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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE C'È L'INTELLETTUALISMO ETICO...

Lezione N.: 
22

Prof. Giuseppe Nibbi        Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele     18-19-20 marzo 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE

C'È L'INTELLETTUALISMO ETICO...

     La scorsa settimana abbiamo imparato che la pedagogia di Socrate (il suo modo d’insegnare) è basata sull’attività della ricerca e si attua nell’esercizio stesso della ricerca. Di quale ricerca? Non della ricerca – quella viene dopo – all’interno della sfera delle conoscenze fisiche (comprendere come è fatta la Natura) o delle conoscenze filologiche (capire in che modo si descrive il mondo con le parole), ma della ricerca che non può mai avere un approdo consolidato: la ricerca morale (sono capace – si domanda Socrate – a imparare, con l’uso della ragione, a fare il bene?). L’insegnamento socratico si basa semplicemente (per modo di dire perché le cose più semplici sono proprio quelle più difficili da realizzare, per le quali ci vuole maggiore applicazione) sull’arte della ricerca. Quest’arte – abbiamo già detto la scorsa settimana – è stata chiamata recentemente con la parola greca: "euristica". L’euristica è l’arte del ricercare e non va confusa con la parola "eristica", che invece è l’arte del contendere, che è la specialità dei Sofisti, parola che abbiamo già incontrato osservando il gruppo dei Sofisti ne La Scuola di Atene.

     Ci sono – nella Storia del Pensiero Umano – tre importanti forme di ricerca: la teoretica, la tecnica e la morale. Socrate si occupa di quella morale, proprio perché investe anche le altre.

     La ricerca morale investe la ricerca teoretica (teorica, conoscitiva) perché la persona sa di non poter sapere nulla di quanto è fuori della sua esperienza, l’essere umano – quando conosce se stesso (ecco che cosa significa conoscere se stesse e se stessi) – sa di avere dei limiti e di non poter conoscere tutto. Quando la persona è consapevole dei propri limiti assume un atteggiamento morale e quando la ricerca conoscitiva prende le mosse dalla consapevolezza dei limiti dell’essere umano si identifica con la ricerca morale. La ricerca morale investe anche la tecnica (la pratica), perché chiunque eserciti un mestiere, se vuol essere autenticamente umano, deve svolgerlo bene.

     L’arte della ricerca – l’euristica socratica – ha una sua particolare struttura nella quale si distinguono due elementi fondamentali: l’ironia e la maieutica (due termini di cui conosciamo il significato). L’ironia socratica, più che essere una regola, è uno stile di vita che appartiene alla figura stessa di Socrate che – come sappiamo – si presenta come una persona trasandata e in antitesi a tutti i conformismi della polis: Socrate è un anticonformista per eccellenza, e i Sofisti (che sono dei trasgressivi solo a parole) lo chiamano "maestro di miseria", per calunniarlo. Come si manifesta l’ironia di Socrate? Socrate si accosta ai maestri riconosciuti (ai Sofisti che, prima di aprire bocca, vogliono essere pagati) con un linguaggio umile e di ammirazione verso di loro e poi, domanda dopo domanda, li riduce al silenzio e all’imbarazzo. L’ironia di Socrate viene etichettata come una forma di arroganza, di prepotenza, ammantata di umiltà. Ma è, come appare dal suo discorso di difesa in tribunale, un modo di guardare le persone e la vita con un distacco che fa emergere, mettendole bene in luce, le anomalie, le menzogne e le meschinità, e il risultato dell’ironia è quello di mettere in evidenza due universi morali dotati di due logiche che non hanno punti di contatto. Socrate, in partenza, adotta il punto di vista degli altri, e si muove, un passo dopo l’altro, nei meandri del perbenismo convenzionale fino a giungere ad un punto di rottura. E il punto di rottura diventa fecondo quando, per usare il linguaggio di Socrate, la persona comincia a riflettere e si rende conto di quanta ipocrisia ci sia nell’ideologia dei "benpensanti" e si sente gravida di una autenticità che vuole essere partorita.

     Ed ecco l’elemento della "maieutica" che, in greco, è l’arte della levatrice: l’arte della madre di Socrate. Socrate, per suo conto, non è capace di generare e non vuole prefabbricare una verità. Socrate non vuole essere un maestro che propone ai discepoli una sua dottrina, ma vuole essere un suscitatore di verità (delle capacità di fare il bene comune) che le persone portano in sé, spesso inconsapevolmente, e che vengono faticosamente alla luce (partorite) man mano che le persone si liberano dai condizionamenti imposti dal sistema che regola il pensiero della polis, un pensiero che stabilisce ciò che è bene e ciò che è male non in funzione della morale comunitaria ma a vantaggio di interessi modellati secondo le convenienze del regime mercantile che è quello che domina nella maggior parte delle città elleniche del IV secolo a.C.. Socrate vuole suscitare la scelta autonoma della coscienza che è illuminata dall’idea del Bene (nella quale c’è il dèmone) in modo da mettere in grado la persona di pronunciare un giudizio – secondo ciò che è buono, ciò che è bello, ciò che è giusto – secondo dei parametri che sono già presenti nello spirito, nell’anima, nell’intelletto come una bimba o un bimbo che nasce è già presente nel seno materno. Prima del "parto" – secondo la maieutica socratica – uno credeva di sapere che cosa è il bello, che cosa è il buono, che cosa è il giusto, semplicemente perché era in grado di fare un elenco di cose belle, di cose buone e di cose giuste. Dopo il "parto", dopo aver ascoltato la voce del dèmone (senza lasciarsi sedurre dall’astuzia della ragione che domina in una società mercantilista e che invita a ricercare il proprio interesse particolare e non il bene comune) la persona capisce perché le cose belle sono belle, le cose buone sono buone e le cose giuste sono giuste, e lo sa in base a una "evidenza interiore (così la chiama Platone)" che gli dà l’impressione di aver sempre posseduto dentro di sé l’idea di bellezza, di bontà e di giustizia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Rifletti e nomina – facendo appello alla tua esperienza personale - una cosa bella, una cosa buona e una cosa giusta

Bastano tre enunciati per rispondere: scrivili…

     Se l’idea di bellezza, l’idea di bontà e l’idea di giustizia si trova nell’interiorità della persona viene spontaneo domandarsi: il sapere, allora, è un "ricordare"? Platone dice di sì: scrive che la conoscenza è "reminiscenza", trasformando così il metodo maieutico in una dottrina che Socrate sicuramente non ha mai insegnato. Così anche Aristotele attribuisce a Socrate il merito di avere divulgato il metodo induttivo su cui si basa la conoscenza scientifica, in modo – mettendo insieme i particolari comuni che si trovano nelle cose – da individuare i concetti universali, che della conoscenza scientifica sono il punto di arrivo.

     Ma il dialogo socratico non mira a un punto d’arrivo, mira a passare dalla sfera del già saputo, su cui l’intelletto ozioso si adagia, alla sfera di una autonoma ricerca guidata dall’esigenza di trovare sempre cose più buone, più belle, più giuste. La ricerca socratica si sviluppa secondo questa esigenza, che nel momento stesso in cui la ricerca si appaga risorge più forte di prima: «una vita senza ricerca – dichiara Socrate – non è degna di essere vissuta». E, poi, non dobbiamo dimenticarci che il campo della ricerca socratica non è quello dei fisici e dei metafisici ma è il campo dell’esperienza morale.

     Per Socrate – così come per i Sofisti – la vita della persona che vive nella città acquisisce un senso solo attraverso la politica, che è la disciplina per eccellenza. L’orizzonte della ricerca di Socrate è l’orizzonte della persona nella quale la vita della polis si identifica con la propria vita. A differenza dei Sofisti, i quali ritengono che le sorti della città debbano essere affidate a chi è in grado di prevalere – e difatti i Sofisti sono maestri nell’arte di competere (per imporsi) mediante lo strumento della parola – Socrate ritiene che, a dirigere la cosa pubblica nella polis, debbano essere le persone premurose del bene comune, e premurose del bene comune debbono essere tutte le cittadine e i cittadini.

     Socrate critica la "democrazia competitiva" prima di tutto perché le persone che competono dovrebbero essere ad armi pari sul piano dei mezzi, contrariamente prevale sempre non chi ha più dirittura morale o maggiori competenze ma chi ha a disposizione più strumenti di persuasione (e questo concetto lo spiega bene Platone nel dialogo intitolato Repubblica). In secondo luogo la "democrazia competitiva" si presta ad essere più soggetta ai rischi della tirannide perché chi compete – nel momento in cui si afferma – si sente autorizzato ad impossessarsi delle Istituzioni piuttosto che a garantirne l’autonomia. Socrate, in Atene, appartiene alla corrente di pensiero di coloro che preferiscono la "democrazia partecipata" in cui le cariche pubbliche vengano designate a sorte.

     Come la buona artigiana e il buon artigiano è colui che ha competenza tecnica nel suo mestiere, così tutte le cittadine e tutti i cittadini devono avere – nel guidare la città – competenza di ciò che è meglio per tutti. Nel pensiero di Socrate il "bene comune" viene considerato come se fosse una specie del "bene in sé" (bisogna dire che con l’affermazione, nel secolo scorso, dell’ideologia cosiddetta "liberista", che sembrava dovesse risolvere tutti i problemi economici del mondo abolendo la politica in nome del mercato, il concetto di "bene comune" è stato affossato come un relitto trogloditico, e oggi se ne subiscono le conseguenze) e quindi, secondo il pensiero di Socrate, l’educazione politica – e la politica (e ci pensano poi Platone e Aristotele a mettere in chiaro questa faccenda) è la prima disciplina che deve essere insegnata a Scuola – coincide con l’educazione al bene, cioè alla virtù.

     E qui emerge una delle tesi socratiche più importanti (abbiamo già riflettuto su questo tema importante): la virtù è insegnabile, ad essere virtuose e virtuosi s’impara. Non solo, ma la virtù – ritiene Socrate – coincide col sapere, ed è buona la persona che sa il bene. Questi concetti creano un modo di pensare che viene chiamato "intellettualismo etico": è l’intelligenza che guida la persona a fare il bene misurando i limiti della persona stessa. L’intellettualismo etico non è una dottrina ma è un modo di essere: non ci dobbiamo dimenticare che la conoscenza non è per Socrate un semplice processo teorico, e difatti, il concetto socratico della "insegnabilità della virtù" ha avuto modo di svilupparsi nella Storia del Pensiero Umano a cominciare dal pensiero di Platone e di Aristotele. Naturalmente sull’evoluzione del concetto socratico della "insegnabilità della virtù" ha inciso la testimonianza concreta di Socrate che ha esposto questo concetto con la sua vita e con la sua morte oltre che con le parole. Nello stile di vita e nella morte di Socrate c’è un messaggio così denso che i suoi discepoli, vicini e lontani, hanno potuto svilupparlo nei modi più diversi, spesso inconciliabili tra loro e con significative varianti.

     A proposito del concetto socratico della "insegnabilità della virtù" e della formazione dell’intellettualismo etico, abbiamo incontrato, la scorsa settimana, un romanzo intitolato Un anno sull’Altipiano. Il romanzo Un anno sull’Altipiano (di cui la scorsa settimana abbiamo letto un capitolo) è stato scritto da Emilio Lussu e insegna anche come la guerra – e in particolare la guerra di trincea – renda l’intelletto degli esseri umani inoperoso, capace solo di adagiarsi e di assuefarsi ad una condizione data da una realtà terribile fatta di ozio e di sangue e, come scrive Lussu, "di fango e di cognac".

     La scrittura di Emilio Lussu ha la caratteristica di essere semplice e classica nello stesso tempo. Con questa classica essenzialità – in riferimento ai "classici" della Storia del Pensiero Umano – Emilio Lussu racconta una serie di episodi, spesso tragici e talvolta grotteschi, e descrive come il conflitto generi delusioni, stoltezze e follie e mette in evidenza anche soprattutto quando, all’interno di questa immane tragedia vissuta da milioni di uomini, ogni tanto emergano – in perfetto stile socratico – le facoltà morali della persona (spesso delle persone più umili e con meno potere) che lasciano intravedere un spiraglio di umanesimo in mezzo alla crudeltà generalizzata che un conflitto armato richiede: la guerra – anche se a volte è necessaria – è sempre un male totale.

     Chi legge questo libro (e la Scuola ne consiglia la lettura o la rilettura) incontra tanti personaggi (la scorsa settimana abbiamo incontrato il generale Piccolomini che, nella sua seriosa retoricità, risulta essere una specie di guitto involontario) e tra questi, per esempio, spicca la figura, bieca e ridicola, del generale Leone: un fanatico della guerra per la guerra, che suscita nei soldati e negli ufficiali la tentazione costante di farlo fuori, e le scene (e le incontrerete se leggerete questo libro) in cui si spera e si aspetta o che un mulo lo precipiti in un burrone, o che un tiratore austriaco lo faccia fuori finalmente, hanno il sapore della comicità drammatica che troviamo nei testi delle tragedie greche. Poi in Un anno sull’Altipiano incontriamo figure che compiono, in modo dimesso, atti di eroismo per i quali non verranno mai premiati e neppure ricordati. O personaggi pervasi da una quieta disperazione che diventa euforia durante i riposi e le soste, o addirittura indicibile felicità per essere sopravvissuti senza sapere come, in certe situazioni sia stato possibile (per esempio durante quelle carneficine che sono gli attacchi per guadagnare qualche metro di territorio).

     Difficile scegliere che cosa leggere di un libro in cui ogni episodio ha un suo insegnamento: non si può che consigliare di leggerlo o di rileggere tutto intero questo testo al ritmo di un capitolo al giorno: i capitoli, in media, sono lunghi quattro pagine e sono trenta quindi noi – come lettrici e come lettori, giocando col tempo diacronico – possiamo ridurre Un anno sull’Altipiano a Un mese sull’Altipiano.

     Chi è l’autore, chi è Emilio Lussu? Prima di tutto dobbiamo dire – e lo abbiamo già ricordato la scorsa settimana – che Emilio Lussu è uno dei "padri della patria" e non è un’affermazione da poco questa sul piano della Storia e dell’Educazione civica. "Le madri e i padri della patria" sono donne e uomini che hanno dissentito nei confronti della dittatura (già dagli anni venti e dagli anni trenta del secolo scorso) e hanno operato in Italia e in Europa per organizzare la Resistenza (culturale e armata) e che, dopo la seconda guerra mondiale, hanno partecipato a scrivere la Costituzione fondando l’Italia come Nazione democratica. In questo paese si è così rispettosi verso "le madri e i padri della patria" che non li si chiama mai in causa (e dopo sessant’anni gli Italiani non sanno neppure chi siano!): si usa così tanto rispetto nei loro confronti che qualcuno tra le massime autorità (tra le "pessime autorità" deve dire la Scuola e la Scuola deve attribuire uno zero in Condotta e uno zero in Educazione civica), ultimamente qualcuno tra le pessime autorità non si presenta neppure alla celebrazione della festa nazionale per eccellenza, la festa della Liberazione, il 25 aprile, il giorno in cui si ricorda la ricostituita unità nazionale. Questo addormentamento delle coscienze (che la Nazione sta subendo) è un affronto nei riguardi di questi venerandi personaggi perché "le madri e i padri della patria" hanno qualcosa da insegnare a proposito di Educazione civica.

     Emilio Lussu è stato un "fierissimo antifascista", e l’antifascismo (e questa è lezione di Educazione civica) è un valore fondante, un concetto sostanziale delle Nazioni democratiche e se così non fosse ci sarebbe una contraddizione di termini che inficerebbe la natura e la struttura della democrazia stessa (e questo si sta verificando nel nostro paese e la Scuola pubblica deve far riflettere sull’affievolirsi dello spirito democratico). La Scuola ha il dovere istituzionale di occuparsi di Emilio Lussu in funzione della didattica della lettura e della scrittura anche perché l’Educazione civica è insita nel contesto delle sue opere letterarie.

     Per conoscere la biografia di Emilio Lussu – l’eroe, il politico, l’intellettuale – nel corso della storia italiana ed europea del secolo scorso non possiamo confidare direttamente su questo itinerario (ci vorrebbe un percorso apposito); questo itinerario tuttavia c’informa che se vogliamo incontrare questo personaggio possiamo leggere un utile libro che troviamo in biblioteca e che s’intitola Il Cavaliere dei Rossomori, scritto da Giuseppe Fiori nel 1985. La vita di Emilio Lussu – nato ad Armungia in provincia di Cagliari nel 1890 e morto a Roma il 6 marzo del 1975 – viene raccontata come una "favola epica" da Giuseppe Fiori in tredici capitoli intitolati: il cacciatore, il capocaccia, il reduce, il sardista, il deputato, l’aventiniano, il prigioniero, il confinato, l’esule, lo scrittore, il leader, il ministro, l’oppositore, e, difatti nella sua lunga e intensissima vita Emilio Lussu ha avuto tutti questi ruoli e in ciascuno ha profuso un grande impegno.

     Emilio Lussu è stato protagonista di tutti i principali avvenimenti del secolo scorso: dopo essersi laureato in Giurisprudenza a Cagliari, dal 1915 al 1918 ha partecipato, come ufficiale della Brigata Sassari, alla prima guerra mondiale (è stato decorato con quattro medaglie al valore), nel 1919 ha fondato il Partito Sardo d’Azione ed è stato eletto deputato alla Camera dal 1921 al 1924. Dopo la secessione dell’Aventino e la chiusura del Parlamento decretata da Mussolini è stato incarcerato come antifascista, processato e condannato al confino a Lipari da dove, con Carlo Rosselli, in modo avventuroso, è fuggito in Francia. Nel 1929, a Parigi, con Carlo e Nello Rosselli, fonda il movimento "Giustizia e Libertà": uno dei più importanti movimenti antifascisti d’Europa. Emilio Lussu, in nome del movimento "Giustizia e Libertà", ha svolto un’intensissima diplomazia clandestina tra Parigi, Marsiglia, Lisbona, Malta, Londra, New York e, soprattutto in veste di diplomatico, è stato uno dei dirigenti della Resistenza europea ed è stato membro, in Italia, del Comitato di Liberazione Nazionale nelle fila del Partito d’Azione.

     Nel 1946, nelle file del Partito d’Azione, è stato eletto alla Costituente, e ha partecipato attivamente a scrivere la Costituzione: stato ministro nel governo Parri, il primo governo dell’Italia democratica. Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione Emilio Lussu ha aderito al Partito Socialista sempre con grande autonomia di pensiero e spirito libertario.

     Non si può parlare di Emilio Lussu – e lui se ne avrebbe a male – senza ricordare la compagna della sua vita, sua moglie, Joice Salvatori. Joice Salvadori è nata a Firenze nel 1912 e ha conosciuto Emilio a Parigi perché anche lei era esule in Francia con la sua famiglia, una famiglia di antifascisti di origine marchigiana. C’è un bel libro su Joice Lussu, di cui si consiglia la lettura, che s’intitola Una vita contro curato da Silvia Balestra.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il consiglio e l’ammonimento della Scuola pubblica deve essere quello di attrezzarsi culturalmente per mantenere vivo lo spirito democratico e quindi l’invito è a puntare l’attenzione – utilizzando la biblioteca – sui libri di Emilio Lussu intitolati "Un anno sull’Altipiano" e "Marcia su Roma e dintorni", sul libro intitolato "Il Cavaliere dei Rossomori" (sulla vita di Emilio Lussu) di Giuseppe Fiori e "Una vita contro" (la biografia di Joice Salvadori Lussu) di Silvia Ballestra

   Le cittadine e i cittadini di uno Stato democratico non devono farsi trovare moralmente e culturalmente inermi: è necessario preparare una (pacifica e non violenta) "insurrezione delle coscienze" se si vuole costruire una società migliore

Quali sono – secondo te – i tempi, i modi e le parole significative utili per preparare una "insurrezione delle coscienze"?…

Scrivi quattro righe in proposito

     Sull’interessante romanzo Marcia su Roma e dintorni, scritto da Lussu a Parigi nel 1931, torneremo ancora la prossima settimana a proposito dell’intellettualismo etico predicato da Socrate e a proposito del processo a Socrate. Ora – a proposito di libri e di didattica della lettura e della scrittura – leggiamo un altro capitolo da Un anno sull’Altipiano dove lo scrittore ci dà anche, indirettamente, dei consigli per la lettura.

LEGERE MULTUM….

Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano (1936)

 Il generale Leone non si dava pace. Era stato citato all’ordine del giorno dell’armata e questa distinzione lo spingeva a nuovi ardimenti. Egli appariva in linea, di giorno e di notte. Era evidente che meditava altre imprese. Ma la brigata aveva avuto perdite troppo gravi e non poteva essere impiegata prima di essere ricostituita. Al mio battaglione, non erano rimasti che duecento soldati, compresa la sezione mitragliatrici di Ottolenghi che, durante l’azione, era stata di presidio alle trincee. Eravamo ridotti a tre ufficiali. Il capitano Bravini, la cui ferita al braccio era stata considerata leggera, morì in quei giorni. Un altro ufficiale, ferito ad un piede, dovette essere ricoverato all’ospedale e operato.

... continua la lettura ...

     Il testo di Un anno sull’Altipiano non fa sempre sorridere e quella dell’ufficiale del «Piemonte Reale», tra le braccia di Emilio Lussu, è una morte assurda così come sono insensate, di solito, le morti in guerra. A processo concluso e a sentenza eseguita anche quella di Socrate viene considerata dai suoi stessi accusatori una morte assurda.

     Ritorniamo, quindi, sul territorio dell’Ellade, ad Atene, nel IV secolo a.C.. Un giorno della prima settimana di marzo del 399 a.C., a notte fonda, migliaia di Ateniesi si dirigono verso l’agorà. Ogni cittadino è accompagnato da uno schiavo con una torcia accesa: l’immagine è quella di una fiaccolata, sembra una processione o una manifestazione silenziosa. Le strade di Atene, allora, si intasavano facilmente e Plutarco ci racconta che le vie della città erano così strette che, per evitare scontri, quando si usciva di casa, bisognava stare molto attenti nell’aprire la porta – bisognava farlo lentamente – perché i passanti potevano sbatterci contro, e potevano farsi male e chiedere i danni. Dove vanno tutti questi cittadini ateniesi ancor prima dell’alba? Vanno verso l’agorà dove sta per tenersi il sorteggio dei giudici popolari e man mano che passa il tempo, davanti alle urne delle estrazioni si forma un foltissimo gruppo di aspiranti giudici. La polizia urbana, per impedire alla folla dei curiosi d’invadere le zone riservate ai prescelti, tengono tesa davanti agli ingressi la "corda vermiglia", una fune rossa dipinta di vernice fresca: se un cittadino si avvicina troppo e si macchia con la "corda vermiglia" viene privato per un anno dei "misthos ecclesiasticos", cioè dei diritti di assemblea (non può partecipare alle assemblee pubbliche e non può votare).

     Dal V secolo a.C. la giustizia, nella polis di Atene, era organizzata in questo modo: ogni inizio d’anno, venivano sorteggiati dal ministero di Grazia e Giustizia della città-Stato seimila Ateniesi di età superiore ai trent’anni. Questi seimila cittadini costituivano l’Eliea, una grande assemblea (un serbatoio umano) dalla quale, volta per volta, sarebbero stati sorteggiati i cinquecento giudici che occorrevano per la giuria popolare di ciascun processo. Il sorteggio dei cinquecento giudici popolari aveva luogo la mattina stessa dell’inizio del processo – che di solito si concludeva in giornata – in modo da evitare che gli imputati potessero avere il tempo di corrompere o anche solo di raccomandarsi ai giudici. Per eseguire i sorteggi dei giudici popolari c’erano, all’ingresso dei tribunali, degli oggetti, dei contenitori di marmo, chiamati "cleroterion", con delle fenditure orizzontali: dentro queste fenditure ciascun candidato doveva introdurre la tavoletta di bronzo con le proprie generalità. Questa tavoletta era come una carta d’identità e portava inciso il nome, il patronimico (il nome del padre) e il demo (il quartiere) di provenienza. Una volta introdotta la tavoletta un meccanismo interno al contenitore di marmo entrava in movimento e faceva rotolare, attraverso una serie di condotti, un dado bianco o un dado nero: a seconda del dado che usciva dal "cleroterion", il cittadino veniva ammesso o no alla giuria. I giudici popolari ricevevano un gettone di presenza: tre oboli al giorno, più o meno il 60% della paga di un operaio.

     Socrate – che sta per essere giudicato – non gode di simpatie popolari, ed è consapevole del fatto che tra i giudici che vengono sorteggiati per il suo processo sono in molti quelli che si sentono inadeguati, stupidi, al suo confronto, e nessuno è più vendicativo e pericoloso di chi si accorge di essere inferiore e non lo vuole ammettere cercando anche di far finta di essere all’altezza della situazione. Tra i giudici sorteggiati corre subito una voce di carattere giustificatorio: «Se Socrate sarà condannato a morte, la colpa è solo sua perché è l’individuo più presuntuoso che sia nato ad Atene!». Socrate appare effettivamente come un presuntuoso proprio per le affermazioni che fa e che risultano poco comprensibili ai più che non hanno nessuna intenzione di riflettere.

     La dichiarazione che Socrate fa di «non sapere nulla, di essere un ignorante» appare come un atto di immodestia. È come se dicesse a tutti: "Io sono un ignorante, ma voi che non sapete di esserlo siete ancora più ignoranti di me!". Queste affermazioni vengono lette come insulti da parte degli Ateniesi che sono molto suscettibili e sono in maggioranza convinti che la loro agiatezza materiale, il loro benessere (scritto tutto attaccato) valga assai di più del presunto ben-essere (scritto in due parole) di carattere intellettuale che Socrate va predicando. Quindi risulta chiaro fin dall’inizio che la maggioranza dei giudici sorteggiati vuol far pagare a Socrate la sua supponenza, la sua alterigia.

     Certamente, è strano che, in una polis come Atene, Socrate – con tutti i nemici che ha – sia arrivato fino a settant’anni senza essere mai stato esiliato una sola volta per ostracismo! Molte e molti di voi sanno che l’ostracismo è una particolare procedura praticata nelle polis dell’Ellade, soprattutto ad Atene. Quando gli Ateniesi (una persona o in gruppo di persone) pensano che un loro concittadino potrebbe nuocere alla polis con il suo comportamento, indìcono una votazione: vanno sull’agorà, scrivono il nome di questo cittadino su un coccio di terracotta (òstracon) e lo depositano in un’anfora. Se la persona sgradita totalizza 6000 segnalazioni, deve andare (a spese dello Stato) in esilio per qualche anno. Colui che viene allontanato ha dieci giorni di tempo a disposizione per organizzarsi: l’esilio può durare dai cinque ai dieci anni, a seconda del numero di coloro che lo hanno votato. Questa pratica (che ha sempre suscitato molte discussioni) era stata voluta da Clistene, uno dei fondatori della legislazione ateniese, ed era un provvedimento contro il culto della personalità che poteva condurre alla tirannide.

     Immagino che stiate compilando, a mente, le vostre liste di individui indesiderati, ebbene, non le scrivete: l’ostracismo non c’è più e poi bisogna anche ascoltare la voce di Plutarco che nella Vita di Aristide definisce l’ostracismo «una moderata soddisfazione generata soprattutto dall’invidia». Perché Socrate non ha mai subito l’ostracismo? Perché – in modo esplicito – non aspira al potere e quindi è molto difficile considerarlo nemico della polis: Socrate si conquista, presso le nuove generazioni, una autorevolezza morale svincolata da qualsiasi interesse materiale che, in un certo senso, lo rende molto più pericoloso, agli occhi della maggioranza dei "benpensanti", di un politicante corrotto.

     Socrate – secondo le testimonianze che possediamo (poi vedremo di quali testimonianze si tratta) – appare sulla scena del suo processo con un’aria serena: indossa il solito trìbon (un mantello di stoffa) piuttosto consumato e cammina appoggiandosi a un bastone di rovere. A guardarlo sembra che, invece di andare ad un processo per empietà (dove si rischia la vita), si stia recando a un simposio (a una cena tra amici): Socrate sorride, si ferma a parlare con chi conosce e saluta tutti quelli che vede.

     Socrate si rende perfettamente conto – ma fa finta di niente – che la maggioranza dei cittadini ateniesi lo considera colpevole e vorrebbe che fosse impaurito e supplicante, invece, ostentando grande tranquillità, Socrate sale sul palco, si siede alla sinistra di uno degli arconti (che rappresenta l’autorità della città-Stato) e attende con pazienza che il cancelliere dichiari aperto il processo. Il cancelliere dichiara aperto il procedimento con una formula prescritta dalla legge: «Giudici popolari – proclama ad alta voce –, gli dèi hanno scelto i vostri nomi dall’urna, perché voi possiate assolvere o condannare Socrate, figlio di Sofronisco, dall’accusa di empietà che gli è stata rivolta da Meleto, figlio di Meleto».

     Sappiamo che nei tribunali dell’Ellade, così come nel tribunale di Atene, non esiste la figura del Pubblico Ministero, dell’accusatore. L’accusa può essere condotta da un qualsiasi cittadino che lo richiede. Questo ruolo, il ruolo di accusatore, il cittadino lo svolge tanto a suo rischio e pericolo quanto per poterne ottenere un vantaggio: che cosa significa? Significa che se il colpevole viene condannato l’accusatore incamera la decima parte del suo patrimonio, se invece il presunto colpevole viene assolto l’accusatore deve pagare – se non ottiene almeno un quinto dei voti a favore dell’accusa – una multa di mille dracme.

     Nei tribunali dell’Ellade, così come nel tribunale di Atene, non esistono neppure gli avvocati difensori: l’imputato, colto o analfabeta che sia, deve sapersi difendere da solo e, quando non se la sente, ha la possibilità, prima del processo, di convocare un "logografo", ovvero un legale di fiducia capace di scrivere un testo di difesa ("logografo" letteralmente significa "uno che scrive i discorsi") che l’imputato deve imparare e declamare a memoria se non lo sa ripetere con parole sue.

     Nel processo a Socrate il cancelliere dà la parola a Meleto, figlio di Meleto: apparentemente è lui l’accusatore, ma solo apparentemente perché in verità è un individuo manovrato da altri. Meleto è – secondo le cronache di questo evento – un giovane con i riccioli, ben vestito, il quale sale sulla tribuna riservata all’accusa con un viso altero e sofferente da poeta tragico. Meleto è, difatti, un rappresentante dei poeti: è poeta egli stesso anche se pressoché sconosciuto. Meleto è una pedina, mossa da un altro personaggio che si chiama Anito, e si mostra come un bravo e sincero ragazzo ma, in realtà, si presta a questo gioco soltanto perché vuole avere successo, è uno sconosciuto che cerca di farsi pubblicità attirando su di sé l’attenzione in modo da poter iniziare la carriera teatrale in modo vistoso.

     Meleto vorrebbe far credere di essere dispiaciuto di dover accusare il vecchio Socrate e parla in modo enfatico: si capisce perfettamente che sta recitando, non recita neppure tanto bene, ma l’accusa da formulare contro Socrate l’ha imparata perfettamente a memoria e la declama: «Giudici di Atene! Io Meleto, figlio di Meleto, accuso Socrate di corrompere i giovani, di non riconoscere gli dèi che la città riconosce, di credere ai dèmoni e di praticare culti religiosi a noi estranei. Io Meleto, figlio di Meleto, accuso Socrate di darsi da fare in cose che non gli competono; d’investigare su ciò che è sotto la terra e che è sopra il cielo e di discorrere con tutti e di tutto, tentando ogni volta di far apparire migliore la ragione peggiore. Per questi reati chiedo agli Ateniesi che egli venga condannato a morte!».

     Naturalmente – mentre Meleto recita nel ruolo di grande accusatore – tutti gli occhi sono puntati verso Socrate per vedere quali sono le sue reazioni. Socrate appare rilassato: più che un imputato, sembra uno spettatore ma pensiamo che, in cuor suo, sia molto contrariato.

     Come avete capito stiamo raccontando – a grandi linee e in funzione della didattica della lettura e della scrittura – quel grande evento che, per la storia della cultura, è stato il processo a Socrate. Questo racconto naturalmente ha una funzione propedeutica in modo che poi ciascuna e ciascuno di voi – volendo – possa leggere più agevolmente i testi che su questo avvenimento, così importante nella Storia del Pensiero Umano, sono stati prodotti da molte autrici e da molti autori. Probabilmente, mentre Meleto formula la sua accusa, Socrate si sta rendendo conto in quale brutta faccenda sia rimasto invischiato. Meleto sembra aver ragione quando denuncia che Socrate non ha mai creduto agli dèi (e questo è il reato più grave secondo la legge contro la blasfemìa) e, in realtà, tutti sanno che Socrate ha sempre alluso al fatto che gli dèi siano un’invenzione allegorica utilizzata nella gestione del potere. È vero che, a questo proposito, Socrate non ha mai fatto delle pubbliche dichiarazioni, se ne è ben guardato essendoci – come sappiamo – ad Atene una severa legge che punisce l’irriverenza nei confronti delle divinità.

     E, a questo proposito – più che l’accusa di Meleto –, c’è qualcosa di più consistente che gioca a sfavore di Socrate perché qualcuno, satireggiando dal palcoscenico dei teatri, ha fatto dire a Socrate cose che lui pubblicamente non aveva mai detto. Socrate non ha mai fatto pubblicamente affermazioni che potessero essere irriverenti nei confronti delle divinità, ma qualcuno, trasformando Socrate in personaggio teatrale, certe cose gliele ha fatte dire, amplificandole, come se lui le avesse sbandierate ai quattro venti. Noi sappiamo che una campagna contro Socrate è stata condotta attraverso il teatro e questo fatto contribuisce, sebbene indirettamente, alla sua condanna.

     Venticinque anni prima del processo e delle morte di Socrate è stata rappresentata una commedia – che ogni tanto viene rimessa in scena ad Atene – in cui il filosofo è protagonista. Questa commedia s’intitola Nuvole ed è stata scritta dal più importante commediografo dell’antichità: Aristofane. Perché Aristofane ce l’ha con Socrate? Non è facile rispondere a questa domanda. È probabile che Aristofane non ce l’avesse proprio con lui ma è possibile che, per fare satira, abbia utilizzato il personaggio di Socrate che si presta, per il suo aspetto e per il suo stile di vita, ad essere portato sul palcoscenico: in un certo senso Socrate è già comico di per sé. Sta di fatto che Aristofane – il quale è un conservatore con una spiccata vena reazionaria (per lo meno così sembra) – non condivide la dialettica socratica che mette tutte le (presunte) certezze in discussione e lo condanna come un sofista travisandone il pensiero perché Socrate – che effettivamente comincia la sua carriera di intellettuale come sofista – diventa poi però il più grande avversario dei Sofisti e del loro metodo "eristico", e di questo tema abbiamo avuto modo di parlarne negli itinerari precedenti osservando l’affresco de La Scuola di Atene.

     Il personaggio di Socrate, presentato da Aristofane nella commedia Nuvole, risulta esilarante sul piano spettacolare (buffo, comico, farsesco) ma appare come una figura ambigua: questa caratteristica ha un forte impatto sul pubblico che coltiva già una forte antipatia verso il comportamento provocatorio di Socrate che invita perentoriamente tutte le persone che incontra per le vie di Atene a fare l’esame di coscienza, a riflettere sulla coerenza tra i principi e i comportamenti. Il personaggio di Socrate, presentato da Aristofane nella commedia Nuvole, fa aumentare l’avversione contro di lui, contro la sua persona: Socrate risulta, paradossalmente, anche vittima del sistema mediatico, il teatro (la commedia, in particolare) è lo strumento mediatico per eccellenza nel IV secolo a.C..

     Ma, intanto, dobbiamo chiederci: chi è Aristofane? Aristofane è nato ad Atene intorno al 444 a.C. ed è morto, all’incirca, nel 388 a.C., quindi vive in quel periodo drammatico e sanguinoso caratterizzato dalla guerra del Peloponneso. Aristofane è contemporaneo di Euripide: ha idee antitetiche rispetto a lui e non condivide il suo stile laico, veristico e passionale. Aristofane preferisce la tragedia austera ed eroica di Eschilo e colpisce con sarcasmo Euripide attraverso i testi di alcune famose commedie: Le donne in festa (Tesmoforiazuse) e le Rane.

     Aristofane, con la sua satira politico-sociale, mette in evidenza, nelle sue opere, tre elementi significativi.

     Il primo elemento riguarda il tema del numero dei processi. Aristofane mette in evidenza ironicamente che ad Atene si fanno troppi processi, e che questi procedimenti vengono rappresentati come se fossero delle farse tragiche le quali attirano un numeroso pubblico che si aliena di fronte a queste esibizioni confondendo la celebrazione della giustizia (il ruolo del tribunale) con la partecipazione ad uno spettacolo (il ruolo del teatro) e, a questo proposito, – per denunciare questa situazione che è oggi ancora di grande attualità (i processi si sceneggiano in modo spettacolare) – Aristofane scrive alcune celebri commedie: le Vespe e gli Uccelli.

     Il secondo elemento della satira politico-sociale di Aristofane riguarda il tema della demagogia e del populismo. Nel periodo della guerra del Peloponneso la struttura della democrazia ateniese comincia a presentare punti deboli: della debolezza delle istituzioni, ne approfitta, dopo la morte di Pericle, un certo Cleone che, scavalcando gli ordinamenti e le regole da cui sono governati, favorisce la nascita di un sistema demagogico rivolgendosi direttamente al popolo che, notoriamente, preso nel suo insieme, – così pensa Aristofane – non è dotato di lungimiranza ma soffre di ignoranza e, di solito – così scrive Aristofane – chi parla in nome del popolo fa dire al popolo ciò che vuole lui. Contro questa situazione Aristofane, in modo molto deciso, si oppone con lo strumento della satira e denuncia soprattutto la politica imperialista di Cleone contro le città alleate di Atene che vengono trattate come schiave e quindi spinte alla rivolta e alla guerra e Cleone, con la guerra, fa affari. La commedia di Aristofane intitolata Cavalieri è una satira violentissima contro Cleone e la sua politica demagogica. Naturalmente Cleone querela Aristofane e intenta un processo contro di lui nel quale emerge chiaramente la volontà del demagogo di reprimere la libertà di parola di cui godevano, secondo la Costituzione ateniese, i poeti tragici e comici. Cleone ottiene che si faccia un decreto (che viene revocato tre anni dopo) nel quale si fa divieto di citare esplicitamente nel testo delle commedie gli uomini politici che stanno governando. L’azione legale e legislativa non riesce tuttavia a frenare l’attività teatrale di Aristofane il quale continua a portare Cleone sul palcoscenico cambiandogli semplicemente il nome, inventando un personaggio che si chiama: il "demagogo Paflagone", per il quale trova una particina in molte sue commedie.

     Il terzo elemento della satira teatrale di Aristofane riguarda il tema della pace. Aristofane si schiera decisamente contro la guerra del Peloponneso in favore delle trattative e della riconciliazione: questa guerra – ce lo ha spiegato bene lo storico Tucidide – è sempre stata una contesa di tipo imperialista perché Atene non ha mai voluto concedere l’autonomia, soprattutto economica, alle polis più piccole dell’Ellade che chiedevano la stipula di patti di collaborazione e non di essere ridotte alla sudditanza, e poi, quando entrerà in gioco Sparta, con la sua potenza militare, Atene finirà per perdere questa guerra e avrà inizio la decadenza dell’Ellade. La guerra del Peloponneso – scrive Aristofane – per gli Ateniesi non ha più nulla a che fare con l’amor di patria né con l’eroismo nazionale ma è solo un pretesto per gli affari (quasi sempre sporchi) di quelli che lui chiama i "signori della guerra". Ci sono una serie di famose commedie che riguardano questo tema: Acarnesi, Irene (che in greco significa Pace), Lisistrata, Le donne a parlamento (Ecclesiazuse).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Sono state citate un certo numero di commedie di Aristofane (ne ha scritte 44 e ce ne sono rimaste 11): scegline una (lasciati sedurre dal titolo o dal tema di cui tratta), cercane il testo in biblioteca e leggine qualche pagina

     E ora occupiamoci, seppur brevemente, di Nuvole, la commedia che vede Socrate come protagonista. La commedia Nuvole, quando venne rappresentata durante le feste Dionìsie (o Bròmie) dell’anno 423 a.C., fu un insuccesso – forse non era facile capire il significato della metafora delle Nuvole) e Aristofane ci rimase molto male perché credeva di aver creato un capolavoro. Quando superò lo scoramento si rimise al lavoro e ne rivide e ne corresse il testo, e la commedia fu riproposta, con un discreto successo, nell’autunno del 418 o del 419 a.C.: quindi il testo che ci è pervenuto è quello riveduto e corretto, probabilmente molto diverso da quello della prima versione.

     Sulla scena della commedia Nuvole sono collocate due case: quella di Strepsiade e quella di Socrate. Strepsiade è un contadino, un uomo semplice di poca cultura che ha preso in moglie una donna nobile, di condizione sociale molto superiore alla sua e il figlio Fidippide fa onore alla nobile origine della madre: ama gli sport equestri, comincia a giocare ai cavalli e fa un sacco di debiti mandando in rovina il vecchio padre. Strepsiade, dopo una notte insonne, vede una sola via di scampo per riparare ai debiti accumulati: il figlio deve studiare e si deve iscrivere alla scuola – detta il "pensatoio" – in cui Socrate e i suoi discepoli insegnano ad avere sempre ragione per imparare l’arte di vincere le cause in tribunale con mezzi più o meno corretti. Aristofane attribuisce a Socrate e ai suoi discepoli le caratteristiche peggiori dei Sofisti eristici e li rappresenta come uomini emaciati, pallidi, verdastri addirittura. Ma il giovane Fidippide non vuole studiare, non vuole andare a scuola da questa gente, e così Strepsiade decide di frequentare lui il "pensatoio" per imparare la nuovissima arte di "distorcere il diritto" con i cavilli procedurali. Socrate, che appare sospeso in un cesto per contemplare le realtà celesti, allontana con disprezzo Strepsiade che non si dà per vinto e riesce a convincere il figlio ad ascoltare almeno una lezione. A Fidippide viene presentato, a scopo di istruzione, il duello oratorio fra il Discorso giusto e il Discorso ingiusto – che viene considerato il più bello tra i contrasti di Aristofane – nel quale il rappresentante dei tempi nuovi, che non si cura né del diritto né delle leggi, riporta la vittoria sul difensore dell’antica disciplina e dell’antica religiosità. Fidippide capisce tutto e diventa uno studente modello (un provetto ingannatore) e insegna al padre come liberarsi dai creditori eludendo la legge. Strepsiade però – che fondamentalmente è una persona onesta – non condivide il nuovo entusiasmo truffaldino del figlio: tra i due scoppia una lite e il figlio bastona il padre, commettendo (qui Aristofane cita il pensiero di Eschilo) un atto gravissimo e irreparabile; però Fidippide – che ha imparato bene la lezione dei Sofisti eristici – riesce a dimostrare al padre di aver compiuto un bel gesto educativo picchiandolo. Strepsiade si rende conto di aver sbagliato a voler far studiare il figlio perché imparasse ad imbrogliare e si lamenta con le Nuvole le quali rivelano la loro vera natura. Le Nuvole – che nella commedia costituiscono il coro (e in Nuvole i canti corali sono tra i più belli della Letteratura greca) – sono una creazione poetica molto complessa. Aristofane, in un primo momento, presenta le Nuvole come un simbolo comico del pensiero inconsistente, di un pensiero che vende aria fritta, che vende fumo per mezzo di imbroglioni: indovini, guaritori, filosofi naturalisti, poeti ditirambici i quali iniziano i bonaccioni (come Strepsiade) ai riti delle Nuvole per estorcere loro denaro. Successivamente Aristofane fa rivelare alle Nuvole la loro vera natura: esse rappresentano la poesia lirica che insegna la conversione morale non l’arte di imbrogliare, e quindi invitano Strepsiade ad incendiare il "pensatoio" di Socrate.

     Il problema principale della commedia è certamente il modo in cui viene presentato Socrate: la deformazione comica di Socrate pone il problema delle intenzioni di Aristofane. Perché Aristofane ha frainteso il pensiero di Socrate colpendolo ingiustamente? L’atteggiamento di Aristofane è complesso ed un po’ ambiguo: sappiamo che Aristofane è sostanzialmente ostile al pensiero dialettico, considerato pericoloso per la compattezza etica e politico-religiosa della polis e quindi, probabilmente, il fatto che Socrate metta in discussione tutte le certezze a lui dà noia. Aristofane poi fa il suo lavoro di commediografo e coglie di Socrate quei connotati esteriori – l’essere trasandato, l’essere molto presuntuoso, l’avere un aspetto comico di per sé – che si prestano a costruire la satira. Così come si presta alla satira il metodo dialettico utilizzato dai Sofisti in chiave sostanzialmente utilitaristica anche se, in realtà, Socrate è stato il primo a scagliarsi contro questo metodo.

     Aristofane fa di Socrate il suo bersaglio polemico perché Socrate è anche il personaggio più noto al pubblico ateniese che è abituato a vederlo dialogare ogni giorno per le strade della città con il suo aspetto e il suo comportamento che si offre alla rappresentazione comica. In pratica Aristofane strumentalizza la figura di Socrate nel suo attacco generale contro il nuovo modo di pensare e di educare, ossia nel suo attacco contro la sofistica, e lo può fare perché gli Ateniesi non fanno distinzioni: per la maggioranza degli Ateniesi Socrate è solo un gran rompi scatole che va tacitato al più presto. E quindi neppure Aristofane fa una distinzione (tra il metodo dei Sofisti e la dialettica di Socrate) che oggi ci sembra ovvia e questo fatto va considerato un limite di Aristofane perché crea le premesse per cui la carica innovativa della dialettica socratica viene considerata dai "benpensanti" la causa, e non il rimedio, della crisi politico-morale della polis.

     Quindi il contrasto che Aristofane mette in scena nel testo di Nuvole tra il Discorso forte (giusto) e il Discorso debole (ingiusto) è la personificazione e la drammatizzazione di due opposti tipi di educazione, quella antica di stampo aristocratico e quella nuova di derivazione filosofica dei Sofisti. Il Discorso ingiusto è per Aristofane quello dei Sofisti i quali, armati della loro stringente dialettica, controbattono uno ad uno gli argomenti dell’avversario, opponendo i vantaggi pratici e concreti della nuova educazione, fino a riportare la vittoria e a convincere lo stesso antagonista: anche Socrate usa questo metodo ma con un’etica diversa (per cui un’azione è buona se è rivolta al Bene della società), da quella dei Sofisti (per i quali un’azione è buona se è utile all’individuo).

     Chi, vent’anni dopo, nel 399 a.C., accusa Socrate nel corso del processo contro di lui, utilizzando anche il testo di questa commedia commette un’azione anacronistica che, molto probabilmente, Aristofane avrebbe molto disapprovato: perché? Perché i "benpensanti" che accusano Socrate fanno appello, in modo ipocrita, ai buoni princìpi dell’antica educazione tradizionale ma in realtà, quando devono fare i loro affari, pagano i Sofisti eristici per raggiungere – anche frodando e non rispettando la legge – i loro scopi, in perfetta coerenza con la loro indole truffaldina: Socrate denuncia, a viso aperto, questo costume e di conseguenza deve essere tacitato.

     E ora, per concludere, leggiamo un frammento dalla commedia Nuvole:

LEGERE MULTUM….

Aristofane, Nuvole (419-418 a.C.)

 STREPSIADE In nome di Dio, Socrate, ti prego, dimmi chi sono queste qui, che hanno cantato una roba così solenne. Saranno mica delle eroine?

SOCRATE Niente affatto: sono Nuvole del cielo, divinità potenti per chi non ha voglia di far niente: sono loro che ci rendono capaci di pensare, di parlare, di riflettere – e di incantare, e di raggirare, e di muovere (con la retorica) all’attacco e al contrattacco.

STREPSIADE Ecco perché solo a sentirne la voce l’anima mia si è alzata in volo, e già va cercando quisquilie e sottigliezze fumose: ha una voglia di pigliare un’ideuzza, sbatterla contro un’idea e imbastirci su tutto un discorso di reazione. Insomma, se è possibile, ho proprio voglia di vederle di persona.

SOCRATE Allora guarda là verso il Pamete; io già le vedo che vengono giù con tutta calma.

STREPSIADE Dove, dove? Fammi vedere!

SOCRATE Eccole che arrivano – sono tantissime! – passando per valli e per boschi; eccole lì di lato.

STREPSIADE Ma com’è possibile? Non riesco a vederle!

SOCRATE Vicino all’entrata.

STREPSIADE Ah, sì, solo adesso, ma appena appena.

SOCRATE Dovresti vederle bene, adesso, a meno che tu non abbia cispe grosse come zucche.

STREPSIADE Certo, certo! Oh illustrissime dèe! Ormai sono dappertutto.

SOCRATE Non sapevi che loro sono dèe? Non ci credevi nemmeno, eh?

STREPSIADE No. Pensavo che fossero nebbia, rugiada, fumo.

SOCRATE Ma non lo sai che sono loro a dar da mangiare a intellettuali d’ogni tipo? Indovini di Turi, praticoni, capelloni perdigiorno che usano l’unghia per sigillo; e poi ci sono i cantori di cori ciclici con la loro musica contorta, i cialtroni spaziali, tutti scansafatiche buoni a nulla, queste li foraggiano perché scrivono bene di loro.

STREPSIADE Allora si spiegano cose tipo «l’impeto attorto delle acquose Nubi», «i ricci di Tifone cento teste», «le tempeste turbinose», e poi «madida l’etra», «dell’aere, augelli, adunchi natatori» e «pluvia e rore, di nubi licore»: loro fornivano questo e in cambio spolveravano «tranci di sgombro di grande ingombro» e «polpa di tordi e di torde senza colpe».

SOCRATE Già, grazie a loro. Non è giusto?

STREPSIADE Ma dimmi, come si spiega, se sono nuvole davvero, che sembrano donne? Quelle che conosco io non sono mica così.

SOCRATE E come, allora?

STREPSIADE Non ti so dire di preciso; sembrano bioccoli di lana cardata, tutto tranne che donne, insomma. Queste qui, per dire, hanno il naso.

SOCRATE Rispondi alle mie domande, allora.

STREPSIADE Dimmi pure.

SOCRATE Guardando in alto, hai mai visto una nuvola che somigliava a un centauro, o a un leopardo, a un lupo, a un toro?

STREPSIADE Certo che sì, e con questo?

SOCRATE Diventano tutto ciò che vogliono. Se ad esempio vedono un capellone arrapato, uno peloso tipo il figlio di Senofanto, per prendere in giro la sua fissa si trasformano in centauri.

STREPSIADE E se vedono Simone, che ruba i fondi pubblici, cosa fanno?

SOCRATE Rivelano la sua vera natura trasformandosi in lupi.

STREPSIADE Ecco perché ieri sono diventate cervi! Hanno visto Cleònimo, quel gran vigliacco che ha abbandonato lo scudo (Cleone è il bersaglio abituale di Aristofane: guerrafondaio per interesse speculativo e vile in battaglia).

SOCRATE E adesso, vedi, sono diventate donne perché hanno visto Clistene (notoriamente lo stereotipo dell’ omosessuale).

STREPSIADE Salute a voi, o mie signore! E ora, vi prego, se già ad altri l’avete concesso – voi che siete onnipotenti – levate anche per me la vostra voce fino al cielo.

CORO Salute a te, vecchio di altri tempi alla ricerca dell’arte. E tu, sacerdote di quisquilie e ciarle, dicci di cosa hai bisogno. Non daremmo ascolto a nessun altro specialista dello spazio – tranne che a Prodico. A lui perché è dotto e geniale, a te invece perché cammini altero per strada guardandoti attorno in tralice e sopporti scalzo tanti fastidi, e ti dai tante arie per noi.

STREPSIADE Per la Terra madre, che voce! Santa, solenne, prodigiosa!

SOCRATE Lo credo bene: queste soltanto sono divinità, tutto il resto è una balla.

STREPSIADE Per la Terra madre! Vuoi dire che per voi Zeus, Zeus Olimpio non è un dio?

SOCRATE Quale Zeus? Non dire sciocchezze! Zeus nemmeno esiste.

STREPSIADE Ma che dici? E allora chi fa piovere? Comincia a spiegarmi questo punto.

SOCRATE Loro, naturalmente. Te lo dimostrerò con prove schiaccianti. Di’ un po’, dove mai hai visto piovere senza nuvole? Fosse Zeus, dovrebbe far piovere anche a ciel sereno, mentre loro non ci sono.

STREPSIADE Per Apollo, sei riuscito a sviluppare proprio bene il discorso con questo ragionamento: e pensare che prima io credevo davvero che fosse Zeus a pisciare in un setaccio! Ma dimmi: chi è che tuona, che mi dà la tremarella?

SOCRATE Sono loro che tuonano, rotolando.

STREPSIADE Ma come? Tu hai davvero il coraggio di pensarle tutte!

SOCRATE Quando si sono riempite di grosse quantità d’acqua, e sono costrette a muoversi, il peso dell’acqua le fa pendere per forza verso il basso, allora cozzano con tutto il peso una contro l’altra, scoppiano e fanno un gran fracasso.

STREPSIADE Ma chi è che le costringe a muoversi? Non è Zeus?

SOCRATE Niente affatto, è un vortice d’aria.

STREPSIADE Vortice? Questa m’era sfuggita: Zeus non esiste e al suo posto ormai il re è Vortice. Ma non mi hai ancora spiegato niente sul fracasso dei tuoni.

SOCRATE Non sei stato attento! Ti ho già detto che le nuvole, quando sono piene d’acqua, si scontrano e scoppiano perché sono troppo gonfie.

STREPSIADE E io in base a cosa mi dovrei convincere?

SOCRATE Te lo dimostrerò per analogia con te stesso: ti è mai capitato di riempirti di brodo alle Panatenee (feste in onore di Atena) e poi di avere mal di pancia e di sentirla all’improvviso agitata da mille brontolii?

STREPSIADE Perdio, altro che se è agitata! Mi fa subito un male cane, e la zuppettina fa un fracasso enorme, come un tuono, un rumore formidabile, prima piano, pra pra! poi di più parapra ! e poi sempre di più! Praprapraprapra!

SOCRATE Renditi conto di che razza di tuoni tiri fuori da una pancia piccola così. A maggior ragione l’aria, che non ha confini, tuona così con impeto.

STREPSIADE Ecco perché anche i nomi «impeto» e «peto» sono simili! Adesso però spiegami da dove vengono i fulmini coi loro lampi di fuoco, che ti arrostiscono quando vieni colpito, o si limitano a bruciacchiarti senza farti morire. E chiaro che è Zeus a scagliarli contro chi spergiura.

SOCRATE Che cretino! Che rimbambito! Ma dove vivi, sulla luna? Come mai, se davvero colpisce gli spergiuri, non ha mai incenerito Simone, Cleònimo o Teoro (parassiti, speculatori, politici corrotti)? Che siano spergiuri non c’è dubbio. In compenso colpisce i templi suoi e il capo Sunio, «punta d’Atene», e le vecchie querce. Come mai? La quercia non spergiura certo.

STREPSIADE Non so, mi sembra tu dica bene; ma il fulmine cos’è?

SOCRATE Se si leva un vento secco fino a loro e ci rimane chiuso dentro, le gonfia come una vescica; dopodiché le fa esplodere con forza, data la pressione, e viene fuori con grande impeto: ecco quindi che si incendia da solo con schianti violentissimi.

STREPSIADE Perdio, anche a me è successo proprio così una volta, alle Diasie (feste in onore di Zeus)! Stavo facendo della trippa arrosto per la mia famiglia e m’ero dimenticato di bucarla, e così quella si gonfiava tutta; a un certo punto, all’improvviso, è scoppiata, e mi ha smerdato gli occhi e bruciacchiato la faccia.

CORO O tu che hai desiderato avere da noi la grande sapienza, quali successi avrai ad Atene e in tutta la Grecia! Se solo hai buona memoria e sei per indole capace di sopportazione e incline ad avere pensieri: non dovrai stancarti di restare in piedi né di camminare, non dovrai soffrire troppo il freddo né aver desiderio di cibo; niente vino, niente palestre, al bando tutte queste sciocchezze: visto che sei un uomo capace, per te la massima felicità dev’essere vincere con l’azione e col consiglio – battagliando con la lingua.

STREPSIADE Nessun problema: forza d’animo, pensiero insonne, stomaco parco, frugale, che tira avanti con due foglie d’erba: se è solo per questo, resisterei a un maglio (a un martello che picchia sulla testa).

SOCRATE E non avrai altro dio all’infuori dei nostri, il Caos che si vede intorno, le Nuvole e la Lingua, questi tre soltanto?

STREPSIADE Con gli altri non ci scambio più una parola neanche se li incontro per strada: niente sacrifici, né libagioni, né offerte d’incenso.

CORO Dicci pure cosa possiamo fare per te; non resterai deluso, visto che ci onori, ci veneri e ti sforzi di essere bravo.

     Il processo a Socrate prosegue il suo corso e, dopo Meleto, salgono sulla tribuna altri due accusatori: Anito (che è il vero inquisitore) e Licone. Intanto circola la voce che Socrate abbia rifiutato di farsi aiutare da Lisia, il più celebre ed abile logografo (avvocato difensore) del momento. Pare che Lisia – gratuitamente (era il più bravo ed anche il più caro) – abbia scritto un discorso in difesa di Socrate e, pare, si trattasse di un discorso straordinario. Il testo dell’arringa di Lisia in difesa di Socrate non è stato mai trovato (le studiose e gli studiosi di filologia lo hanno cercato per secoli) e non si sa come fosse congeniato. Perché Socrate rifiuta l’aiuto di Lisia? Sappiamo che Socrate non solo rifiuta l’offerta di aiuto di Lisia ma lo rimprovera anche severamente perché con i suoi giochi di parole (Lisia è un rètore abilissimo) avrebbe voluto ingannare i giudici per il bene di Socrate. Socrate pensa che non sia possibile perseguire il bene tramando contro le Leggi.

     Intanto Anito e Licone salgono sulla tribuna e ripetono le accuse già formulate da Meleto, poi il cancelliere capovolge la clessidra che controlla il tempo delle arringhe e dà la parola a Socrate. Socrate si alza, si guarda intorno, si dà una grattatina alla testa, fa un piccolo inchino rispettoso verso l’arconte, che è il presidente del tribunale, e subito dopo si volta verso i giudici e comincia a parlare: che cosa dice Socrate?

     La prossima settimana, per conoscere – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – qual è il contenuto e la forma del discorso che Socrate pronuncia in sua difesa, saremo ancora ad Atene, sull’Areopago: non mancate perché il processo a Socrate è uno dei due più importanti processi della Storia del Pensiero Umano.

     Il viaggio continua, la Scuola è qui…

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 20, 2009