Autorizzazione all'uso dei cookies

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE C’È LA CAPACITÀ PURIFICATRICE DELL’INTELLETTO ...

Lezione N.: 
18

Prof. Giuseppe Nibbi         Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele     18-19-20 febbraio 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE

C’È LA CAPACITÀ PURIFICATRICE DELL’INTELLETTO ...

     Il nostro viaggio di studio si propone di favorire la conoscenza e la comprensione delle parole-chiave e delle idee-cardine che caratterizzano la sapienza di Socrate (che è vissuto fino al 399 a.C.), di Platone (che è vissuto fino al 347 a.C.) e di Aristotele (che è vissuto fino al 322 a.C.). Sappiamo che questi tre importanti modelli culturali, Socrate Platone e Aristotele, caratterizzano la Storia del Pensiero Umano dell’età moderna, del XVI secolo, del 1500 e, quindi, la loro eredità intellettuale è parte integrante della nostra identità culturale e la centralità di queste figure la stiamo osservando nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene, dipinta da Raffaello, a cominciare dal 1508, su ordine di papa Giulio II. Per questo motivo – e ormai ne siamo al corrente – il nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, avanza su due corsie: la corsia moderna che attraversa lo spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia antica che percorre il territorio orfico dell’Ellade.

     Nell’itinerario della scorsa settimana abbiamo puntato la nostra attenzione su quello che viene chiamato: il quadro dei Sofisti. In questo quadro possiamo notare una situazione di conflittualità perché qui incontriamo tre personaggi nettamente separati da tutti gli altri. Questi tre personaggi emarginati si trovano di fronte ad una figura, appartenente al folto gruppo che si trova davanti a loro, la quale con il gesto della mano tesa, con l’espressione del volto, con un atteggiamento risoluto, sembra stia dicendo: "State alla larga, statevene fuori, andatevene via!". Uno dei tre personaggi che si vorrebbero isolare, tende il braccio con la mano aperta e sembra rispondere affermando: "Ma, ci siamo anche noi!". Questo dialogo, che avviene attraverso le braccia e le mani, esprime una situazione di disagio e i gesti che vengono fatti comunicano, a prima vista, un giudizio negativo su queste tre figure e di conseguenza anche sul loro modo di pensare.

     È vero anche che in questo quadro Raffaello, con questo dialogo a gesti, riesce ad esprimere, in modo eloquente, anche un’ambiguità culturale: i Sofisti sono visti, in linea di massima, in modo negativo ma sono presenti anche loro nella Storia del Pensiero Umano e rappresentano un movimento molto eterogeneo. Ci sono i Sofisti come Prodico di Ceo che vendono l’eristica cioè la tecnica per avere sempre ragione nelle discussioni, e ci sono i Sofisti come Protagora di Abdera che vogliono insegnare la dialettica che è una disciplina utile per acquisire la virtù politica ma è anche l’arte di descrivere con le parole la Natura, l’Essere umano, i Sentimenti. Questa ambiguità – che rispecchia anche, probabilmente, le discussioni dei membri del gruppo di studio (Giulio II, Bramante, Fedra Inghirami e Raffaello) che si occupa della progettazione de La Scuola di Atene – rende difficoltosa l’interpretazione di questo quadro (studiose e studiosi continuano a studiarci) ma la rende anche molto interessante, ricca di seduzioni intellettuali che dobbiamo prendere in considerazione e non vedo perché dovremmo rinunciare, anche se ci sono delle difficoltà.

     Intanto – abbiamo già detto la scorsa settimana – il gioco delle "braccia protese" costruito da Raffaello in questo quadro ricorda l’immagine grandiosa della "creazione dell’Uomo" dipinta da Michelangelo nella Cappella Sistina. Tutte noi e tutti noi abbiamo questa icona negli occhi dove il vecchio Dio Padre e il novello Adamo protendono il braccio (e le loro mani quasi si toccano) l’uno verso l’altro: è possibile – si domandano le studiose e gli studiosi – che Raffaello, interpretando le conversazioni del gruppo di lavoro che prepara il contenuto dell’affresco, abbia anche voluto alludere al tema della creazione e della conseguente cacciata dal Giardino dell’Eden? E in quali termini, a proposito del tema della creazione, può essersi svolta la discussione tra Giulio II, Bramante, Raffaello e Fedra Inghirami il quale naturalmente, da bibliotecario, ha messo senz’altro sul tavolo i testi che ritiene utili per dare spessore al contenuto che sta prendendo forma in questo quadro? Dobbiamo ancora lasciare in sospeso questo interrogativo perché ci sono delle questioni che è necessario affrontare prima, procedendo con cautela.

     In questo quadro che rappresenta il gruppo dei Sofisti – già lo abbiamo osservato la scorsa settimana – in primo piano Raffaello ha dipinto una bellissima figura a torso nudo che tiene in mano due volumi e un rotolo, quindi i protagonisti sono ancora i libri e non un Libro solo ma tanti Libri. L’affresco intitolato La Scuola di Atene di Raffaello è sostanzialmente la rappresentazione di un Percorso di didattica della lettura e della scrittura (questa affermazione vale per molte opere d’arte). La descrizione di questo quadro, che rappresenta il gruppo dei Sofisti, potrebbe finire qui se ci limitassimo ad una osservazione superficiale senza cogliere gli stimoli intellettuali che contiene. E gli stimoli intellettuali che questo quadro contiene – soprattutto in funzione della didattica della lettura e della scrittura (che rappresenta lo specifico del nostro Percorso) – contribuiscono a complicare il nostro viaggio e quindi noi dobbiamo rallentare il passo ma non dobbiamo rifuggire dalle complicazioni che la dinamica dell’apprendimento ci presenta perché questa consuetudine di rimuovere tutto ciò che è considerato difficile (non sempre a ragione) o di banalizzate i temi della cultura per fini strumentali conduce al progressivo (e negli ultimi vent’anni è successo così) aumento strutturale dell’ignoranza della popolazione.

     Una delle affascinanti complicazioni intellettuali che ci si pone subito di fronte, osservando questo quadro, riguarda proprio la figura a torso nudo che appare in movimento e che tiene in mano due volumi e un rotolo: questa figura – secondo una corrente di pensiero, soprannominata la "corrente di Fedra", che studia l’influenza che hanno avuto le opere letterarie nella realizzazione dell’affresco (soprattutto quelle di tradizione orfica messe sul tavolo dal bibliotecario Fedra Inghirami) – rappresenta un personaggio che non può essere esplicitamente nominato, che non appartiene al gruppo dei Sofisti e che viene raffigurato da Raffaello come se volesse correre via, come se stesse passando oltre per andare verso il gruppo che ha di fronte. Chi è questo personaggio? Questo personaggio – secondo la corrente di Fedra – rappresenta una citazione letteraria che stimola una significativa riflessione per la quale dobbiamo preparare il terreno procedendo con circospezione.

     Intanto – come primo elemento di riflessione, tenendo anche conto di quello che abbiamo studiato nell’itinerario della scorsa settimana – possiamo fare un’ipotesi sui titoli che potrebbero avere i libri che tiene in mano il bellissimo personaggio che sembra passare oltre a torso nudo e col mantello al vento (con il capo rivolto a sinistra quasi a porre attenzione nel sorpasso). I libri che questa figura tiene in mano potrebbero essere i due dialoghi su cui maggiormente Platone si è occupato dei Sofisti.

     Il primo è il dialogo intitolato Sofista – di cui ci siamo occupati la scorsa settimana –che contiene alcuni argomenti fondamentali: il tema dell’Essere e del Non-essere, la questione del valore dei Libri e dell’importanza dell’esercizio della lettura e della scrittura e il tema del significato qualitativo (in funzione dell’apprendimento e non solo del mercato) che deve avere la cultura. In questo dialogo inoltre – a proposito del tema dell’Essere – abbiamo incontrato il personaggio (dietro la cui maschera c’è Platone stesso) dello Straniero di Elea che sovrintende al cosiddetto "parricidio di Parmenide": una operazione intellettuale attraverso la quale Platone vuole dare un ruolo anche al Non-essere, ai fenomeni della Natura e ai Sentimenti perché la loro esistenza è necessaria. Platone, dietro la maschera dello Straniero di Elea, afferma che tanto i fenomeni della Natura quanto i Sentimenti non possono "non-essere" perché allora non esisterebbero: sono qualcosa di diverso dall’Essere ma posseggono una loro essenza, di genere diverso, sono una variante dell’Essere.

     Le studiose e gli studiosi di filologia orfica ci ricordano che nel porre in atto il "parricidio di Parmenide" Platone fa riferimento – sotto traccia perché non è conveniente che lui faccia nomi per non bruciare il suo ragionamento – ad un personaggio con il quale tende ad affiliarsi tacitamente sul tema della Fisica, anche se non condivide, su altri argomenti, il suo pensiero. Chi è questo personaggio che Raffaello – secondo la corrente di Fedra – avrebbe rappresentato con la bellissima figura che, a torso nudo, sembra voler correre via, sembra passare oltre per andare, con due libri e un rotolo in mano, verso il gruppo che ha di fronte?

     Uno dei libri che ha in mano questo personaggio affiliato tacitamente a Platone, del quale non possiamo ancora fare il nome, potrebbe essere – abbiamo detto – quello del dialogo di Platone intitolato Sofista, e l’altro libro? L’altro libro potrebbe essere intitolato Protagora: e Protagora è il dialogo di Platone sul quale dobbiamo puntare l’attenzione questa sera. Il personaggio di Protagora di Abdera – che abbiamo incontrato nell’itinerario della scorsa settimana – aleggia in questo quadro ma soprattutto è il testo del dialogo di Platone intitolato Protagora che – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – fa sentire la sua presenza.

     Molto probabilmente – come già abbiamo detto – Fedra Inghirami ha messo sul tavolo dell’ufficio del papa, all’attenzione dei membri del gruppo di studio che prepara i contenuti de La Scuola di Atene, i due dialoghi di Platone in questione: Sofista e Protagora.

     Raffaello, in questo quadro, raffigura l’idea (certamente emersa nella discussione tra i componenti del gruppo di studio) che i Sofisti non vengono allontanati in blocco, ma c’è una presa di distanza dall’eristica (dalla tecnica della discussione per aver sempre ragione anche perseguendo una tesi immorale), c’è una presa di distanza dall’eristica che si presenta come la degenerazione della dialettica che è l’arte del dar forma alla realtà per mezzo delle parole. La dialettica è la disciplina messa a punto dai Sofisti come Protagora e consiste nello studio delle potenzialità che ha la parola come elemento distintivo della persona. I Sofisti come Protagora spostano decisamente la loro attenzione dall’investigazione della Natura all’osservazione della Persona (e questo è un passo significativo). Protagora sostiene che prima di definire la natura dell’Universo occorre precisare i limiti della conoscenza umana, così la persona diventa arbitra della realtà e lo diventa attraverso la parola (il logos). Il mondo esiste nel modo in cui la persona è capace di descriverlo con le sue parole: ecco l’importanza della dialettica. La dialettica, quindi, non è solo l’arte di discutere ma è anche la disciplina utile per descrivere con le parole la Natura, l’Essere umano, i Sentimenti. Di questi concetti, riguardanti la disciplina della dialettica, si appropria anche Platone per codificarli e attribuirli a Socrate che nei dialoghi appare come l’autentico "sofista", come il vero amante della sapienza, il depositario della conoscenza che conduce all’idea del Bene.

     Il dialogo di Platone intitolato Protagora ha come tema centrale quello della virtù, in greco, aretè. In questo dialogo Platone pone un problema importante: si può insegnare la virtù oppure le virtù le possediamo per natura? Virtuose e virtuosi si nasce o si diventa? La prima cosa che dobbiamo dire è che il dialogo di Platone intitolato Protagora appartiene al gruppo dei primi dialoghi, detti socratici, e viene considerato, per la vivacità drammatica della discussione, per la descrizione briosa dell’ambiente e dei personaggi un’opera d’arte tra le più importanti nella Storia della Letteratura. Platone, come scrittore, nel creare il suo stile, ha fatto tesoro del genere letterario della tragedia, della commedia e del poema epico e in questo dialogo la miscela di questi generi emerge in modo particolare.

     Il dialogo ha inizio con un colloquio introduttivo in cui Socrate viene pregato da un amico di riferirgli la conversazione ch’egli ha avuto, il giorno prima, con Protagora. Questo "amico" rimane anonimo, tace per tutto il dialogo, non interviene in alcun modo nella lunga narrazione di Socrate che segue subito dopo. Questo personaggio è lasciato senza nome e senza volto perché è metaforico ed ha una funzione di carattere drammaturgico. Se vogliamo – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – giocare con le parole possiamo dire che in greco (come molte e molti di voi sanno) il termine "amico" corrisponde alla parola fílos e a questo allude Platone: questo personaggio rappresenta il "filo conduttore", è il dialogo stesso che si dipana, che si svolge, che si spiega.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Oggi, nella tua vita, c’è un filo conduttore: a quale parola potrebbe corrispondere?…

Scrivila…

     Il dialogo Protagora mette in scena un certo numero di personaggi: alcuni li abbiamo già sentiti nominare e altri li incontreremo, probabilmente, strada facendo. Socrate – su invito di questo amico, fílos – inizia il suo racconto e narra che il giovane Ippocrate si è presentato in casa sua alle prime luci dell’alba, molto eccitato perché ha saputo che Protagora, il più celebre dei Sofisti, è giunto ad Atene. Ippocrate rappresenta il prototipo del giovane ateniese, di nobile famiglia e di buone doti personali, impaziente di imporsi nella vita della polis, di fare carriera, e quindi in cerca di nuove esperienze educative, desideroso di conoscenze per accrescere la propria formazione culturale. Anche il giovane Ippocrate, dopo il colloquio introduttivo con Socrate allo spuntar dell’alba, non parla più per tutto il dialogo. Ippocrate informa Socrate che Protagora è ospite di Callia. Callia è imparentato con Pericle ed è uno dei più ricchi cittadini di Atene: è un grande mecenate e il suo mecenatismo ha delle caratteristiche patologiche perché Callia dilapida tutto il suo patrimonio per ospitare, mantenere, sponsorizzare artisti, scrittori, pensatori. Ippocrate dice a Socrate che egli vuol farsi a ogni costo discepolo del grande maestro Protagora, la cui fama tutti conoscono in Atene, ed è disposto a spendere – sappiamo che Protagora costa caro (allude ironico Platone) – tutto il suo patrimonio. Socrate, con la calma riflessiva che lo contraddistingue (ma anche un po’ scocciato per essere stato svegliato all’alba), vuole saggiare la consistenza del proposito di Ippocrate e, alzatosi da letto, comincia a passeggiare nell’atrio in attesa che spunti il sole seguito da Ippocrate il quale comincia a capire che deve frenare la sua impazienza che rasenta il fanatismo. Socrate invita Ippocrate a rispondere a due domande sul suo proposito di farsi discepolo dei Sofisti: «Caro Ippocrate – chiede Socrate – ma lo conosci davvero Protagora? Lo sai tu quanto vale l’insegnamento di un sofista?». Spunta il sole e Socrate – scrive Platone – può vedere il rossore sul volto del giovane, che si accorge di non sapere ("sa di non sapere": ci sono nel testo platonico delle finezze linguistiche che bisogna cogliere e quando, prossimamente, incontreremo Socrate capiremo meglio questa affermazione), Ippocrate si rende conto di non saper rispondere a queste domande fondamentali. «E allora – dice Socrate – andiamo ad incontrarlo e ad interrogarlo questo Protagora, e così ti accorgerai che non ama essere interrogato perché è convinto di sapere tutto ma ricordati – aggiunge Socrate ridendo – che "chi sol sa che nulla sa, ne sa più di chi ne sa.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quali di queste parole metteresti per prima accanto al verbo "sapere": la consapevolezza, la dottrina, l’esperienza, l’abilità, la previsione?

Scrivila…

     E così Socrate e Ippocrate – dopo aver fatto colazione (orzo e biscotti) – si recano nella lussuosa e grande casa di Callia dove hanno fissato la loro dimora, per stare intorno a Protagora, un gran numero di Sofisti con i loro seguaci tanto che, per ospitarli tutti (l’ospitalità di Callia è proverbiale) viene utilizzata anche la dispensa (e qui l’allusione di Platone è piuttosto velenosa: la dispensa – dove c’è molta roba da divorare – è il posto ideale per i Sofisti, secondo lui). A questo punto il dialogo prende anche un tono burlesco – il tono della commedia – perché tra i personaggi compare anche il portiere della casa di Callia, un eunuco (furibondo con i Sofisti che riempiono la casa con mala creanza) il quale, di primo acchito, sbatte la porta in faccia a Socrate e a Ippocrate scambiandoli per Sofisti ma poi, dopo aver riconosciuto Socrate, lo fa entrare con la speranza che si opponga nei confronti della supponenza di questi indesiderati (per lui che lavora) invasori.

     Socrate (nel dialogo Protagora di Platone) – entrato con Ippocrate in casa di Callia – ci presenta alcuni dei più celebrati maestri presenti, il primo che ci indica è Ippia di Elide, il quale con il suo nome fornisce il titolo a due dialoghi di Platone: Ippia maggiore (sul bello) e Ippia minore (sul falso). Platone in questi due dialoghi (è possibile che, strada facendo, ci capiti di osservarli più da vicino) non è tenero con Ippia il quale appare come un personaggio geniale (un tuttologo) soprattutto perché è dotato di una memoria straordinaria (enciclopedica) e quindi possiede un grande bagaglio di nozioni – ma questo è sufficiente, si domanda Platone per bocca di Socrate, per essere un sapiente? – per giunta Ippia è un gran vanitoso e ama molto la ricchezza. Socrate ce lo presenta – con la penna di Platone – mentre si sta sgolando seduto su un alto trono: il fatto è che, parla per se stesso, perché nessuno lo ascolta. Poi Socrate richiama la nostra attenzione su Prodico di Ceo, maestro di eristica (di tecniche per aver sempre ragione nelle discussioni) che noi abbiamo incontrato nell’itinerario della scorsa settimana il quale sta predicando tutto avvolto in lussuose pellicce perché ha un gran raffreddore e così non si capisce neanche una parola di tutte quelle che dice.

     Protagora intanto passeggia nel portico interno, fra l’ammirata e un po’ comica riverenza dei discepoli corsi ad onorarlo. Socrate gli si avvicina e – senza alcun timore reverenziale – gli chiede: «In che cosa consiste, Protagora, il tuo insegnamento?», e Protagora risponde affermando che: «La sofistica sta alla base del progresso umano perché vuole insegnare la virtù politica». Quindi, dalla risposta di Protagora, si capisce che per lui e per i Sofisti dialettici, che lui rappresenta, la virtù è una ed è insegnabile. Socrate – con un espediente dialettico perché, in realtà, anche lui sostiene che la virtù è una ed è insegnabile – risponde dicendo di dubitare che si possa insegnare la virtù politica perché si è potuto constatare che quasi sempre – visto che i padri insegnano ai figli – i grandi uomini politici non sono stati capaci di trasmettere ai figli (e alle cittadine e ai cittadini della polis) questa virtù.

     Allora Protagora (assai seccato e preoccupato per l’intervento di Socrate) cade in trappola e, nel sostenere la sua tesi, ricorre ad un mito commettendo un grave errore che lo fa cadere in contraddizione. Protagora racconta che Zeus avrebbe concesso a tutti gli uomini, affinché potessero convivere, la giustizia e il pudore come basi della virtù politica. La virtù – secondo questa esposizione mitica fatta da Protagora – sarebbe, così, innata (di provenienza divina) nelle persone ma, d’altra parte – aggiunge Protagora senza accorgersi di cadere in contraddizione – i padri la insegnano comunque ai figli e, anzi, tutta l’educazione dei giovani tende a formare in loro tale virtù che, se poi qualcuno non riesce, è per mancanza di attitudine e non d’insegnamento. Protagora – ci fa notare Socrate – quando usa l’eloquenza, raccontando i miti, seduce l’uditorio ma quando deve fare un ragionamento si contraddice perché se la virtù è innata (e lui sostiene che, miticamente, ce l’ha data in dono Zeus) non c’è bisogno che la si impari: le persone dovrebbero essere già tutte virtuose ma nei fatti – sostiene Socrate – come mai non è così?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Platone fa dire a Protagora che il pudore è una virtù importante: in quale occasione la mancanza di pudore ti ha particolarmente infastidita, infastidito?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Protagora – nel dialogo di Platone che porta il suo nome – rispondendo a Socrate con un lungo discorso parla indifferentemente di virtù politica (l’arte di amministrare bene la polis) e di virtù morale (l’essere persone oneste) e, a questo proposito, Socrate prende subito lo spunto per domandargli se le varie doti morali –l’onestà, la purezza di cuore, la giustizia, la sapienza – siano parti della virtù oppure siano virtù separate. Socrate domanda a Protagora: «Tu pensi, Protagora, che la virtù sia una oppure che le virtù siano molte?». Protagora, abituato a sedurre l’uditorio con l’eloquenza piuttosto che a riflettere con una discussione minuziosa, rimane un po’ sconcertato ma, ad ogni modo, risponde che propende per la seconda ipotesi: secondo lui le virtù sono molte. Ma Socrate gli fa subito notare che le virtù separate l’una dall’altra assumono il ruolo di competenze (sono un modo di fare e non un modo di essere), le virtù non possono sussistere se non sono coordinate dalla sapienza che ne è il principio comune e questo concetto Protagora lo ha espresso in modo lusinghiero all’inizio della conversazione affermando che la sapienza, sophia, i Sofisti ce l’hanno nel nome e di conseguenza sono anche in possesso della virtù: «Non parlavi, Protagora, un momento fa – ribatte Socrate – dell’esistenza di un’unica virtù, perché ora affermi che le virtù sono molte?». Protagora è imbarazzato e prontamente si lancia in una dissertazione sulla relatività di ciò che è utile e spiega che si può fare un’affermazione e, poco dopo, se torna utile a mantenere il consenso su una questione dibattuta, si può sostenere il contrario. Socrate protesta perché Protagora – con la seduzione del discorso magniloquente –cerca di distogliere l’uditorio sostenendo una tesi in cui mistifica ciò che è utile con ciò che è contraddittorio.

     A questo punto si rivelano le simpatie dei personaggi che sono presenti: Callia (il padrone di casa) propende rispettosamente per Protagora che è suo ospite. Alcibiade (un personaggio che incontreremo strada facendo) esprime, con un impeto che richiama un celebre capitolo del Simposio (il famoso dialogo di Platone sull’amore), la sua simpatia per Socrate. Poi c’è Crizia di Callescro, un aristocratico, parente di Platone da parte di madre che –in un momento di crisi della democrazia ateniese – sarà a capo del governo dei Trenta tiranni: Crizia aveva seguito Socrate ma poi lo aveva abbandonato per fare carriera. C’è anche un dialogo di Platone intitolato Crizia, che ha come argomento l’Atlantide, il famoso continente scomparso. Crizia in questo momento non sa chi scegliere tra Socrate e Protagora: vorrebbe infatti fare da moderatore. Ippia e Prodico non si schierano perché vorrebbero poter prendere la parola, dire la loro, fare i loro dotti discorsi ma – come abbiamo visto – non trovano ascolto.

     E così la discussione tra Protagora e Socrate riprende, col metodo dialogico: a turno uno fa le domande e l’altro risponde. Protagora, cui spetta d’interrogare per primo, vuole portare la questione su un campo che lui predilige: quello della poesia, e comincia a commentare un carme del poeta Simonie. Ma Socrate – che apprezza la sapienza poetica orfica – sostiene che è meglio lasciar da parte i poeti perché essi, con le loro opere, non vogliono dare delle risposte ma piuttosto vogliono porre degli interrogativi: tutte le poetesse e i poeti hanno sempre sostenuto che "esser buoni è difficile" ma la risposta del "perché essere buoni è difficile" l’hanno sempre rimandata sotto forma di interrogativo alle lettrici e ai lettori in modo che riflettessero sull’essenza della bontà. E Socrate, insidiosamente, chiede a Protagora se sia ancora dell’opinione di prima: se pensi ancora che le virtù siano molte. Protagora, di fronte a questa domanda, adotta una via di mezzo e, contraddicendo sostanzialmente la sua tesi iniziale, afferma che quattro tra le virtù – la giustizia, la santità, la saggezza e la sapienza – sono simili fra loro, ma che il coraggio sovrasta tutte le virtù. Ma Socrate obietta che è necessario – come riconosce anche Protagora – distinguere il coraggio (che significa misurare i propri limiti) dalla folle audacia (dal fare le cose senza valutare i pericoli reali) e la scelta responsabile tra il coraggio e l’audacia viene fatta con la sapienza e questo vuol dire che il coraggio corrisponde alla sapienza e dunque – sostiene Socrate – se il coraggio, in quanto atto virtuoso, deve essere ricondotto alla sapienza, significa che la virtù non è divisibile in parti e, di conseguenza, Socrate può affermare che la virtù è una: è un modo (e qui emerge tutta l’etica di Platone) di essere alla continua ricerca dell’idea del Bene e questa ricerca è insegnabile.

     Protagora a questo punto prende la parola per dire di essere lusingato di aver incontrato un saggio come Socrate, e Socrate ricambia la cortesia e termina constatando che le posizioni si sono capovolte ed egli ha finito per sostenere la tesi che Protagora non aveva saputo difendere. Qui emerge quella che si chiama l’ironia di Platone: infatti Protagora aveva iniziato la sua conversazione con Socrate sostenendo che la virtù è una ed è insegnabile poi è bastato che Socrate, in modo dialettico, lo invitasse a dubitare e a riflettere che subito Protagora, per paura di perdere il consenso di Socrate e dell’uditorio, cambiasse opinione. Per i Sofisti – ironizza Platone su un tema di grande attualità oggi – è più importante avere il consenso negando la propria opinione e aderendo al parere della massa incolta piuttosto che essere riflessivi ascoltando il richiamo al Bene della propria coscienza.

     Tutta l’ironia di Platone tende a sostenere la tesi che della dialettica – la disciplina dei Sofisti – il vero depositario è Socrate. Socrate è il vero "sofista", l’amante della sapienza perché, con la dialettica, fa cadere in contraddizione Protagora il quale non ritiene di dover dire ciò che pensa ma di dover dire ciò che crede sia utile per mantenere il consenso.

     Platone conclude il dialogo con una significativa allusione: quello che i giovani vanno a cercare nei Sofisti – perché seducono con la loro vuota eloquenza – sta nel metodo e nel consiglio di Socrate: cerca te stessa, cerca te stesso, segui l’itinerario di conoscenza che porta a imparare a riconoscere l’idea del Bene presente nelle persone e nelle cose che ti circondano.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Qual è la prima cosa che ti viene in mente nella quale puoi riconoscere l’idea del Bene?…

Scrivila…

     Dopo aver conosciuto – a grandi linee – il contenuto del dialogo Protagora di Platone possiamo tornare ad osservare nell’affresco de La Scuola di Atene il quadro raffigurante il gruppo dei Sofisti e in particolare il bellissimo personaggio che sembra passare oltre a torso nudo e col mantello al vento (con il capo rivolto a sinistra quasi a porre attenzione nel sorpasso). Questo personaggio tiene in mano due libri e un rotolo, e i libri che questa figura porta con sé potrebbero essere – secondo le studiose e gli studiosi della cosiddetta "corrente di Fedra" che studia l’influenza che hanno avuto le opere letterarie nella realizzazione dell’affresco (soprattutto quelle di tradizione orfica messe sul tavolo dal bibliotecario Fedra Inghirami) – i due dialoghi di Platone di cui ci siamo occupati, intitolati Sofista e Protagora.

     Il testo di questi due dialoghi, in particolare quello del Protagora, calza perfettamente con l’idea del movimento che Raffaello ha voluto dare a questo personaggio: questa figura sembra sorpassare i Sofisti per andare oltre, per andare verso il gruppo che ha di fronte dove, non a caso (come vedremo nel passo successivo che faremo prossimamente), è rappresentato Socrate che è il protagonista dei due dialoghi di Platone che questo personaggio ha con sé come per dire che della dialettica – della disciplina dei Sofisti – il vero conoscitore è Socrate. Come per dire che Socrate è il vero "sofista", è l’autentico amante della sapienza – della conoscenza dell’idea del Bene – che s’identifica con la virtù.

     Ma questa bellissima figura, che sembra passare oltre a torso nudo e col mantello al vento, – secondo la corrente di Fedra – rappresenta soprattutto una citazione letteraria che stimola, come possiamo capire, un’altra significativa e complessa riflessione che dobbiamo imbastire. Le studiose e gli studiosi di filologia orfica – come abbiamo già ricordato – affermano che nel porre in atto il "parricidio di Parmenide" Platone, nel dialogo intitolato Sofista, allude ad un personaggio con il quale tende tacitamente ad affiliarsi sul tema della Fisica, anche se non condivide, su altri argomenti, il suo pensiero. Chi è questo personaggio che Raffaello – secondo la corrente di Fedra – avrebbe rappresentato con la bellissima figura che, a torso nudo, sembra voler correre via, sembra volersi spostare dal quadro dei Sofisti per andare verso il gruppo di Socrate che ha di fronte?

     Platone, nel dialogo il Sofista, per avvalorare (come sappiamo) il ruolo e la consistenza reale dei fenomeni naturali – che se fossero il Non-essere, come afferma Parmenide, non esisterebbero e ciò non sarebbe possibile – si rifà, in parte, al pensiero di questo personaggio ma si guarda bene dal pronunciarne il nome perché, se lo avesse fatto, avrebbe prodotto un’azione dannosa per la sua opera e per il suo ragionamento: perché? Chi è questo personaggio scomodo al quale Platone allude soltanto nel Sofista ma che ha già citato per nome in un altro dialogo trattandolo, apparentemente, con noncuranza?

     Il personaggio che Raffaello – secondo la corrente di Fedra – avrebbe rappresentato con la bellissima figura che, a torso nudo, corre verso il gruppo dei Socratici che ha di fronte sarebbe Anassagora di Clazòmene. Il personaggio di Anassagora di Clazòmene – secondo la corrente di Fedra – sarebbe identificabile (Raffaello lo avrebbe reso identificabile) soprattutto per il rotolo che tiene in mano posto sopra ai due libri e per il dito (il pollice) della mano sinistra che regge il rotolo in modo un po’ innaturale perché il pittore lo avrebbe messo appositamente in evidenza: difatti nel cartone preparatorio questo pollice è stato inizialmente disegnato più rivolto verso l’alto e poi, per motivi estetici, è stato dipinto come lo vediamo ma pur sempre in risalto. Che cosa rappresenta questo rotolo e che cosa rappresenta il dito pollice della mano sinistra di questa figura? Per rispondere a queste domande dobbiamo chiederci chi è Anassagora di Clazòmene, qual è il suo pensiero e quali elementi del suo pensiero riguardano la riflessione di Platone tanto da far aleggiare questa figura – come un’importante citazione letteraria – ne La Scuola di Atene?

     La polis di Atene – durante la cosiddetta età di Pericle (469-429 a.C.) – è attraversata da grandi fermenti di natura sociale, politica, culturale. E il personaggio che stiamo per incontrare, Anassagora di Clazòmene, è – a detta delle studiose e degli studiosi – il più adatto a rappresentare i fermenti intellettuali che caratterizzano la società ateniese a ridosso dell’Età assiale della storia. I fermenti intellettuali che – in questo momento – caratterizzano il mondo culturale ateniese sono di stampo razionalistico e quindi, non è casuale il fatto che Anassagora sia stato soprannominato Noùs, la Mente e anche ò Physikótatos, il Super-fisico, perché è stato un insigne studioso di scienze naturali. Ad Atene, 2500 anni fa, si comincia ad interpretare il mondo utilizzando il Noùs, lo strumento della Mente con la quale si dà inizio allo smontaggio dei miti e alla creazione di una nuova disciplina: la Fisica (phisis, in greco, significa "natura"). La Fisica è la disciplina che indaga i fenomeni naturali e li studia nella loro essenza. La centralità del Noùs, della Mente, si coglie soprattutto nel valore che viene dato alla dialettica, all’arte di ragionare, di argomentare, di discutere che ha, nel secolo successivo, il suo culmine nei Dialoghi di Platone con il personaggio di Socrate che esprime il grande desiderio di interpretare la realtà facendo uso esclusivo delle risorse dell’Intelletto (tra Anassagora e Platone ci sono circa settant’anni di differenza). «L’Intelletto [Noùs]» scrive Aristotele nella Metafisica: «è come una persona che non ha bevuto, messa al confronto con altre che dicono cose vane».

     Anassagora, figlio di Egesibulo – scrive Diogene Laerzio nella sua Raccolta della vita e delle dottrine dei filosofi – nasce, tra il 500 e il 497 a.C., nella polis ionica di Clazòmene.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il sito archeologico di Clazòmene (ci siamo già approdate e approdati qualche anno fa …) si trova nei pressi di Smirne (Ìzmir) sulla costa turca bagnata dal mar Egeo, e con l’atlante, con la guida della Turchia, o sulla rete, lo puoi facilmente individuare e lo puoi visitare…

     Diogene Laerzio c’informa che Anassagora ha avuto come maestro Diogene di Apollonia, della Scuola di Mileto, e noi sappiamo che alla Scuola di Mileto (l’abbiamo frequentata anche noi con Talete, Anassimandro, Anassimene, Ecateo, Diogene di Apollonia) s’impara soprattutto a "guardare il cielo", piuttosto che a curare i propri interessi materiali. Per questo motivo – scrive Diogene Laerzio – la famiglia di Anassagora è disperata: loro vogliono che lui, essendo il primogenito, si occupi delle proprietà della famiglia: «Che cosa ti abbiamo fatto studiare a fare?». E Anassagora, candidamente, risponde sempre: «Ma perché non ve ne occupate voi che io ho da guardare il cielo, e il cielo è enormemente più vasto delle nostre proprietà, e poi è a disposizione di ognuno e soprattutto, il cielo, bada a se stesso!». E allora – visto che insistevano – si disereda da solo e decide di regalare ogni cosa (le terre, le case, gli averi) a suo fratello minore.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

A chi hai regalato, di buon grado, qualcosa di consistente ?…

Scrivi quattro righe in proposito…

     Su Anassagora di Clazòmene scrive cose interessanti anche Filostrato l’Ateniese, appartenente ad una illustre famiglia di sofisti vissuti tra il II e il IV secolo d.C. che abbiamo già incontrato nei nostri Percorsi. Filostrato l’Ateniese è autore di un celebre testo intitolato Vita di Apollonio di Tiana, il più famoso taumaturgo dell’antichità, una specie di santo pagano che faceva i miracoli: Se volete potete fare una piccola ricerca su quest’opera.

     È logico pensare che Fedra Inghirami abbia messo in lettura, sul tavolo dell’ufficio di Giulio II, la Vita di Apollonio di Tiana. E sicuramente i membri del gruppo di studio che prepara il contenuto de La Scuola di Atene se lo sono sentito leggere da Fedra Inghirami questo testo che ha avuto un grande successo nel Rinascimento. Nella Vita di Apollonio di Tiana viene citato anche Anassagora di Clazòmene e Filostrato Ateniese scrive che in realtà il giovane Anassagora si sente felice solo quando può restarsene da solo a osservare gli astri. Infatti– secondo gli insegnamenti della Scuola di Mileto – passa le sue notti accampato sul Monte Miniante, nel più assoluto silenzio, intabarrato in una coperta di lana. Una volta – racconta Filostrato Ateniese – a un concittadino che lo rimprovera aspramente di non amare abbastanza la patria lui risponde: «Non è affatto vero: io amo moltissimo la patria!» e, mentre dice queste parole, con il dito pollice indica il cielo. Eccolo qui il dito pollice che – secondo le studiose e gli studiosi della corrente di Fedra – Raffaello ha messo in evidenza dipingendo il personaggio che rappresenta Anassagora. Anassagora risponde al suo interlocutore utilizzando il pollice perché questo dito ha una funzione politico-istituzionale: con il dito pollice (volto all’insù e all’ingiù a seconda dei casi) si votava nell’agorà per prendere le decisioni. (Oggi il dito politico-istituzionale è diventato il dito-medio, ed è indubbiamente una bella prova di maturità democratica e di educazione civica rivolta alle nuove generazioni, e soprattutto crea consenso, fa volgarità che è ormai la virtù politica più apprezzata).

     Raffaello ne La Scuola di Atene nel quadro dei Sofisti cita l’episodio tratto dalla Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato Ateniese e raffigura il personaggio che rappresenta Anassagora con il dito pollice in bell’evidenza appoggiato sul rotolo che tiene sotto il braccio: questa immagine rimanda anche alla figura che, al centro dell’affresco, rappresenta Platone che viene mostrato mentre rivolge inequivocabilmente il dito indice verso il cielo. I membri del gruppo di studio che programmano il contenuto de La Scuola di Atene sembrano voler far filtrare questi particolari significativi per avvalorare il legame ideale che c’è tra la figura di Anassagora – il quale tiene in mano i testi dei dialoghi platonici intitolati Sofista e Protagora – e Platone stesso che ha accolto ed elaborato il richiamo di Anassagora a guardare il cielo.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è un testo che ha come argomento il cielo che ti piace particolarmente?

Segnalalo all’attenzione delle lettrici e dei lettori della Biblioteca itinerante

     Naturalmente Anassagora – così come Apollonio di Tiana – è un personaggio scomodo ed è per questo motivo che viene proposto sotto traccia ma sappiamo che ne La Scuola di Atene sono più le allusioni che i riferimenti espliciti perché sono proprio i personaggi scomodi ad attirare l’attenzione delle intellettuali e degli intellettuali rinascimentali, compreso Giulio II. E allora continuiamo ad occuparci di Anassagora per capire in che cosa consiste la sua "pericolosità" per cui già Platone alludeva a lui con circospezione senza voler dar ad intendere che condivideva una serie di elementi del suo pensiero.

     Anassagora di Clazòmene diventa famoso, già da giovane, per le sue conoscenze astronomiche. Plinio il Vecchio nella Storia naturale scrive: «Anassagora sembra abbia appreso i segreti dell’Universo direttamente dai Libri arcani dei sacerdoti egizi» e ad Anassagora vengono attribuite previsioni di ogni tipo: un’eclissi di sole, un terremoto (che avrebbe previsto grazie al movimento del fango depositato in un pozzo), e perfino la caduta di una meteorite nel fiume Egospotami. Per questo ultimo fatto Anassagora, invece che col suo nome, negli antichi trattati scientifici medioevali viene citato come: «colui che ha predetto la caduta di una pietra dal cielo», non era prudente citarlo per nome perché era stato messo all’Indice: nel catalogo degli autori proibiti.

     Anassagora a vent’anni si trasferisce da Clazòmene ad Atene dove fonda una Scuola. Alla Scuola di Anassagora hanno studiato Euripide (il tragediografo) e Archelao, il quale non è un’illustre sconosciuto perché è stato il maestro (e probabilmente anche l’amante) di Socrate e soprattutto è famoso per aver intuito che il suono si propaga nell’aria attraverso un susseguirsi di onde.

     Diogene Laerzio ci mette al corrente che, secondo alcuni, «Anassagora è stato chiamato ad Atene da Santippo, il padre di Pericle, perché facesse da istruttore al figlio», secondo altri invece – sempre secondo il racconto di Diogene Laerzio – «Anassagora era un ex soldato persiano giunto in Grecia con le truppe di Serse». Questa ipotesi – scrive Diogene Laerzio – spiegherebbe perché Anassagora, trent’anni dopo il suo arrivo ad Atene, viene accusato dai nemici di Pericle di "medismo" (di essere al servizio, come spia, dei Medi) e con questa accusa viene processato e condannato. Anassagora viene accusato da un certo Tucidide, figlio di Melesia, capo del partito aristocratico (da non confondere con Tucidide lo storico) di collaborazione con i Persiani e di empietà, ovvero di vilipendio della religione. Gli storici raccontano che Anassagora viene condannato a morte per pochissimi voti. Pericle, che ha avuto Anassagora come maestro, è primo ministro ma non può fare nulla (la magistratura è autonoma dal potere esecutivo), ma come amico riesce a corrompere i carcerieri in modo che Anassagora possa fuggire, prima ancora che venga letta la sentenza: i giudici applicano la legge e lo condannano per soddisfare l’accusa ma chiudono un occhio sulla fuga e non ordinano nessuna ricerca del contumace. Si poteva condannare a morte per spionaggio un cittadino che, trent’anni prima, era arrivato in Grecia con l’esercito persiano: un esercito che, per giunta, era stato sonoramente sconfitto dagli ellenici? E si poteva condannare a morte per empietà un cittadino che aveva solamente sussurrato: «Zeus è lo zimbello dei poeti»?

     Il fatto è che le idee del povero Anassagora erano ritenute "pericolose" e gli dèi (nonostante fossero presentati dai poeti come ridicoli burattini) bisognava, in modo ipocrita, far finta che esistessero (come se fossero una specie di garanzia per l’ordine costituito) e, semplicisticamente, bisognava far finta di credere che dessero vita alla Natura. Anassagora è colpevole – secondo i suoi accusatori – di aver dato impulso alla disciplina della Fisica che, con la ragione, smonta le credenze superstiziose incentivando la ricerca anche in campo teologico.

     Anassagora fugge e il modo in cui Raffaello, ne La Scuola di Atene, lo rappresenta crea – secondo le studiose e gli studiosi della corrente di Fedra – ancora un indizio a favore di questa tesi: questa bellissima figura è in movimento e questo personaggio sembra scappare via con quel rotolo sotto il braccio e il rotolo – ora è il momento di spiegare il significato di questo oggetto – è un indizio in più per identificare Anassagora: infatti dopo la lettura della sentenza il rotolo su cui era scritta veniva consegnato all’imputato. Anche Socrate riceve il rotolo su cui è scritta la sentenza e la commenta in più di un dialogo di Platone ma – starete pensando in questo momento – Socrate però non fuggirà.

     Anassagora fugge ma è stato capace di dare anche lui un esempio di coerenza. Intanto la clandestinità è assai dura per Anassagora, se non altro perché è lontano dal luogo (Atene) dove si «fa cultura», ma il cielo – che rimane il suo terreno di studio privilegiato – è comunque sempre a sua disposizione, in qualunque luogo si trovi. Anassagora è ben nascosto, tanto che nessuno – neppure Diogene Laerzio che ha delle notizie da darci su di lui – è in grado di riferire dove si trovi. Sappiamo che c’è stata – per interessamento di Pericle – la revisione del processo, e Anassagora si ripresenta davanti al tribunale e la condanna a morte viene tramutata nell’esilio. Anassagora va in esilio a Làmpsaco, antica colonia focese nella regione della Misia: oggi è la città turca di Làpseki, la quale, come allora, è posta in posizione strategica sulla costa dell’Ellesponto, lo stretto dei Dardanelli (è il primo porto a nord dove si può traghettare sullo stretto dei Dardanelli), che mette in comunicazione il mar Egeo con il mar di Marmara.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Puoi andare – utilizzando l’atlante e una guida della Turchia o la rete – a fare una visita alla città di Làpseki che, secondo la tradizione mitica, ha dato i natali al personaggio di Priàpo…

E, in modo virtuale, puoi anche far visita alla regione, intorno al mar di Marmara, che ha una grande importanza storica, strategica e culturale: buon viaggio…

     Anassagora a Làmpsaco si lascia morire di inedia (non è quindi da meno di Socrate) e i cittadini di questa polis, che sono molto orgogliosi di averlo avuto tra loro, lo seppelliscono, nel 428 a.C., con tutti gli onori e sul sepolcro – scrive Diogene Laerzio – pongono una lapide su cui si legge: «Qui giace Anassagora che, nella ricerca della verità, si spinse fino ai confini del cielo». Leggiamo le notizie che di Anassagora ci lascia Diogene Laerzio nella sua opera:

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

 Quando, dopo il primo processo, ricevette il rotolo sul quale era scritta la condanna a morte, Anassagora commentò dicendo: «Non è una gran novità. Da tempo la natura ha condannato a morte tanto me quanto i miei nemici!»

Quando in esilio seppe che erano morti i suoi figli, disse semplicemente: «Sapevo di averli generati mortali» A chi gli ricordava che era stato privato degli Ateniesi, ribatteva con fierezza: «Non io di loro, ma loro di me» Ai cittadini di Làmpsaco che lo compiangevano perché sarebbe morto lontano dalla patria, obiettava che «da qualsiasi parte si scende, la strada per l’Ade è sempre la stessa» Gli arconti di Làmpsaco chiesero ad Anassagora agonizzante: «Come vuoi che sia ricordata la tua morte?» egli rispose: «Fate fare un giorno di vacanza ai fanciulli, ogni anno, nel mese in cui sono morto»

     Sul processo ad Anassagora – un argomento che ha sempre destato interesse – Plutarco di Cheronea (46-120 d.C.) – uno scrittore che abbiamo incontrato molte volte nei nostri Percorsi – nella sua celebre opera intitolata Vite parallele, racconta cose significative. Leggiamo un brano tratto dalla Vita di Pericle:

LEGERE MULTUM….

Plutarco di Cheronea, Vite parallele. Pericle

 Il secondo processo ad Anassagora iniziò con la fustigazione di uno schiavo che confessò di aver udito il filosofo parlare del sole come di una pietra infuocata che ruotava libera nel cielo. Era un reato grave: alcuni anni prima un certo Diopite era riuscito a far votare una legge con la quale veniva condannato chiunque insegnasse dottrine sulle cose celesti.

Pericle difese il suo maestro e fece di tutto per salvargli la vita: lo fece trasportare davanti al Consiglio mentre era febbricitante per una malattia e, mostrando il viso stremato del vecchio sapiente, chiese ai presenti: «Ateniesi, siete convinti che io abbia agito sempre per il bene della patria? Avete voi qualcosa da rimproverarmi? Ebbene sappiate che sono stato discepolo di costui!». Anassagora fu assolto più per pietà che per l’accorata difesa di Pericle. L’orgoglioso filosofo non riuscì a sopportare una simile umiliazione e adirato anche perché Pericle, ultimamente, preso da troppi impegni, lo aveva trascurato, così, vecchio com’era, si ritirò a Làmpsaco, una città della Ionia settentrionale, e cominciò a lasciarsi morire d’inedia. Si sdraiò su un letto e si coprì il viso con un velo. Pericle, corse ad assisterlo e disse che non poteva perdere un consigliere così, ma Anassagora si lamentò di non essere stato ricompensato per i suoi insegnamenti e, togliendosi il velo dal viso, disse: «Quelli che hanno bisogno di luce, versano l’olio nelle lanterne».

     Anassagora ha scritto un trattato filosofico intitolato La natura. Naturalmente questo poema viene messo all’indice ma circola in gran segreto tra le intellettuali e gli intellettuali. Sempre Plutarco di Cheronea nella Vita di Nicia scrive: «Il poema di Anassagora veniva letto di nascosto e compreso da pochi, che a loro volta lo mostravano solo agli amici fidati». Di sicuro sappiamo che questo libro – La natura di Anassagora – ha avuto un grande successo. Come facciamo a saperlo? A questo proposito – e lo sappiamo già – abbiamo un informatore d’eccezione: Platone (che, come si può vedere, viene raffigurato da Raffaello ne La Scuola di Atene col dito in su, come Anassagora). Platone non cita Anassagora di Clazòmene – sebbene usi alcune sue argomentazioni a proposito dei "fenomeni naturali" – nel dialogo intitolato Sofista, ma lo cita nel dialogo (forse il più famoso) intitolato: Apologia di Socrate. Il fatto non meraviglia perché sappiamo che Anassagora di Clazòmene, circa trent’anni prima, ha subito la stessa sorte di Socrate: condannato a morte per empietà, viene graziato, prende la via dell’esilio ma si lascia comunque morire.

     Platone nell’Apologia di Socrate consiglia – indirettamente, perché apparentemente sembra voler sminuire quest’opera – alle lettrici e ai lettori di procurarsi il testo de La natura di Anassagora e di leggerlo. Platone scrive facendo parlare Socrate il quale afferma che il testo di Anassagora è facilmente reperibile nell’orchestra: l’orchestra è la zona dell’agorà (della piazza della polis) dove ci sono le bancarelle dei libri. Quindi dobbiamo presumere che, dopo il 399 a.C. (l’anno della morte di Socrate), La natura di Anassagora sia un libro di successo nonostante sia (o forse proprio perché è) un libro proibito, un testo empio, irriverente, profanatore, sacrilego.

     Platone cita il testo di Anassagora nell’Apologia nel momento in cui Socrate si difende dall’accusa, che gli viene rivolta da Meleto, di non credere agli dèi e di corrompere i giovani insegnandogli a non credere agli dèi. Socrate – che vuole far riflettere sul fatto che gli dèi sono solo l’immagine sbiadita di un concetto divino più profondo e più complesso – afferma che i giovani queste cose di cui viene accusato le possono imparare più facilmente dai libri di Anassagora (pubblicati cinquant’anni prima) che tutti possono comprare a buon prezzo sui banchi del mercato dell’agorà. Platone fa dire a Socrate anche quanto costa questo testo e La natura di Anassagora è il primo libro della storia dell’editoria di cui si conosca il prezzo di copertina: una dracma, un prezzo popolare. Ma Platone non è contrario alla vendita dei libri? Platone è contrario a che si speculi sulla vendita dei libri: in questo caso, senza volerlo dare ad intendere, approva che si vendano libri a prezzo popolare.

     Ma leggiamo questo frammento dall’Apologia di Socrate:

LEGERE MULTUM….

Platone, Apologia di Socrate

 «O meraviglioso Meleto, dici che io non credo che il Sole e la Luna siano dèi, come credono, invece, gli altri? E che affermo che il Sole è pietra e che la Luna è terra».

«Ritieni forse, caro Meleto, di accusare Anassagora? E hai tanto disprezzo di costoro (dei giudici), e li ritieni così privi di istruzione, da non sapere che i libri di Anassagora di Clazòmene sono pieni di tali affermazioni? E come possono i giovani apprendere proprio da me queste cose, se possono, al prezzo di una dracma a dir tanto, comprarsele talvolta dall’orchestra (sulle bancarelle dell’agorà) e ridersi di Socrate che fa credere sue siffatte dottrine, peraltro, a volte, molto stravaganti? Ma, per Zeus, hai proprio questa opinione di me? …».

     Il trattato La natura contiene il pensiero di Anassagora di Clazòmeme e di questo testo ci sono rimasti un buon numero di frammenti. Anassagora cerca di dare una risposta in chiave razionalista alle significative domande che emergono nella cultura orfica sulle origini del mondo e degli esseri umani. Anassagora si domanda quali siano gli elementi primordiali e chi o che cosa li animi. Anassagora pensa che l’arché, il principio di tutte le cose, non sia unica (la parola arché è di genere femminile) come sostiene la Scuola di Mileto, né sia composta di quattro elementi come sostiene Empedocle (che abbiamo già incontrato in questo viaggio), ma per Anassagora le sostanze prime (come lui le chiama) sono infinite, sia per numero che per qualità, e vengono chiamate omeomerìe. Questa parola greca contiene il termine hòmoios che significa "simile" e il termine méros che significa "parte", quindi la parola "omeomerìe" si può tradurre con l’espressione: "tante parti tutte simili". Le omeomerìe [homoiomerèia] sono infinite infinitesime particelle, tutte raggruppate secondo un criterio logico, stabilito dall’Intelletto.

     Leggiamo il Frammento 1 dell’opera di Anassagora:

LEGERE MULTUM….

Anassagora di Clazòmene, La natura [Fr. 1]

 Tutte le sostanze [omoiomereia-homoiomerèia] erano insieme, infinite per numero e per piccolezza: sì, anche la loro piccolezza era illimitata. Stando tutte insieme, nessuna era distinguibile dalle altre, a causa della loro piccolezza. Su tutte dominavano l’aria e l’etere, anch’essi infiniti: ma nel senso che, nella massa totale, sono grandissimi per quantità e per dimensioni

     All’inizio dei tempi – scrive Anassagora – le omeomerìe erano ammucchiate alla rinfusa, «nel gigantesco spazio dell’Universo in una situazione di calma prima della tempesta», di esse non era possibile discernere né un colore, né una qualsiasi altra caratteristica quando all’improvviso «interviene l’Intelletto come se si fosse scatenata la tempesta». Le studiose e gli studiosi, per far capire il concetto, parlano anche dell’Intelletto come di un «frullatore» che comincia a girare centrifugando quel che contiene, e così leggiamo quel che scrive Anassagora:

LEGERE MULTUM….

Anassagora di Clazòmene, La natura [Fr. 2A 1]

 il denso, l’umido, lo scuro, il freddo, insomma le cose grevi si riuniscono al centro e, una volta indurite, prendono consistenza di terra, quelle opposte invece, il caldo, il fulgido, il leggero, l’asciutto, si spingono verso la periferia dell’etere

     Mentre le omeomerìe sono pezzetti infinitesimi di materia, omogenee per qualità e invisibili, data l’esiguità della loro massa, gli oggetti che vediamo in natura, anche i più minuti, contengono nel loro interno tutte le omeomerìe possibili. Questo concetto espresso da Anassagora è fondamentale e verrà sistematicamente ripreso ed elaborato nella Storia del Pensiero Umano.

     Platone è molto interessato a questi ragionamenti di Anassagora. Il poeta-filosofo latino Tito Lucrezio Caro (98-55 a.C. circa) nel suo famoso poema De rerum natura, La natura, scrive: «In ogni cosa si nascondono tutte le sostanze e di queste appaiono solo quelle più numerose o quelle più in vista perché piazzate in prima fila». E allora un tavolo di legno ha al suo interno un po’ di tutto, anche il fuoco, il fumo, la cenere e così via; se a noi esso appare fatto soltanto di legno, è perché le omeomerìe del legno si trovano in maggior abbondanza. Per dimostrare queste asserzioni, Anassagora scrive che il cibo mangiato dagli animali si trasforma in carne, ossa, capelli, vene, nervi, unghie, ali e perfino corna, e, «dal momento che un capello non può nascere da un non-capello, è necessario che nel cibo ci siano già le omeomerìe dei capelli». Quindi il pensiero di Anassagora di Clazòmene si riassume nell’affermazione: «Tutto in Tutto [ Pan tòs Pani.

     Il ragionamento del «Tutto in Tutto», porta Anassagora ad affermare che ogni cosa possiede, non solo le sue caratteristiche principali, ma anche quelle contrarie: il latte, ad esempio, ci appare bianco ma al suo interno deve essere anche un po’ nero. Si legge in un frammento molto ridotto « Leukòs gala … kai mélas, Il latte bianco e nero».

     Sui contrari Anassagora ribalta le teorie di Empedocle: il simile non è alla ricerca del simile, bensì del contrario. Gli opposti devono la loro esistenza al «nemico» e, scrive Anassagora, «ognuno di noi avverte il freddo per quanto più caldo è il suo corpo». Un rumore può essere giudicato tenue «se udito nel frastuono dell’agorà (della piazza)», ma può diventare insopportabile «se udito nel cuore della notte», quando regna il silenzio.

     Per capire il pensiero di Anassagora, è necessario rendersi conto di che cosa lui intenda per Intelletto [Noùs]. È necessario comprendere che il Noùs non ha niente a che vedere con il concetto della divinità: ed ecco i continui attacchi e le periodiche accuse di empietà che vengono rivolte ad Anassagora. Sono attacchi strumentali perché bisogna riflettere sul fatto che Anassagora non è "religioso" e rifiuta i recinti sacrali dei culti superstiziosi, ma è un mistico, è un contemplativo: non guarda al tempio con tutti i suoi apparati dogmatici ma guarda al Cielo dove la ragione può misurarsi con i suoi limiti e quindi imbastire anche una riflessione sulla fede. Anassagora – e con lui tutti i filosofi fisici – sono dei mistici, dei contemplativi, sono persone di fede consci dei limiti della ragione, proprio perché sono laici, proprio perché non sono religiosi. Oggi questo discorso – senza distinguere la religione dalla fede – può sembrare paradossale ma i Padri della Chiesa (lo ristudieremo a suo tempo) cominciano il loro itinerario intellettuale dal deserto dove c’è solo il Cielo con cui confrontarsi, quindi procedono sulla scia della cultura orfica.

     Per capire il pensiero di Anassagora, è necessario rendersi conto di che cosa lui intenda per Intelletto [Noùs]. L’Intelletto [Noùs] è presente solo nelle cose animate e ad esso va attribuito l’ordinamento dell’Universo, così come ci appare, ma non è l’artefice della creazione delle sostanze primordiali. Si chiama «Intelletto» perché, a differenza del «Caso», sa quello che fa. L’Intelletto [Noùs] non è, per Anassagora, un Ente Creatore ma solo una «sostanza materiale», anche se con caratteristiche particolarmente raffinate, quali la purezza, la rarefazione e via dicendo: ma leggiamo questo frammento:

LEGERE MULTUM….

Anassagora di Clazòmene, La natura [Fr. 12]

 Tutte le altre cose partecipano di tutto: l’Intelletto [Noùs] invece è infinito e autonomo, e non si mescola a nulla, ma è solo e chiuso in se stesso È la più sottile e la più pura delle cose: ha perfetta conoscenza di tutto e il supremo dominio su tutto, e per quante cose abbiano esistenza, grandi o piccole che siano, su tutte ha potere l’Intelletto. Tale e tanto è questo potere che fu l’Intelletto ad avviare il processo iniziale: ha fatto cominciare il rivolgimento più piccolo, poi la rivoluzione è diventata più grande e diventerà sempre più grande. Tutte le cose che si mescolano, si separano e si dividono, la Mente le ha conosciute; e qualunque cosa doveva essere o è stata in passato e ora non è più, e ciò che ora esiste e qualsiasi cosa esisterà un giorno, tutto l’Intelletto ha ordinato

     Anassagora considera l’Intelletto, il Noùs, come un principio vitale interno al cosmo fisico, separato dalle cose e insieme presente in ciascuna di esse così come l’anima in un corpo. E così c’è chi ha definito l’Intelletto, il Noùs anassagoreo, come un grande "purificatore" della materia.

     E ci siamo domandati più volte: come purificarsi oggi in una società contaminata in molti dei suoi aspetti? Sembra (a detta di molti) che non ci sia nulla di più decontaminante – ce lo suggerisce la Storia del Pensiero Umano – che lo studio [studium] inteso come cura dell’anima. Naturalmente lo studio [studium et cura sono sinonimi] non può esplicitarsi senza l’Intelletto, senza il Noùs, e quindi, di conseguenza, ecco che possiamo definire l’Intelletto come un "purificatore" e lo studio [studium et cura] come strumento di purificazione.

     Il concetto della "purificazione" lo troviamo espresso in moltissime opere (pensate alla Commedia di Dante Alighieri, per esempio).

     E, a proposito di "purificazione", come già abbiamo fatto la scorsa settimana, adesso, per concludere, leggiamo un frammento tratto da un romanzo – che incontreremo ancora strada facendo – di una scrittrice che ha ricevuto nel 1926 il premio Nobel per la Letteratura. Questa sera abbiamo evocato la morte di Anassagora e quella di Socrate, e quindi non possiamo non evocare anche la morte, altrettanto ricca di pathos, di Efix che è il grande protagonista di questo romanzo.

LEGERE MULTUM….

Grazia Deledda, Canne al vento (1913)

 Efix ricominciò a provare fastidio: aprì un momento gli occhi, li richiuse, gravi già del sonno della morte. E le parole di Giacinto si confondevano, di là del muricciuolo col fruscìo delle canne, col ronzìo del vento che passa.

Eppure a un tratto parve sollevarsi e rivivere. Aveva veduto don Predu guardare Noemi con un gesto di contrarietà. Perché le nozze erano fissate per l’indomani, e s’egli moriva portava il malaugurio agli sposi o li costringeva a rimandare a un altro giorno la cerimonia nuziale. Allora in fondo alle tenebre che già lo avvolgevano brillò come una lampada lontana: la volontà di combattere la morte. Si scoprì il viso e parlò.

"Donna Ester, sto meglio. Mi dia da bere."

Accorsero tutt’e due le padrone e Noemi stessa gli sollevò la testa e gli diede da bere.

"Bravo, Efix! Così va bene. Sai cosa succede, oggi?"

Egli accennò di sì, bevendo.

"Sei contento, vero, Efix? Quanto ci hai pensato, a questo giorno? Ti parrà un sogno."

Egli accennava di sì, di sì: tutto era stato, tutto era un sogno.

Poi lo lasciarono solo, perché Noemi doveva vestirsi; ed egli sollevò la testa e si guardò attorno ma come di nascosto, continuando a far cenni di approvazione. Tutto andava bene; la festa nuziale si svolgeva in casa dello sposo, e qui nulla turbava l’antica pace. Per un’attenzione di Noemi verso il malato neppure la cucina era stata ripulita, come si usa per le nozze; la casa e il cortile erano silenziosi, il gatto stava immobile sulla panca, nero con gli occhi verdi come l’idolo della solitudine; nel silenzio si udiva il legno corroso del balcone scricchiolare e sollevando un poco di più la testa Efix rivide un’ultima volta il muro rovinato e l’erba e i fiori d’ossa dell’antico cimitero.

Ma d’improvviso una figura apparve sulla porta; alta, sottile, vestita d’uno stretto abito granato a fiori neri, aveva una ghirlanda di rose sul capo, e qua e là sul viso, sulla persona, sui piedi, qualche cosa che scintillava: gli occhi, i gioielli, le scarpette

Egli spalancò gli occhi e riconobbe Noemi; ma dietro di lei, accomodandole le rose del cappello e le pieghe del vestito, donna Ester con le ali nere dello scialle rigettate sugli omeri gli parve l’ombra della sposa.

"Sto bene, vero?", domandò Noemi ritta davanti a lui, accomodandosi i risvolti delle maniche. "Non ti pare stretto, questo vestito? Si usa così. E guarda com’è bello, questo: è il regalo di Predu."

Si chinò nonostante il vestito stretto e gli fece vedere il rosario di madreperla con una grande croce d’oro. … "Vedi che regalo, Efix!". Ed era pallida, nel suo vestito granato, con gli occhi cattivi pieni di lagrime. Ma Efix non ne provò dolore.

"Siamo nati per soffrire come Lui; bisogna piangere e tacere …", disse con un soffio.

E questo fu il suo augurio.

Da quel momento non parlò più. Gli pareva di tenersi aggrappato all’orlo del panno per non cadere di là; e di vedere dall’alto del muricciuolo lo spettacolo del mondo.

Ed ecco don Predu e i parenti arrivano per portar via la sposa: entrano, si dispongono intorno nella cucina come le figure di un sogno, confusamente, ma con rilievi strani di particolari.

E tutti sono seri come venuti a prendere lui, morto, non la padrona sposa, e camminano piano per non dargli noia.

Donna Ester, con lo scialle sciolto un po’ svolazzante sulle spalle, dispone il corteo: prima i bambini coi ceri alti in mano; poi la sposa con la parente; poi lo sposo coi parenti; in coda i pochi invitati; il Milese in ultimo pareva ridersi di tutti silenziosamente.

"Adesso mi lasciano solo", pensa Efix con un poco di amarezza. "Solo. E son io che ho fatto tutto!"

Sulla porta Noemi si volse a fargli un cenno di addio con la croce d’oro. Addio. Ed egli, come già per Giacinto, ebbe l’impressione che fosse lei a morire.

Uscivano tutti, se ne andavano: donna Ester si curvò su lui, parve coprirlo con le sue ali nere.

"Torno presto, io, appena li avrò accompagnati: bisogna che vada; sta’ quieto, fermo fermo". Sì, egli stava fermo al suo posto; fermo e solo. S’udiva la fisarmonica che Zuannantoni suonava in onore degli sposi, ed egli ricominciò a ricordare tante cose: il rumore del Molino, su a Nuoro, le nuvole sopra Monte Gonare, il fruscìo delle canne sul ciglione … "Efix, rammenti? Efix, rammenti?"

Com’era diventata grande la cucina! Scura e tiepida, coi muri lontani, con sfondi misteriosi come una tanca di notte. L’usignuolo cantava, il cieco raccontava la storia del palazzo d’oro del Re Salomone.

" …Tutto era d’oro, come nel mondo della verità; tutto era puro, lucente. Melagrane d’oro, vasi d’oro, stuoie d’oro …" Ed egli vedeva la casa di don Predu, coi melagrani carichi di frutta, i palmizi, le stuoie coperte di grappoli d’uva e di zucche d’oro.

"Noemi starà bene mangerà bene, ingrasserà, darà i denari a donna Ester per accomodare qui il balcone. Starà bene Sarà come la Regina Saba. Ma anche lei, la Regina Saba non era contenta Anche Noemi si stancherà della sua croce d’oro e vorrà andare lontano, come Lia, come la Regina Saba, come tutti …"

Ma questo non gli destava più meraviglia; andare lontano, bisognava andare lontano, nelle altre terre, dove ci sono cose più grandi delle nostre. Ed egli andava.

Gli parve di addormentarsi. Ma d’improvviso sussultò, ebbe come l’impressione di precipitare dal muricciuolo. Era caduto di là, nella valle della morte.

Donna Ester lo trovò così, quieto, immobile sotto il panno: fermo fermo.

Lo scosse, lo chiamò, e accorgendosi ch’era morto e che lo avevano lasciato morire solo, si mise a piangere forte, con un gemito rauco che la spaventò.

In attesa che le ore passassero rimosse il cadavere, secco e leggero come quello d’un bambino, lo lavò, lo rivestì, parlandogli sottovoce, fra una preghiera e l’altra per raccontargli come s’era svolta la cerimonia nuziale, come Noemi piangeva entrando nella sua ricca nuova dimora - piangeva tanto era felice, s’intende - come la casa era piena di regali, come la gente buttava grano e fiori fin dentro il cortile degli sposi, per augurar loro buona fortuna, come tutti insomma erano contenti.

"E tu hai fatto questo di andartene così, di nascosto senza dir nulla come l’altra volta Ah, Efix, questo non lo dovevi fare oggi, proprio oggi! …"

Egli pareva ascoltasse, con gli occhi vitrei socchiusi, tranquillo ma deciso a non rispondere da buon servo rispettoso.

Donna Ester, ricordandosi che gli piacevano i fiori, spiccò un geranio dal pozzo e glielo mise fra le dita sul crocefisso: in ultimo ricoprì il cadavere con un tappeto di seta verde che avevano tirato fuori per le nozze. Ma il tappeto era corto, e i piedi rimasero scoperti, rivolti come d’uso alla porta; e pareva che il servo dormisse un’ultima volta nella nobile casa riposandosi prima d’intraprendere il viaggio verso l’eternità.

     Canne al vento: quante persone lo hanno letto, in Italia, questo romanzo conosciuto nel mondo? Eppure ci sarebbe bisogno di una "purificazione generale" che qui passa attraverso la figura di Efix, che è il grande protagonista di questo libro di cui parleremo ancora.

     E mentre Efix – in una narrazione ricca di pathos – sta per intraprendere un viaggio verso l’eternità noi, molto più modestamente, nello spazio dell’affresco de La Scuola di Atene, dobbiamo trasferirci dal quadro che raffigura il gruppo dei Sofisti a quello in cui dobbiamo incontrare la figura di Socrate.

     Il nostro viaggio verso la sapienza di Socrate, Platone e Aristotele continua in modo che tutte le cittadine e i cittadini – mediante un Percorso di studio – possano coltivare ciò che hanno di più prezioso: «il ben dello Intelletto».

     La Scuola è qui per favorire – come auspica Anassagora di Clazòmene – questa "coltura"

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 20, 2009