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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE C’È LA VOCE DEL DÈMONE: LA FACOLTÀ CHE DISTINGUE IL BENE DAL MALE ...

Lezione N.: 
21

Prof. Giuseppe Nibbi    Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele     11-12-13 marzo 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, DI PLATONE E DI ARISTOTELE

C’È LA VOCE DEL DÈMONE: LA FACOLTÀ CHE DISTINGUE IL BENE DAL MALE ...

     Questo Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, sta procedendo su due corsie: la corsia moderna che attraversa lo spazio rinascimentale dell’affresco intitolato La Scuola di Atene di Raffaello e la corsia antica che percorre il territorio orfico dell’Ellade, della cultura greca. Sappiamo che la corsia moderna, che attraversa lo spazio rinascimentale, ci ha portati di fronte alla figura di Socrate. Insieme a questo personaggio, la scorsa settimana, abbiamo percorso le vie di Atene e le strade dell’Ellade lungo le quali Socrate ha esplicitato la sua dialettica.

     In che cosa consiste la dialettica inesorabile di Socrate e quali sono le parole-chiave e le idee-cardine proprie del suo pensiero? Il tema della dialettica socratica è direttamente collegato al tema del processo a Socrate: uno dei processi più famosi della Storia del Pensiero Umano nel corso del quale "Socrate fece vedere agli Ateniesi che della morte non gliene importava un bel niente, perché ha valore il non commettere ingiustizia". Quindi i temi della dialettica socratica e del processo a Socrate emergono in un unico paesaggio intellettuale che dobbiamo incontrare e osservare strada facendo.

     Ma prima di prendere in considerazione questi importanti temi torniamo ancora una volta – sono tre settimane che facciamo questo esercizio – ad occuparci del romanzo di Grazia Deledda intitolato Canne al vento uscito a puntate sulla Illustrazione Italiana, dal 12 gennaio al 27 aprile 1913, e pubblicato in volume dopo qualche mese presso l’editore Treves di Milano. La Scuola consiglia la lettura di questo testo, ma ha contemporaneamente compiuto un’azione di tipo preventivo presentandone, in queste tre settimane, un certo numero di pagine in modo che, se qualcuna o qualcuno di noi non dovesse leggere questo romanzo nell’immediato, ne abbia comunque assaggiato il testo.

     Il personaggio principale di Canne al vento – che abbiamo imparato a conoscere – è Efix il quale si esprime e si comporta anche con parole e atteggiamenti di carattere socratico (per giunta è anche meno presuntuoso di Socrate). Alla fine del romanzo Efix, il buon servo, può finalmente riposare e proprio il giorno delle nozze di Noemi, la più giovane delle sue padrone – come abbiamo già letto tre settimane fa – Efix muore consolato (anche questo epilogo, in un certo senso, lo avvicina a Socrate che sa consolare coloro i quali stanno assistendo alla sua morte). Ad un tratto tutta la tragica storia della sua vita sembra chiarirsi a Efix: "Siamo canne, e la sorte è il vento!", dice Efix alla sua vecchia padrona Ester, ma ella insiste: "Ma perché questa sorte?" ed Efìx risponde: "E il vento perché? Dio lo sa!". Così, in questa umile accettazione, la vita di questo servo trova la sua pace, e il significato della sua esistenza va al di là dell’orizzonte dove Efìx cercava i suoi santi e i suoi folletti, e approda nel cielo eterno cui tende il dolore di tutti gli esseri umani, perché tutti finiamo per essere servi di sconosciuti padroni (anche i padroni stessi finiscono così).

     In queste tre settimane abbiamo raccontato, via via, a grandi linee la trama di questo romanzo perché il bello di Canne al vento non è nella storia che racconta ma nella scrittura del testo: una scrittura densa di emozioni e di suggestioni primordiali, una scrittura nella quale fluisce un’energia insolita che induce nella lettrice e nel lettore un desiderio di natura e di autenticità, un desiderio più comprensibile oggi di quanto non lo fosse nel momento in cui è stato scritto, ai primi del Novecento, quando i problemi dei costi sociali e umani, i costi dei rischi ambientali del progresso e della modernità non erano ancora venuti così in primo piano come nel tempo presente. La lingua e il modo con cui Grazia Deledda scrive ha assunto nel tempo una bellezza sempre maggiore, una bellezza epica, tanto in senso biblico quanto in senso orfico.

     Nel titolo di questo romanzo la scrittrice mette in evidenza il rapporto di similitudine tra la condizione delle canne e la vita delle persone, e questo rapporto è una citazione che proviene da un altro romanzo di Grazia Deledda intitolato Elias Portolu, del 1903, dove si legge: "Siamo persone, Elias, persone fragili come canne, pensaci bene. Al di sopra di noi c’è una forza che non possiamo vincere". Questo è un pensiero orfico che attraversa tutta la cultura greca…

     La scorsa settimana abbiamo letto di quando Efix viene mandato da don Predu a chiedere a Noemi se è disposta a sposarlo, ma lei, sdegnosa, rifiuta e allora Efix, disperato, lascia la casa delle sue padrone perché pensa di essere un impedimento alla realizzazione di un progetto che potrebbe migliorare le condizioni di vita di tutti i protagonisti di questa storia. Ma poi Efix – dopo aver sperimentato la vita del mendicante insieme a due ciechi con i quali si accompagna, mentre tutti credono che sia andato in America e abbia fatto fortuna – riflette e decide di tornare perché nella vita c’è la disperazione ma c’è anche la consolazione.

LEGERE MULTUM….

Grazia Deledda, Canne al vento (1913)

Fu Noemi ad aprire. Efix se la vide apparire davanti, sullo sfondo glauco del cortile, alta alta, sottile, col viso bianco: Lia fanciulla, Lia risorta.

Lo guardò bene, prima di lasciarlo entrare, come si guarda uno sconosciuto, poi disse solo: "oh, oh, sei tu?" ma bastò quest’espressione di sorpresa diffidente e un po’ ironica, per aumentare l’umiliazione e il turbamento di lui.

"Ebbene, sono tornato, donna Noemi mia", disse entrando e seguendola attraverso il cortile. "Il vagabondo è tornato. E donna Ester come sta? Mi permette di farle una visita?"

Ecco, nella penombra glauca le cose stavano immobili al loro posto; il balcone, su, nero sul fondo grigio del muro, il pozzo coi fiori rossi, la corda sulla scala.

In cucina c’era luce, ma non la luce fiammante della casa di Grixenda: un lumino funebre sopra la panca antica, in mezzo a una grande ombra.

No, nulla era mutato: tutto era morto ancora. Ed Efix pensò con dolore:

"Non dev’esser vero che donna Noemi ha acconsentito".

Istintivamente cercò di attaccare la bisaccia al piuolo, ma il piuolo non c’era: nessuno lo aveva più rimesso ed egli tenne con sé la bisaccia come un ospite che deve presto ripartire.

Donna Ester leggeva tranquilla seduta su uno sgabellino davanti alla panca antica, ma d’improvviso il gatto posato sulla sua ombra accanto al lume e che seguiva con gli occhi i movimenti delle mani di lei, le saltò in grembo come volesse nascondersi e di là balzò sotto la panca: ella sollevò la testa, vide lo sconosciuto e cominciò a fissarlo con gli occhi scintillanti e il libro che le tremava fra le mani.

"Ebbene, sì, sono io, padrona mia! Sono tornato. Il vagabondo è tornato. Che ne dice, donna Ester? Come va la salute?"

"Efix! Efix! Efix!", ella balbettava.

"Proprio Efix! Ha male agli occhi, donna Ester, che tiene gli occhiali?"

"Tu, Efix! Siedi. Sì, ho avuto male agli occhi dal troppo piangere."

Ma Noemi li guardava tutti e due coi suoi occhi cattivi e pareva divertirsi alla scena.

"Sì, Ester! Hai gli occhiali perché oramai sei vecchia."

"Siediti", invitò anche lei, battendo la mano sulla panca, ed Efix sedette accanto alla vecchia padrona tutta tremante di sorpresa. Sulle prime non seppero cosa dirsi: egli stringeva a sé la bisaccia e chinava la testa vergognoso; ella si levò gli occhiali, li chiuse fra le pagine del libro, parve volesse appoggiarsi al fianco del servo.

Finalmente volsero tutti e due il viso a guardarsi ed ella scosse la testa con un cenno di rimprovero.

"Bravo! Gira gira sei tornato! Ma perché mai una riga, un saluto? Eppure gente d’America ne è venuta!"

Efix aprì la bocca per rispondere, ma vide Noemi che rideva come se sapesse anche lei la verità, e tacque ancora più umiliato.

"E sei andato via così, Efix! Come se ti avessimo offeso, senza dire una parola, Efix! E pensa, pensa, io dicevo sempre a me stessa: perché Efix ha fatto così? Si può finalmente sapere il perché?"

"Cose del mondo! S’invecchia, si rimbambisce", egli rispose con un gesto vago. "Adesso son qui Non parliamone più."

"E adesso, che cosa conti di fare? Tornerai da Predu? O, come dice la gente, è vero che sei diventato ricco? Ma perché non metti giù quella bisaccia? Almeno un boccone lo prenderai, qui."

"Devo andare, donna Ester mia. Ero venuto solo per salutarla."

"Tu starai qui fino a domani", disse Noemi, e con un gesto quasi felino gli tolse la bisaccia e la mise più in là sulla panca.

Si guardarono: ed egli comprese che avevano da parlarsi, loro due, da riallacciare un discorso interrotto.

"Efix, senti, tu almeno ci racconterai le tue vicende, poiché non hai mai scritto. Quante cose avrai da dire, adesso: oh, Efix, Efix, chi avrebbe mai creduto che da vecchio te ne andavi in giro per il mondo!"

"Meglio tardi che mai, donna Ester mia! Ma da contare c’è poco."

"Racconta quel poco …"

"Bene, sì, le dirò …"

Noemi apparecchiava, silenziosa: ecco lo stesso canestro annerito dal tempo, levigato dall’uso; ecco lo stesso pane e lo stesso companatico. Efix mangiava e raccontava, con parole incerte, velate di menzogna timida; ma quando ebbe gettato le briciole e il fondo del bicchiere sul pavimento - poiché la terra vuole sempre la sua piccola parte del nutrimento dell’uomo - si drizzò un po’ sulla schiena e i suoi occhi si circondarono di rughe raggianti.

"Dunque, in viaggio eravamo tutti poveri diavoli: si andava, si andava, senza sapere dove si andava a finire, ma sempre con la speranza del guadagno. Si andava, in fila, come i condannati …"

"Ma non eravate in mare?"

"In mare, sì, cosa dico? E in mare in burrasca, anche. Mi sono tante volte bagnato. Fame non se ne pativa, no; eppoi, chi aveva fame? Io no: sentivo qualche volta come una mano che mi abbrancava lo stomaco e pareva volesse estirparmelo: allora mangiavo e mi acquetavo. Arrivati là si cominciò a lavorare."

"Che lavoro era?"

"Oh un lavoro facile, per questo; così si levava la terra da un posto e si metteva nell’altro …"

"Ma è vero che si fa un canale perché ci passi il mare? Ma l’acqua non segue, dentro il canale?"

"Sì, veniva dentro il canale; ma ci son le macchine per tenerla indietro. Son come delle pompe io non le so descrivere, insomma!"

Noemi ascoltava, zitta, lisciando la schiena al gatto che le ronfava in grembo con voluttà. Ascoltava, ma col pensiero lontano.

"Eravate proprio in campagna? Dicono che là è tutto caro. Rammenti quello che raccontavano gli emigranti, laggiù al Rimedio? Eppoi, dicono, è un paese dove non ci si diverte."

"Oh, per questo ci si diverte! Chi ha voglia di divertirsi, s’intende! Chi suona, chi balla, chi prega, chi si ubriaca: e poi tutti se ne vanno …"

"Se ne vanno? E dove?"

"Volevo dire alle loro baracche, a riposarsi."

"E che lingua parlano?"

"Lingua? Di tutte le parti. Io parlavo sardo, coi miei compagni …"

"Ah, tu avevi dei compagni sardi?"

"Avevo dei compagni sardi. Uno vecchio e uno giovane. Mi pare di averli ancora ai fianchi, salvo il rispetto alle loro signorie."

Gli occhi di Noemi scintillarono di malizia.

"Spero che noi siamo più pulite!", disse, stringendogli il braccio.

"Sì, un vecchio e un giovane. Litigavano sempre: erano cattivi, invidiosi, gelosi, ma in fondo erano anche buoni. L’uomo è fatto così: buono e cattivo: eppoi si è sempre disgraziati. Anche i ricchi, spesso son disgraziati. Ah, ecco!"

Ecco, la stretta della mano di Noemi gli ricordava la stretta di Giacinto, là nel cortiletto di Nuoro, e il segreto che impediva alla donna di accettare la domanda di don Predu.

"Don Predu, verbigrazia", disse quasi involontariamente; indi aggiunse guardando la padrona giovane, "non è forse ricco e disgraziato?"

Ma la padrona rideva di nuovo ed egli contro sua volontà s’irritò.

"Che c’è da ridere? Ebbene, non è forse disgraziato, don Predu? Finché lei, donna Noemi mia, non avrà pietà di lui Eppure egli è buono."

Allora donna Ester si alzò, appoggiando la mano alla spalliera della panca e stette a guardarli severa.

"Ma che buono", disse Noemi, senza più ridere. "È vecchio, adesso, e non può più beffarsi del prossimo: ecco tutto! Non parliamo di lui."

"Parliamone invece", disse donna Ester con forza. "Efix, spiegami le tue parole."

"Che cosa devo spiegarle, donna Ester mia? Che don Predu vuole sposare donna Noemi?"

"Ah, tu pure lo sai? Come lo sai?"

"Sono stato io il primo paraninfo."

"Il primo e l’ultimo", gridò Noemi buttando via il gatto come un gomitolo. "Basta; non voglio se ne parli più."

Ma Efix si ribellava.

"Ma perché io non gli ho mai portato la risposta, donna Noemi mia! Come potevo portargliela? Non osavo, e sono fuggito per questo."

Donna Ester tornò a sedersi accanto a lui, ed egli la sentì tremare tutta.

"Ah, Efix", mormorava. "Egli aveva l’idea fin d’allora e tu non dicevi nulla? E tu sei fuggito? Ma perché? In verità mia, mi pare tutto un sogno. Io non ho saputo mai nulla: solo la gente veniva a dirmelo, solo gli estranei. E tu, sorella mia, e tu e tu …"

"Che dovevo dirti, Ester? Ha forse mai fatto la sua domanda, lui? Quando s’è mai spiegato? Manda regali, viene qualche volta, si mette a sedere, chiacchiera con te e a me quasi non rivolge la parola. L’ho mai cacciato via, io?"

"Tu non lo cacci via ma fai peggio ancora. Tu ridi, quando egli viene; tu ti burli di lui."

"È giusto! Quel che si semina si raccoglie."

"Noemi, perché parli così? Sembri diventata matta, da qualche tempo in qua! Tu non ragioni più. Perché dici che egli si burla di te se ti ha mandato a dire che ti vuol bene?"

"Egli me lo mandò a dire con un servo!"

Donna Ester guardò Efix, ma Efix taceva, a testa bassa, come usava un tempo quando le sue padrone questionavano. Aspettava, d’altronde, certo che Noemi nonostante il suo disprezzo doveva tornare a lui per riprendere il discorso fra loro due soli.

"Efix, la senti come parla? Eppure io ti dico che non sei stato tu solo a dirglielo. Anche Giacinto …"

Ma questo nome fece come un vuoto pauroso attorno; ed Efix vide Noemi balzare convulsa; livida di collera e d’odio.

"Ester!", disse con voce aspra. "Tu avevi giurato di non pronunziare più il suo nome."

E uscì, come soffocasse d’ira.

"", mormorò donna Ester, curvandosi all’orecchio di Efix. "Ella lo odia al punto che m’ha fatto giurare di non nominarlo più. Quando venne ultimamente per dirci che sposa Grixenda e per consigliare Noemi ad accettare Predu, ella lo cacciò via terribile come l’hai veduta adesso. Ed egli andò via piangendo.

Ma dimmi, dimmi, Efix", proseguì accorata, "non è una gran cattiva sorte la nostra? Giacinto che ci rovina e sposa quella pezzente, e Noemi che rifiuta invece la buona fortuna. Ma perché questo, Efix, dimmi, tu che hai girato il mondo: è da per tutto così? Perché la sorte ci stronca così, come canne?"

"", egli disse allora, "siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento."

"Sì, va bene: ma perché questa sorte?"

"E il vento, perché? Dio solo lo sa."

"Sia fatta allora la sua volontà", ella disse chinando la testa sul petto: e vedendola così piegata, così vecchia e triste, Efix si sentì quasi un forte. E per confortarla pensò di ripeterle uno dei tanti racconti del cieco.

"Del resto è che non si è mai contenti. Lei sa la storia della Regina di Saba? Era bella e aveva un regno lontano, con tanti giardini di fichi e di melagrani e un palazzo tutto d’oro. Ebbene, sentì raccontare che il Re Salomone era più ricco di lei e perdette il sonno. L’invidia la rodeva; tanto che volle mettersi in viaggio, sebbene dovesse attraversare metà della terra, per andare a vedere …"

Donna Ester si curvò un po’ dall’altro lato e prese il libro in mezzo al quale aveva chiuso gli occhiali.

"Queste storie sono qui: è la Sacra Bibbia."

Efix guardò umiliato il libro e non continuò.

Rimasto solo si sdraiò sulla stuoia, ma nonostante la grande stanchezza non poté addormentarsi: aveva l’impressione che i ciechi fossero coricati lì accanto e che intorno e fuori nelle tenebre si stendesse un paese ignoto. Le sue padrone però stavano lì sulla panca, e lo guardavano, donna Ester vecchia e quasi supplichevole, donna Noemi ridente ma più terribile di quando era austera. E, cosa strana, non sentiva più soggezione di donna Ester, non aveva più paura di donna Noemi; era davvero come il servo affrancatosi diventato ricco davanti ai suoi padroni, poveri.

"Io posso aiutarle, posso aiutarle ancora, anche se esse non lo vogliono Domani …"

Aspettava con ansia il domani: ecco perché non poteva dormire. Domani parlerà con Noemi; riprenderanno il discorso interrotto tanti mesi prima; ed egli forse potrà portare la buona risposta a don Predu.

Allora cominciò a pregare, piano piano, poi sempre più forte, finché gli parve di mettersi a cantare come facevano i pellegrini su alla Madonna del Miracolo.

Domani Tutto andrà bene, domani; tutto sarà concluso, tutto sarà chiaro. Gli sembrava di capire finalmente perché Dio lo aveva spinto ad abbandonare la casa delle sue padrone e ad andarsene vagabondo: era per dar tempo a Giacinto di scender nella sua coscienza e a Noemi di guarire dal suo male.

"Se io davo subito la risposta a don Predu tutto era finito", pensava con un senso di sollievo; e sognava addormentandosi. Ecco un vago chiarore illumina la pianura intorno; è un anello bianco sopra un gran cerchio nero. Egli si buttò giù, sussultando, aprì gli occhi e vide donna Noemi davanti a lui, col lume in mano.

"Dormivi già, Efix? Abbi pazienza; ma Ester mi disse che te ne saresti andato domani mattina presto e son tornata giù."

Egli balzò a sedere sulla stuoia, ai piedi di lei ritta, ferma, grande col lume in mano. Un cerchio d’ombra con un anello di luce intorno, come egli aveva sognato, li circondava.

"E poi io volevo parlarti da solo, Efix. Ester non capisce certe cose. E tu hai fatto male a chiacchierare con lei: anche tu non capisci."

Egli taceva. Capiva, sì, ma doveva tacere e fingere come uno schiavo.

"Tu non capisci e perciò parli troppo, Efix! Se tu quel giorno avessi riferito solo l’ambasciata, senza darmi dei consigli, sarebbe stato meglio. Invece abbiamo detto molte cose inutili; adesso voglio sapere solamente se è vero che tu, proprio, non hai riferito nulla a Predu del nostro discorso."

"Nulla, donna Noemi mia!"

"Un’altra cosa ti voglio domandare, Efix; ma mi devi rispondere il vero. Tu …", esitò un momento, poi alzò la voce, "tu hai parlato di questo fatto con Giacinto? Dimmi il vero."

"No", mentì egli con voce ferma: "le giuro, io non ne ho parlato".

"Tu allora credi che sia stato Predu a dirglielo?"

"Io credo così, donna Noemi mia."

"Un’altra cosa. Dimmi, perché sei andato via?"

"Non lo so; pensavo appunto a questo, addormentandomi. Pensavo fosse stato il Signore a farmi andar via. Avevo paura e vergogna di presentarmi a don Predu con quella risposta. Sì, donna Noemi, perché don Predu mi aveva preso al suo servizio solo per questo, io lo capisco: egli voleva bene a lei e voleva che fossi io l’intermediario. Allora, quando lei disse di no, di no, sono scappato …"

Noemi si mise a ridere: ma un riso lieve, ben diverso dal cattivo riso di prima. Era compassione per Efix, compassione per don Predu, ma anche soddisfazione e dolcezza: mai, mai Efix l’aveva sentita ridere così. Eppure egli ricordava quel riso, quel volto curvo su lui, quell’ombra e quella luce tremula intorno: e il cuore gli batteva, gli batteva, da spezzarsi.

Lia com’era nella notte della fuga gli stava davanti.

"Un’altra cosa ancora e poi basta. Senti, tu credi Giacinto sposi davvero Grixenda?"

"Sì, è una cosa certa."

"Quando si sposano?"

"Prima di Natale."

Ella abbassò il lume, come per vedere bene il viso di Lui: e così illuminò bene il suo. Com’era pallida, e come il suo viso era giovane e vecchio nello stesso tempo!

L’orgoglio, la passione, il desiderio di spezzare la sua vecchia vita miserabile, e coi frantumi ricostruirsene un’altra, nuova e forte, le ardevano negli occhi.

"Sentimi, Efix", disse ritraendo il lume, "ebbene, tu dirai a Predu che lo voglio. Ma che dobbiamo sposarci subito, prima di quei due." …

     Dopo questa lunga incursione in Canne al vento – durata tre settimane –, la Scuola affida la lettura del testo di questo romanzo alla libera iniziativa di ciascuna e di ciascuno di voi, e ora torniamo sulla corsia propria del nostro Percorso.

     Insieme a Socrate, la scorsa settimana, abbiamo percorso le vie di Atene perché è per strada che Socrate ha spiegato il senso della sua dialettica. In che cosa consiste la dialettica inesorabile di Socrate e quali sono le parole-chiave e le idee-cardine proprie del suo pensiero?

     A Socrate la Storia del Pensiero Umano deve la prima documentata "rivoluzione culturale". A questo proposito abbiamo la testimonianza – riportata da tutte le commentatrici e i commentatori – di un discepolo di Aristotele che si chiama Aristosseno di Taranto, che è stato un grande teorico della musica, il quale racconta che «Socrate incontrò ad Atene un indiano che gli domandò quale filosofia praticasse; Socrate rispose che le sue ricerche vertevano sulla vita umana, e allora l’indiano si mise a ridere e disse che non si potevano contemplare le cose umane se si ignoravano le cose divine». Il pensiero indiano (contenuto nei Libri dei Veda, della Sapienza) concepisce l’essere umano, la parte spirituale dell’essere umano, come l’ultima parte di una realtà infinita alla quale la persona può ricongiungersi solo con la pratica ascetica e con l’esperienza mistica estraniandosi dalla natura e distaccandosi dalla città. L’indiano che parla con Socrate (nel IV secolo a.C.) si rende conto della radicale diversità tra la sapienza orientale che insegna a distaccarsi dalla vita e il nuovo "umanesimo" che si sviluppa con Socrate, anzi con la morte di Socrate (399 a.C.): Socrate esalta l’amore per la vita, sia naturale che di relazione, e fa emergere il fatto che la persona ha un compito da svolgere, ha una missione terrena da compiere. Come quella di Gesù di Nazareth, la morte di Socrate non è un semplice incidente di percorso ma è la coerente conclusione di una missione portata a termine, stazione dopo stazione, con grande lucidità.

     Il primo dato da sottolineare è che con Socrate la persona ha cominciato a prendere in mano il proprio destino e, dopo aver studiato i temi riguardanti l’Olimpo, la Natura, l’Essere e la Polis, ha posto al centro il tema della vita umana vista come lo spazio e il tempo per dedicarsi alla ricerca del senso della vita stessa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è un motivo o più di un motivo, per cui, oggi, puoi dire: la mia vita ha avuto un senso?

Scrivi quattro righe in proposito

     Platone ribadisce, scrivendo, che Socrate (come del resto anche Gesù di Nazareth) non ha deliberatamente scritto neppure un rigo perché ha voluto che la sua dottrina si identificasse con il suo modo di vivere e con il suo modo di morire.

     Leggiamo un frammento dai Memorabili di Senofonte, un’opera di cui ci siamo già occupati:

LEGERE MULTUM….

Senofonte, Memorabili

 Egli (Socrate) andava sempre fra la gente, la mattina nei passeggi e nei ginnasi, nelle ore più frequentate sulla piazza, nel resto del giorno in quei luoghi in cui più poteva trovare la gente, e parlava molto e chiunque volesse poteva ascoltarlo Non discuteva, come moltissimi altri filosofi, sulla natura dell’universo, ricercando come sia generato quello che essi chiamano cosmo, né quali siano le cause necessarie di ciascuna cosa celeste; anzi dichiarava pazzi quelli che si dedicavano a tali ricerche Egli invece ragionava soltanto delle cose umane, studiando che cosa sia la pietà

     Socrate, con questo suo modo di fare e di pensare, rappresenta una prima sintesi tra il pensiero orfico precedente che ha dato energia intellettuale a tutta l’Ellade e l’idea democratica che ha dato vitalità culturale alla polis, in particolare alla città di Atene. Il pensiero di Socrate è importante perché mette in evidenza come nella sintesi tra il pensiero orfico e la democrazia emerga un limite fondamentale che diventa il tema di tutta la riflessione successiva. Ogni persona vive immersa nella Natura e risiede integrata nella Città: La Natura e la Città sono dotate entrambe di leggi degne di ogni rispetto ma, le leggi di Natura e le leggi civiche, sono a volte in contrasto tra loro e sono anche incapaci di circoscrivere pienamente tutte le potenzialità che, nel bene e nel male, l’essere umano possiede.

     Abbiamo detto che Socrate porta a compimento una "rivoluzione culturale" che era già stata iniziata dai Sofisti e lo stesso Socrate appartiene al movimento culturale dei Sofisti. I Sofisti sono stati capaci di imprimere una svolta alla ricerca nell’ambito della conoscenza. Prima del movimento culturale dei Sofisti i grandi pensatori dell’Età assiale – e ne abbiamo già incontrato di celebri: Pitagora, Parmenide, Eraclito – si erano orientati ad indagare sulla Natura e sull’Essere. I Sofisti – e Socrate con loro – orientano la loro indagine su quel mondo propriamente umano che è il "mondo dei discorsi", e questo è un argomento che abbiamo già affrontato ma che va ripreso.

     Che cosa significa l’espressione: il "mondo dei discorsi"? Le cose esterne, le cose materiali – dichiarano i Sofisti (e anche Socrate) –, filtrate attraverso i sensi, entrano nella sfera dell’intelletto dell’essere umano e in quest’area esse si trasfigurano perché vengono trasformate in parole: le cose esterne, le cose materiali cambiano status nel momento stesso in cui la parola prende il loro posto. Questo determina il fatto che la realtà non è più "quello che è" ma bensì diventa "quello che si dice sia": la realtà è data dalle parole che nominano le cose. La realtà, quindi, – secondo l’operato dei Sofisti – comincia ad essere rappresentata come una rete di scambi, cioè come un "discorso" tra la persona e la persona e tra la persona e le istituzioni della città e, di conseguenza, il sistema della comunicazione diventa il vero mondo in cui l’essere umano vive: un mondo di natura culturale.

     Per i Sofisti tra i discorsi e le cose non c’è più alcun rapporto di corrispondenza: i discorsi vivono di per se stessi e crescono su se stessi, e sono tutti ugualmente veri e tutti ugualmente falsi, perché, – secondo i Sofisti – non esiste un riferimento oggettivo valido per tutti, quindi, i discorsi finiscono per differenziarsi soltanto in base alla loro capacità di persuasione.

     Anche per Socrate non esiste più alcun rapporto di corrispondenza tra le parole i discorsi e le cose, ma – ed ecco dove sta la novità di Socrate – sostituisce all’oggetto fisico, esterno alla persona, un punto di riferimento molto più rigoroso, che è l’interiorità della persona, la sua intima capacità di distinguere ciò che è conforme alla ragione e ciò che non lo è: ciò che è illuminato dall’idea del Bene (Logos Logos) e ciò che non lo è (Moria Morìa).

     Socrate – per l’ideologia dei ceti conservatori, dei "benpensanti" (come lui li chiama) – appariva un sofista come gli altri; anzi, dato il suo successo fra i giovani, appare come uno più pericoloso degli altri: un corruttore, come lo definiscono i suoi accusatori. L’accusatore principale di Socrate, Anito, è convinto che per ristabilire la democrazia, dopo il governo dei Trenta Tiranni, sia necessario che le istituzioni pubbliche si conformino alla tradizione (cioè a quella strisciante ipocrisia patrimonio delle oligarchie che Socrate stava condannando come ideologia perniciosa per le coscienze) ed è convinto che sia necessario combattere lo scetticismo (con la proclamazione di comodi dogmi che possano sollevare dalla fatica della ricerca sui temi dell’esistenza che Socrate propone), e quindi Anito (e tutto il governo di Atene) non può non considerare il movimento socratico come un focolaio di infezione.

     Anito non capisce – nella sua volontà di essere saccente – che Socrate è l’opposto del sofista scettico. Socrate critica i comportamenti dei cittadini ateniesi perché si punti l’attenzione su una moralità basata sulla coscienza (mi comporto bene perché è giusto comportarsi bene) e non sull’ipocrisia (mi comporto bene per farmi vedere e poi, quando nessuno mi vede, posso anche eludere la sorveglianza). Socrate critica il diritto vigente basato sugli interessi oligarchici e protezionistici della polis in nome di una universale giustizia. Socrate critica le credenze della religione dominante (che gioca con gli dèi) in nome di una divinità intima alla persona. Socrate critica le credenze dogmatiche in nome della verità intesa come orizzonte di una permanente indagine razionale.

     Se Socrate non ha mai messo per iscritto il suo insegnamento, a differenza di Anassagora e di Protagora, che – come sappiamo – sono stati sottoposti anche loro ad un processo, lo ha fatto, a quanto dice Platone, di proposito, perché le persone non trascurassero la memoria viva delle cose e si affidassero sempre al vitale scambio delle idee. Socrate non pubblica opere (è improbabile che Socrate non abbia usato la scrittura come strumento per fare ordine nei suoi pensieri) perché non vuole essere un maestro, non vuole essere portatore di una dottrina, ma pretende di essere un suscitatore di curiosità, di riflessione, di immaginazione e di dialogo: Socrate è un alfabetizzatore (è il modello dell’alfabetizzatore) che invita tutte le persone a farsi carico della propria alfabetizzazione e di quella altrui perché è nel serrato interscambio intellettuale che nasce la società umana non nella strenua difesa di interessi corporativi di carattere economico su cui si basa il potere oligarchico nella polis.

     Per noi – studentesse e studenti di oggi – sarebbe stato meglio avere del materiale scritto perché è poi diventato difficile stabilire, tramite le testimonianze, quale sia stato veramente l’insegnamento di Socrate. E anche per i suoi contemporanei – ci riferiamo a Platone e a Senofonte – è stato difficile distinguere la dottrina socratica vera e propria dalle diverse interpretazioni che sono emerse nella coscienza di coloro i quali hanno seguito il suo insegnamento. D’altra parte bisogna dire che questa debolezza (se così la vogliamo chiamare) di Socrate (quella di non lasciare nulla di scritto, di scrivere nella polvere della strada) è stata anche la sua grandezza perché il fatto di non aver lasciato una traccia ben codificata, ha stimolato coloro i quali lo hanno ascoltato a riflettere, a ragionare e a scrivere.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Socrate pretende di essere un suscitatore di curiosità, di riflessione, di immaginazione e di dialogo: quale parola metteresti, adesso, accanto alla parola "curiosità (che cosa t’incuriosisce di più)" e alla parola "riflessione (su che cosa rifletti)" e alla parola "immaginazione (che cosa immagini)" e alla parola "dialogo (con chi dialoghi)"…

Scrivi quattro parole in proposito

     Socrate ha avuto rapporti ambivalenti con molte delle persone che lo hanno frequentato (i più non lo hanno imitato), e inoltre ha avuto rapporti contraddittori anche con la sua città, con le istituzioni ateniesi. A differenza di Anassagora e dei Sofisti, che sono quasi tutti stranieri, Socrate è ateniese in tutto e per tutto. Quando, dopo la condanna a morte, potrebbe fuggire dal carcere, non lo fa anche perché non riesce a immaginarsi come maestro mercenario, alla maniera di Gorgia, in esilio in altre città. E questa considerazione la esprime durante il processo, chiedendo, con maliziosa provocazione, di essere mantenuto dalla città, per amore della quale è diventato povero, chiede di essere ospitato nel Pritaneo, l’edificio dove veniva custodito il fuoco perenne della città, e dove si dava alloggio e mantenimento gratuito ai cittadini benemeriti.

     Ma gli Ateniesi – in maggioranza "benpensanti" – hanno paura di uno come Socrate che diffonde inquietudine spingendo, soprattutto i giovani, ad interrogarsi sui temi esistenziali e sulle questioni morali (perché farsi tante domande sul "senso" della vita? Meglio non farsene, meglio alienarsi con i beni di consumo e vivere tranquilli): gli Ateniesi pensano ci voglia fermezza e sicurezza. E la maggioranza dei "benpensanti" ha paura dei giovani che "socratizzano" – come si comincia a dire in forma denigratoria – perché vengono visti come una minaccia per il futuro della città, la quale, non per colpa dell’infezione socratica che si è diffusa tra le giovani generazioni (questo è il capro espiatorio) ma è a causa della sciagurata guerra del Peloponneso che Atene ha perduto la sua splendida sicurezza.

     E, a proposito, è bene ricordare – in questa saga dell’ipocrisia – che, dopo la morte di Socrate, la città viene presa dal rimorso e, per cercare di liberarsene bellamente, vuole che gli accusatori del Maestro (del quale – con un perbenismo spregiudicato – viene riconosciuta l’ubbidienza e la magnanimità) siano a loro volta condannati.

     La morte di Socrate ha messo in gioco valori che solo in seguito, e anche con l’apporto del Cristianesimo (che questi valori ha fatto propri), appariranno chiari. I valori rivelati dalla riflessione che accompagna la morte di Socrate mettono in evidenza un elemento fondamentale: un conflitto. Il conflitto tra la legge dello Stato, nella quale si esprime (o dovrebbe esprimersi) come norma positiva l’esigenza del bene comune, e la legge della coscienza, che non esonera dall’obbedienza alla legge della città ma costituisce una sfera a se stante, dalla quale non è lecito estraniarsi perché contrariamente si perde la dignità morale. Su questo tema del conflitto tra la legge della città (non sempre giusta) e la legge della coscienza (non sempre equilibrata) emerge, in tutta la sua originalità, il pensiero di Socrate. Per Socrate le leggi dello Stato sono sante, tanto che se una cittadina o un cittadino ne è colpito ingiustamente non deve sottrarsi ad esse, anzi deve onorarle accettando serenamente la punizione, senza tuttavia venir meno alla legge interiore, che è costitutiva di una polis qualitativamente diversa (la coscienza): che è la città, che è la patria interiore delle persone che cercano il vero, una polis destinata a durare anche oltre le barriere della morte (per Socrate questa idea è però solo un’ipotesi). La legge che prescrive è anche la legge che punisce: se la coscienza impedisce di osservare la prescrizione, allora essa comanda di accettare con serenità la punizione, anche quella capitale, a meno che la legge stessa (che nei Dialoghi di Platone diventa un vero e proprio personaggio) non venga persuasa, mediante un ragionevole dibattito, della propria ingiustizia.

     Nel dialogo platonico intitolato Critone, le leggi – che vengono personificate – così parlano a Socrate in attesa della morte; leggiamo questo frammento:

LEGERE MULTUM….

Platone, Critone

La tua sapienza t’ha fatto dimenticare che più della madre e più del padre e di tutti i progenitori presi insieme si deve amare la patria interiore (la coscienza) e che essa è più di quelli venerabile e sacra, posta più in alto di quelli dagli dèi e dalle persone sagge? E che la patria interiore (la coscienza) si deve rispettare, obbedire e venerare più del padre, anche nelle sue ire, e che o si deve persuaderla o si deve operare così com’essa impone, soffrire, se ci impone di soffrire, con anima silenziosa e serena?

     C’è, nel discorso di Socrate, un’ispirazione che lo distanzia sia dalla visione ipocrita dei benpensanti sia da quella scettica dei Sofisti. In questa ispirazione, tendenzialmente laica, la tradizione cristiana ha voluto vedere un afflato di tipo religioso persino eccessivo, un impulso esagerato che va ben oltre di quelle che sono le intenzioni di Socrate. Per conoscere e per capire Socrate bisogna inquadrare il suo pensiero nell’epoca e sul territorio nel quale è vissuto ed è morto.

     Fra i capi d’imputazione contro Socrate c’è anche quello di empietà: «Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la città riconosce e di introdurre altre nature demoniache». Che cosa dimostra questo capo d’imputazione? Dimostra che la città di Apollo (dell’ordine costituito) ha paura della presenza di Dioniso (delle riflessione sui limiti dell’ordine costituito)? Socrate, davanti ai giudici, durante la sua autodifesa, ricorda con orgoglio una sentenza dell’oracolo di Delfi (del santuario di Apollo per eccellenza) che lo ha riconosciuto come il più sapiente tra tutti gli esseri umani proprio perché ha utilizzato il precetto delfico che dice "conosci te stesso" come tema principale della sua ricerca filosofica, quindi come può Socrate essere accusato di empietà quando ha fatto proprio il comandamento fondamentale di Apollo? E Socrate spiega ai suoi giudici (e anche a noi) il senso della sentenza dell’oracolo di Delfi che lo dichiara «il più sapiente tra gli esseri umani»: è il più sapiente perché sa di non sapere, sa di non poter fermarsi alle credenze dogmatiche ma di dover perseverare nella ricerca della verità e, quindi, questa sua sapienza si esplicita in una presa di distanza dalle forme stereotipate, convenzionali, esclusiviste della religione pubblica.

     Socrate ammette che anche quando egli esegue i riti e i sacrifici prescritti, lo fa, per ossequio civico alle tradizioni, ma dando chiari segni che il suo orizzonte religioso è diverso. Il suo orizzonte religioso è interno alla coscienza, in cui si fa sentire un impulso che Socrate chiama "dèmone". Il termine "dèmone" – soprattutto nel Medioevo da alcune correnti del pensiero Scolastico – è stato sostituito, con un’evidente forzatura, con la parola "dio" per avvicinare ancora di più Socrate al Cristianesimo. Socrate, nella sua attività educativa – pur così rigorosamente fedele alle regole della ragione, alle norme del Logos – mette in rilievo qualcosa che va oltre la logica, che va al di là dell’arida dialettica dei Sofisti. Questo principio extralogico, il dèmone, si presenta quindi come una capacità legata al sentire: il dèmone è la facoltà che permette alla persona – quasi per impulso naturale – di distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Se la persona ascolta la voce del dèmone presente nell’intimità della sua coscienza può distinguere, quasi sempre, il bene dal male e può scegliere quindi di fare il bene ma, molto spesso, l’astuzia della ragione (il demònio, da non confondersi con il dèmone) non permette che questo si realizzi.

     Nella vita pitagorica (e abbiamo incontrato Pitagora e il suo pensiero) per imparare a percorrere la via del bene è necessario un duro e lungo tirocinio di iniziazione. Socrate pensa invece che la via del bene s’imbocchi con una intuizione istintiva. Platone sviluppa l’insegnamento di Socrate unificando la dottrina del dèmone con quella dell’eros, cioè con la spinta verso la conoscenza. Per Platone è saggia (è filosofa) la persona la cui ragione è mossa dal dèmone o dall’eros, cioè dalla conoscenza intuitiva di ciò che è bene e ciò che è male.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Ti è successo di essere tentata, di essere tentato di compiere qualche azione di cui hai intuito la non bontà e quindi – ascoltando la voce del dèmone – non hai ceduto?…

Scrivi quattro righe in proposito…

     Socrate sente la voce demònica (non demoniaca) fin da bambino: è una voce che si fa udire all’improvviso, e sempre con un intervento di tipo negativo, è una voce che gli dichiara non percorribile una strada e indirettamente gli indica la via da percorrere. Socrate non sa spiegare l’origine di questa voce, ma è sicurissimo della sua valenza positiva (santa) ed è deciso a non disobbedire mai a questo richiamo.

     Leggiamo un frammento dall’Apologia di Socrate:

LEGERE MULTUM….

Platone, Apologia di Socrate

 Se voi mi assolveste e mi diceste: Socrate, noi non ascolteremo Anito, ma ti assolveremo, a patto che tu non ti occupi più di tali ricerche e cessi di filosofare; però se ti fai cogliere di nuovo morrai: ebbene, se, come dissi, voi mi assolveste a tal patto, io vi risponderei: Ateniesi, io vi voglio un gran bene, però obbedirò piuttosto al dèmone che a voi, e finché avrò forza e vita continuerò a filosofare Io non mi difendo affatto, come può parere, per amor mio; mi difendo per amor vostro, per impedirvi di rifiutare, condannandomi, il dono che in me vi ha fatto il dèmone

     È chiaro che gli avversari di Socrate, di fronte ad una affermazione di questo genere, pensano sia giusto accusarlo di trascurare gli dèi della città, quegli dèi che, come sappiamo, fanno parte della sfera utilitaristica e non morale dell’essere umano. Nella città ci sono però anche forme di religiosità popolare di carattere tipicamente orfico-dionisiaco ed è a queste forme tradizionali che Socrate attinge per far capire e per far avvicinare tutti – soprattutto le persone prive di potere – al suo pensiero. Per esempio esiste già – e di qui Socrate ha attinto – nella religiosità orfico-dionisiaca la credenza che ogni persona sia affidata, nella vita e dopo la vita, a un dèmone (a un angelo custode, noi potremmo dire) particolare. E ci sono poi le dottrine orfico-pitagoriche, secondo le quali ogni persona è insieme corpo e anima, e l’anima è un qualcosa (un frammento) di divino imprigionato nella carne, nella materia. Socrate utilizza questi elementi della tradizione religiosa orfico-dionisiaca per veicolare il suo insegnamento morale. Socrate si pone, in un certo senso, in continuità con le religioni che predicano la salvezza, e in punto di morte chiede si faccia silenzio, come si usa nella dottrina pitagorica, e ordina – come sappiamo – che si offra un gallo a Esculapio, il dio della salute, dato che, per lui, come per gli Orfici, morire è come guarire, è come uscire da una lunga malattia.

     Socrate riunisce in sé, risolvendole in una sconcertante armonia esistenziale, una serie di competenze.

     La prima è la capacità di contemplare (lo abbiamo letto la scorsa settimana che per un giorno e una notte Socrate fu veduto, mentre era soldato, seduto e assorto, del tutto estraneo a quanto si faceva attorno a lui) e questa è la disposizione contemplativa che hanno i maestri vedici della cultura indiana.

     La seconda capacità è quella di saper esprimere un’intransigenza etico-politica tipica dei profeti di Israele (che abbiamo studiato lo scorso anno scolastico) e che si manifesta nella decisa volontà di onorare i patti e di rispettare la legge uguale per tutti.

     La terza dote di Socrate è quella di saper gustare la gioia di vivere nella comunità della polis, quella di saper godere della vita di relazione assaporando le cose necessarie (che creano buoni sentimenti di solidarietà) e disprezzando quelle superflue (che innescano perverse competizioni). Socrate sa apprezzare i vantaggi di una democrazia che funziona, e vuole mettere in evidenza – e questo è un precetto della saggezza greca – che agire in favore del bene comune procura una ricaduta positiva a vantaggio di ogni singola persona.

     Per queste sue competenze Socrate appare ai suoi discepoli – anche al più infedele di loro, Alcibiade – come una persona di affascinante originalità, e Alcibiade scrive: «Una persona che sia tanto originale – lui e i suoi discorsi – come Socrate, nessuno la troverebbe, per quanto cercasse fra gli antichi e i moderni». L’originalità di Socrate – promotore delle dottrine dell’Umanesimo – sta nel mettere al centro del suo interesse la persona. Il tema della dottrina e del metodo socratico è rappresentato dalla persona, tanto che lui stesso – con la sua persona – si identifica con la missione che si è proposto di realizzare e la sua missione è quella di camminare liberamente in mezzo alle persone senza nessuna intenzione di insegnare ma con la semplice volontà di avviare una conversazione partendo dagli interessi quotidiani.

     Nel dialogo platonico intitolato Simposio, che abbiamo incontrato già molte volte, Alcibiade, nel fare l’Elogio di Socrate, dice (leggiamo questo frammento):

LEGERE MULTUM….

Platone, Simposio

 Se una persona ascolta i discorsi di Socrate, dapprima gli sembrano quasi ridicoli Egli parla di asini da soma, di fabbri, di calzolai, di conciatori, e par che dica sempre con le stesse parole le stesse cose. Ma se qualcuno li vede aperti e vi penetra, troverà che essi sono i soli discorsi che posseggano un intimo senso di ragione (il Logos): direi, discorsi divini

     Alcibiade – sempre nel dialogo Simposio facendo l’Elogio di Socrate – dichiara che quando ha ascoltato Pericle e gli altri grandi oratori, riconosceva sì che essi parlavano bene, ma la sua anima «non veniva messa in tumulto e il cuore non gli balzava forte nel petto» come quando ascoltava i discorsi di Socrate che lo facevano sentire «prigioniero della sua superficialità». Il fascino delle parole di Socrate non cade addosso a chi lo ascolta come l’eloquio forbito dei Sofisti, ma si insinua nell’interlocutrice e nell’interlocutore a partire da una semplice domanda con la quale ha inizio la conversazione, apparentemente su temi di semplice portata: «che cos’è, secondo te, una cosa santa, e una cosa bella, e una cosa giusta?». «E tu – si rivolge a ciascuna e a ciascuno di noi Socrate nei Dialoghi di Platone – e tu conosci cose sante, cose belle, cose giuste? Fai degli esempi».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Prova anche tu a fare degli esempi: che cos’è per te una cosa santa, che cos’è una cosa bella, che cos’è una cosa giusta?

Bastano quattro righe per rispondere, scrivi

     E, a questo punto, Socrate alza il livello della riflessione domandando: «Ma che cos’è la santità, che cos’è la bellezza, che cos’è la giustizia»? E allora – continua ancora Alcibiade nel Simposio (e qui Platone usa una similitudine) – l’interlocutrice o l’interlocutore si sente scosso da una corrente come se avesse messo il piede su di una torpedine (uno di quei pesci che danno la scossa) perché questo è il momento in cui, chi riflette, si accorge che non è facile rispondere con certezza, questo è il momento in cui, chi riflette, si rende conto di «sapere di non sapere», questo è il momento in cui, chi riflette, si rende conto che deve mettersi alla ricerca.

     Le ampollose definizioni date dai Sofisti nei loro retorici discorsi accatastano, uno sull’altro, gli attributi delle cose sante, delle cose belle, delle cose giuste ma non penetrano nella ragione specifica che – per ciascuna persona – rende santa la cosa santa, bella la cosa bella, giusta la cosa giusta. I Sofisti danno risposte prefabbricate in modo sentenzioso, Socrate ripudia – senza fare polemica ma con una sorridente bonarietà e con ironia – il sapere sofisticato dei saccenti che si presentano come venditori di formule accattivanti. Socrate considera i Sofisti degli imbonitori e non dei maestri perché il loro modo di "educare", ripetitivo e acritico, crea supponenza e non competenza, e finisce per estendere solo il raggio dell’ignoranza, per cui dei fanfaroni (come il conciatore Cleone, ci ricorda Platone) possono arrogarsi il compito di stratega (senza sapere come è fatta una nave) o di legislatore (senza saper scrivere), e così il sistema democratico entra in crisi. Con il metodo dei Sofisti – che insegnano a parlare non in funzione della riflessione ma per avere comunque ragione attraverso gli espedienti retorici – le responsabilità politiche vengono affidate senza tener conto delle competenze.

     E come si sviluppano le competenze nella persona? La competenza – che per Socrate equivale all’umanità – si sviluppa nella persona soprattutto attraverso la riflessione attenta sui suoi limiti (so di non sapere quindi studio e imparo) più che sulla arrogante supponenza (ci penso io che so già far tutto). Il metodo socratico – che si riassume nell’affermazione: so di non sapere quindi studio e imparo – infonde in chi lo pratica la convinzione di poter trarre da se stessa e da se stesso la competenza, senza dipendere da altri: quindi Socrate è in realtà promotore di una profonda democrazia perché esclude qualunque astuzia dialettica.

     E per Socrate il sapere non ha mai un contenuto dato da conservare nella memoria e da rievocare in modo utilitaristico nei momenti opportuni. La persona sapiente rimette continuamente in discussione le conclusioni raggiunte e lo fa non chiudendosi in un solitario atteggiamento autocritico ma nel dialogo con chiunque sia disposta e sia disposto a liberarsi delle sedimentazioni che la propaganda di regime (questo è il temine che usa Platone), con i suoi pregiudizi e i suoi luoghi comuni, accumula nell’intelligenza di ogni essere umano privandolo della capacità di avere un pensiero proprio. Solo ritornando alla sua semplicità originaria (respingendo l’astuzia della ragione e coltivando il desiderio di imparare, l’eros) l’intelligenza – secondo Socrate – acquista la capacità di scegliere ciò che è veramente utile alla persona intesa come soggetto spirituale.

     Il sapere filosofico socratico si distingue, quindi, da ogni altro sapere proprio per la sua universalità e per la caratteristica di non essere finalizzato né al successo, né alla carriera (come pensano i Sofisti) ma di essere in funzione della dignità della persona in quanto tale, indipendentemente dunque da ragioni di ordine politico o professionale. Una persona è "umana" quando vuole imparare ad essere una "brava persona" non perché è abile sul piano politico o professionale: questo viene di conseguenza.

     Socrate, come maestro, si pone come obiettivo quello del perfezionamento dell’intelligenza in quanto principio di decisione morale: dobbiamo diventare più intelligenti per fare di più il bene. La pedagogia di Socrate (il suo modo d’insegnare) è basata sull’attività della ricerca e si attua nell’esercizio stesso della ricerca. Di quale ricerca? Non della ricerca – quella viene dopo – all’interno della sfera delle conoscenze fisiche (come è fatta la Natura) o delle conoscenze filologiche (in che modo si descrive il mondo con le parole), ma della ricerca che non può mai avere un approdo consolidato: la ricerca morale (sono capace – si domanda Socrate – a imparare a fare il bene?). L’insegnamento socratico si basa semplicemente (per modo di dire perché le cose più semplici sono proprio quelle più difficili da realizzare, per le quali ci vuole maggiore applicazione) sull’arte della ricerca.

     Quest’arte è stata chiamata, recentemente, con una parola greca: "euristica". L’euristica è l’arte del ricercare e non va confusa con la parola "eristica", che invece è l’arte del contendere, che è la specialità dei Sofisti, e abbiamo già incontrato questa parola osservando il gruppo dei Sofisti ne La Scuola di Atene.

     Ci sono – nella Storia del Pensiero Umano – tre importanti forme di ricerca: la teoretica, la tecnica e la morale. Socrate si occupa di quella morale, proprio perché investe anche le altre.

     E ora, avviandoci verso al conclusione di questo itinerario, leggiamo alcune pagine tratte da un romanzo, il testo del quale – senza bisogno di tante spiegazioni, credo – raccoglie (in modo esplicito) lo spirito dell’insegnamento socratico. Questo romanzo, che s’intitola Un anno sull’Altipiano (l’altipiano è quello di Asiago dove è nato e dove ha vissuto Mario Rigoni Stern che abbiamo incontrato nel mese di ottobre dello scorso anno), è oggi una delle maggiori opere che la Storia della Letteratura (non solo italiana) possegga sulla Grande Guerra, sulla prima guerra mondiale (1915-1918) e la Scuola ne consiglia la lettura o la rilettura. La guerra scatena sempre delusioni, stoltezze, follie, ma – come in tutte le grandi tragedie – fa emergere anche inaspettate potenzialità morali soprattutto in chi pensa che le controversie non si dovrebbero risolvere con i conflitti ma con le trattative e con il dialogo (sappiamo che anche Socrate è stato soldato per ubbidienza alle leggi dello Stato ma non ha mai rinunciato alla sua coerenza morale).

     L’autore di questo romanzo, scritto nel 1936, si chiama Emilio Lussu (e visto che è nato in provincia di Cagliari, siamo ancora idealmente in Sardegna) e di lui parleremo la prossima settimana. Ne parleremo brevemente perché certi personaggi hanno scelto di vivere appartati: eppure Emilio Lussu è uno dei "padri della patria" non solo perché ha combattuto la Grande Guerra ma perché è stato uno dei principali dirigenti della Resistenza nelle file del movimento "Giustizia e Libertà" e poi, come rappresentante del Partito d’Azione, ha partecipato a scrivere la Costituzione. I padri e le madri della patria? Qualcuno li conosce in Italia?

     Ma ora – visto che queste figure avevano anche la buona abitudine di scrivere dieci minuti al giorno, ed Emilio Lussu è tra questi – leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano (1936)

 Le operazioni sembravano aver subito, per ordini superiori, un arresto. Esse si sviluppavano in altri fronti, sul Carso principalmente. Sull’Altipiano, era ridiscesa la calma. A metà settembre, la brigata fu mandata a riposo, vicino a Foza, per quindici giorni. Ricevemmo finalmente abiti e biancheria e ci rimettemmo a nuovo. Quei quindici giorni passarono per tutti noi come quindici notti.

... continua la lettura ...

     Emilio Lussu, con la sua pungente ironia, vuole mettere in evidenza il fatto che sia stato proprio un professore di greco, certamente esperto sui Dialoghi di Platone a ricordare a tutti che è sempre meglio pensare di "sapere di non sapere" e quindi è meglio mettersi a "fare ricerca" prima di sparare sentenze.

     Ma come ci si applica nell’euristica, come si applica Socrate nell’arte del ricercare? Ce ne occuperemo la prossima settimana nel corso del processo a Socrate: l’euristica è una disciplina fondamentale per avvicinarsi alla sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     Ma non solo, è anche alla base della realizzazione de La Scuola di Atene: il viaggio continua.

     La Scuola è qui

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Marzo 13, 2009