, quindi, quello di una visione e, potremmo dire, che Omero è per Ennio quello che Virgilio è per Dante nella Divina Commedia. In questo schema – secondo le dinamiche della Storia del Pensiero Umano – affiora un’idea che, da questo momento, comincia a radicarsi con successo a Roma: il concetto orfico-pitagorico della metempsicosi, della “trasmigrazione delle anime”.

     Ennio – come abbiamo detto prima – ha studiato a Taranto, e a Taranto c’era la più importante Scuola pitagorica dell’antichità fondata, nel IV secolo a.C., dal grande matematico e studioso di geometria Archita di Taranto [colui che ha messo il pensiero di Pitagora per iscritto], filosofo e politico amico di Platone [lo abbiamo incontrato nella Scuola di Atene di Raffaello, ve lo ricordate quel viaggio?]. Ennio porta nel Circolo degli Scipioni il pensiero orfico-pitagorico che fa crescere a Roma il gusto per la filosofia greca: Ennio crede nella metempsicosi e pensa davvero che l’anima [intellettuale] di Omero si sia trasferita in lui. L’atteggiamento “filosofico” di stampo greco che con Ennio entra nella cultura latina, si basa sul concetto di “coerenza”: se la figura di Omero si è reincarnata in quella di Ennio significa che ha delle responsabilità poetiche che gli impongono di tradurre e di interpretare in latino il modello greco. Con Ennio l’eredità omerica entra [in integrazione] a pieno titolo nel mondo romano. Abbiamo studiato [all’inizio del nostro viaggio] che con Catone il Censore entra [in integrazione] nel mondo romano anche lo stile di Esiodo, ora, con Ennio – Catone ed Ennio sono contemporanei – entra nella cultura latina il modello omerico: nel II secolo a.C., quindi, l’epica classica ellenica [Omero ed Esiodo] si radica a Roma sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”.

     Ennio stesso ha pubblicato i 18 libri degli Annales [Annali] man mano che li ha composti. Il poema epico di Ennio era formato da circa trentamila versi, oggi ne rimangono circa seicento sparsi e frammentati. Da questi seicento frammenti si capisce che Ennio con quest’opera vuole celebrare la storia di Roma in ordine cronologico: dalle origini leggendarie con l’arrivo di Enea nel Lazio fino agli avvenimenti contemporanei alla vita del poeta. Ennio, per scrivere gli Annales [Annali], oltre al modello omerico, trova dei punti di riferimento nella Letteratura latina degli albori che si è già sviluppata in integrazione con la cultura greca.

     Dobbiamo dire che a Roma c’era già stata un’esperienza “annalistica” – scrittori che narrano, anno per anno, gli avvenimenti più importanti della vita dello Stato – e dobbiamo ricordare che il più autorevole tra gli “annalisti” romani è Quinto Fabio Pittore. Gli “annalisti” romani però, compreso Quinto Fabio Pittore, non scrivono in latino ma in greco perché, prima di tutto, sono influenzati dalla raffinata prosa letteraria ellenica e poi perché vorrebbero rivolgersi a lettori non latini che abitano nel bacino del Mediterraneo dove il greco continua ad essere la lingua [la lingua della koiné] più diffusa.

     Chi è Quinto Fabio Pittore, il più autorevole tra gli “annalisti” romani? Quinto Fabio Pittore [260 a.C. circa - 190 a.C.] è stato senatore e ha combattuto contro i Galli e contro Cartagine. Nel corso della seconda guerra punica, dopo la disastrosa sconfitta di Canne inflitta ai Romani da Annibale [216 a.C.], Quinto Fabio Pittore viene inviato dal Senato in Grecia a consultare l’oracolo di Delfi sulla sorte di Roma e sembra che la sacerdotessa di Apollo gli abbia comunicato il seguente responso: “una città che non ha ancora scritto nulla sulle proprie origini è destinata a fare una brutta fine”. Quinto Fabio Pittore tornato a Roma comincia subito a scrivere in lingua greca i suoi Annales [Annali] partendo dalla leggenda, tramandata oralmente, dell’arrivo di Enea nel Lazio e la sua narrazione arriverà fino al 202 a.C., l’anno della battaglia di Zama, in cui i Romani sconfiggono i Cartaginesi [è proprio vero che bisogna dar retta agli Oracoli quando esaltano il valore della scrittura, specialmente a quello di Delfi].

     Dell’opera di Quinto Fabio Pittore ci rimangono pochi frammenti, insufficienti per esprimere un giudizio di merito, però possiamo dire che Ennio prende spunto da questa antica letteratura “annalistica” [gli “annalisti” latini operanti nel III secolo a.C. sono molti ma rimane solo l’elenco dei loro nomi] per comporre il catalogo dei “miti paralleli”, per ordinare l’indice dei racconti sulle origini della civiltà romana che lui s’impegna a tradurre in poesia epica.

     Poi Ennio – per quanto riguarda le fonti – ha la possibilità di poter consultare il poema intitolato Bellum Poenicum [la guerra punica] di Gneo Nevio, uno scrittore che abbiamo incontrato, insieme a Livio Andronico, qualche settimana fa: Gneo Nevio e Livio Andronico, come sappiamo, sono i primi due scrittori della nascente Letteratura latina. Ennio però non ha molta stima di Nevio: lo considera un autore arcaico: difatti Ennio si distingue da Nevio tanto per l’ampiezza della trattazione storica quanto per l’uso dell’“esametro dattilico”, il verso dell’epica greca. Nevio, nella sua opera sulla Guerra punica e Livio Andronico nella sua traduzione in latino dell’Odissea [Odusia] hanno usato entrambi, come sappiamo, il “verso saturnio” che è un metro piuttosto libero e assai impreciso.

     Il “verso esametro greco” utilizzato da Ennio per scrivere in latino gli Annales [Annali] comporta molta accuratezza da parte del compositore per cui Ennio ha dovuto predisporre norme ben precise e costanti che lo hanno costretto a faticosi studi grammaticali e ad audaci sperimentalismi linguistici. Nei frammenti dell’opera di Ennio troviamo un inventario limitato, ma molto significativo, di neologismi, di parole di gusto arcaico, di onomatopee, di parole troncate e di costrutti alla greca.

     Ennio vuole scrivere gli Annales [Annali] per esaltare il popolo romano, la cui grandezza è per lui frutto dell’intervento divino: il risultato della Fortuna [come pensavano Polibio e Panezio, ricordate?]. Tutto il suo poema è immerso in un’atmosfera eroica e, per dare forma epica agli avvenimenti narrati, si serve del modello omerico: l’avventura di Enea nel Lazio viene decisa dal concilio degli dèi e, quindi, anche i reali fatti storici vengono trasfigurati in modo mitico. I condottieri romani si comportano come eroi dei tempi omerici e anche gli avvenimenti contemporanei al poeta sono avvolti in un alone leggendario.

     I versi che ci sono rimasti degli Annales [Annali] di Ennio mostrano una poesia vigorosa e appassionata, capace di coltivare aspetti meditativi ma anche di trattare con leggerezza temi delicati tanto da assumere venature ironiche e anche [involontariamente] comiche proprio per il fatto che lo stile vuole essere solenne e magniloquente. Lo stile di Ennio, per le studiose e gli studiosi di filologia, è interessante perché è intriso di grecismi e di similitudini, con esametri che formano frequenti allitterazioni [giochi di parole], come il famoso verso: «O Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranno, tulisti [O Tito Tazio, tu, tiranno, hai portato a te tanto grandi sventure].».

     L’influenza che gli Annales [Annali] di Ennio hanno esercitato sull’opera degli scrittori successivi – soprattutto su Lucrezio e su Virgilio – è stata grande. Ennio è stato il primo scrittore romano – che opera sul territorio della “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale” – ad essere considerato “autorevole”: la sua opera viene studiata nelle Scuole e lui vive sobriamente appartato secondo lo stile degli antichi filosofi greci [Pitagora, Eraclito] e, nell’ultima parte della sua vita, ci gioca un po’ su questo alone di stampo mitico che avvolge anche lui. Le rare volte in cui parla in pubblico – queste cose le sappiamo perché Ennio ha scritto anche degli Epigrammi autocelebrativi di cui ci rimane qualche frammento – dice poche parole affermando di essere davvero la reincarnazione di Omero e di venire quasi tutte le notti trasportato in sogno sul monte Parnaso, dove gli appare l’ombra del grande aedo cieco che gli canta molti bei versi. Questo ci fa capire la consapevolezza che il poeta Ennio – per primo a Roma – ha avuto della propria autorevolezza culturale e della funzione pubblica della sua opera. L’impronta che Ennio ha lasciato è giunta intatta fino a noi, scolarette e scolaretti di terza elementare del XX secolo, che abbiamo conosciuto le trame leggendarie del suo poema epico come se fossero la storia del glorioso popolo romano.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Ricordate un personaggio della storia romana che vi è rimasto particolarmente impresso?...

Scrivete quattro righe in proposito...

     Un altro merito di Ennio è quello di avere scritto – praticamente per tutto il corso della sua vita – per il teatro. Ennio viene ricordato come autore di tragedie che sono state ammirate e rappresentate per tutto il secolo a lui successivo e anche oltre: Cicerone – grande appassionato di teatro – lo apprezzava per la sua produzione drammatica. Di Ennio ci sono pervenuti i titoli di 22 tragedie e circa 200 frammenti, la maggior parte dei quali citati proprio da Cicerone. Gli argomenti preferiti da Ennio sono quelli del ciclo troiano e i titoli delle sue tragedie confermano questo fatto: Alessandro [l’altro nome di Paride], Andromaca prigioniera, Ifigenia, Telamone, Ecuba, Achille, Aiace. Ennio, come drammaturgo, s’ispira ai classici greci, soprattutto ad Euripide ma anche a Sofocle e a Eschilo. I frammenti che possediamo ci dicono che Ennio va alla ricerca di effetti drammatici e patetici per toccare la sensibilità degli spettatori, in uno stile alto, con un linguaggio elaborato, colmo di artifici retorici e linguistici.

     Il fatto significativo è che Ennio ha scritto anche tragedie ispirate dai “miti paralleli latini” che hanno una notevole carica drammatica: è una tragedia quella di Enea che fugge da Troia in fiamme, è un tragedia quella del buon Numitore spodestato dal cattivo fratello Amulio, è un tragedia quella della vestale Rea Silvia [che Ennio chiama Ilia] condannata ad essere sepolta viva, è un tragedia quella dei gemelli abbandonati e poi nemici fino al fratricidio e via dicendo. Purtroppo rimangono i titoli di due sole tragedie di argomento romano scritte da Ennio: Le Sabine, in cui mette in scena il famoso ratto, e Ambracia, che tratta della conquista di questa città dell’Epiro da parte di Marco Fulvio Nobiliare.

     Le opere di Ennio, ciò che rimane delle opere di Ennio è, purtroppo, un materiale  troppo frammentato per dare adito ad una lettura che non sia solo motivata dal semplice interesse di studio. I frammenti di Ennio bisognerebbe poterli leggere in latino per apprezzare la costruzione dei suoi versi: l’applicazione alla lingua latina del verso esametro greco.

     Facciamo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – l’esperienza di leggere un frammento dagli Annales [Annali] di Ennio: il cosiddetto frammento de “L’auspicio per la fondazione di Roma”.

LEGERE MULTUM….

Quinto Ennio,  Annales [Annali]

L’auspicio per la fondazione di Roma

 

Curantes magna cum cura tum cupientes                                      Allora con grande cura bramosi del regno

regni, dant operam simul auspicio augurioque                         s’impegnano a trarre gli auspici e gli auguri.

Remus auspicio se devovet atque secundam                              Remo siede a trarre gli auspici in solitudine.

solus avem servat. At Romulus pulcer in alto                           Ma il bel Romolo scruta il cielo sull’Avventino

quaerit Aventino, servat genus altivolantum.                                      osservando la stirpe dei volanti rapaci.

Certabant urbem Romam Remoramne vocarent.                                Disputano se chiamare la città Roma o  

      Remora

Omnibus cura viris uter esset induperator.                       Tutti gli uomini sono ansiosi di sapere chi avrà il     

                                                                                                                                                     supremo potere

     Sono solo uomini in attesa del responso perché le donne non c’erano e sarà necessario andare a “rubarle” da qualche parte: Ennio scrive anche una tragedia su questo argomento ma ne sono rimasti pochi frammenti.

     C’è qualcuno che ha cercato di cogliere lo spirito di Ennio con leggerezza per rendere l’esercizio della lettura un fatto più giocoso e gratificante ma non per questo meno riflessivo? C’è uno scrittore – lui si definisce solo “un chimico con la vocazione del giornalista”, e noi lo abbiamo già incontrato nei nostri viaggi – che rifacendosi a Ennio si è divertito, negli anni ’30, a mettere la Storia romana in versi così come la si trovava nei libri scolastici dell’epoca cercando di aggirare la censura del regime. Adesso è tardi per incontrare questo personaggio che si chiama Alberto Cavaliere: abbiamo appuntamento con lui la prossima settimana. Per concludere, e facendo riferimento alla tragedia di Ennio intitolata Le Sabine, leggiamo come interpreta, a suo modo, questa tragedia – il “ratto delle Sabine” è una tragedia [nel senso di sciagura e situazione dolorosa] che nasconde il primordiale tema della “questione femminile” che transita dal “mondo di Janus” all’area dei “miti paralleli” – con apparente leggerezza, questa tragedia, Alberto Cavaliere.

LEGERE MULTUM….

Alberto Cavaliere, Storia romana in versi

Pensa ora Romolo, cervello insonne: «Vi sono gli uomini ma non le donne».

Se adesso il celibe è volontario e trova comodo nutrir l’erario,

a Roma capita che l’ammogliato è invece un essere privilegiato.

Sembra una favola ma ciò non toglie che a Roma gli uomini non trovan moglie,

e invan ricorrono presso i vicini che li ritengono ladri e assassini.

... continua la lettura ...

     La leggerezza di Alberto Cavaliere – se così si può dire – è caustica e noi lo rincontreremo la prossima settimana quando dovremo tener conto del fatto che sulla scia della poesia epica di Ennio, a Roma, nascono nuove tendenze poetiche: quali sono queste nuove tendenze poetiche e chi sono i protagonisti di questa nuova stagione che investe la “sapienza poetica ellenistica di stampo imperiale”?

     Per rispondere a queste domande bisogna seguire la scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente. Perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come “il sale in zucca”] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona, per questo la Scuola è qui.

     Accorrete numerose e numerosi pensando che se vogliamo andare veloci, forse, è utile andare da soli ma se vogliamo andare lontano [e ora siamo lontano tanto dal punto di partenza quanto dal punto d’arrivo] è bene andare tutti insieme, il viaggio continua…

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 24, 2012