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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE CI SONO LE QUATTRO RADICI DI EMPEDOCLE, SOGGETTE ALL’ODIO E ALL’AMORE ...

Lezione N.: 
14

Prof. Giuseppe Nibbi     Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele    21-22-23 gennaio 2009

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE CI SONO

LE QUATTRO RADICI DI EMPEDOCLE, SOGGETTE ALL’ODIO E ALL’AMORE ...

     Dall’antica "via del rispetto della legge" che parte dall’Areopago di Atene abbiamo iniziato, nell’ottobre dello scorso anno, un viaggio di studio che ha come obiettivo principale quello di conoscere e di capire le parole-chiave e le idee-cardine che caratterizzano la sapienza di Socrate (che è vissuto fino al 399 a.C.), di Platone (che è vissuto fino al 347 a.C.) e di Aristotele (che è vissuto fino al 322 a.C.). Ci stiamo, gradatamente, avvicinando ai paesaggi intellettuali che contengono questi tre significativi modelli culturali che – come abbiamo imparato – caratterizzano la Storia del Pensiero Umano dell’età moderna, del XVI secolo, del 1500, e che, quindi, si trovano ad essere protagonisti dell’apparato intellettuale della cristianità – vale a dire che l’eredità intellettuale di Socrate, di Platone e di Aristotele fa parte dell’identità culturale che ci è più prossima) e la centralità di queste figure la si può osservare soprattutto nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene e che Raffaello – su mandato di papa Giulio II e con la collaborazione di Fedra Inghirami e di Bramante – ha cominciato a dipingere esattamente cinquecento anni fa, dal 1508. Per questo motivo – come ormai ben sappiamo – il nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, avanza su due corsie: la corsia moderna che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco (e che rappresenta soprattutto l’elemento formale) e la corsia antica che attraversa il territorio orfico dell’Ellade (che fornisce soprattutto il contenuto).

     Nello spazio rinascimentale dell’affresco che raffigura La Scuola di Atene abbiamo studiato, per ora, il primo quadro che raffigura il gruppo dei personaggi orfico-dionisiaci attorno al Libro delle parole degli albori, poi abbiamo studiato il secondo quadro raffigurante il gruppo dei personaggi orfico-pitagorici che stanno intorno al Libro su cui Pitagora scrive il suo Pensiero. Abbiamo poi studiato la figura del giovane vestito di bianco, la quale riunisce in sé il simbolo ideale dello spirito greco che si traduce nell’espressione: " kallòs ka agathòs", "bellezza e bontà". Questa espressione – "kallòs ka agathòs" (che richiama la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele) – insegna che la bellezza e la bontà si coniugano tra loro perché la Bontà contiene in se stessa sempre l’idea della Bellezza.

     Poi abbiamo osservato la figura che è stata dipinta da Raffaello accanto al giovane vestito di bianco: anche questa figura statuaria tiene in mano un Libro e questo libro rappresenta il terzo vertice di un triangolo ideale formato da libri. Questa porzione dell’affresco – che è quella da cui comincia il Percorso per capirne il significato – è quindi una zona che celebra l’apologia del Libro.

     Il terzo Libro è in mano ad un personaggio "maestoso e statuario", vestito con abiti dai colori giallo, rosso e blu – colori che contrastano con la veste bianca del giovane che ha accanto –, e questo gioco di colori contribuisce a farlo apparire come una figura monumentale. Questo personaggio tiene aperto il Libro appoggiato sulla coscia sinistra e ha un piede che si appoggia su un cubo di marmo che è la parte di un capitello ionico. Un elemento molto importante è lo sguardo di questo personaggio: ha uno sguardo attento e rivolto a leggere che cosa sta scrivendo Pitagora sul suo librone. Chi è questo personaggio rappresentato da Raffaello con un’immagine di grande forza sia nella forma, sia nel colore, sia nell’atteggiamento e anche nella collocazione in primo piano? O meglio, che cosa rappresenta questo personaggio?

     Sappiamo già che nel dare una definizione di questo personaggio (nella storia delle interpretazioni) ci sono, in contrasto tra loro, due Scuole di pensiero e noi, due settimane fa, abbiamo preso in considerazione la prima definizione anche se, oggi, è la meno accreditata.

     Questa Scuola di pensiero – come sappiamo – sostiene che questo personaggio potrebbe rappresentare Parmenide di Elea che è uno dei pilastri, una delle colonne della Storia del Pensiero Umano, del quale abbiamo studiato gli elementi fondamentali della sua opera, del suo celebre poema intitolato Peri physeos, Sulla natura. Parmenide ha saputo mettere in evidenza un concetto fondamentale: l’Essere è l’essenza delle cose stesse, ovvero è l’essenziale (è il principio, è il fondamento, è la sostanza) che si trova «sotto» la mutabilità delle apparenze, delle forme con cui si manifesta la Verità.

     Per aver elaborato questo concetto il personaggio di Parmenide dovrebbe comunque avere un posto ne La Scuola di Atene: questa figura statuaria dipinta da Raffaello, almeno in parte, richiama la figura di Parmenide anche se, oggi, tutte le studiose e gli studiosi vedono in questa immagine un altro personaggio. Perché allora – se Parmenide viene escluso – ci siamo soffermati così a lungo sulla sua opera? Noi dimentichiamo qual è la direzione del nostro Percorso: il percorso del nostro viaggio è soprattutto indirizzato verso l’incontro con la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele e gli aspetti salienti del pensiero di Parmenide sono propedeutici in funzione di questo incontro. Abbiamo già detto che Platone e Aristotele demoliscono la struttura del pensiero di Elea ma utilizzano (zitti, zitti) molti materiali di questa costruzione che hanno (con grande clamore) demolito. I concetti contenuti nel poema Sulla natura di Parmenide portano direttamente al Mondo platonico delle Idee, al concetto aristotelico della sostanza e anche oltre, fino al complesso territorio del Neoplatonismo e del Neoaristotelismo.

     Noi sappiamo però che oggi tutte le studiose e gli studiosi pensano che il personaggio dipinto da Raffaello accanto al giovane vestito di bianco, e che potrebbe far pensare anche a Parmenide, in realtà sia Empedocle di Agrigento. Questo personaggio che abbiamo incontrato la scorsa settimana ha fama di essere considerato per metà scienziato e per metà negromante. Chi è veramente Empedocle di Agrigento?

     C’è chi afferma che Empedocle è un filosofo, è un medico, è un fisico, è un democratico e soprattutto è un poeta orfico. E c’è invece chi nega energicamente questa tesi sostenendo che Empedocle è uno stregone, è un negromante, è un ciarlatano, è un guru, è uno che dice di essere un Dio e che prende in giro con superiorità tutti quelli che incontra.

     Certo che, con queste prerogative, noi ci siamo domandati come possa essere considerato più accreditato di Parmenide di Elea sul palcoscenico de La Scuola di Atene.

     Empedocle di Agrigento – abbiamo detto – ha scritto due opere (due poemi in esametri) intitolate Sulla natura o Le origini e Purificazioni, Katharmoi. Quali sono le caratteristiche del pensiero di Empedocle che emergono dalle sue opere? Empedocle di Agrigento – come abbiamo già detto la scorsa settimana – tesse la trama della sua riflessione per definire come è fatto l’Universo (si occupa di cosmologia) e da dove e come nascono tutte le cose, tutti gli esseri (studia l’ontologia), utilizzando tre fili.

     Il primo filo (giallo) è caratterizzato dal naturalismo della Scuola di Mileto.

     Il secondo filo (rosso) è caratterizzato dal misticismo di carattere scientifico della Scuola pitagorica.

     E il terzo filo (blu) è caratterizzato dal razionalismo ed è un intreccio tra l’idea dell’Essere della Scuola di Parmenide di Elea e l’idea del divenire della Scuola di Eraclito di Efeso (un personaggio che incontreremo a breve).

     Empedocle tesse il suo pensiero con il filo giallo (il naturalismo), il filo rosso (il misticismo) e il filo blu (il razionalismo): e questi – abbiamo notato già la scorsa settimana – sono i colori che utilizza Raffaello per dipingere le vesti del personaggio statuario che, ne La Scuola di Atene, dovrebbe rappresentare Empedocle! Questa situazione ha il suo fascino dal punto di vista dell’affabulazione didattica.

     Ma come procede la tessitura del pensiero di Empedocle e perché proprio Empedocle dovrebbe essere rappresentato ne l’affresco del La Scuola di Atene piuttosto che Parmenide?

     Il primo importante merito che ha Empedocle di Agrigento è quello di aver compiuto una sintesi dei pensieri e delle linee speculative precedenti. Empedocle studia (utilizzando il filo giallo) il problema dell’arché e voi sapete che, in greco, la parola arché significa "principio": quindi studia il tema del principio di tutte le cose, guardando alla Scuola di Mileto (che, l’ultima volta, abbiamo frequentato in compagnia di Erodoto due Percorsi fa). A Mileto gli esponenti del naturalismo ionico, Talete, Anassimandro, Anassimene, (li abbiamo incontrati a suo tempo) mettono al centro dell’attenzione una componente che, secondo loro, costituisce l’elemento iniziale, il principio di tutte le cose: per Talete questo elemento è l’umido (l’acqua), per Anassimandro è un fattore non ben determinato (in greco: àpeiron), per Anassimene questo primo elemento è l’aria. Empedocle ad un unico elemento, concepito dai pensatori di Mileto come principio di tutte le cose (l’arché), contrappone una pluralità di elementi in origine. Empedocle non usa il termine "elemento", in greco " stoicheia" (questa parola viene adoperata poi da Platone il quale vuole distinguersi da Empedocle mentre lo utilizza), il termine "elemento", tipico della Scuola di Mileto, risulta per Empedocle un termine di natura troppo empirica, troppo materiale, troppo riduttiva.

     Empedocle fa entrare in gioco una parola che deriva dal vocabolario (ed ecco che comincia ad utilizzare il filo rosso) della Scuola pitagorica: la parola "radice" che, in greco, corrisponde al termine "rhixoma". La parola "radice", "rhixoma", ha – secondo la Scuola pitagorica – una valenza "scientifica" rispetto alla parola "elemento" che ha una valenza "empirica". Che cosa significa? Questi concetti non sono semplicissimi da capire: bisogna provare a decodificarli.

     Secondo Empedocle, il ragionamento empirico (quello della Scuola di Mileto) è "sperimentale", mentre il ragionamento scientifico (quello della Scuola di Pitagora) è "sperimentato". Cerchiamo di fare un esempio concreto su come la pensa Empedocle: se prediamo un ramoscello e lo mettiamo nell’acqua perché faccia le radici, compiamo un gesto empirico di natura "sperimentale", infatti non sappiamo se spunteranno le radici. Quando prendiamo il ramoscello, se ha fatto le radici, e lo piantiamo in terra perché diventi un albero compiamo un gesto "scientifico" perché c’è già qualcosa di sperimentato: quindi, il ramoscello è l’elemento, ma le radici, rixώmata-rhixomata, sono l’origine dell’elemento stesso. E allora in origine – afferma Empedocle –, prima dell’elemento, ci sono le "radici".

1. REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

 Hai mai messo a radicare un ramoscello? Hai mai messo a dimora una pianta?…

 Scrivi quattro righe in proposito… 

     Empedocle, intessendo il filo giallo di natura sperimentale della Scuola di Mileto con il filo rosso di natura mistico-scientifica della Scuola pitagorica, costruisce il primo quadro del suo pensiero: in principio ci sono quattro radici, rixώmata.

     Questo concetto Empedocle lo esprime con dei bellissimi versi, quelli del Fr.6 dell’opera Sulla natura o Le origini, leggiamoli:

LEGERE MULTUM….

Empedocle di Agrigento, Sulla natura o Le origini [Fr. 6]

Ascolta: quattro son le radici di tutte le cose [rhixomata ton panton].

Era avvivatrice, Zeus [Eros] splendente.

Aidoneo [Ades], e Nesti che di lacrime

distilla l’immortale [la mortale] sorgente

     Che significato hanno questi versi? Questi versi proclamano che quattro sono le radici primordiali della natura [rhixomata ton panton] e precisamente: l’aria [Era avvivatrice], il fuoco [Zeus – secondo Platone è Eros – splendente], la terra [Aidoneo o Ades] e l’acqua [Nesti]. Il concetto delle "radici, rhixomata, permette ad Empedocle di tessere l’idea dell’essenza e dell’esistenza della realtà anche con il doppio filo (quello blu) della Scuola di Parmenide di Elea e di Eraclito di Efeso.

     Che cosa significa questo? Significa che, secondo Empedocle, le radici, rhixomata, che danno origine all’Universo – ogni singola radice: l’aria [l’etere], il fuoco, la terra, l’acqua – possiedono le caratteristiche dell’Essere di Parmenide e noi le conosciamo perché le abbiamo ripassate due itinerari fa. Le radici, rhixomata, sono «eterne» [Fr. 11-14], si trovano «ovunque», e permangono «identiche a se stesse» [Fr. 17].

     Non è casuale il fatto che le radici, rixώmata, siano «quattro»: è evidente – ancora una volta – l’influsso (il filo rosso) della Scuola pitagorica per cui l’uno, il due, il tre e il quattro sono i numeri più illustri dalla cui somma scaturisce il numero dieci, la divina tetractys.

     Questa (con lo sguardo rivolto ad Elea) è l’essenza delle radici ma contemporaneamente le radici conservano tutta la dinamica della loro esistenza: una dinamica "simile" al concetto del "divenire" della Scuola di Eraclito, e diciamo "simile" perché Empedocle sostiene che la dinamica delle radici non corrisponde propriamente al "divenire" degli elementi di Eraclito; questo concetto lo studieremo, lo ripasseremo molto presto: infatti Eraclito sta sulla nostra strada, ci aspetta al varco perché, sul palcoscenico de La Scuola di Atene, è seduto ad un passo da dove siamo noi ora e sulla sua figura non ci sono dubbi.

     Le radici di Empedocle possiedono gli attributi dell’Essere di Parmenide ma conservano la loro «tangibile realtà fenomenica (continuano a svolgere il loro ruolo di elementi)», sono infatti «corpi estesi» ciascuno dotato di una «qualità propria» tuttavia – sostiene Empedocle – le radici non possano essere «né di più, né di meno, ingenerate e incorruttibili», quindi "sono intellettualmente dinamiche (è come se pensassero a quello che devono fare ma continuando a rimanere uguali a se stesse)" cioè non sono "in reale divenire". Scrive Empedocle [Fr. 17] : «Le radici di tutte le cose sono eguali e coeterne, ma ciascuna ha il suo diverso pregio e carattere che a vicenda predomina nel volgere del tempo». Continua Empedocle [Fr. 21] : «Le radici rappresentano il germe da cui deriva tutto quel che fu, che è e che sarà, non soltanto le cose mortali, ma anche gli dèi dalla lunga vita che godono gli onori supremi».

     Empedocle vuole salvare l’esperienza sensibile, l’esistenza dei fenomeni, mantenendo – anzi considerando irrinunciabili – le qualità "essenziali" delle cose. Difatti le radici essendo eterne, ingenerate, incorruttibili, non generano le cose, tutto si crea dal mescolarsi delle radici stesse. Empedocle nega il concetto della "generazione", nega il "divenire" della generazione, e scrive [Fr. 8] : «C’è solo il mescersi, il mescolarsi e il mutarsi di cose commiste; la nascita non è che un nome, avente corso tra gli esseri umani». Il cambiamento – secondo Empedocle – è perciò un processo meccanico, un variare delle mescolanze tra le radici determinato dal fatto, si legge nel Fr. 21, che: «Le radici, qualitativamente immutabili, scorrono le une attraverso le altre, e assumono aspetti diversi».

     Empedocle fa – in generale, nei suoi versi – un impiego assai largo delle analogie e per chiarire "la dinamica della mescolanza delle radici" utilizza l’esempio delle pittrici e dei pittori. Le pittrici e i pittori – scrive Empedocle – dopo aver preso delle sostanze naturali, ciascuna delle quali dotata di un proprio colore, e dopo averle mescolate in differenti proporzioni, creano con tali impasti [scrive nel Fr. 23] «figure somiglianti alle infinite cose esistenti, alberi e persone, fiere e uccelli e pesci che nutre l’onda degli dèi». Ma questa metafora risulta contraddittoria ed Empedocle se n’è accorto perché le pittrici e i pittori, nel loro agire, producono comunque un "divenire reale" ancorato all’esistenza, e allora Empedocle per salvare il concetto del "divenire apparente" –perché le radici hanno i caratteri dell’Essere e sono "immutabili" – introduce due principi fondamentali.

     Empedocle sostiene che a mescolare tra loro le radici intervengono due principi attivi fondamentali che lui chiama: Odio o Discordia [neikos] e Amore o Amicizia [philotes]. L’Odio o Discordia [neikos] è – secondo Empedocle – esterno alle radici e tale da «pesare, in tutte le direzioni, egualmente su di esse» [Fr. 17]. L’Amore o Amicizia [philotes] è invece – secondo Empedocle – interno alle radici ed «eguale ad esse in lunghezza e larghezza» [Fr. 17]. Pur essendo realtà materiali – sostiene Empedocle – Odio e Amore possono essere colti solo dall’intelletto così si giustifica la distinzione tra il (duplice) principio vitale e la materia. Poi Empedocle spiega che «per effetto dell’Amore il molteplice tende a costituirsi in Unità, mentre sotto l’azione dell’Odio l’Unità si scinde e genera la molteplicità» [Fr. 17]. I due principi – Amore e Odio – sono in perenne conflitto: di volta in volta l’uno oppure l’altro acquisisce il predominio, ma senza mai annientare l’avversario.

3. REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Litigare e riappacificarsi con le amiche e con gli amici: a chi non è capitato?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Empedocle è, per le sue intuizioni, una figura imbarazzante: e le intuizioni non hanno tempo né età. Abbiamo già citato Darwin, che ha studiato Empedocle con interesse sulla scia del concetto di evoluzione, e ora dobbiamo citare Freud che non ha potuto evitare di fare un salto di stupore quando ha pensato che Empedocle avesse intuito quella che lui chiama "la legge dell’ambivalenza e della conflittualità perenne di odio e amore". Siccome Empedocle – dicono le cronache – è anche uno sciamano (un po’ negromante, un po’ mago, un po’ stregone, un po’ taumaturgo) ci fa sorridere l’idea che la psicanalisi abbia cominciato a muoversi da Agrigento prima di arrivare a Vienna (qualche annetto dopo).

     Empedocle sostiene che, probabilmente, in origine, in principio, l’unico a regnare fosse l’Amore, per cui le particelle elementari delle quattro radici (l’aria, il fuoco, la terra, l’acqua) erano «più adatte a mescolarsi, e si desideravano l’un l’altra» [Fr. 22]. Il mondo, in questa prima fase, viene definito da Empedocle con un termine che, ancora una volta, proviene dalla Scuola di Elea: «lo Sfero». Sappiamo che: «sferico» è il dio [l’Uno] di Senofane e «rotondo nella sua unicità» è l’Essere di Parmenide.

     Ma leggiamo ciò che scrive Empedocle nel suo poema Sulla natura o Le origini:

LEGERE MULTUM….

Empedocle di Agrigento, Sulla natura o Le origini [Fr. 27]

Lì non si distinguono le agili membra del sole, né la stirpe della terra coperta di selve, né mare. Così, negli spazi profondi dell’armonia, saldamente è infisso lo Sfero-Sfairoς, raggiante nella sua rotonda unicità.

     All’interno dello Sfero – secondo Empedocle – non c’è solo serenità e felicità, sennonché l’Odio [la Discordia], pian piano, riesce a intrufolarsi in tutta questa perfezione e dà inizio a una successiva fase di elevata conflittualità. La Discordia dovrebbe prendere il sopravvento ma allora sarà l’Amore a intrufolarsi pian piano per tornare, in seguito a governare.

     Empedocle scrive – lo abbiamo letto un momento fa – che le quattro radici (l’aria, il fuoco, la terra, l’acqua) sono formate da particelle elementari. Il concetto della frantumazione delle quattro radici in minuscole particelle che si mescolano fra loro, introduce le teorie atomistiche di Leucippo e di Democrito che probabilmente incontreremo strada facendo. Però a differenza di costoro (ma torneremo su questo argomento a tempo debito) Empedocle non ammette l’esistenza del vuoto e per dimostrarlo dice che «da ciò che non è, non è possibile che nasca qualcosa che è» [Fr.12]. Questa frase, che è stata pronunciata da tutti i personaggi che abbiamo incontrato, rappresenta il fondamento dell’ateismo greco: essere convinti che nulla possa nascere dal nulla, significa negare l’idea della creazione e concepire il mondo o come un’Entità eterna e immutabile e questo è il pensiero della Scuola di Elea, di Parmenide (che abbiamo incontrato), o come un Universo in continua trasformazione e questo è il pensiero di Eraclito (che incontreremo a breve), o come un insieme delle due teorie e questo è il pensiero di Empedocle. In nessuno dei tre casi, però, è previsto l’intervento di un Ente Superiore che accenda la scintilla divina che segna l’inizio dei tempi.

     Per la cultura orfico-dionisiaca – di cui Eraclito, Pitagora, Parmenide, Empedocle, fanno parte a pieno titolo – sopra tutto c’è il Destino. Il concetto del Destino lo troviamo esposto nel testo dell’Epopea di Gilgamesh e poi lo abbiamo studiato ne Le Storie di Erodoto: il Destino non è una divinità, ma è una situazione, una condizione, uno stato determinato o dal Caso o dalla Necessità ed è qui che s’innesta la riflessione teologica. Anche gli dèi greci – la cui funzione è soprattutto quella di essere metafore del linguaggio poetico orfico – sono soggetti ai voleri, casuali o necessari, del Destino.

     Naturalmente la critica pungente e sarcastica di Aristotele ha colpito anche l’opera di Empedocle. È evidente che nell’opera Sulla natura o Le origini di Empedocle ci sono molte contraddizioni. Empedocle – dicono i critici – mescola elementi psicologici con elementi naturali, pensa che elementi sentimentali, come l’Amore e l’Odio, s’insinuino nell’evoluzione dei fenomeni fisici: nella Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura s’incontrano molte autrici e molti autori che ripensano le intuizioni di Empedocle in senso moderno. In molti punti della sua opera Empedocle afferma che l’Amore unisce e che la Discordia divide, altre volte invece sostiene che l’Amore tende a riunire il simile al simile e che, quanto più c’è affinità tra due particelle di materia, tanto più grande sarà il loro amore reciproco. Se prendiamo, dice Empedocle, una pietra, un secchio d’acqua e un po’ di fumo, e li lasciamo liberi di andare dove vogliono, ci accorgiamo che la pietra viene attratta dalla terra, che l’acqua cerca di raggiungere il mare e che il fumo punta diritto verso il cielo. Aristotele, nella Metafisica, non perde l’occasione (più di cento anni dopo) di ironizzare sulla confusione che fa Empedocle tra sfera sentimentale e sfera naturale.

     Leggiamo questo frammento:

LEGERE MULTUM….

Aristotele, Metafisica

Se uno segue la ragione, si rende conto che l’Amicizia è causa di bene, e che la Contesa è causa di male, se invece segue il balbettio di Empedocle, secondo il quale ogni cosa tenderebbe a raggiungere il proprio simile, sprofonderà in breve tempo in un mondo inabitabile dove ciascuno dei quattro elementi giace inerte e separato.

     Per Aristotele l’Amore è un sentimento positivo, una forza psicologica, alla quale non si può in nessun caso imputare un cataclisma così negativo come la separazione degli elementi primordiali: ma Aristotele sta elaborando il suo sistema anche con il contributo di Empedocle e lo studieremo a suo tempo. Aristotele brontola ma siccome ha letto Empedocle con attenzione sa benissimo che per lui il mondo non subisce soltanto questa condizione meccanica ma è un insieme di forze che possono essere utilizzate dall’Umanità. Aristotele bofonchia (si capisce però che, quando bofonchia, sta imparando qualcosa) e tende a considerare Empedocle più uno sciamano che uno scienziato, ma sa benissimo che Empedocle, più che mago, va considerato come un iniziatore di tecniche volte a dominare i venti, il mare, le siccità, le malattie e la stessa morte. Aristotele ci fa capire che Empedocle è Dioniso che si è definitivamente trasformato in Prometeo, e a noi ricorda le figure di Leonardo da Vinci o del Dottor Faust.

     Aristotele sa benissimo che, come Pitagora, anche Empedocle trova nella "ragione" il fulcro su cui poggiano e si unificano il sentimento (soggettivo) dell’interiorità, della spiritualità che l’essere umano percepisce in se stesso e l’esperienza del mondo esteriore che invita alla conoscenza oggettiva: Aristotele non lo dice ma si capisce benissimo (e ce ne renderemo conto meglio a suo tempo) che ha fatto tesoro della riflessione di Empedocle.

     Per Empedocle, come per Parmenide, l’Essere è indivisibile e immutabile, solo che le caratteristiche dell’Essere invece di ritrovarsi in una realtà unica e sovra-sensibile si ritrovano in quattro realtà tra loro qualitativamente distinte, ciascuna delle quali è infinita, eterna, immutabile (e quando incontreremo Aristotele ci accorgeremo che ha imparato bene questa lezione). L’umido di Talete, l’aria di Anassimene, il fuoco di Eraclito e la terra di quelli come Erodoto sono le "quattro radici" del mondo: ingenerate, imperiture, da esse deriva tutto ciò che nasce e che perisce. L’Essere di Parmenide quindi – con questa operazione intellettuale di Empedocle – si trasferisce nel cuore stesso della natura fisica: l’Essere, con il pensiero di Empedocle, diventa accessibile. Ma le "quattro radici" – abbiamo detto – sono soltanto gli ingredienti materiali dell’Universo: sono come i colori – secondo l’immagine di Empedocle – sulla tavolozza di una pittrice o di un pittore, che se ne serve per mescolarli «secondo un giusto accordo, creando figure di uomini, alberi e animali». Chissà se Raffaello mentre dipinge La Scuola di Atene viene condizionato da queste parole? Ci piace pensare che questo frammento di Empedocle sia stato per lui motivo di riflessione, magari su suggerimento di Fedra Inghirami.

     Le quattro infinite radici – secondo Empedocle – sono soggette a due forze tra loro contrapposte, l’Amicizia e la Contesa (l’Amore e l’Odio), la prima intenta a mescolare i quattro elementi, la seconda a separarli fino a raccoglierli ciascuno in un suo stato di aggregazione totalmente estraneo, anzi avverso agli altri. Quando vince l’Amicizia, allora gli elementi si raccolgono per compenetrazione reciproca. Se l’Amicizia dominasse senza doversi confrontare con l’avverso principio della Contesa, nulla nascerebbe e nulla perirebbe, e non avremmo né molteplicità né mutamento. Se, d’altra parte, fosse assoluto il dominio della Contesa ognuno dei quattro elementi sarebbe immobile e prigioniero in se stesso. Abbiamo ripetuto – stimolati da Aristotele – tutto questo complesso ragionamento per riflettere sul fatto che c’è qualcosa di profondo nella tesi sconcertante di Empedocle che così possiamo formulare: senza Contesa, l’Amicizia sarebbe eterna immobilità. Lo stesso avverrebbe se la Contesa non fosse sovrastata dalla forza unificante dell’Amicizia. L’Amicizia unisce il dissimile col dissimile (l’acqua col fuoco ad esempio), mentre la Contesa unisce solo il simile al simile (l’acqua con se stessa).

     Da questi ragionamenti si possono ricavare molte riflessioni sul piano morale. Se la Contesa è necessaria perché l’Amicizia ci sia, significa che bisogna garantire la Contesa con forme di regolamentazione: qui emerge il pensiero "democratico" di Empedocle. Il sistema democratico – in conformità con la legge Universale – si basa sulla Contesa e l’etica deve provvedere a dare le norme per regolamentare il rapporto Contesa-Amicizia. Nasce il concetto della Costituzione: il regolamento condiviso perché la Contesa possa rendere dinamica l’Amicizia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Oggi, quale di queste parole metteresti per prima accanto alla parola "amore": amicizia, benevolenza, fratellanza, familiarità, intimità, simpatia?… E quale di queste parole, oggi, metteresti per prima accanto alla parola "odio": contrasto, disprezzo, ripugnanza, antipatia, ostilità, rancore?…

Scrivi due parole…

     Anche secondo il ragionamento di Empedocle alle radici dell’esistenza sembra esserci dunque un "peccato primordiale" che consiste nella separazione dei molteplici elementi dall’unità dello Sfero: ne ha parlato Anassimandro di Mileto, ne parlano i Libri dei Veda, i libri della sapienza indiana, e ne parla il movimento della sapienza poetica orfica e il movimento della sapienza poetica beritica (che dà origine ai Libri della Bibbia).

     Se leggiamo i frammenti delle opere di Empedocle capiamo che questo pensatore vive una doppia ispirazione a cui obbedisce: quella tipicamente ellenica, che mira, come già hanno fatto i pensatori ionici, a «ridurre tutte le cose dentro le misure della ragione», e quella orfico-pitagorica, che considera come un male l’esistenza separata dall’essenza ed esalta l’impegno contemplativo come unica forza capace di sollevare la persona oltre la vita terrena dove l’Amore lotta per imporsi ma questa lotta sembra essere vana.

     Leggiamo il famoso secondo Frammento del poema Sulla natura o Le origini di Empedocle:

LEGERE MULTUM….

 Empedocle di Agrigento, Sulla natura o Le origini [Fr. 2]

Gli esseri umani vedono soltanto una piccola parte di una vita che non è vita; condannati a pronta morte, sono rapiti e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s’imbatte; e, sospinto in tutte le direzioni, si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile che queste cose siano viste o udite dagli umani e abbracciate dalla loro mente. Tu dunque, poiché sei qui giunta [giunto], saprai non più di quanto la mente umana possa.

     Questa potrebbe essere (e non sembra un "balbettìo") la sibillina risposta postuma di Empedocle ad Aristotele.

     Il pensiero di Empedocle contiene molti tratti di stampo pitagorico (il filo rosso) e questi tratti li troviamo soprattutto nell’opera intitolata Purificazioni [Katharmoi]. Empedocle – come Pitagora – odia le fave, non mangia la carne degli animali e crede nella metempsicosi, nella migrazione delle anime.

     Leggiamo che cosa scrive nelle Purificazioni a proposito della migrazione della sua anima:

LEGERE MULTUM….

 Empedocle di Agrigento, Purificazioni [Katharmoi]

Infatti una volta già sono stato fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori dall’acqua.

     E ancora leggiamo un frammento dalle Purificazioni dove, più che la dichiarazione, che Empedocle fa, di essere stato un demonio, ci colpisce la sua straordinaria capacità poetica.

LEGERE MULTUM….

Empedocle di Agrigento, Purificazioni [Katharmoi]

Certi demòni che per delitti commessi in passato e per antico decreto degli dèi suggellato da vasti giuramenti, hanno avuto in sorte una lunga vita. Costoro dovranno errare per tre volte diecimila stagioni, nascendo sotto ogni forma di creatura mortale e percorrendo i penosi sentieri della vita. L’impeto dell’etere li spingerà verso il mare, il mare li sputerà sulla terra, la terra li lancerà verso i raggi del sole splendente e da questo, a sua volta, nei vortici dell’etere, giacché ogni radice li accoglierà da un’altra e tutte insieme li odieranno. Anch’io, Empedocle, sono tra questi: esiliato dall’Amore per aver dato troppa fiducia alla furente Discordia.

     Certamente Empedocle è un poeta che appartiene a pieno titolo al movimento della sapienza poetica orfica. Anche nell’opera fisica Sulla natura o Le origini, che tutto sommato vuole essere un trattato di scienze naturali, tutte le volte che deve parlare di un astro, di un fenomeno meteorologico o di una creatura umana, Empedocle inventa splendide immagini che danno la misura del suo genio creativo.

     Leggiamo qualche esempio:

LEGERE MULTUM….

Empedocle di Agrigento, Sulla natura o Le origini

 Il sole che acuto saetta [Fr. 40] La luna dal chiaro occhio [Fr. 42] Il mare, sudore della terra [Fr.55] La notte, una dèa solitaria e cieca [Fr. 49] Il parto ha le fessure dei prati di Afrodite [Fr. 66]

     Quando Empedocle tratta l’argomento del parto ricorre a questa suggestiva metafora: «La fessura del prato di Afrodite». Forse qualcuno ricorda che questa metafora suona all’unisono con «Il rialzo del tempio di Afrodite», un’allegoria proveniente dagli Epigrammi del poeta latino di origine spagnola Marco Valerio Marziale vissuto nel I secolo d.C. (tra il 38 e il 104) e continuatore, a Roma, del movimento della sapienza poetica orfico-priapèa, il quale deve aver letto, con interesse e ammirazione, le opere di Empedocle.

     Uno dei temi più affascinanti in relazione ad Empedocle è – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – quello che riguarda la sua morte. La tradizione mitica ci ha lasciamo molti racconti in proposito: i più significativi sono sei (Le sei morti di Empedocle, è il titolo di un saggio) e hanno tutti qualcosa di spettacolare. Empedocle – dice un racconto – sarebbe morto per auto-strangolamento all’età di sessant’anni: questa versione ce la fornisce l’abate Domenico Scinà nella sua biografia Vita e filosofia d’Empedocle girgentino stampata a Palermo nel 1813. C’è chi sostiene che Empedocle sarebbe morto durante un esilio nel Peloponneso, e chi, come Demetrio di Trezene, di suicidio per impiccagione a un ramo di corniolo: queste due versioni le riporta Diogene Laerzio nella sua Raccolta sulle vite e le dottrine dei filosofi. Ancora Diogene Laerzio scrive che Empedocle, secondo Neante di Cizico, sarebbe morto a 77 anni cadendo da un carro mentre andava a una festa popolare a Messina, e sempre Diogene Laerzio scrive che Telauge, in una lettera all’amico Filolao, dichiara che Empedocle sarebbe scivolato in mare per debolezza senile.

     Ma la versione più nota sulla morte di Empedocle, quella più in sintonia col personaggio, sulla quale hanno puntato l’attenzione molte scrittrici e molti scrittori di tutti i tempi, resta comunque quella di Eraclide Pontico. Chi è Eraclide Pontico? Eraclide Pontico è nato ad Eraclea Pontica in Bitinia, una colonia greca sul Mar Nero, ed è vissuto tra il 388 e il 315 a.C.. Eraclide Pontico è stato discepolo di Platone e suo sostituto come scolarca all’Accademia di Siracusa. Eraclide Pontico è stato soprattutto un grande astronomo e ha proposto un particolare modello cosmologico in parte geocentrico (con la Terra al centro) e in parte eliocentrico (con al centro il Sole). Eraclide Pontico è il primo astronomo a sostenere che la Terra, al centro dell’Universo, ruota in 24 ore attorno al proprio asse, mentre Mercurio e Venere ruotano intorno al Sole: è quindi il primo astronomo a formulare un’ipotesi (seppure parziale) eliocentrica. Eraclide Pontico ha scritto molte opere delle quali ci rimangono una serie di frammenti e, in uno di questi frammenti (il più famoso), racconta la morte di Empedocle.

     Leggiamolo il celebre Frammento 83 di Eraclide Pontico:

LEGERE MULTUM….

Eraclide Pontico, Frammento 83

 Empedocle, subito dopo aver resuscitato la donna agrigentina, si rese conto di aver raggiunto il massimo della popolarità e di non poter fare altro che cercare di sparire come se fosse stato un Dio. E allora calzò i suoi sandali di bronzo e s’incamminò fino a raggiungere la vetta dell’Etna e giunto lassù si tuffò nel cratere del vulcano.

A testimonianza del gesto il vulcano, dopo qualche istante, eruttò un sandalo di bronzo con un suono d’arpa

     È chiaro che in questo racconto gioca un ruolo fondamentale la tradizione mitica anche perché Agrigento è un po’ lontano dall’Etna, ed Eraclide Pontico è un tipo un po’ fantasioso il quale, in un altro frammento, asserisce di aver parlato faccia a faccia con un lunatico, un tipo caduto dalla luna. Tuttavia Empedocle che si tuffa nel cratere dell’Etna per tornare alle radici – il vulcano è aria, fuoco, terra e acqua – è un’immagine classica la quale, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, ha dato molti frutti. Non è casuale il fatto che uno scienziato e contemporaneamente uno sciamano come Empedocle sia legato ad un grande laboratorio come è l’Etna. Noi ci siamo già domandati, a suo tempo, come mai Erodoto, nel testo de Le Storie, non citi mai l’Etna sebbene questa straordinaria montagna abbia dato spesso spettacolo: è davvero un mistero il silenzio di Erodoto sull’Etna.

     E, a proposito dell’Etna – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è doveroso consigliare la lettura (la Scuola ha già dato questo consiglio alcuni anni fa, ma le cose vanno anche ripetute) la lettura di un saggio scritto sotto forma di romanzo da Maria Corti che s’intitola Catasto magico (un titolo che sarebbe piaciuto ad Empedocle). Maria Corti (1915-2002), oltre a opere di narrativa, ha scritto saggi filologico-letterari e ha diretto l’edizione critica delle Opere di Beppe Fenoglio (1978). Catasto magico, pubblicato nel 1999, mette in evidenza come l’Etna sia un concentrato di immaginario fantastico, e sia un patrimonio di miti, di storie e di sorprendenti intrecci culturali. Nel suo cratere sembra pulsare la realtà più profonda dell’Universo, da cui emergono presenze inafferrabili: divinità sotterranee, mostri giganteschi, immagini fantomatiche di maghe, di fate, di eroi. L’Etna è protagonista nelle pagine dei molti scrittori che, da Esiodo a Ovidio, da Hölderlin a Maupassant, si sono imbattuti nel mistero che s’incarna in questo straordinario vulcano. L’Etna, nel corso dei secoli, ha rappresentato il soprannaturale per i Greci, per i Romani, per i Cristiani, per i Normanni, è quindi una sorta di oggetto di «archeologia dello spirito». Maria Corti annoda e tesse fra loro i fili sparsi delle leggende, dei racconti, delle cronache e delle riflessioni che questo grande vulcano ha ispirato.

     Tutto ciò fino all’ultimo capitolo, dove prende corpo un racconto sulla Sicilia di oggi (ma potrebbe essere qualunque posto del mondo), in cui risultano ormai impossibili quei legami di senso tra realtà e fantastico che hanno nutrito le passate culture come la sapienza poetica orfica. L’Etna senza più magia assiste muto a un truce fatto di sangue: il cadavere di un ragazzo ventenne viene sepolto in un cimitero di periferia, separato per sempre dal mondo dei vivi e oggi nessun viaggio sulla mitica nave dei morti conduce più al cratere, nessun suono d’arpa ne esce come quando Empedocle vi si gettò dentro. I morti, oggi, non parlano più ai vivi, i vivi non sanno più dare un significato alla morte: l’immaginario non si alimenta più alla fonte dei grandi racconti mitici. Ma non bisogna perdere la speranza e Maria Corti scrive: «È meglio aver fiducia, se non in noi, almeno nei quattro Elementi divini venerati da Empedocle, Fuoco, Terra, Acqua, Aria, sempre vivi nelle viscere dell’Etna, e sempre pronti a dominare i destini degli isolani con voci robuste e sinistre che si levano dalla sua gola e impregnano col proprio fiato le nuvole».

     Leggiamo una pagina da Catasto magico dove incontriamo Empedocle come protagonista:

LEGERE MULTUM….

 Maria Corti, Catasto magico (1999)

 Empedocle che cosa non può ascoltare nei suoni del mondo? Il suono della morte, che per lui è soltanto un breve volo del pensiero umano, un puro fantasma di pensiero per cui solo i fanciulli «credono che possa nascere ciò che prima non era». Per lui c’è solo mescolanza e dissoluzione dei quattro Elementi, mai nati e imperituri, forze cosmiche divine da cui non possono derivare nascita e morte, perché nulla nasce e nulla perisce, ma tutto per Amore e Odio, forze esse pure cosmiche, si incontra e si separa.

... continua la lettura ...

     Maria Corti cita un racconto di Antonio Tabucchi intitolato Fiamme che ha Empedocle come protagonista e nelle pagine precedenti ricorda anche la tragedia in frammenti intitolata La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin (una nostra vecchia conoscenza).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Queste due opere le puoi cercare in biblioteca: il racconto di Tabucchi lo puoi leggere, mentre i frammenti della tragedia di Hölderlin puoi cominciare ad osservarli…

     E adesso, prima di concludere questo itinerario, leggiamo ancora un brano da un romanzo che abbiamo citato già alcune volte e di cui si consiglia la lettura. Questo romanzo s’intitola I vecchi e i giovani ed stato scritto da Luigi Pirandello nel 1913. La delusione per il Risorgimento tradito è il motivo dominante di questo romanzo, e Pirandello questo sentimento lo ha assaporato fin dall’infanzia ascoltando le parole e partecipando agli ideali del padre, Stefano, che ha combattuto con Garibaldi nell’impresa dei Mille e poi lo ha seguito fino in Aspromonte, e poi questo sentimento lo scrittore lo ha provato soprattutto attraverso la madre, la più delusa di tutti, Caterina Ricci Gramitto sorella di Rocco, compagno d’arme di Stefano, la quale da bambina tredicenne ha dovuto seguire il padre esiliato dai Barboni a Malta e ha vissuto una giovinezza fervente di spiriti patriottici. Tanta fede e tanto slancio civile però sono naufragati nel disordine morale e nella corruzione, il cui culmine è segnato dal famoso scandalo della Banca Romana. Questo avvenimento fa balenare nella mente di Pirandello un’espressione sferzante che fissa con grande efficacia la tragedia morale e politica del momento storico: "la bancarotta del patriottismo".

     L’azione del romanzo I vecchi e i giovani si svolge tra la Sicilia e Roma in una complessa situazione politica, sociale, psicologica nella quale si accentua sempre di più la frattura tra la vecchia generazione che ha la responsabilità diretta della caduta degli ideali del Risorgimento e, in parte, vi assiste sgomenta, e la nuova generazione che reagisce contro la prepotenza e la corruzione, e vede nel conservatorismo dei padri soltanto la difesa di interessi privati. In questo romanzo lo scrittore mette sul palcoscenico del racconto numerosi personaggi che rappresentano in maniera esemplare le diverse posizioni politiche che s’intrecciano nell’ampia trama che si conclude con una poderosa scena finale la cui forza simbolica è degna delle più significative commedie pirandelliane: andate a leggerla. Il rimpianto per la fine violenta del Risorgimento e la pena per la crudeltà della sorte umana si uniscono in una domanda che rimane sospesa proprio nella scena finale.

     Noi leggiamo un piccolo brano (un frammento che, così isolato, non è facile da capire) tanto per congedarci da Agrigento quanto per incontrare Empedocle, il nostro compagno di viaggio di questa sera, in una veste molto particolare.

LEGERE MULTUM….

Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani (1913)

Donna Caterina Laurentano aveva seguito lei sola le nuove idee del padre; e poi si diceva che, da giovinetta, aveva recato onta alla famiglia, fuggendo di casa con Stefano Auriti, morto poi nel Sessanta, garibaldino, nella battaglia di Milazzo, mentre combatteva accanto al Mortara e al figlio don Roberto, che ora viveva a Roma e che allora era ragazzo di appena dodici anni, il più piccolo dei Mille. Figurarsi, dunque, se il principe poteva andar d’accordo con quella sorella! Ma con Cosmo, intanto, perché no? Questi, almeno apparentemente, non aveva mai parteggiato per alcuno. Ma forse non approvava la protesta del fratello maggiore contro il nuovo Governo. Chi aveva però ragione di loro due? Il padre, prima che liberale, era stato borbonico, gentiluomo di camera e chiave d’oro: che meraviglia dunque, se il figlio, stimando fedifrago il padre, s’era serbato fedele al passato Governo? Meritava anzi rispetto per tanta costanza: rispetto e venerazione; e non c’era nulla da ridire, se voleva che tutti sapessero com’egli la pensava, anche dal modo con cui vestiva i suoi dipendenti. Sissignori, sono borbonico! ho il coraggio delle mie opinioni!

Un toffo di terra arrivò a questo punto alle spalle di capitan Sciaralla, seguito da una sghignazzata.

Il capitano dié un balzo sulla sella e si voltò, furente. Non vide nessuno. Da una siepe sopra l’arginello venne fuori però questa strofetta, declamata con tono derisorio, lento lento:

Sciarallino, Sciarallino, dove vai con tanta boria sul ventoso tuo ronzino?

Sei scappato dalla storia, Sciarallino, Sciarallino?

Capitan Sciaralla riconobbe alla voce Marco Prèola, il figlio scapestrato del segretario del principe, e sentì rimescolarsi tutto il sangue. Ma, subito dopo, il Prèola gli apparve in tale stato, che le ciglia aggrottate gli balzarono fino al berretto e la bocca serrata dall’ira gli s’aprì dallo stupore.

Non pareva più un uomo, colui: salvo il Santo battesimo, un porco pareva, fuori del brago, ritto in piedi, cretaceo e arruffato. Con le gambe aperte, buttato indietro sulle reni a modo degli ubriachi, il Prèola seguitò da lassù a declamare con ampii e stracchi gesti:

Oppur vai, don Chisciottino, all’assalto d’un molino?

od a caccia di lumache t’avventuri col mattino, così rosso nelle brache,

nel giubbon così turchino, Sciarallino, Sciarallino?

- Quanto sei caro! - sbuffò Sciaralla, allungando una mano alle terga, ove la mota gli s’era appiastrata.

Marco Prèola si calò giù, sul sedere, dall’arginello lubrico di fango, e gli s’accostò.

- Caro? No, - disse, - mi vendo a buon mercato! Ti piace la poesia? Bella! E sèguita, sai? La stamperò su L’Empedocle domenica ventura.

Capitan Sciaralla stette ancora un pezzo a guardarlo, col volto contratto, ora, in una smorfia tra di schifo e di compassione.

     Empedocle – come abbiamo letto – ha dato anche il nome ad un giornale: chissà se esiste ancora un giornale, o una rivista, che si chiama così? Si potrebbe fare qualche ricerca in proposito…

     Al termine di questo itinerario dobbiamo domandarci quali possano essere (e il congiuntivo è comunque d’obbligo) gli elementi che giocano a favore di Empedocle: perché nell’affresco de La Scuola di Atene la figura statuaria e maestosa dipinta da Raffaello accanto al giovane vestito di bianco dovrebbe raffigurare il personaggio di Empedocle piuttosto che quello di Parmenide? Prima di tutto c’è il fatto che il pensiero di Empedocle si basa sul tentativo di conciliare il concetto dell’Essere di Parmenide con il concetto del Divenire di Eraclito e lo spirito di conciliazione gioca a suo favore. Come gioca a suo favore l’aver concepito la Realtà costituita da quattro radici, semplici e immutabili, Acqua, Aria, Terra e Fuoco, che formano una Tetractys di tipo pitagorico che, nel Rinascimento, assume un carattere prettamente divino. Le quattro radici si uniscono e si dividono sotto l’azione dell’Amore e dell’Odio, e anche questa idea della lotta tra Odio e Amore – l’affresco viene dipinto nel cuore della Cristianità – gioca a favore di Empedocle. Ma soprattutto Empedocle prevale perché a lui viene riconosciuto il merito di aver scritto il cosiddetto Poema lustrale o Le purificazioni del quale un consistente blocco di frammenti è conservato nella Biblioteca Vaticana (nelle mani di Fedra Inghirami). Ne Le purificazioni Empedocle ripropone con notevole convinzione ed efficacia, proprio le dottrine orfico-pitagoriche che hanno fatto più presa – con le dovute variazioni – sulla dottrina del Cristianesimo: Empedocle dà grande rilievo alla concezione dell’Uno come concetto divino, e all’idea della trasmigrazione dell’anima che, prima di rincarnarsi, viene sottoposta ad un giudizio di merito.

     I frammenti sulla "dottrina delle anime" sono molto significativi:

LEGERE MULTUM….

Empedocle di Agrigento, Purificazioni [Katharmoi]

Alla fine le anime, purificate, dovranno tornare ad avere tra gli altri immortali comune dimora e mensa

     Empedocle, di conseguenza, sembra avere le carte in regola per essere in armonia con il gruppo degli Orfici e dei Pitagorici: infatti il personaggio statuario dipinto da Raffaello lancia il suo sguardo verso il Libro che sta scrivendo Pitagora. A questo punto si presume che il Libro che lui tiene in mano possa essere il Poema lustrale, Le purificazioni, in greco, Katharmoi che danno un’interpretazione in chiave religiosa del Pensiero di Pitagora.

     E poi – diciamolo sottovoce perché questo non giocherebbe a suo favore se non tacitamente – Empedocle affascina le intellettuali e gli intellettuali rinascimentali per la sua fama di mago, di negromante, di divinatore: infatti sappiamo che all’inizio dell’età moderna la Magia, sulla scia del pensiero neoplatonico di stampo bizantino, è di gran moda (a Roma, a Firenze) e tutti ufficialmente la condannano ma molti la praticano; la praticano in modo intellettuale cioè si ricercano e si studiano gli antichi scritti di certi filosofi (Empedocle è tra questi) per rinvenire delle possibili "formule magiche" da utilizzare, in senso liturgico, per percepire meglio l’identità della propria anima e per creare una comunicazione tra le anime e un rapporto più stretto della propria anima con Dio. Gli appartenenti al gruppo di lavoro che si riuniscono, semi-clandestinamente, nell’ufficio del papa non sono insensibili a tutto questo: simpatizzano per il Neoplatonismo con tutto quello che comporta in questa epoca storica.

     È logico quindi supporre che i componenti del gruppo di lavoro (Fedra Inghirami, Bramante, Giulio II, Raffaello), che stanno preparando il contenuto de La Scuola di Atene e che hanno a disposizione i frammenti del Poema lustrale, pensino al personaggio di Empedocle da collocare tra Pitagora ed Eraclito piuttosto che al personaggio di Parmenide. Ed Eraclito, difatti, ne La Scuola di Atene, è raffigurato ad un passo da dove siamo ora e – ci suggeriscono le studiose e gli studiosi – questa figura è stata dipinta da Raffaello alla fine dell’opera, nel 1511, quando aveva già completato tutto il lavoro. La figura che rappresenta Eraclito, seduto e in atteggiamento pensoso con la penna in mano, ha un impianto poderoso e un forte risalto plastico. Questa figura non appare nel cartone preparatorio: nel cartone preparatorio questo punto risulta completamente vuoto.

     Eraclito viene rappresentato con le sembianze di un personaggio che tutti conosciamo e che sta lavorando poco lontano dalla Stanza della Segnatura. Questo personaggio sta dipingendo, sta svolgendo un’attività che non lo entusiasma, e difatti è stato obbligato dal papa a farlo e noi sappiamo che non è facile tenere testa a Giulio II il quale però ha dovuto anche promettere delle cose. Questo personaggio sta dipingendo – in condizioni molto disagiate – nella Cappella Sistina e non vuole (contrariamente sospenderà il lavoro) che la sua opera di pittore sia vista da nessuno (neppure dal papa) fin che non è terminata. Ma certe notti, Giulio II – che è l’unico, oltre al pittore, ad avere la chiave dell’edificio e quando sa che l’artefice non sta sorvegliando il suo lavoro – insieme a Fedra Inghirami, a Bramante e a Raffaello, va di nascosto a curiosare: ed è proprio curiosando che Raffaello trae ispirazione per raffigurare il personaggio di Eraclito, ed è anche un atto di sfida ma soprattutto di omaggio.

     Ma ora chiudiamo la porta della Cappella Sistina perché se l’affrescatore improvvisato (come lui si considera) arriva a fare un giro d’ispezione stiamo freschi: oltre ad essere sospettoso è anche sempre di cattivo umore.

     Perché Eraclito – rispetto a Parmenide e ad Empedocle – ha un posto sicuro sul palcoscenico de La Scuola di Atene? Per capire questo fatto bisogna ripassare il suo pensiero e, inoltre, il pensiero di Eraclito è utile da conoscere – è propedeutico – sulla via che porta verso la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele alla quale ci stiamo gradualmente avvicinando.

     Abbiamo così terminato di descrivere la prima zona dell’affresco intitolato La Scuola di Atene, questa zona è formata da alcuni importanti quadri: c’è il quadro del pensiero orfico-dionisiaco con al centro il Libro delle parole degli albori, c’è il quadro del pensiero orfico-pitagorico con al centro il Libro della dottrina di Pitagora. Poi ci sono le immagini di tre figure significative: il languido giovane vestito di bianco, lo statuario Empedocle (con un accenno a Parmenide) nel suo abito giallo, rosso e blu che tiene in mano il Libro de Le purificazioni, e il poderoso Eraclito (di cui dobbiamo ripassare il pensiero) il quale sta scrivendo.

     C’è un oggetto – e lo abbiamo già ricordato – che unisce i quadri e i personaggi di questa zona ed è il Libro: la zona da cui si comincia a leggere l’affresco de La Scuola di Atene contiene un’apologia del Libro.

     E questo ci fa venire in mente la sarcastica ironia di Giuseppe Gioacchino Belli (un poeta che conosciamo) che mette in evidenza la contraddizione, mette in versi il paradosso: da una parte il prete il quale afferma che "Li libbri nun zò robba da cristiano" benedicendo così l’ignoranza, mentre dall’altra, nel cuore della Cristianità, nella Stanza dove i papi firmano i loro documenti ufficiali, fa bella mostra di sé una straordinaria immagine che contiene l’apologia del Libro.

LEGERE MULTUM….

Giuseppe Gioachino Belli, Er mercato de Piazza Navona (1847)

Ch’er mercordì a mercato, gente mie, ce siino ferravecchi e scatolari,

rigattieri, spazzini, bicchierari, stracciaroli e tant’antre mercanzie,

nun c’è gnente da dì. Ma ste scanzie da libbri, e sti libbracci, e sti libbrari,

che ce vienghen’a fa? Cosa c’impari da tanti libbri e tante libbrarie?

Tu pija un libbro a panza vota, e doppo che l’hai tienuto pe quarch’ora in mano

dimme se hai fame o se hai mangiato troppo. Che predicava a la Missione

er prete? "Li libbri nun zò robba da cristiano: fìji, pe carità, nu li leggete".

     E voi, i libri, non leggeteli a casaccio, ma premuratevi di acquisire le chiavi per poterli conoscere, per poterli capire e per potervici applicare: le chiavi di lettura si apprendono sugli itinerari di un Percorso di alfabetizzazione funzionale e culturale, su un Percorso come questo che è quasi arrivato a metà strada ma è ancora lungo e procede, un passo dopo l’altro, verso la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     Il viaggio continua e la Scuola è qui…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 23, 2009