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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE C’È L’INTUIZIONE MAGICA, FISICA ED EVOLUZIONISTICA DI EMPEDOCLE ...

Lezione N.: 
13

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele     14-15-16  gennaio 2009  

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE

C’È  L’INTUIZIONE MAGICA, FISICA ED EVOLUZIONISTICA DI EMPEDOCLE ...

     Circa tre mesi fa siamo partiti dall’Areopago di Atene imboccando una strada che si chiama la via del rispetto della legge. Da questa antica via abbiamo iniziato un viaggio di studio che ha come obiettivo principale quello di conoscere e di capire le parole-chiave e le idee-cardine che caratterizzano la sapienza di Socrate (che è vissuto fino al 399 a.C.), di Platone (che è vissuto fino al 347 a.C.) e di Aristotele (che è vissuto fino al 322 a.C.). Ci stiamo gradatamente avvicinando a questi tre significativi modelli culturali che – come abbiamo imparato – caratterizzano la Storia del Pensiero Umano in modo tale che all’inizio dell’età moderna, del XVI secolo, del 1500, si trovano ad essere protagonisti dell’apparato intellettuale della cristianità (vale a dire che l’eredità intellettuale di Socrate, di Platone e di Aristotele fa parte dell’identità culturale che ci è più prossima) e la centralità di queste figure la si può osservare soprattutto nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene e che Raffaello – su mandato di papa Giulio II e con la collaborazione di Fedra Inghirami e di Bramante – ha cominciato a dipingere esattamente cinquecento anni fa nel 1508. Per questo motivo – come ormai ben sappiamo – il nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, avanza su due corsie: la corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia (antica) che attraversa il territorio orfico dell’Ellade.

     Nello spazio rinascimentale dell’affresco che raffigura La Scuola di Atene abbiamo studiato, per ora, il primo quadro che raffigura il gruppo dei personaggi orfico-dionisiaci, che rappresentano le quattro età della vita, riuniti intorno al Libro ideale che contiene l’alfabeto (le parole degli albori) e poi abbiamo studiato il secondo quadro raffigurante il gruppo dei personaggi orfico-pitagorici con Pitagora che scrive il suo Pensiero su un Libro attorniato dai suoi discepoli più importanti: Filolao di Crotone che prende appunti, Alcmeone di Crotone con in testa il turbante che lo accredita come medico e scienziato e Archita di Taranto che tiene in mano la lavagnetta sulla quale c’è disegnato il teorema musicale delle quattro corde.

     Abbiamo poi studiato la figura del giovane vestito di bianco, la quale riunisce in sé il simbolo ideale dello spirito greco. Il giovane vestito di bianco, in atteggiamento ieratico (venerabile) è il simbolo del mondo intellettuale greco che coltiva la filosofia e incarna la bellezza (kallos) e la bontà (agathos): in queste due parole si concentra l’ideale dello spirito ellenistico. Il concetto che Raffaello – supportato da Fedra Inghirami, da Bramante e da Giulio II – vuole rappresentare con l’immagine di questo giovane vestito di bianco, in greco, si traduce nell’espressione: kallòs ka agathòs, bellezza e bontà. Questa espressione – kallòs ka agathòs (che richiama la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele) – insegna che la bellezza e la bontà si coniugano tra loro perché la Bontà contiene in se stessa sempre l’idea della Bellezza.

     Questa affermazione ideale – abbiamo detto – introduce anche il tema fondamentale della catalogazione e dello sviluppo delle virtù civichee dell’educazione da dare per poterle acquisire in modo da rendere più bella (kàllas), più buona (àgatha), più giusta (àcsia), più saggia (sòphia) la società, e questo è un tema che, all’inizio dell’età moderna, ha innescato un vasto e significativo dibattito: rimane qualche traccia, nella società odierna, di questo dibattito, e soprattutto rimane qualche traccia delle virtù civiche oppure sono state sostituite integralmente da incivili furbizie?

     La scorsa settimana abbiamo osservato la figura che è stata dipinta da Raffaello accanto al giovane vestito di bianco: anche questa figura statuaria tiene in mano un libro e questo libro rappresenta il terzo vertice di un triangolo ideale formato da libri. Questa porzione dell’affresco – che è quella da cui comincia il Percorso per capirne il significato – è una zona che celebra l’apologia del Libro, e l’attenzione va dal Libro orfico-dionisiaco, al Libro orfico-pitagorico, fino a questo terzo Libro: chi è il personaggio maestoso, statuario, collocato accanto al giovane vestito di bianco, che tiene in mano questo libro?

     Questo personaggio è vestito con abiti dai colori giallo, rosso e blu – colori che contrastano con la veste bianca del giovane che ha accanto –, e questo gioco di colori contribuisce a farlo apparire come una figura maestosa e monumentale. Questo personaggio tiene aperto un libro appoggiato sulla coscia sinistra e ha un piede che si appoggia su un cubo di marmo e ci domandiamo se questo sia ancora un riferimento alla colonna greca: questo cubo di marmo sembra la parte di un capitello ionico. Un elemento molto importante è lo sguardo di questo personaggio: ha uno sguardo attento e rivolto a leggere che cosa sta scrivendo Pitagora sul suo librone.

     Chi è questo personaggio rappresentato da Raffaello con un’immagine di grande forza sia nella forma, sia nel colore, sia nell’atteggiamento e anche nella collocazione in primo piano? O meglio, che cosa rappresenta questo personaggio? Sappiamo già che nel dare una definizione di questo personaggio (nella storia delle interpretazioni) ci sono, in contrasto tra loro, due Scuole di pensiero e noi, la scorsa settimana, abbiamo preso in considerazione la prima definizione anche se, oggi, è la meno accreditata.

     Questa Scuola di pensiero – come sappiamo – sostiene che questo personaggio potrebbe rappresentare Parmenide di Elea che è uno dei pilastri, che è una delle colonne della Storia del Pensiero Umano e di cui la scorsa settimana abbiamo studiato gli elementi fondamentali della sua opera, del suo celebre poema intitolato Peri’ physeos, Sulla natura. Parmenide ha saputo mettere in evidenza un concetto fondamentale: che l’Essere è l’essenza delle cose stesse, ovvero è l’essenziale (è il principio, è il fondamento, è la sostanza) che si trova «sotto» la mutabilità delle apparenze, delle forme con cui si manifesta la Verità.

     Per aver elaborato questo concetto il personaggio di Parmenide dovrebbe comunque avere un posto ne La Scuola di Atene e questa figura statuaria dipinta da Raffaello, almeno in parte, richiama la figura di Parmenide anche se, oggi, tutte le studiose e gli studiosi vedono in questa immagine un altro personaggio. Perché allora – se Parmenide viene escluso – ci siamo soffermati così a lungo, la scorsa settimana, sulla sua opera? Noi non ci dobbiamo dimenticare qual è la direzione del nostro Percorso: il percorso del nostro viaggio passa attraverso lo spazio dell’affresco rinascimentale ma è soprattutto indirizzato verso l’incontro con la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele e gli aspetti salienti del pensiero di Parmenide sono propedeutici in funzione di questo incontro. Platone e Aristotele – e lo abbiamo detto – non risparmiano le loro critiche (feroci) contro Parmenide, ma noi sappiamo che quando questi due prendono in considerazione le opere di un personaggio che li ha preceduti significa che sono coinvolti e che hanno imparato molto da questi testi: Platone e Aristotele demoliscono delle strutture ma utilizzano (zitti, zitti) i materiali delle costruzioni che hanno (con gran clamore) demolito per dare forma al loro pensiero. I concetti contenuti nel poema Sulla natura di Parmenide portano direttamente al Mondo platonico delle Idee, al concetto aristotelico della sostanza e anche oltre, fino al complesso territorio del Neoplatonismo e del Neoaristotelismo. All’inizio del 1500 il dialogo di Platone intitolato Parmenide è considerato dai Neoplatonici – in particolare da Marsilio Ficino e da Giovanni Pico della Mirandola – una summa teologica, metafisica ed etica di straordinaria importanza.

     Tutto questo, però, – abbiamo detto – non giustifica fino in fondo il fatto che questa figura statuaria, dipinta da Raffaello ne La Scuola di Atene, possa rappresentare a pieno Parmenide di Elea perché il personaggio che stiamo osservando guarda inequivocabilmente, con uno sguardo attento e concentrato, verso il Libro che Pitagora sta scrivendo come se volesse uniformare il testo che ha di fronte al Pensiero pitagorico e noi sappiamo che il legame tra Parmenide e i Pitagorici è molto tenue: il pensiero della Scuola di Elea si distingue da quello della Scuola pitagorica soprattutto sul piano della laicità, il concetto eleatico dell’Essere è laico mentre il concetto pitagorico dell’Uno è di carattere religioso.

     Diogene Laerzio – abbiamo ricordato la scorsa settimana – nel suo trattato Le vite dei filosofi, ci racconta che Parmenide ha dei legami con il pitagorico Aminia, che vive coerentemente in povertà ed è una persona di grande valore e ricca di virtù: Parmenide lo segue come discepolo e quando Aminia muore, Parmenide, che è ricco di famiglia, gli fa costruire un bellissimo monumento funebre. Parmenide viene avviato da Aminia alla vita contemplativa, ma non propriamente ad uno stile di vita pitagorico.

     E allora, se non si tratta di Parmenide, chi è il personaggio statuario rappresentato da Raffaello accanto al giovane vestito di bianco ne l’affresco de La Scuola di Atene? Per incontrare questo personaggio – abbiamo detto la scorsa settimana – siamo ospiti della polis di Akràgas perché la via del Percorso che ci porta ad incontrare la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele passa anche da questa città.

     Akràgas è il nome greco di una polis famosissima situata sulla costa siciliana della Mega Hellas, della Magna Grecia. I Romani, dal 210 a.C., la denominano Agrigentum (il fertile territorio che ospita tutte le genti), e gli Arabi (che hanno governato la Sicilia nel IX secolo), nell’anno 828, la chiamano Girgenti. Oggi, dal 1927, questa città, ha assunto il nome di Agrigento. In origine Akràgas è una polis greca e da dove deriva questo nome? Nell’anno 583 a.C. o 580 a.C. (ma che importa, anno più anno meno) un gruppo di profughi provenienti dall’isola di Rodi e un migliaio di coloni provenienti da Gela, guidati da un certo Aristonoo e da un certo Pistilo, mentre navigano verso ovest, lungo la costa meridionale della Sicilia, vedono ergersi una collina (Akra), una bella collina rocciosa (Akra-àgatas) fatta a posta per costruirci un’Acropoli. Constatano anche che questa collina è situata fra due fiumi limpidi e ricchi d’acqua che sfociano a poca distanza l’uno dall’altro che vengono chiamati: l’Akràgas e l’Hypsas. Questi migranti prendono subito, all’unanimità, la decisione di fermarsi e di fondare una colonia: questa colonia viene chiamata Akra-àgatas, poi contratto in Akràgas. Akra, in greco, significa la cima, la sommità, e àgatas significa buona, pura, utile. La polis di Akràgas cresce rapidamente e in meno di un secolo raggiunse i duecentomila abitanti. Sappiamo che Akràgas viene governata dal tiranno Terone il quale conquista le città di Heraclea Minoa e di Himera, e si procura un gran numero di schiavi e la manodopera di questi schiavi viene utilizzata per costruire un gran numero di edifici pubblici dall’aspetto magnifico.

      Quando si dice Akràgas (oggi quando si dice Agrigento) si dice Valle dei Templi e in questo sito straordinario possiamo ammirare soprattutto il Tempio della Concordia: l’unico che sia rimasto in piedi per intero. Ma se, un poco più in là, osserviamo i resti ammonticchiati del Tempio di Zeus Olimpico, capiamo subito di trovarci di fronte a un’opera gigantesca: 112 metri per 56 (sono all’incirca le dimensioni di un campo di calcio), e qui, in grandezza, si supera il Partenone di Atene.  Akràgas è una polis così ricca e accogliente che viene definita da Pindaro, il più grande dei poeti lirici orfici: «la bellissima tra le città mortali». Molti autori ricordano anche la bellezza dei cimiteri della romana Agrigentum, la cosiddetta necropoli Giambertoni, una vasta area archeologica dove le cappelle gentilizie sono tutte istoriate con bassorilievi che illustravano le gesta dei defunti, troviamo monumenti funebri anche dedicati ai cavalli che hanno vinto alle Olimpiadi. La cosa più curiosa di questa necropoli è rappresentata dai resti di un mausoleo dedicato a un passerotto, che era l’unico compagno di giochi di una fanciulla aristocratica la quale ha voluto che si dedicasse all’uccellino questo grande monumento.

     Akràgas, Agrigentum, Girgenti è ricca perché possiede in abbondanza l’acqua, e già nel V secolo a.C. dispone di un acquedotto cittadino e di una piscina coperta dove vengono convogliate tutte le acque superflue. Oggi ad Agrigento l’acqua viene razionata (è un paradosso?) in molti periodi dell’anno. Anche nel commercio gli Agrigentini del V secolo a.C. sono all’avanguardia: poco fuori le mura hanno costruito un gigantesco emporio, in pratica una fiera permanente, dove si possono incontrare i mercanti di tutto il bacino del Mediterraneo. Grande valore hanno le monete in oro e in argento con la scritta «Akràgas» e con la raffigurazione dei simboli della città: il granchio, l’aquila e la quadriga.

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Consultando l’enciclopedia, leggendo la guida della Sicilia o con l’ausilio della rete fai una visita più approfondita ad Agrigento, buon viaggio

     Diogene Laerzio scrive che secondo Timeo di Taormina: «gli Agrigentini vivono voluttuosamente come se dovessero morire il giorno dopo e costruiscono le loro case come se dovessero vivere in eterno». Diodoro Siculo (90-20 a.C.) nella sua opera Biblioteca storica (40 libri, ce ne restano 15) scrive che: «La mollezza degli Agrigentini era giunta a tal punto che, durante l’assedio dei Cartaginesi, venne promulgato un editto secondo il quale si vietava alle sentinelle di dormire con più di due guanciali». Questa citazione rimanda all’espressione «dormire tra due guanciali» che mette in evidenza come in questa polis fossero all’ordine del giorno le parole comodità, agiatezza, sicurezza e tranquillità.

     Nella polis di Akràgas, come in tutte le città che vivono nell’abbondanza, soprattutto i ricchi si aiutano anche con sostanze stupefacenti (con qualche allucinogeno) per divertirsi. È Ateneo di Nàucrati a raccontarci un episodio che abbiamo già citato in un Percorso precedente ma che risulta utile ricordare per capire il clima che si respira nelle opulente polis della Mega Hellas, della Magna Grecia. Ateneo di Nàucrati (Nàucrati è una città nel delta del Nilo) è uno studioso vissuto nel III secolo d.C. che appartiene alla cosiddetta Scuola della sofistica erudita. Gli intellettuali appartenenti a questa Scuola si dedicano a cercare opere antiche per conservarle, per studiarle e per commentarle: sono degli Umanisti ante litteram. Ateneo di Nàucrati ha scritto un’opera molto importante che s’intitola I sofisti a banchetto (15 libri) in cui raccoglie moltissime notizie e frammenti di opere di antichi scrittori che in questo modo ci sono state conservate. Ateneo di Nàucrati ne I sofisti a banchetto scrive che Timeo di Taormina nella sua Storia della Sicilia (un’opera, come abbiamo detto, che è andata perduta) descrive un festino agrigentino del IV secolo a.C..

     Leggiamo questo frammento:

LEGERE MULTUM….

Ateneo di Nàucrati,  I sofisti a banchetto (III secolo d.C.)

Timeo di Taormina nella sua opera Storia della Sicilia, descrive un avvenimento, successo in un banchetto in cui era tra gli ospiti, che poteva capitare solo nella ricca città di Akràgas.

«Quella sera», dice lo storico Timeo, «tutti bevvero moltissimo, io non abusai dell’anfora dionisiaca perché pensai che probabilmente la padrona e il padrone di casa avevano aggiunto nel vino anche qualche sostanza inebriante com’era in uso, e certo è che nel bel mezzo della festa quasi tutti gl’invitati ritennero di non trovarsi più all’interno di una villa, bensì a bordo di una nave in balia delle onde, per cui, presi dal panico, cominciarono a buttar giù dalle finestre tutto il mobilio e il vasellame della casa, nel disperato tentativo di alleggerire il carico e di restare a galla quanto più tempo possibile. Quando poi, finalmente, chiamati d’urgenza, giunsero sul posto i soldati della guarnigione a ristabilire l’ordine, questi ultimi, a causa del loro abbigliamento guerriero, furono scambiati per divinità marine e molti si buttarono ai loro piedi per implorarne il perdono. Da quel giorno la casa che ospitava il convivio fu soprannominata la Triremi».

     Queste cose succedono ad Akràgas nel IV secolo a.C. e certi usi e costumi non sono cambiati per niente...

     Akràgas vive il suo momento di massimo splendore all’inizio del V secolo a.C.: prima con la dittatura di Terone e, subito dopo, con le Istituzioni democratiche. Terone è uno dei tre grandi tiranni siciliani che dominano in questo periodo: gli altri due sono i fratelli Gelone e Gerone che governano rispettivamente la polis di Siracusa e la polis di Gela. Sono anche un po’ imparentati tutti e tre questi tiranni perché Gelone ha sposato una figlia di Terone.

     Noi sappiamo che, in questo momento, davanti alla Sicilia, sulle coste dell’Africa bagnate dal Mar Mediterraneo in direzione sud-ovest (nei pressi dell’odierna Tunisi) c’è una polis prospera e attiva, desiderosa di espandere il suo dominio su tutto il Mediterraneo: Cartagine. Ebbene, i tre grandi tiranni siciliani – Terone, Gelone e Gerone – di fronte alla minaccia che viene da Cartagine ritengono opportuno stringere un’efficiente alleanza militare, e quando i Cartaginesi si presentano con la loro potente flotta per conquistare la Sicilia meridionale vengono duramente sconfitti nelle acque di Himera nel 480 a.C., proprio nello stesso anno in cui – come ci racconta Erodoto ne Le Storie – a Salamina i Greci sbaragliano la potente flotta persiana. Pindaro, da grande poeta lirico-orfico, nelle Odi pitiche, afferma che questo fatto non è casuale, ma si tratta di un preciso disegno del destino: «Gli dèi – scrive – si sono schierati dalla parte dei Greci». Però – nonostante il presunto favore degli dèi – la generazione successiva ai tre grandi tiranni (i loro figli e nipoti) non è all’altezza della situazione. Ad Akràgas i figli di Terone litigano tra loro, si comportano senza alcuna strategia politica, s’imbarcano in imprese fallimentari come la rottura dell’alleanza con Siracusa, e allora le opposizioni democratiche alla tirannide tornano a governare. I cittadini vengono chiamati alle urne e si afferma il partito democratico: vengono epurati tutti gli amministratori compromessi con il vecchio regime e viene ricucita l’alleanza con Siracusa.

     In questo clima di rinnovamento si affaccia sulla vita politica agrigentina un ragazzo appena ventenne, e questo ragazzo tra non molto emergerà, diventerà adulto lasciando il segno non solo negli annali di Akràgas ma nella Storia del Pensiero Umano universale. Chi è costui? Costui si chiama Empedocle.

     Chi è Empedocle di Agrigento? Questa – come nel caso di Pitagora – è una domanda difficile a cui rispondere. Dove sta la difficoltà? Le difficoltà sta nel fatto che anche il racconto (come per Pitagora) della vita di Empedocle di Agrigento è fortemente condizionato dalla tradizione mitica la quale ci presenta un personaggio (suo malgrado) molto ambiguo, bifronte, con due facce, con due volti sui quali fa calare spesso molte maschere. C’è chi afferma che Empedocle è un filosofo, è un medico, è un fisico, è un democratico e soprattutto è un poeta orfico. E c’è invece chi nega energicamente questa tesi sostenendo che Empedocle è uno stregone, è un negromante, è un ciarlatano, è un guru, è uno che dice di essere un Dio e che prende in giro con superiorità tutti quelli che incontra.

     Ma allora, chi è veramente Empedocle di Agrigento? Tutte le studiose e tutti gli studiosi – e noi ci uniformiamo – per definire Empedocle di Agrigento hanno utilizzato una definizione data dallo storico delle religioni, orientalista e pensatore positivista francese: Joseph Ernest Renan (1823-1892). Renan in un libro intitolato Venti giorni in Sicilia. Mélanges di storia e di viaggi scrive: «Empedocle di Agrigento è una persona di multiforme ingegno, mezzo Newton e mezzo Cagliostro».  Che cosa significa questa frase? Che cosa significa essere «mezzo Newton e mezzo Cagliostro»? Significa essere per metà scienziato e per metà negromante, e allora chi è veramente Empedocle di Agrigento? Questa domanda suona per noi in modo molto particolare: perché? Perché oggi tutte le studiose e gli studiosi pensano che il personaggio dipinto da Raffaello accanto al giovane vestito di bianco, e che potrebbe far pensare anche a Parmenide, in realtà rappresenti proprio Empedocle di Agrigento.

     Empedocle nasce ad Agrigento intorno al 492 a.C. in una famiglia nobile e benestante. Diogene Laerzio, nella Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, scrive che suo padre si chiama Melone e suo nonno ha il suo stesso nome, Empedocle. Il nonno Empedocle è famoso in tutto il mondo greco perché è un grande allevatore di cavalli da corsa e – ci dicono le cronache – ha vinto la settantunesima Olimpiade. Nel mondo ellenico la vittoria alle Olimpiadi è considerata un evento eccezionale: i vincitori, nelle loro polis, vengono ricompensati e glorificati per tutta la vita. Diogene Laerzio, nella Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, scrive che Empedocle, il nonno di Empedocle, festeggia la vittoria olimpica offrendo agli agrigentini «un bue impastato di miele e di farina» (Sono nuove tendenze culinarie?).

     Inoltre Diogene Laerzio, nella sua Raccolta, ci racconta il momento in cui Empedocle, da adolescente, fa un primo incontro importante sul piano della cultura. Infatti, un giorno, arriva ad Akràgas un personaggio che viaggia da una polis all’altra a divulgare (a cantare) il suo pensiero. Questo personaggio noi lo conosciamo, lo abbiamo già incontrato la scorsa settimana, si chiama Senofane di Colofone ed abita ad Elea: Senofane è il maestro di Parmenide, è il fondatore della Scuola di Elea. Empedocle ascolta Senofane sotto i colonnati del Tempio di Eracle e il Tempio di Eracle o di Ercole – quello che resta di questa costruzione – è il più antico edificio sacro che si trova nella Valle dei Templi, in posizione elevata proprio all’inizio della Via dei Templi. Alla fine della lezione tenuta da Senofane, davanti a un numeroso pubblico, il ragazzo Empedocle alza la mano e fa una domanda al maestro di Elea e chiede: «Maestro, lei ha parlato con sapienza della saggezza ma esiste un modo per riconoscere le persone sagge?». Il vecchio Senofane risponde che non si tratta di una cosa molto difficile: «Per riconoscere le persone sagge, ragazzo, basta essere saggi. E per essere saggi – prosegue – bisogna diventarlo, e per diventarlo bisogna studiare, per diventarlo è necessario curare la propria anima: tu studi?». Empedocle capisce il messaggio anche se non è riuscito ad afferrare molto bene tutti i concetti espressi da Senofane durante la sua lezione: soprattutto il concetto fondamentale che sintetizza il pensiero del vecchio filosofo di Elea: l’Uno è Tutto. Comunque, proprio in seguito a questo incontro, Empedocle – ci racconta Diogene Laerzio – decide di dedicarsi con impegno all’osservazione della natura (physis) e allo studio della fisica. Oltre alla sperimentazione naturalistica Empedocle si dedica anche all’attività politica e partecipa a rovesciare il regime di Trasideo, il figlio del tiranno Terone. Poi, mentre ad Akràgas rifioriscono le Istituzioni democratiche e c’è un maggiore clima di apertura e a molti cittadini viene restituito il passaporto, Empedocle decide di partire per Elea dove spera d’incontrare ancora Senofane, ma il vecchio maestro non c’è più.

     Alla Scuola di Elea Empedocle incontra Parmenide, ed ecco che questi due personaggi i quali richiamano la figura statuaria dipinta da Raffaello ne La Scuola di Atene accanto al giovane vestito di bianco si trovano assieme; ma questo incontro non soddisfa Empedocle ma, anzi, lo delude profondamente. Per quale ragione il giovane Empedocle rimane deluso dalla Scuola di Elea? Empedocle è sicuramente un ragazzo che ama l’azione, che tende alla concretezza, curioso dei fenomeni della natura. Parmenide, con il suo intellettualismo astratto, gli sembra completamente fuori della realtà, e il pensiero di Zenone – altro grande esponente della Scuola di Elea –, con i suoi paradossi, gli pare piuttosto sconcertante. E così, il giovane Empedocle (il quale ha comunque imparato qualcosa, perché c’è sempre qualcosa da imparare dalla Scuola di Elea) torna subito in Sicilia dove – secondo il racconto di Diogene Laerzio – decide di iscriversi alla Scuola pitagorica.

     C’è chi dice – continua Diogene Laerzio – che sia stato allievo di Telauge, il figlio di Pitagora, chi di Brontino e di Epicarmo. Ma anche con i pitagorici Empedocle ha dei problemi: la Scuola pitagorica, lo sappiamo, è soprattutto una setta politico-religiosa, ed Empedocle, – scrive ancora Diogene Laerzio – con il suo carattere estroverso, non è uno scolaro ubbidiente e viene accusato di chiacchierare troppo fuori dalla Scuola. Sappiamo che  la regola pitagorica non sopporta che si vada a spettegolare in giro sui misteri della Scuola. Empedocle – ci racconta Diogene Laerzio – viene punito e viene fatto entrare nel gruppo di quelli che durante le lezioni non erano autorizzati a parlare. Poco male perché Diogene Laerzio c’informa che lo stesso trattamento, subìto da Empedocle, sarebbe stato riservato, nel secolo successivo, anche a Platone. Noi sappiamo che nella Scuola pitagorica la regola del silenzio doveva essere rispettata. Gli argomenti, trattati dalla Scuola pitagorica, preferiti da Empedocle sono la Metempsicosi (la trasmigrazione delle anime) e la Magia. Essendo però considerato un alunno poco disciplinato ad un certo punto si rende conto che i suoi maestri pitagorici (Telauge? Brontino? Epicarmo?) sono assai restii a svelargli tutti i segreti della Magia che lui avrebbe voluto conoscere. E allora, Empedocle, decide di emigrare verso oriente dove sa che ci sono delle Scuole molto qualificate in materia.

     Sappiamo – è Diogene Laerzio che c’informa – che Empedocle studia presso gli Egiziani, presso i Caldei e soprattutto presso i Magi. In queste Scuole, che frequenta con grande impegno, impara le cosiddette arti mistiche: l’ipnosi, la telecinèsi (la facoltà di spostare gli oggetti con la mente) e la lettura del pensiero. Qui comincia a delinearsi la doppia valenza che assume la figura di Empedocle: da una parte è un fisico sperimentatore e dall’altra è un praticante di arti mistiche. Questo fa sì che Plinio il Vecchio e molti altri storici considerano Empedocle – proprio a causa di queste sue pratiche esoteriche – più un negromante, più un ciarlatano, che uno scienziato. Noi però dobbiamo considerare il fatto che – nella Storia del Pensiero Umano, e in particolare anche nella cultura orfica – la Magia è una vera e propria disciplina con regole, norme, precetti, canoni, ben precisi: pensate, per esempio, all’episodio dei Magi nella Letteratura dei Vangeli.

     Qual è il ruolo della Magia, che finalità ha? La Magia è una disciplina che si occupa della mediazione tra gli esseri umani e gli dèi. Il ruolo della maga e del mago è quello di essere un tramite tra il mondo umano e il mondo divino, tanto che le maghe e i maghi vengono considerati come una specie di divinità subalterne. La Magia si attua attraverso un culto che si chiama Teurgia, e la Teurgia (è un tema che abbiamo studiato più di una volta nei nostri Percorsi) è un’arte capace di evocare, a fin di bene, la divinità. Quindi il mestiere della maga e del mago (del teurgo, del o della medium) è di tutto rispetto visto che ci sono sempre state persone che sentono il bisogno di una mediazione tra l’umano e il divino.

     Qualche cosa, però, succede al tempo di Empedocle che rovina la reputazione di chi si dedica all’esercizio della Magia: che cosa succede? Si è sempre pensato che tra il regno umano e quello divino (sede dell’Idea del Bene) ci sia il regno dei demòni (la sede del Male). In Caldea nasce e si sviluppa una setta religiosa, i cui adepti, i goeti, professano riti demoniaci, fatti a fin di male. I goeti si riuniscono nel buio delle caverne e praticano sacrifici umani per evocare i demòni. Al tempo di Empedocle, quindi, la confusione che si crea tra il ruolo dei teurghi (che operano a fin di bene) e le pratiche dei goeti (che collimano con la criminalità) finisce per danneggiare la reputazione della Magia come disciplina di mediazione tra il mondo umano e la sfera divina. Empedocle paga lo scotto di questa situazione.

     Empedocle – presso le Scuole d’oriente – impara a fare il mago ma non dimentichiamo che è stato soprattutto un ottimo medico, un esperto di anatomia umana, uno di coloro i quali hanno preparato la strada perché la medicina diventi una disciplina a sé stante, come avverrà in seguito con Ippocrate di Cos (460 circa-380 circa a.C.).

     Tornato in patria, Empedocle si rende subito conto che i suoi concittadini non hanno usato bene la maggiore libertà data dalle Istituzioni democratiche ma sono assai peggiorati in quanto a morale pubblica e privata e quindi decide di dedicarsi alla riforma dei costumi e, a questo proposito, lancia una vera e propria campagna di moralizzazione intitolata: il digiuno dal male. Empedocle pensa che sia necessario «digiunare dal male» per purgarsi, per purificarsi, da tutti i peccati commessi e, in età moderna, Gerolamo Savonarola nella sua predicazione riprende questo concetto: la tradizione del fare quaresima(del fare ramadan ).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Per “digiunare dal male” da che cosa ti astieni? 

Scrivi una riga in proposito…

     Diogene Laerzio (zelante come sempre) scrive che Empedocle comincia anche ad accusare gli amministratori della città di aver rubato al pubblico erario, e attacca l’Assemblea dei mille – il gruppo aristocratico che aveva ripreso in mano le leve del potere – e propone un nuovo governo fondato sull’eguaglianza civile, sulla partecipazione popolare. L’entusiasmo del popolo minuto di Akràgas per l’iniziativa di Empedocle cresce e si forma, intorno a lui, un forte movimento di opposizione e gli viene proposto di guidare una rivolta e di assumere il titolo di tiranno. Ovviamente – racconta Diogene Laerzio – il filosofo rinuncia. Empedocle vuole salvare le Istituzioni democratiche e non vuole il ritorno della tirannide e quindi si limita a suggerire una serie di nomi di cittadini onesti e morigerati a cui affidare il governo della polis. È chiaro che Empedocle, a questo punto, si merita il titolo onorifico di salvatore dei principi democratici dello Stato e assume – proprio prendendo le distanze dal potere materiale – un ruolo carismatico, con un atteggiamento (che lui asseconda) simile a quello di una divinità.

     Diogene Laerzio, a questo proposito, scrive parole significative e noi le leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

Empedocle era solito incedere per le vie di Agrigento preceduto da uno stuolo di giovani, e circondato da ammiratori che volevano servirlo Indossava un vestito di porpora, una cintura d’oro e i calzari di bronzo. Aveva una folta barba e si cingeva il capo con una corona delfica in onore di Apollo.

Di se stesso diceva [Fr. 100]: «O amici, che la città sul biondo Agrigento abitate, lì sull’Acropoli io vi saluto: io tra voi. Dio Immortale, non più mortale, m’aggiro onorato da tutti, com’è conveniente, di bende cinto e di fiorite corone. Quando giungo nelle città fiorenti, dagli uomini e dalle donne sono onorato; essi a migliaia mi seguono, per apprendere dove sia il sentiero che porta alla salvezza, alcuni di un oracolo hanno bisogno, altri, afflitti da ogni sorta di malanni, vogliono sentire una salutare parola»

     Questo autoritratto – come racconta Diogene Laerzio – contribuisce a creare la figura ambivalente di Empedocle. Empedocle è nello stesso tempo un fisico, un medico, un tecnico e un profeta, un mago, una figura eccentrica. Sta di fatto – continua a raccontare Diogene Laerzio – che un giorno la polis di Selinunte (che oggi è uno stupendo sito archeologico: lo avete visitato?) viene colpita da una grande pestilenza ed Empedocle intuisce che l’epidemia è da attribuirsi alle acque stagnanti di un fiumiciattolo che attraversa il centro abitato e nel quale tutti scaricavano liquami. Empedocle studia la situazione, esamina con cura il territorio circostante, fa scavare dei canali di deviazione e convoglia su quel fiume altri due corsi d’acqua vicini, in modo da garantire un deflusso regolare delle acque: il tutto – scrive Diogene Laerzio – a sue spese. È chiaro che, dopo questo intervento che sana la situazione, Empedocle viene onorato come se fosse un Mago, e persino come se fosse un Dio, anche dai cittadini di Selinunte.

     Plutarco di Cheronea (uno scrittore di nostra conoscenza), in uno dei suoi Opuscoli denominato La curiosità, racconta un significativo episodio a proposito di Empedocle.

LEGERE MULTUM….

Plutarco di Cheronea, Opuscoli morali. La curiosità  (anteriori al 127 d.C.)

Empedocle, nei pressi di Agrigento, fece sbarrare con centinaia di pelli d’asino una stretta gola tra i monti per impedire allo scirocco di penetrare nella valle sottostante.

Questo sistema fu messo a punto dal filosofo agrigentino per contrastare il diffondersi di un’epidemia. Da quel giorno ad Empedocle, che era considerato come un Dio, venne attribuito il soprannome di «domatore dei venti».

     Aristotele definisce Empedocle «inventore di retorica» e scrive che ebbe come allievi Gorgia e Pausania (questi personaggi, questi sofisti, questi esperti di retorica, li incontreremo ancora strada facendo). Aristotele, a questo proposito, aggiunge – e anche Diogene Laerzio conferma questa notizia – che Pausania «era l’amante di Empedocle».

     Diogene Laerzio, nella sua Raccolta, ci racconta un altro episodio significativo:

LEGERE MULTUM….

Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi

 Empedocle fu invitato a pranzo da un personaggio autorevole, da un deputato dell’Assemblea: il convito era al punto che ormai bisognava bere, ma nessuna bevanda veniva servita; tutti stavano tranquilli, ma Empedocle, assunto un atteggiamento di disgusto e di disprezzo, diede ordine che si portasse da bere. Allora il padrone di casa rispose, piccato, che attendeva l’arrivo di un ministro del Consiglio. Quando costui arrivò fu fatto accomodare al posto d’onore [fu eletto simposiarco] e, come se in quella città ci fosse la tirannide, il nuovo arrivato ordinò che allora potevano bere e se qualcuno non avesse voluto eseguire il suo ordine gli fosse versato il vino in testa. Empedocle rimase fermo e quieto, ma il giorno seguente citò entrambi, il deputato e il ministro, davanti al tribunale che, dopo averli giudicati come aspiranti alla tirannia, li condannò a morte.

     Questo verdetto è sembrato eccessivo anche ad Empedocle e quindi si adopera perché i due vengano graziati ma anche perché non vengano più eletti.

     Empedocle è stato un grande poeta, e fa parte a pieno titolo del movimento della sapienza poetica orfica, ed è stato anche un bravo cantante. A questo proposito è Giamblico di Calcide che nella sua opera intitolata Vita di Pitagora ci racconta un episodio che riguarda Empedocle cantante:

LEGERE MULTUM….

Giamblico di Calcide, Synagoge. Della vita pitagorica (300-330)

Una volta, mentre Empedocle conversava con il giudice Anchito, un giovane, stravolto dall’ira, irruppe nella sua casa e aggredì il magistrato per vendicarsi del fatto che, proprio quel giorno, costui aveva condannato suo padre. Empedocle, con intuito eccezionale, afferrò una cetra che aveva lì accanto e, con estrema freddezza, si mise a cantare dei versi che lui stesso aveva composto:

Il canto è un farmaco per l’ira ed i dolori

il canto è l’unico oblio a tutti i mali

Il giovane, all’udire la sua voce melodiosa, si calmò di colpo ed Empedocle riuscì a salvare la vita dell’amico. Quanto a questo giovane aggressore pare che, in seguito, sia diventato uno dei suoi migliori discepoli.

     Il fatto è che – secondo la tradizione mitica – Empedocle di Agrigento, oltre a questi gesti significativi ha fatto anche i miracoli. La lista dei miracoli di Empedocle di Agrigento – secondo la tradizione mitica – è molto lunga. Ne riferiamo uno solo anche per citare un’opera, una delle biografie su Empedocle, scritta all’inizio dell’800 da un abate agrigentino, Domenico Scinà, il quale si dimostra molto attento ai miracoli di Empedocle. Leggiamo questo frammento che ricorda nella forma e nel contenuto – è un abate che scrive – la Letteratura dei Vangeli.

LEGERE MULTUM….

Domenico Scinà, Vita e filosofia d’Empedocle girgentino  (Palermo 1813)

Infermava una donna a Girgenti di una malattia uterina dai maestri di medicina chiamata isterica; non v’è dubbio che, in specie le donne, molte di esse sappiano fingere, eppure nel caso della girgentina pare che essa fosse autentica, giacché insensibile riusciva al tatto e giacché pareva che più non respirasse e morta veniva reputata da tutti. Allora Empedocle la prese per mano e le ridette la vita.

     A questo punto – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – apriamo una parentesi all’interno di questo itinerario che vede Empedocle girgentino come protagonista. Empedocle si presenta come un personaggio ambiguo ma, da quello che si dice di lui, risulta anche una persona che fa risaltare il contrasto tra l’apparenza e la sostanza, tra i principi morali e i vizi indecorosi.

     Questo ricorda un romanzo che dovrebbe essere letto dalle cittadine e dai cittadini italiani che sono completamente digiuni nei confronti della loro Letteratura a causa dell’analfabetismo funzionale e culturale che affligge questo paese. Il romanzo di cui stiamo parlando s’intitola L’età breve ed è stato scritto nel 1946 da Corrado Alvaro, uno scrittore calabrese, della Mega Hellas, della Magna Grecia, che abbiamo incontrato in altri Percorsi.

     Corrado Alvaro è nato nel 1895 a San Luca di Calabria ma ha trascorso nella sua terra natale solo gli anni dell’infanzia poi, per motivi di studio e di lavoro, è emigrato ed è vissuto in varie città italiane ed estere: a Roma, a Milano, a Berlino, a Parigi; è morto a Roma nel 1956. Corrado Alvaro come giornalista e come scrittore si è interessato di molti argomenti ma la sua produzione letteraria presenta come tema privilegiato il mondo pastorale e contadino del Sud, che lui evoca con un originale taglio narrativo di carattere epico: nel Sud di Alvaro ci sono tutte le grandi questioni poste dalla cultura orfica. Due opere di Corrado Alvaro dovrebbero essere lette e periodicamente rilette: Gente in Aspromonte (1930) di cui abbiamo già letto qualche pagina in questi anni e il romanzo quasi autobiografico L’età breve (1946) che incontriamo, questa sera, per la prima volta.

     L’età breve è un romanzo in cui emerge il contrasto tra l’apparenza e la sostanza, tra i principi morali e i vizi indecorosi, tra l’istinto sconveniente e il bisogno di mistificare la realtà in un’ostentata immagine perbenista fatta di ipocrisie. Il giovane protagonista, Rinaldo Diacono, si rende conto a poco a poco di questa situazione attraverso il rapporto ambiguo con suo padre e attraverso gli avvenimenti che vive e che lo scrittore ci racconta (con una serie di venature autobiografiche). Questo acuto romanzo psicologico e di costume mette in evidenza le fonti dei mali di questa nazione che oggi si trova ad essere così pericolosamente frammentata: la lettura di questo testo è utile per far riflettere le cittadine e i cittadini sul grado di deterioramento dello spirito pubblico. Inoltre non è difficile per la lettrice e per il lettore cogliere – tanto nei ragionamenti del protagonista quanto negli sviluppi della trama – il continuo riferimento a parole e a idee provenienti dalla cultura orfico-dionisiaca e orfico-pitagorica della Magna Grecia (qui c’è anche l’ombra di Empedocle) che Corrado Alvaro sa fare in tutte le sue opere.

     Leggiamo l’inizio di questo romanzo:

LEGERE MULTUM….

Corrado Alvaro, L’età breve  (1946)

Il lato noioso della faccenda era che parlavano di lui, Rinaldo o Rinaldino, come se fosse nascosto nella apparenza del suo piccolo corpo e cercassero di tirarlo fuori. Parlavano di lui all’infinito, ed egli aveva l’impressione che possono provare gli agnelli quando si prendono in braccio e se ne sente il peso. Erano discorsi su quello che egli avrebbe fatto da grande, mentre egli non voleva mai diventare grande, sarebbe rimasto piccolo, essi non lo sapevano. Egli guardava gli uomini come esseri di un altro regno, simili alle montagne e agli alberi. Da essi dipende la vita dei ragazzi, da essi di un’età irraggiungibile, alla quale non si arriverà mai, perché tutto è eterno nell’infanzia, anche i vecchi, anche la morte.

... continua la lettura ...

     Empedocle di Agrigento, come si è detto, è un mago, è uno scienziato, è un filosofo ed è anche un poeta. Empedocle di Agrigento ha scritto due poemi in esametri intitolati Sulla natura o Le origini e Purificazioni [Katharmoi], per un totale di cinquemila versi, di cui se ne sono conservati ben circa 400. Aristotele sostiene che Empedocle di Agrigento ha scritto anche 43 tragedie, alcuni saggi politici, un racconto storico su Serse, il re dei Persiani, e poi un Proemio in onore di Apollo. Ma – asserisce Aristotele – che un bel giorno, giudicando tutte queste opere non all’altezza del suo ingegno, le consegnò alla sorella perché le utilizzasse per accendere il fuoco e lei, ben contenta (era un ottimo combustibile) le adoperò in proposito.

     Come scienziato, ad Empedocle di Agrigento, va riconosciuto il merito di aver sperimentato la consistenza fisica dell’aria, dimostrando che questo elemento non ha niente a che vedere con il vuoto. Empedocle, in un frammento della sua opera intitolata La natura, scrive: «Se una fanciulla, giocando con un recipiente di rame, prima ottura con la bella mano l’apertura del vaso, poi immerge il tutto a testa in giù nel corpo leggero dell’acqua argentea, l’acqua non entra all’interno della coppa giacché la massa dell’aria la respinge». Empedocle, come scienziato, scopre anche la forza centrifuga e nota che se leghiamo un secchio d’acqua a una fune e lo facciamo girare vorticosamente intorno a noi, l’acqua s’incolla sul fondo del secchio e non ce la fa più a cadere.

     Inoltre Empedocle, come scienziato, concepisce una primordiale, e assai suggestiva, teoria dell’evoluzione anticipando di 2300 anni la rivoluzionaria teoria di Darwin. Secondo la teoria, formulata da Empedocle, le particelle degli elementi primordiali si sono combinate tra loro senza nessun ordine prestabilito e i primi esseri viventi sono nati per caso. Scrive Empedocle: «Spuntarono tempie senza collo, braccia nude erravano prive di spalla e occhi solitari vagavano senza fronti» [Fr. 57]. E poi aggiunge che da ogni parte si scorgevano «piedi striscianti con innumerevoli mani» [Fr. 60], e «molti nacquero con due volti e due petti, e si videro stirpi bovine con volti umani e stirpi umane con volti bovini» [Fr. 61]. Empedocle concepisce, in principio, un mondo di esseri le cui parti non sono state assemblate da una mente programmatrice, bensì secondo la più disordinata e assoluta casualità. Ma – continua Empedocle –, con il passare del tempo, «i miscugli peggio assortiti cominciarono a morire e restarono in vita solo gli esemplari le cui membra meglio di tutti s’accordavano» [Fr. 59]. È chiara, in Empedocle di Agrigento, l’intuizione evoluzionistica.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La parola evoluzione richiama i termini: progresso, miglioramento, sviluppo, crescita, avanzamento, trasformazione, cambiamento, mutamento… Quale di queste parole metteresti per prima accanto al termine “evoluzione”?

Scrivila…

C’è qualcosa che viene definita “evoluzione” ma che invece, secondo te, costituisce regresso e degenerazione?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Empedocle di Agrigento – abbiamo detto – ha scritto due opere (due poemi in esametri) intitolate Sulla natura o Le origini e Purificazioni, Katharmoi. I problemi che hanno posto nei secoli e che continuano a porre – alle studiose e agli studiosi – le opere di Empedocle sono molteplici e complicati. Il poema di argomento fisico è solitamente menzionato con il titolo Sulla natura ma noi sappiamo che questa dicitura –  Peri’ physeos Sulla natura – indica soprattutto un genere letterario, il genere del poema filosofico di stampo orfico sapienziale, e quindi si presume che quest’opera sia stata chiamata dall’autore: Le origini (Genesis). Quest’opera era formata da circa duemila versi e ne rimanevano 350, ma la situazione, ultimamente, si è notevolmente modificata perché il numero in nostro possesso dei frammenti dell’opera di Empedocle intitolata Sulla natura o Le Origini è aumentato: che cosa è successo? È successo che è stata fatta una scoperta di grande importanza: nel 1990 un antichista belga, il professor Alain Martin, ha iniziato a studiare un papiro conservato nella Biblioteca Nazionale e Universitaria di Strasburgo. Questo papiro proviene dalla città egiziana di Achmim che nell’antichità si chiamava Panopoli (è la città di Nonno) ed era sede di una delle più importanti Scuole pitagoriche del bacino del Mediterraneo. Su questo Papiro di Panopoli, databile intorno alla fine del I secolo d.C., il professor Martin ha identificato i resti di un libro contenente il poema fisico di Empedocle. Questa identificazione – alla quale ha partecipato anche lo studioso tedesco Oliver Primavesi – ha restituito settantaquattro esametri: venticinque dei quali coincidono con quelli già noti e quarantanove costituiscono una consistente nuova scoperta. I nuovi versi acquisiti permettono di inquadrare in termini più chiari e coerenti il pensiero di Empedocle che è sempre stato soggetto ad interpretazioni contrastanti. Si capisce che l’intento di Empedocle, nello scrivere il suo poema, è essenzialmente didattico: egli si propone, prima di tutto, di ricostruire la genesi del mondo a partire dal suo fondamento. Si capisce anche che il poema fisico è stato scritto per primo rispetto all’altro poema Katharmoi, Purificazioni, in modo da formulare un programma etico, sulla base dei principi fisici costitutivi dell’Universo.

     Con questo nuovo ritrovamento il pensiero di Empedocle appare più chiaro. Quali sono le caratteristiche del pensiero di Empedocle di Agrigento? Empedocle di Agrigento tesse la trama della sua riflessione per definire come è fatto l’Universo (la cosmologia) e da dove e come nascono tutte le cose, tutti gli esseri (l’ontologia), utilizzando tre fili.

      Il primo filo (giallo) è caratterizzato dal naturalismo della Scuola di  Mileto.

      Il secondo filo (rosso) è caratterizzato dal misticismo di carattere scientifico della Scuola pitagorica.

     E il terzo filo (blu) è un intreccio tra l’idea dell’Essere della Scuola di Parmenide di Elea e l’idea del divenire della Scuola di Eraclito di Efeso (un personaggio che incontreremo a breve).

     Empedocle tesse il suo pensiero con il filo giallo (il naturalismo), il filo rosso (il misticismo) e il filo blu (il razionalismo): e questi sono i colori che utilizza Raffaello per dipingere le vesti del personaggio statuario che, ne La Scuola di Atene, dovrebbe rappresentare Empedocle!

     Penso che questo fatto sia puramente casuale e faccia parte della dinamica della nostra affabulazione didattica anche se questa situazione ha il suo fascino dal punto di vista intellettuale.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale dei tuoi pensieri è colorato di giallo, quale di rosso, quale di blu? 

Scrivi tre frasi in proposito…

     Ma come procede la tessitura del pensiero di Empedocle e perché Empedocle dovrebbe essere rappresentato ne l’affresco del La Scuola di Atene piuttosto che Parmenide? Questa sera non c’è tempo per dare una risposta a questi interrogativi: il viaggio continua la prossima settimana ma una cosa è certa: tanto il pensiero di Parmenide quanto quello di Empedocle sono utili da conoscere – sono propedeutici –sulla via che porta verso la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele alla quale ci stiamo gradualmente  avvicinando.

     La Scuola è qui

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 16, 2009