Autorizzazione all'uso dei cookies

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE C’È IL SILENZIO, L’ARMONIA E L’INQUIETUDINE PITAGORICA ...

Lezione N.: 
10

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele    10-11-12  dicembre 2008

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE

C’È  IL SILENZIO, L’ARMONIA E L’INQUIETUDINE PITAGORICA ...

     Strada facendo siamo arrivati anche alla penultima Lezione dell’anno 2008. Il nostro viaggio di studio – come sapete – ha un obiettivo principale che è quello di conoscere e di capire le parole-chiave e le idee-cardine che caratterizzano la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele e, a questi tre personaggi, ci stiamo gradualmente avvicinando. Dieci settimane fa siamo partiti dall’Areopago di Atene prendendo il passo da una via che è stata chiamata: la via del rispetto della legge quindi abbiamo cominciato il nostro Percorso nel nome di Socrate (che è vissuto fino al 399 a.C.), pensando a Platone (che è vissuto fino al 347 a.C.) e ad Aristotele (che è vissuto fino al 322 a.C.): questi tre significativi modelli culturali – e lo abbiamo imparato – caratterizzano la Storia del Pensiero Umano in modo tale che all’inizio dell’età moderna, del XVI secolo, del 1500, si trovano ad essere protagonisti dell’apparato intellettuale della cristianità (quindi dell’identità culturale che ci è più prossima) e la centralità culturale di queste figure la si può osservare soprattutto nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene e che Raffaello – su mandato di papa Giulio II – ha cominciato a dipingere esattamente cinquecento anni fa dal 1508 al 1511 (e abbiamo anche cominciato a celebrare questo anniversario). Per questo motivo – come ormai ben sappiamo – il nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, avanza su due corsie: la corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia (antica) che attraversa il territorio orfico dell’Ellade.

     Negli ultimi itinerari, procedendo sulla corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco, abbiamo appreso che il primo quadro (il primo cartone preparatorio) di cui si compone La Scuola di Atene rappresenta un rito orfico-dionisiaco.

     Sappiamo che Raffaello, su questo primo quadro, ha dipinto, sul basamento di una colonna dorica, un Libro ideale, tenuto in mano da un personaggio che ha il volto di Fedra Inghirami, questo Libro ideale (come abbiamo studiato) è l’ipotetico contenitore di una serie di libri significativi che illustrano gli aspetti salienti della cultura orfico-dionisiaca (e, a questo proposito, abbiamo costruito un catalogo), ma soprattutto, questo Libro ideale, custodisce lo strumento principale della promozione umana: l’alfabeto. Sappiamo che, nel mito, è Cadmo, il nonno di Dioniso, a portare in Grecia dalla Fenicia l’alfabeto e lo utilizza per costruire una città, una polis. Di questo primo quadro abbiamo studiato gli elementi (spesso complessi) che lo compongono, e ora proseguiamo il nostro cammino sulla corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco, ma prima dobbiamo ancora dire una cosa a proposito del ritratto (o dei ritratti) che Raffaello ha eseguito prendendo a modello Fedra Inghirami. Sappiamo che il volto del sacerdote orfico che tiene in mano il Libro ideale appoggiato al basamento della colonna dorica è ritenuto da tutte le studiose e gli studiosi il ritratto di Fedra Inghirami, e non c’è da meravigliarsi perché questo personaggio (che vive nell’ombra della Biblioteca vaticana come se fosse il tempio dei templi) ha un ruolo importante nella ricerca dei materiali storici, letterari, filosofici utili nel progetto di realizzazione de La Scuola di Atene.

     Abbiamo detto, la scorsa settimana, che tra le tante e stupende opere del XVI secolo in mostra nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti possiamo incontrare, nella sala di Saturno, il ritratto di Tommaso Inghirami soprannominato Fedra da Giulio II. Se vi siete informate, se vi siete informati, avrete scoperto che questo ritratto è stato dipinto intorno al 1514. E poi, forse, avete anche scoperto che a Boston, di questo ritratto, ce n’è una copia identica. È curioso che oggi, oltre ad esserci un enigma (Fedra lo chiama un arcano, un mistero) che riguarda le opere di Nonno di Panopoli (che Fedra ha in parte tradotto e studiato in funzione della realizzazione de La Scuola di Atene), c’è anche un enigma (un arcano, un mistero) che riguarda il ritratto di Fedra Inghirami dipinto da Raffaello. Sono stati eseguiti entrambi da Raffaello i due ritratti? E se non è così qual è la copia autentica e chi ha dipinto (chi ha copiato così abilmente) l’altra? Insomma c’è un Fedra Inghirami fiorentino (un Fedra di Apollo?) e c’è un Fedra Inghirami bostoniano (un Fedra di Dioniso?): vedete quanti affascinanti misteri ci sono da scoprire?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

È successo qualche fatto enigmatico o misterioso che voi possiate raccontare?…

Scrivete quattro righe in proposito

     E ora proseguiamo il nostro cammino sulla corsia moderna che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco osservando che vicino al primo quadro che rappresenta il rito orfico-dionisiaco ci sono alcuni personaggi che attorniano una figura che, con la penna in mano, scrive sul suo libro. Questa figura e i personaggi che la attorniano formano il secondo quadro (il secondo cartone preparatorio) de La Scuola di Atene.

     Questa figura chi rappresenta, chi è questo personaggio?  E soprattutto: che cosa sta scrivendo? Il personaggio che sta scrivendo sul suo libro è Pitagora e questo quadro è intitolato: il “gruppo dei pitagorici”. Dobbiamo notare che tra il gruppo degli orfici-dionisiaci e il gruppo dei pitagorici Raffaello ha dipinto la figura di un ragazzino che ci guarda con uno sguardo intenso, chissà che cosa ci vuole dire: si tratta di un personaggio enigmatico, è una metafora del mistero oppure si tratta di un semplice elemento ornamentale?

     Tra questo ragazzino e le spalle di Pitagora ci sono quattro personaggi due dei quali stanno guardando con molta attenzione il libro su cui il filosofo sta scrivendo. Sull’identità di questi personaggi non abbiamo delle certezze: possiamo fare delle ipotesi. Prima di tutto possiamo notare che queste figure hanno età diverse, sono di nazionalità diverse, portano copricapo diversi: uno ha in testa un cappuccio ricamato di foggia bizantina che mostra un profilo dallo sguardo intenso, mentre quello che sta in piedi, sporgendosi in avanti, porta un turbante, e questo sta ad indicare la diffusione a largo raggio del messaggio pitagorico, da oriente a occidente.

     Il personaggio di fianco a Pitagora, con la testa che sporge dal libro, è un giovane che sostiene una lavagna appoggiata a terra sulla quale c’è un disegno: chi potrebbe essere questo personaggio e che cosa rappresenta il disegno sulla lavagna? Rappresenta il famoso teorema di Pitagora oppure un altro teorema in cui la geometria viene applicata da un’altra disciplina?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

E voi ve lo ricordate il teorema di Pitagora?Lo avete studiato, lo avete applicato, lo vorreste studiare ?

Scrivete quattro righe in proposito: sono indimenticabili ricordi di Scuola

Pier Paolo Pasolini ha girato nel 1968 un film che si intitola Teorema, lo avete mai visto ?…

     Chi potrebbe essere questo personaggio che sta accucciato di fianco a Pitagora, con la testa che sporge dal libro, e che sostiene la lavagna appoggiata a terra sulla quale c’è un disegno ben visibile che, quindi, si presta ad essere decifrato per fornire eventuali indizi sull’identità di questa figura? Tutte le commentatrici e i commentatori sostengono che questa figura rappresenta uno scrittore e uno scienziato che ha messo a punto le idee cardine della dottrina di Pitagora e che si chiama Archita di Taranto (430 a.C. circa - 360 a.C. circa). Archita di Taranto ha dato continuità alla Scuola pitagorica seguendone la rigida dottrina morale. Secondo la leggenda (voi sapete – lo abbiamo studiato a suo tempo – che intorno alla figura di Pitagora e dei suoi discepoli è fiorita una vastissima letteratura leggendaria), qualcuno sostiene che in Archita si sia reincarnato Pitagora. A parte le leggende dobbiamo dire che, circa centocinquant’anni dopo la comparsa e la scomparsa del Maestro, la Scuola e il pensiero pitagorico è più vivo e produttivo che mai e questo merito viene attribuito soprattutto ad Archita. Archita di Taranto è considerato, nella Storia della cultura, il fondatore della meccanica: gli viene attribuita l’invenzione della vite, della puleggia e di una colomba meccanica che è capace di volare. Archita di Taranto, come tutti i pitagorici, ha studiato l’acustica, sviluppando le intuizioni di Pitagora sulla musica, sull’armonia.

     Sappiamo – perché sono citate da molti autori – che Archita di Taranto ha scritto un numero considerevole di opere i cui testi sono andati tutti perduti. L’unica opera di Archita di Taranto di cui rimane una serie di frammenti è intitolata Sulla natura e l’autore la dedica a Pitagora come se volesse attribuirne a lui il contenuto.

     E, allora, sulla lavagna che tiene in mano questo personaggio, quale teorema viene rappresentato?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Avete mai posseduto una lavagnetta?… Qual è il ricordo che vi è rimasto più impresso di quando siete state chiamate, siete stati chiamati, alla lavagna?… Qualche volta siete state messe, siete stati messi dietro la lavagna?…

Scrivete quattro righe in proposito…

     E allora, visto che è subito comparsa la parola “teorema”, è d’obbligo fare una riflessione su questo importante termine. E, a questo proposito, dobbiamo domandarci perché gli addetti ai lavori, che si occupano della realizzazione de La Scuola di Atene (i quali – Fedra Inghirami, il Bramante, Raffaello e lo stesso Giulio II – sono sempre in riunione nell’ufficio del papa), perché definiscono “teoretico” il Pensiero di Pitagora?

     Ma prima di rispondere a questa domanda dobbiamo puntare l’attenzione anche sulla figura alle spalle di Pitagora che sta in piedi, sporgendosi in avanti, e che, in testa, porta un turbante. Tutte le commentatrici e i commentatori sostengono che questa figura, che sta in piedi alle spalle di Pitagora sporgendosi in avanti e che porta in testa un turbante rappresenti un personaggio che si chiama Alcmeone di Crotone.

     Alcmeone di Crotone è il medico di fiducia di Pitagora e Raffaello dipinge questa figura con il turbante (oltre che per internazionalizzare il pitagorismo) anche perché questo copricapo, durante il Medioevo e il Rinascimento, è un oggetto che viene accostato alle figure degli scienziati e in particolare dei medici perché la scienza medica ha un particolare sviluppo nel mondo arabo (la Letteratura del Corano tiene la scienza in grande considerazione) quindi è il particolare fondamentale che aiuta a dare un’identità a questo personaggio. Il medico Alcmeone di Crotone – che è, quindi, da considerarsi un contemporaneo di Pitagora – ha scritto, anche lui, un trattato dal titolo Sulla natura (di cui ci rimangono una serie di utili frammenti) che dedica a Pitagora come se volesse attribuirne al Maestro il contenuto.

     Alcmeone di Crotone, nella sua opera Sulla natura, spiega la dottrina pitagorica delle opposizioni (fra un po’ ne parliamo): questa concezione fa anche pensare al rapporto tra Pitagora e Zarathustra (e questo è un altro elemento che rimanda al turbante). Alcmeone di Crotone delinea una teoria medica partendo dalla dottrina pitagorica delle “opposizioni”, per cui ogni manifestazione della vita umana risulta dal concorso di qualità e di potenze opposte, quindi anche la salute dipende dall’equilibrio di queste potenze opposte e la malattia dipende dal prevalere delle une sulle altre. Alcmeone di Crotone viene considerato il padre dell’anatomia umana e lo scopritore della tuba uditiva (chiamata poi tromba di Eustachio) e anche l’identificatore dei nervi ottici. Alcmeone di Crotone pensa che l’organo della vita spirituale sia collocato nel cervello della persona e poi – secondo la tradizionale dottrina orfico-pitagorica – ribadisce comunque il concetto dell’immortalità dell’anima.

     E ora torniamo ad occuparci della parola “teorema” perché – come abbiamo detto – è d’obbligo fare una riflessione su questo importante termine. E, a questo proposito, dobbiamo – ancora una volta – domandarci perché gli addetti ai lavori, che si occupano della realizzazione de La Scuola di Atene (i quali – Fedra Inghirami, il Bramante, Raffaello e lo stesso Giulio II – sono sempre in riunione nell’ufficio del papa), perché definiscono “teoretico” il Pensiero di Pitagora?

     La parola “teorema” evoca in noi interrogazioni di matematica, ma dobbiamo riflettere sul fatto che, in greco, questa parola significa: “meditazione”, “riflessione profonda”. La parola “teorema”, poi, rimanda ad alcune azioni importanti e in questo caso significa: “guardare dentro le cose al di là dell’apparenza”, “cercare la natura divina dell’Essere”, e tutto questo perché nella radice della parola “teorema” c’è il termine “theos che significa “dio” insieme al verbo “remein” che significa “osservare”, “considerare”. Pitagora con la sua Scuola è stato l’iniziatore di quel tipo di vita detta, appunto,  “teoretica”, cioè una vita di carattere contemplativo.

     Le Scuole pitagoriche – noi di Pitagora ce ne siamo occupati ampiamente viaggiando insieme ad Erodoto due anni fa (e, chi vuole, può leggere quelle Lezioni sul nostro sito www.inantibagno.it) e quindi adesso ci soffermiamo solo su alcuni aspetti inerenti a questo Percorso) hanno continuato ad evolversi nel tempo, e dobbiamo ricordare che in queste Scuole neopitagoriche, nel I secolo d.C., viene elaborato il cosiddetto Corpus Ermeticus un’opera enigmatica, dalla quale emerge il misterioso personaggio di Ermete Trismegisto, tradotta in latino nel 1463 da Marsilio Ficino. Sono neopitagoriche le Scuole di Apollonio di Tiana, di Nicomaco di Gerasa, di Numenio di Apamea che elaborano il concetto della “triplice divisione della divinità” e, su questo concetto si sviluppa – attraverso un lungo e complesso itinerario intellettuale (dal neopitagorismo al neoplatonismo) – la definizione trinitaria del dio cristiano.

     Ora noi non possiamo occuparci di questi temi perché finiremmo in un altro territorio, su un altro Percorso (sul quale probabilmente viaggeremo prossimamente), adesso noi dobbiamo mantenere la barra in direzione della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     C’è da dire ancora – ma anche questo argomento si trova su un altro territorio da attraversare prossimamente – che lo stile di vita “pitagorico” condiziona anche i cosiddetti Padri del deserto come Epifanio e Antonio, e i Padri della Chiesa del III, del IV e del V secolo come Basilio, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, Gerolamo, i quali mettono in pratica una vita vissuta nella ricerca della “purificazione” (un classico concetto pitagorico entrato nel Cristianesimo) mediante l’impegno intellettuale e la contemplazione dell’armonia dell’Universo.

     La Scuola pitagorica – e abbiamo incontrato i primi due rappresentati importanti – supera la mentalità magica dell’Orfismo-dionisiaco basata solo sulla potenza taumaturgica e scaramantica dei riti. Pitagora inizia la sua riflessione partendo dall’Orfismo ma poi lo stile di vita “pitagorico” va al di là e trasforma la mentalità orfica attraverso il culto della scienza (dello studio e della ricerca in discipline come la meccanica, l’anatomia, l’acustica), e la scienza diventa il più alto dei misteri (dei riti) e il più valido dei mezzi di purificazione. La persona – secondo il Pensiero di Pitagora – si purifica (nel corpo e nell’anima) non se compie dei riti propiziatori ma dedicandosi allo studio, alla ricerca, alla contemplazione.

     Queste idee pitagoriche entrano in due dialoghi di Platone: il Fedone che abbiamo già citato (e incontreremo ancora) e il Gorgia, il dialogo sulla retorica, nel quale Platone dice la sua su un tema attualissimo scrivendo: “per essere felici è meglio dedicarsi alla ricerca della Verità (con lo studio e la riflessione) e alla ricerca dell’armonia (con una vita sobria) rimanendo in disparte piuttosto che ambire al successo cercando di mettersi in mostra con le chiacchiere (lalèoi), le menzogne (psèudoi) e i banchetti lussuosi (deìpnoi tryphètoi)”, e Platone aggiunge, parafrasando Pitagora: “chi avrà successo con questi mezzi contribuirà a far fallire la polis”. Nel XVI secolo, in età moderna, molti intellettuali rinascimentali sperimentano uno stile di vita “pitagorico” basato sullo studio, la contemplazione, la ricerca dell’armonia.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Nel vostro modo di vivere ci sono dei comportamenti ispirati dalla sobrietà che vi sembra si avvicinino allo stile di vita “pitagorico”?…  Bastano due righe di scrittura per rispondere

     Pitagora (571- 497 a.C. circa) – come sappiamo (molti di noi lo hanno incontrato recentemente) – è nato nell’isola di Samo, poi è emigrato nella Magna Grecia e ha fondato a Crotone una comunità filosofico-religiosa con intendimenti anche di carattere scientifico. Secondo Fedra Inghirami il discepolo più importante di Pitagora è Filolao di Crotone, quindi si pensa che – nel quadro dei pitagorici ne La Scuola di Atene – il personaggio più anziano che prende appunti alle spalle del maestro sia Filolao di Crotone.

     Perché Filolao di Crotone viene considerato da Fedra Inghirami il più importante tra i discepoli di Pitagora? Filolao di Crotone (470 a.C. circa - 400 a.C. circa) è considerato importante perché è il matematico che ha portato la dottrina della Scuola pitagorica fuori dalla Magna Grecia fino ad Atene. Filolao di Crotone viene ricordato soprattutto come astronomo: nelle sue numerose opere (ne rimangono frammenti nelle citazioni di altri autori) sviluppa e perfeziona la teoria cosmologica di Pitagora con la Terra che ruota come una sfera intorno a un punto centrale dell’Universo, così come ruota il Sole e ruotano i pianeti e le stelle e anche un misterioso pianeta invisibile che si chiama l’Antiterra (secondo la teoria pitagorica degli opposti: se c’è la Terra è necessario che ci sia anche l’Antiterra). Questo misterioso pianeta non lo possiamo vedere – afferma Filolao riprendendo il pensiero di Pitagora – perché siamo attirati e sempre rivolti verso un punto armonico dell’Universo che è antitetico all’Antiterra. L’unica opera di Filolao di Crotone di cui rimane una serie di frammenti è intitolata Sulla natura e l’autore la dedica a Pitagora come se volesse attribuirne a lui il contenuto.

     La Scuola pitagorica considera come principio primo della realtà, come arché (che come sapete, in greco, significa “principio”), il numero. Il “numero” – secondo il Pensiero di Pitagora – è (l’arché) il principio di tutte le cose perché ogni cosa è misurabile ed enumerabile, quindi l’esistenza della realtà è sottoposta al “numero”. E come si traduce in greco ionico la parola “numero”? La parola numero, in greco ionico, corrisponde al termine aritmós. Se analizziamo la parola constatiamo la presenza, come prima lettera, di una alfa che, in greco, (a volte, come in questo caso) rappresenta una negazione, significa “non” oppure “senza”. Che cosa vuol dire che, in greco ionico, la parola numero, aritmós, corrisponde a un termine che coincide con l’espressione: “senza ritmo, non ritmico, senza cadenza”? Significa – ribadisce Pitagora – che il numero, aritmós, è un “punto fermo” e – secondo la dottrina pitagorica – su questo “punto fermo” si regge l’Armonia dell’Universo.

     Quando in questo momento storico (siamo nell’Età assiale) si parla di “numero” non si parla ancora di cifra arabica, cioè di quei simboli (come li hanno codificati gli Arabi nell’VIII secolo) che definiscono l’idea di una quantità. I numeri per Pitagora (per la cultura del primo Ellenismo) hanno una natura e un’estensione di tipo geometrico che corrisponde alla posizione dei punti nello spazio. I numeri, per la cultura del primo Ellenismo, sono punti che servono a dare forma alle figure geometriche e quindi possono essere triangolari, quadrati, cubici ed è per questo motivo che i “numeri” giustificano le molteplici qualità del Mondo per cui ne sono il principio. Il numero è considerato quindi come “l’indicatore dell’Essere” perché le cose possono apparire mutevoli ma attraverso il numero (che è l’arché, che è il principio) rimangono sostanzialmente immutate,  continuano ad Essere. Per esempio – spiega Filolao di Crotone – ammettiamo di essere cinquanta: se dieci escono, qui rimaniamo quaranta, ma, in realtà, siamo sempre cinquanta perché i dieci che sono usciti non hanno cessato di Essere, quindi il numero è un predicato dell’Essere.

     Il numero assume per la Scuola pitagorica un forte valore simbolico e i numeri rappresentano la realtà ma, soprattutto, riproducono la “potenza simbolica” della realtà, ed è in questo senso che i “numeri” diventano (e continuano ad essere) simboli religiosi, formule magiche, modelli di seduzione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Qual’è il numero che vi è più simpatico?… Avete tre numeri da giocare al Lotto  ? Provate a dare i numeri… In questo momento giochereste il pari o il dispari?…

Scrivete tutto in quattro (è magico questo numero?) righe

     Tutto deriva dall’Uno – predica Pitagora – che è il principio di tutte le cose, che è il concetto di Dio e questo Dio, Unità assoluta viene chiamato Monade. La Monade è eterna, immutabile e annulla in sé, in quanto Unità, la molteplicità delle cose, annulla in sé i contrasti e le antitesi che si verificano nell’Universo, nel Mondo creato. Dall’Unità derivano il pari e il dispari e, per conto suo, l’Uno non è né pari né dispari, e Pitagora lo chiama “parimpari” perché può rendere dispari il pari e pari il dispari. Il pari rappresenta l’illimitato, il dispari rappresenta il limitato e, dalla loro opposizione – cioè dal contrapporsi del pari e del dispari – nascono i contrasti della Natura che le permettono la vita, che le assicurano l’esistenza. Questi contrasti (queste “aporie”) – secondo Filolao di Crotone – sono dieci: limite e illimitato, dispari e pari, unità e molteplicità, destra e sinistra, maschio e femmina, quiete e movimento, retta e curva, luce e tenebra, bene e male, quadrato e rettangolo. Questi sono i contrasti, le “aporie”, che stanno a fondamento della Natura e ne garantiscono l’essenza.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Tra i dieci contrasti, le dieci “aporie” di Pitagora: limite e illimitato, dispari e pari, unità e molteplicità, destra e sinistra, maschio e femmina, quiete e movimento, retta e curva, luce e tenebra, bene e male, quadrato e rettangolo… Voi quale contrasto, quale “aporia” scegliete per prima?

Scrivetela… 

Potete anche provare a mettere le “aporie pitagoriche” in ordine di importanza: scrivete il vostro “catalogo aporetico pitagorico”…

     Nel Pensiero di Pitagora quattro numeri sono armonici, sono magici: l’Uno che esprime il punto, il Due che esprime la linea-retta, il Tre che esprime la superficie (il triangolo), il Quattro che esprime il volume (la piramide - il solido più semplice). Il numero Dieci, poi, che è la somma di questi quattro numeri nobili, esprime la pienezza, rappresenta la perfezione attraverso il triangolo divino chiamato la tetraktys, difatti, anche sul Catechismo cristiano, quando è stato necessario dare una forma a Dio, è stato usato il divino triangolo (e quante volte lo abbiamo disegnato sui nostri quaderni del Catechismo! ), la Trinità cristiana e la Tetraktys pitagorica si sono così sovrapposte. Quindi esiste il Triangolo dei numeri, il Quadrato dei numeri, il Cubo dei numeri e questa visualizzazione geometrica dei numeri che viene riportata nelle tavole magiche dei numeri è un aspetto straordinario della cultura pitagorica che abbiamo ricevuto in eredità.

     Tutto l’Universo, rappresentato dal numero, si rivela come un insieme ordinato, che si esprime nella parola Còsmos. E poiché il rapporto tra i numeri è armonico, tutto l’Universo è armonia, è musica, perché la musica è un rapporto ritmico basato sul numero. La diversità del suono di uno strumento a corde – Pitagora è anche un costruttore di strumenti musicali – dipende dalla lunghezza e dalla misura delle corde, mentre la diversità del suono di uno strumento a fiato dipende dalla lunghezza e dalla misura delle canne, e la diversità del suono in uno strumento a percussione dipende dal peso dell’oggetto che percuote e dalla dimensione della superficie percossa. La Scuola pitagorica ha scoperto i rapporti armonici di ottava, di quinta, di quarta e le leggi matematiche che le governano.

     E su questo tema s’innesta un’importante riflessione: qual’è il contrasto fisico (naturale) dell’armonia? Il contrasto fisico (naturale) dell’armonia è il silenzio e, quindi, per ascoltare l’armonia del Cosmo dobbiamo favorire il silenzio: l’aporia più giusta, il contrasto più virtuoso è – secondo il Pensiero di Pitagora – quello tra il silenzio e l’armonia. La Scuola pitagorica è, per sua natura, ascetica e contemplativa e ciò deriva dal fatto che l’essenza della persona trova il suo modo di essere nel contrasto tra il corpo e l’anima: l’anima è l’elemento armonico e il corpo, per poter entrare in contatto con la propria anima, deve imparare a fare silenzio. Il fare silenzio non equivale allo stare zitti, ma significa dare ai bisogni materiali una dimensione marginale e alle esigenze dell’anima una posizione centrale, quindi – sostiene Pitagora – è necessario “purificare” il corpo per dare il maggior spazio possibile all’anima. Prima di tutto ci si purifica – secondo la Scuola pitagorica – contemplando le figure geometriche che danno forma, che danno armonia, alle cose, e poi – secondo la Scuola pitagorica – non c’è niente di meglio che la musica per purificare l’anima.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il triangolo, il quadrato, il rettangolo, il cerchio… Quale, di queste quattro, è la vostra figura geometrica ideale?  Potete anche disegnarla…

C'è una musica che ha la capacità di creare in voi l’armonia?

Scrivete quale, basta un titolo…

     E allora, dopo aver studiato o ripassato queste cose, torniamo al quadro dei pitagorici (al secondo cartone preparatorio) de La Scuola di Atene per constatare che sulla lavagna appoggiata a terra (di qui eravamo partiti), sostenuta dal giovane che si trova davanti a Pitagora e che richiama il personaggio di Archita di Taranto, c’è rappresentata la teoria musicale (il cosiddetto “teorema armonico”) delle quattro corde. E vedete che, per decifrare quel quadratino dell’affresco (la lavagnetta nel quadro dei pitagorici), è necessario percorrere un intero itinerario di studio: lo sostiene anche Pitagora che per purificarsi è necessario alfabetizzarsi. Raffaello – con l’apporto intellettuale di Fedra Inghirami – dipinge questa lavagnetta per esprimere l’idea pitagorica che la musica è il teorema che purifica l’anima e l’anima purificata è armonia nel Mondo, e l’armonia del Mondo è lo strumento di collegamento con l’armonia di tutto l’Universo. Ecco che le urla scomposte dei riti dionisiaci, attraverso la riforma dell’Orfismo attuata dalla Scuola di Pitagora, diventano armonia. Ma il concetto di armonia, con la sua valenza apollinea, per poter esistere, oltre al suo contrario fisico (naturale) che è il silenzio, ha bisogno anche di essere legato ad un altro elemento contraddittorio (aporetico) di tipo psicologico (potremmo dire metafisico) che è l’inquietudine (con la sua valenza orfico-dionisiaca).

     Il programma ascetico della Scuola di Pitagora è molto affascinante (noi ci siamo limitati a descrivere solo alcuni elementi funzionali a questo Percorso) proprio perché è un programma che svela delle contraddizioni (delle aporie) e non fa sì che la persona che lo segue si chiuda nel recinto della sua beatitudine privata ma apre una prospettiva, priva di certezze ma feconda, che guarda verso la rete delle conoscenze. Anche quando l’Armonia dei Mondi, con l’esercizio della contemplazione e della meditazione, viene percepita, quasi sempre si presenta alle orecchie, alla mente e ai pensieri, in modo non molto rassicurante e anche se questo effetto lì per lì può deludere poi però costituisce con l’esercizio un elemento propulsore.

     Infatti la percezione dell’Armonia dei Mondi che si traduce nell’ascolto dell’allarmante, dell’angosciante, del preoccupante silenzio cosmico provoca nell’animo della persona una profonda inquietudine esistenziale che, se ben guidata, porta alla riflessione e spinge alla ricerca. E l’obiettivo dei pitagorici è proprio questo: far capire che l’Armonia (noi abbiamo addolcito questa parola) non è un fenomeno acquietante, consolatorio, tranquillizzante, rabbonente. Il concetto pitagorico dell’Armonia, che si fonde con l’esperienza dell’ascolto del silenzio cosmico, è comprensibile solo in concomitanza con l’esperienza dell’inquietudine esistenziale. Con l’idea pitagorica della ricerca dell’Armonia – che è la condizione essenziale perché la persona possa entrare in contatto con il silenzio cosmico e misurarsi con l’inquietudine esistenziale – comincia una riflessione nella Storia del Pensiero Umano che dura fino all’età moderna (questa riflessione è nell’affresco che stiamo osservando) e poi continua in età contemporanea.

     E ora, a proposito di questo tema e dell’affresco che stiamo osservando – approfittiamo per tirare un filo (per produrre un’inferenza) tra il primo quadro che abbiamo studiato e che rappresenta il pensiero orfico-dionisiaco e il secondo quadro che stiamo studiando e che rappresenta il pensiero orfico-pitagorico. Chi facciamo camminare su questo filo, stando in equilibrio, da un quadro all’altro? Il personaggio che in questo momento sta camminando in equilibrio tra un quadro e l’altro è Nonno di Panopoli (ancora lui!): perché Nonno di Panopoli sta facendo questo esercizio di acrobazia intellettuale? Di Nonno sappiamo con certezza solo il luogo di nascita che è Panopoli, in Egitto, una ricca città nel delta del Nilo e sappiamo anche che a Panopoli si è sviluppata – ed ha avuto il suo apice tra il V e il VI secolo – una delle più importanti Scuole Neopitagoriche dell’antichità e, pur senza possedere dati se non i riferimenti presenti nelle sue opere, si può ipotizzare – secondo le studiose e gli studiosi di filologia – che ci sia una relazione tra la figura di Nonno di Panopoli e il pensiero pitagorico.

     Le Dionisiache è un’opera dove – abbiamo detto – abbondano le scene erotiche. Queste scene sono una metafora dell’esercizio dell’apprendimento perché l’educazione dei sensi, il controllo del desiderio, l’orientamento dell’energia sensuale, è propedeutica alla conoscenza. Le scene amorose nel testo delle Dionisiache sono capolavori poetici e queste scene contengono tutte il ronzio melodioso, quasi rassicurante, del tafano fremente (l’oistros), ma questa musica prelude al colpo del pungiglione che arriva inaspettato, doloroso, provocatorio, stimolante, inquietante. Anche il silenzio cosmico sembra melodioso, quasi rassicurante, ma prelude all’inquietante interrogativo esistenziale che si presenta puntualmente alla nostra mente come una stilettata: che cosa ci faccio io qui (perché sono nato con questa identità, perché io sono proprio io)?

     Noi – in funzione del nostro Percorso – abbiamo letto una delle scene più sensuali, quella in cui, Nonno, racconta l’incontro amoroso tra Zeus e Semele in cui avviene il concepimento di Dioniso. Ora rileggiamo solo un frammento da questo brano, tratto dal canto settimo delle Dionisiache, in cui incontriamo l’Oistros Bròmio, il tafano fremente, con il quale Dioniso viene identificato fin dalla nascita. Ma soprattutto dobbiamo leggere questo frammento perché Nonno di Panopoli sta camminando in equilibrio sul filo tra il primo quadro (orfico-dionisiaco) e il secondo quadro (orfico-pitagorico) de La Scuola di Atene che è sempre il nostro spazio culturale di riferimento.

     Abbiamo studiato il tema della problematica identità intellettuale di Nonno di Panopoli che si presenta come un enigma, come un arcano (a detta di Fedra Inghirami), come un mistero. Dov’è la chiave di questo nuovo enigma? E chissà se Fedra Inghirami si è accorto di questo ulteriore arcano? In un verso del brano che abbiamo già letto, tratto dal canto settimo delle Dionisiache, le parole mostrano quello che è stato chiamato il segreto pitagorico di Nonno di Panopoli. La parola segreto fa riferimento al fatto che la Scuola pitagorica richiede ai suoi adepti di mantenere il segreto sui misteri che la Scuola insegna. E, allora, rileggiamo questo frammento.

LEGERE MULTUM….

Nonno di Panopoli,  Le Dionisiache  Canto 7  (V-VI sec d.C.)

Premeva il dio (Zeus) le labbra eccitate sulla bocca della fanciulla (Semele) ridente,

facendola inebriare nell’abbraccio potente, cospargendola col nettare d’amore

perché concepisse un figlio, signore della nettàrea vendemmia

e come presagio di eventi futuri, levava in alto un grappolo,

oblio di tutti gli affanni, farmaco di molti malanni.

In realtà tutta la terra rideva, un vigneto fitto di foglie cresceva

e correva intorno al letto finalmente fecondato

e sulle pareti sbocciavano fiori di prato, stillanti rugiada oleosa e odorosa

per coronare dell’Oistos Bromio, il tafano fremente, la nascita misteriosa.

Sul letto sgombro di nubi, Zeus fece echeggiare, con sentimento sincero,

dai più lontani e profondi silenzi, gli armoniosi ma inquietanti fragori del tuono,

preannunciando i timpani delle feste notturne di Dioniso a celebrarne il mistero

con il loro incessante, assordante, ritmico, ditirambico, orgasmico suono...

     Nell’undicesimo verso di questo frammento Nonno scrive: «Zeus fece echeggiare, con sentimento sincero, dai più lontani e profondi “silenzi”, gli “armoniosi” ma “inquietanti” fragori del tuono…» e mette in fila le tre fondamentali parole-chiave – “silenzio”, “armonia” e “inquietudine” – della cultura neopitagorica. C’è anche, quindi, un “segreto pitagorico” in Nonno di Panopoli? E il neopitagorismo è la sua identità intellettuale di riferimento?

     Nonno cammina in equilibrio sul filo dell’intelligenza e ci fa sapere che il silenzio, l’armonia e l’inquietudine sono tre situazioni strettamente legate tra loro. Il fenomeno dell’inquietudine, provocato dall’armonico silenzio cosmico, si è dimostrato – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – intellettualmente molto produttivo e ha coinvolto, anche attraverso l’immagine de La Scuola di Atene, scrittrici e scrittori di tutte le epoche a cominciare dai tre personaggi ai quali ci stiamo avvicinando: Socrate, Platone e Aristotele. L’Armonia – come il tafano fremente – mette la persona di fronte alla coscienza di esistere, e il prendere coscienza di esistere inquieta profondamente perché suscita una domanda fondamentale: l’esistenza fisica conduce all’essenza metafisica?

     Da 2500 anni questo interrogativo pitagorico – che ha trovato il suo sviluppo nella sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele – ci accompagna sui sentieri della Storia del Pensiero Umano. Questo concetto lo abbiamo incontrato – in un Percorso di qualche anno fa – nei Pensieri (1669) di Blaise Pascal.

LEGERE MULTUM….

Blaise Pascal, Pensieri (1669)

Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi atterrisce. Smarrito in questo remoto angolo della natura. Che cos’è l’essere umano?

     Una delle opere di Fernando Pessoa (1888-1935) – uno scrittore portoghese che noi conosciamo bene per averlo incontrato molte volte nei nostri Percorsi – ha un titolo molto esplicito: Il libro dell’inquietudine. Leggiamo una pagina da questo libro – che è considerato uno dei capolavori di Pessoa – il cui testo ha uno spiccato carattere neopitagorico, anche se etichettare Pessoa, e questo vale anche per Nonno di Panopoli, risulta un’operazione molto difficile.

LEGERE MULTUM….

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine  (1914, prime stesure)

La coscienza di esistere mi opprime un po’, con tutto il suo mistero e la sua forza di compresa profonda incomprensione. La coscienza di esistere è il tormento primo e ultimo della ragione. Tutta la costituzione del mio spirito è indecisione e dubbio. Niente è o può essere positivo per me; le cose mi fluttuano intorno e anch’io fluttuo con esse nell’incertezza di me stesso. Tutto è per me incoerenza e cambiamento. Tutto è misterioso e gravido di significato. Ogni cosa è un simbolo sconosciuto dello Sconosciuto. Ne consegue paura, mistero, un timore sovrannaturale.

A causa delle mie tendenze naturali, del modo nel quale sono stato educato fin dall’infanzia, per l’influenza degli studi intrapresi sotto la loro spinta, per tutto questo ho un tipo di carattere assorto, egocentrico, taciturno, non autosufficiente ma smarrito in se stesso. Tutta quanta la mia vita è stata una vita di passività e di sogno. Non ho mai preso una decisione che fosse nata dal mio autocontrollo, mai c’è stata una manifestazione della mia volontà cosciente. I miei scritti sono rimasti tutti incompiuti; sempre si intromettevano nuovi pensieri, straordinarie e inevitabili associazioni di idee che avevano come limite soltanto l’infinito. Non ce la faccio a smettere di odiare l’idea di portare a compimento qualunque cosa; a proposito delle cose più semplici, nascono diecimila pensieri, e diecimila associazioni di questi diecimila pensieri, e non ho la forza di volontà per eliminarli o per trattenerli, né per riunirli in un pensiero centrale, nel quale i particolari poco importanti potrebbero perdersi. Io non pondero, sogno; non mi sento ispirato, deliro. So dipingere, ma non ho dipinto mai; so comporre musica, ma non l’ho mai composta. Il mio carattere consiste nell’odio per il principio e per la fine delle cose, giacché sono punti definiti. Mi angoscia l’idea che possa trovarsi una soluzione per i più nobili e alti problemi della scienza e della filosofia; mi fa orrore che qualsiasi cosa possa essere decisa da Dio o dal mondo. Sebbene sia stato sempre un lettore vorace e appassionato, non ricordo nessuno dei libri che ho letto, tali erano state, mentre stavo leggendo, le condizioni di lettura del mio spirito, miei sogni, o meglio, provocazioni di sogno. Più che incoerente è vago il mio ricordo degli accadimenti, delle cose esterne. Rabbrividisco nel pensare quanto poco sia rimasto nel mio spirito della mia vita passata. Io, l’essere umano che afferma che l’oggi è un sogno, sono meno di una cosa di oggi. Vale di più, amici miei, l’ombra di un albero che la conoscenza della verità, perché l’ombra dell’albero è vera almeno finché dura, e la conoscenza della verità è falsa già nel momento in cui la si conosce. Vale di più, per un giusto intendimento, il verde delle foglie che un grande pensiero, poiché il verde delle foglie potete mostrarlo agli altri, mentre non potreste mai mostrare agli altri un grande pensiero. Nasciamo senza saper parlare e moriamo senza aver saputo dire. La nostra vita trascorre tra il silenzio di chi non parla e il silenzio di chi non fu capito, e intorno a tutto questo, come un’ape in un luogo senza fiori, germoglia incognito un inutile destino e pensare che l’Essere umano potrebbe, se possedesse la vera saggezza, godere dell’intero spettacolo del mondo con tutta la sua Armonia, da una sedia, senza saper leggere, senza parlare con nessuno, solo con l’uso dei sensi e con un’anima incapace di essere triste.

     Fernando Pessoa – un poeta raffinato, uno scrittore non facile da leggere ma ricco di fascino – interpreta con grande efficacia il contrasto che viene a determinarsi tra l’armonia e l’inquietudine.

     E, a proposito del significativo contrasto tra l’armonia e l’inquietudine, l’ultima volta che abbiamo incontrato Pitagora è stato quando ci ha accompagnate, ci ha accompagnati (in compagnia di Erodoto), da Crotone a Catania perché potessimo incontrare i Viceré (molte e molti di voi probabilmente ricordano questa situazione). Naturalmente, sapete tutte e tutti, che I Viceré è il titolo di un romanzo di Federico De Roberto pubblicato nel 1894 di cui la Scuola, a suo tempo, ha cercato di favorire la lettura perché si tratta di un testo fondamentale (come I promessi sposi) per conoscere e per capire la nostra storia nazionale.

     Perché, questa sera, chiamiamo in causa il romanzo I Viceré (di cui si consiglia la lettura se qualcuna o qualcuno di voi non lo ha ancora letto)? Il romanzo I Viceré di Federico De Roberto è una saga narrativa nella quale si racconta la storia di tre generazioni della potente famiglia catanese degli Uzeda di Francalanza. Gli Uzeda di Francalanza sono di antica origine spagnola, e discendono da quell’Uzeda che è Viceré (di Spagna) al momento del terribile terremoto che ha devastato Catania e tutta la Sicilia nel 1693. Abbiamo studiato che nella storia della Sicilia (e chi va a visitare la Sicilia deve tenerne conto) c’è uno spartiacque: prima e dopo il terremoto del 1693.

     La famiglia degli Uzeda di Francalanza, alla metà del 1800, è pronta a tutto pur di conservare la supremazia anche nella nuova fase storica che sta interessando la Sicilia e che comporta l’annessione dell’isola al Regno d’Italia. Il romanzo I Viceré di Federico De Roberto è soprattutto un’implacabile lezione di opportunismo politico. Apparentemente il romanzo non ha protagonisti se non nel senso che ogni personaggio è interprete di un racconto personale dentro ad un grande racconto corale. Nel testo de I Viceré, assistiamo ad un significativo paradosso narrativo perché in realtà una persona di primo piano, una figura di spicco, c’è. È un personaggio centrale e dominante che però non c’è più, ma è paradossalmente presente per assenza. Questo personaggio è donna Teresa Uzeda principessa di Francalanza, e il romanzo inizia con l’annuncio corale della sua morte. Dal grandioso funerale di donna Teresa Uzeda principessa di Francalanza (che viene raccontato con spirito tragicomico dallo scrittore) prende avvio il racconto, e poi la lettura del suo testamento – attesa con impazienza e con apprensione dagli eredi –contiene tutta la trafila della narrazione, contiene il senso della storia.

     I Viceré sono – come il romanzo intitolato I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello e il romanzo intitolato Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa – il prodotto di una delusione, di una disperazione storica per la caduta degli ideali che hanno animato il Risorgimento e il percorso di unificazione della nazione (ed è un tema ancora di attualità). La delusione e la disperazione storica di Federico De Roberto è sostanzialmente identica, in un quadro storico diverso, anche a quella con cui si misura, cinquant’anni dopo (alla fine della seconda guerra mondiale), Vitaliano Brancati – altro grande scrittore siciliano – nel racconto intitolato Il vecchio con gli stivali (1946).

     I romanzi I Viceré di Federico De Roberto, I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello e Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa costituiscono insieme – abbiamo già detto a suo tempo – un caso letterario affascinante e sconcertante. La conoscenza del testo di questi tre romanzi, che sono imparentati tra loro, oggi viene ritenuta indispensabile dagli addetti ai lavori per capire la nostra storia nazionale, ma I Viceré di De Roberto, pubblicato nel 1894, è stato ignorato per più di mezzo secolo, il romanzo I vecchi e i giovani di Pirandello, edito nel 1913, è stato considerato a lungo come una delle opere meno significative di un autore di fama internazionale, e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, come sappiamo, non ha mai, in vita, trovato un editore per Il Gattopardo.

     Abbiamo ripetuto queste cose – che abbiamo già studiato nel secondo Percorso in compagnia di Erodoto – in relazione al Pensiero di Pitagora perché, in definitiva, il tema dell’inquietudine pitagorica è complementare a quello della delusione di De Roberto, di Pirandello, di Tomasi di Lampedusa, di Brancati e di altre scrittrici e scrittori che hanno arricchito nel tempo il fecondo “filone meridionale” della Storia della Letteratura italiana (sconosciuto – come del resto tutta la cultura in genere – alla maggior parte delle cittadine e dei cittadini di questo paese).

     Poi – approfittando della figura di Pitagora che campeggia nell’affresco de La Scuola di Atene – ci siamo ritrovate e ritrovati ancora una volta a Catania perché dobbiamo presentare un libro che ha molte cose in comune con I Viceré sebbene sia un romanzo del ’900 rispetto al libro di De Roberto che è un tipico romanzo de l’800, poi il libro che dobbiamo presentare ha subito la stessa sorte (ed è per questo motivo che li abbiamo ricordati) dei romanzi I Viceré, I vecchi e i giovani e Il Gattopardo: infatti, anche il testo di questo libro, per anni, non è stato preso in considerazione dall’editoria e quindi la sua recente pubblicazione presso una grande casa editrice costituisce un avvenimento culturale significativo. Questo romanzo s’intitola L’arte della gioia ed è stato scritto da una scrittrice nata a Catania che si chiama Goliarda Sapienza.

     L’arte della gioia è un libro postumo perché Goliarda Sapienza è morta dodici anni fa. Il manoscritto del testo di questo romanzo è rimasto per vent’anni abbandonato in una cassapanca e, dopo essere stato rifiutato dai principali editori italiani, è stato stampato, nel 1998, in pochi esemplari (con un finanziamento privato di Angelo Pellegrino) da Stampa Alternativa (la casa editrice dei libri a mille lire), ma Goliarda Sapienza era già morta da due anni. In Italia se ne sono accorti in pochi di questo romanzo mentre in Francia, in Germania e in Spagna – dove il testo è stato subito tradotto – ha ricevuto molti riconoscimenti da parte della critica e del pubblico. «Una narratrice siciliana meravigliosa», «una vera rivelazione», «magnifico e commovente: un capolavoro», «un romanzo impostosi con il passaparola», «forse un altro Gattopardo»: con queste parole la stampa francese ha accolto la pubblicazione di questo libro, facendone un vero caso editoriale. In quasi ogni recensione è stata provocatoriamente sottolineata l’incapacità dell’Italia di riconoscere e valorizzare le opere che ha in casa.

     Nel romanzo L’arte della gioia tutto ruota intorno alla figura di Modesta, la protagonista: una donna vitale e scomoda, potentemente immorale secondo la morale comune. Modesta è una donna siciliana, una “carusa tosta” nella quale si fondono la carnalità e l’intelletto, e nel profondo del suo animo il contrasto tra l’armonia e l’inquietudine gioca un ruolo continuo nel bene e nel male. Modesta attraversa bufere storiche e tempeste sentimentali protetta da un infallibile talismano interiore: l’arte della gioia, un talismano che funziona se una persona acquisisce la capacità di essere molto autodisciplinata. Modesta nasce il primo gennaio del 1900 in una casa povera, in una terra ancora più povera. Ma fin dall’inizio è consapevole, con il corpo e con la mente, di essere destinata a una vita che va ben oltre i confini del suo villaggio e della sua condizione sociale. Ancora ragazzina – dopo una serie di drammatici avvenimenti – viene ospitata in un convento e da lì, alla morte della madre superiora che la protegge, viene mandata in un palazzo di nobili. Qui, il suo enorme talento e la sua intelligenza le permettono di prendere in mano le redini economiche della casa, e di trasformarsi in aristocratica (diventa principessa) attraverso un matrimonio di convenienza. Modesta è una seduttrice (c’è dell’erotismo in questo romanzo come nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli), è un’amica generosa, è una madre affettuosa, è un’amante sensuale, è una donna capace di scombinare ogni regola del gioco per imbastire una riflessione, che possa andare oltre le conclusioni più ovvie, sfidando la cultura patriarcale, fascista, mafiosa e oppressiva in cui vive. La figura di Modesta fa attraversare alla lettrice e al lettore – dall’angolo da cui osserva il mondo – la storia del Novecento con quella determinazione che distingue ogni grande personaggio della letteratura universale.

     Goliarda Sapienza (1924-1996) è nata a Catania in una famiglia fortemente impegnata nel movimento socialista europeo del Novecento. A sedici anni si è trasferita a Roma, dove ha studiato all’Accademia di Arte Drammatica. Negli anni Cinquanta e Sessanta ha recitato come attrice di teatro e di cinema lavorando, tra gli altri, con Luchino Visconti nel film Senso, poi con Alessandro Blasetti e con Citto Maselli. Goliarda Sapienza, in vita, ha scritto una serie di romanzi: Lettera aperta (1967), Il filo di mezzogiorno (1969), L’università di Rebibbia (1980), Le certezze del dubbio (1987), che sono stati regolarmente pubblicati. È molto curioso il fatto che L’arte della gioia – il suo capolavoro – sia stato respinto dagli editori più importanti.

     Abbiamo detto che Goliarda Sapienza è nata a Catania in una famiglia fortemente impegnata nel movimento socialista europeo del Novecento. Sua madre, Maria Giudice (il fatto è che i personaggi che hanno fatto la storia della nostra nazione noi li conosciamo molto poco), è stata la (indomita) segretaria della Camera del Lavoro di Torino, in anni, a cavallo tra gli anni Dieci e gli anni Venti, molto travagliati nella storia del movimento operaio. Maria Giudice, quando non poteva prendersi cura dei suoi otto figli – perché doveva occuparsi delle vertenze sindacali in atto (a Maria Giudice si deve la conquista delle nove ore di lavoro) o perché era in galera per avere organizzato gli scioperi spesso insieme con Umberto Terracini – li lasciava a balia ad Antonio Gramsci, che, allora, era giovane redattore del Grido del Popolo il giornale che lei dirigeva. Maria Giudice compare, col suo nome, nel romanzo di Goliarda, e compare anche la socialista russa Angelica Balabanov, che fu sua amica, e pure Carlo Civardi, il militante anarchico da cui Maria Giudice aveva avuto, in libera unione, i primi sette figli. Quando Maria va in missione in Sicilia durante uno sciopero di contadini a riorganizzare il partito socialista, conosce uno dei dirigenti locali, Giuseppe Sapienza detto Peppino, avvocato dei poveri e grande penalista che è stato consulente di Ataturk nella composizione del testo della Costituzione della Turchia che dà il voto alle donne turche già negli anni Venti. Goliarda nasce dall’incontro di Maria Giudice con Peppino Sapienza perché questi due, appena s’incontrano, s’innamorano. Peppino Sapienza è stato un padre speciale che si è occupato con impegno dell’educazione di Goliarda (cercando di formarla in antitesi alla scuola fascista), e l’ha sostenuta con fiducia incrollabile nella sua carriera di attrice.

     Nella primavera del 1942 Goliarda doveva debuttare a teatro in Così è se vi pare di Luigi Pirandello, a Roma, dove era con la madre che si nascondeva nei luoghi più impensati per sfuggire alla polizia nazista e suo padre le scrisse dal carcere, dove si trovava, per antifascismo: «Non essere modesta. Tu non hai nulla da invidiare alla più grandi attrici passate e future, che di presenti non ce ne sono». Forse il nome di Modesta, della protagonista de L’arte della gioia, viene da questa lettera. Certamente il nome Modesta è un paradosso perché il personaggio è tra i più considerevoli del Novecento.

     Goliarda Sapienza scrive in modo molto funzionale alla lettura, scrive per brevi capitoli – sullo stile di Guerra e pace (Guerra e pace in Sicilia) – e spesso il suo testo ricorda lo stile delle rappresentazioni dei pupi siciliani dove tutto avviene senza respiro e senza motivazioni, in una specie di giostra magica. I capitoli contengono ogni volta una sorpresa: gravidanze per lo più extraconiugali, padri sconosciuti e subito incestuosi, seduzioni di uomini, di donne, di monache, di nobili e di mezzadri, mostri che è conveniente sposare, socialisti che vivono l’idea come una religione e ragazze che vivono la disillusione dall’ideologia e dall’impegno.

     Alla fine degli anni Settanta Goliarda Sapienza ha vissuto un momento molto particolare della sua vita: parlando con un collaboratore della Rizzoli è venuta a sapere che la casa editrice era interessata alla pubblicazione di un libro-inchiesta sul carcere femminile che era un mondo difficile da esplorare, da conoscere e da capire. Goliarda escogitò un espediente. Rubò dei gioielli a un’amica ricca, ma in modo da essere rintracciata e fu arrestata ai primi di ottobre del 1980, in carcere non riuscì a starci molto ma da quella esperienza è nato un piccolo e forte capolavoro che è stato pubblicato da Rizzoli con il titolo L’Università di Rebibbia, un libro dedicato a sua madre, Maria Giudice, che le diceva: “Se non conosci i manicomi, l’ospedale e il carcere non puoi capire a fondo la vita”. «Ma che stai a dì? ‘Na pazza, me pari!», le dicono le sue vicine di cella, quando lei spiega che quel furto è stato un pretesto per scrivere un libro e soprattutto per poterne far pubblicare un altro.

     Ma si sa che il manoscritto de L’arte della gioia è stato rifiutato anche da questa casa editrice perché gli esperti di editoria dicono che è un’opera troppo vasta, troppo anarchica, troppo letteraria e troppo sapiente (per le numerose citazioni implicite che vanno decodificate), dicono che è un’opera dal respiro troppo forte e troppo femminile.

     L’arte della gioia si apre nella Sicilia solare del 1900 con le inquietudini (violenza e dolcezza si fondono insieme) di una bambina di quattro anni e finisce nel ’68, a ribadire che l’universo dei sensi e l’etica della ribellione ha avuto una lunga incubazione durata per tutto il secolo, perché tutti i mondi riconosciuti, il patriarcato, la mafia, le religioni, i partiti e tutte le ipocrisie erano – sebbene da una minoranza di cui il personaggio di Modesta è un’allegoria – già state messe in discussione.

     Leggiamo due pagine dai primi capitoli de L’arte della gioia. Modesta, da bambina, vive con la madre e una sorella disabile, il padre è assente (ma si presenterà a combinare guai), il suo interlocutore privilegiato è un ragazzo che si chiama Tuzzu.

LEGERE MULTUM….

Goliarda Sapienza, L’arte della gioia (2008)

Mia madre diceva che mia sorella Tina: «La croce che Dio ci ha mandato giustamente per la cattiveria di tuo padre» aveva vent’anni; ma era alta come me, e così grassa che sembrava, se si fosse potuto levarle la testa, il baule sempre chiuso del nonno: «Anima dannata più di suo figlio …», che era stato marinaio. Che mestiere fosse questo del marinaio non riuscivo a capirlo. Tuzzu diceva che era gente che viveva sulle navi e andava per il mare ma il mare che cos’era?

Sembrava proprio la cassa del nonno Tina, e quando mi annoiavo chiudevo gli occhi e le staccavo la testa. Se lei aveva vent’anni ed era femmina, tutte le femmine a vent’anni dovevano sicuramente diventare come lei o come la mamma; per i maschi era diverso: Tuzzu era alto e non gli mancavano i denti come a Tina, li aveva forti e bianchi come il cielo d’estate quando ci si alza presto per fare il pane.

... continua la lettura ...

     Tuzzu fa il gradasso, in realtà è ammaliato da Modesta, ma è un ragazzo sensato e si sa contenere. Dopo tutta una serie di tragiche circostanze, che potrete scoprire leggendo l’inizio di questo romanzo, Modesta viene accolta in un convento popolato da monache provenienti da famiglie aristocratiche dove ha inizio la sua formazione. Ma di questo convento e di chi lo popola, ce ne occuperemo, brevemente, la prossima settimana.

     La prossima settimana percorriamo l’ultimo itinerario dell’anno 2008 di questo viaggio sulla scia della sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele (ai quali ci stiamo avvicinando), viaggio che continuerà nel nuovo anno. La prossima settimana celebreremo il Natale e poi andremo in vacanza.

     E ora per concludere – a proposito del Natale – dobbiamo dire che il modo in cui Raffaello presenta la figura di Pitagora, mentre sta scrivendo il suo Pensiero sul libro, più che ai parametri orfici (della cultura greca) sembra corrispondere ai parametri beritici (della cultura biblica): questo Pitagora assomiglia ad un profeta, ricorda la figura di Isaia mentre – secondo l’interpretazione di Gerolamo – scrive che “spunterà un germoglio che porterà la salvezza nella società”. Quindi questa immagine di Pitagora assomiglia poco al personaggio che un giorno – come ci racconta Diogene Laerzio nella sua Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi – incontra Leonte, il tiranno di Fliunte che, appena vede Pitagora, gli domanda: «Chi sei? » e lui gli risponde: «Sono un filosofo». Questo è un episodio celebre nella Storia del Pensiero Umano (tutti i biografi di Pitagora lo riportano) perché è così che, secondo la tradizione, per la prima volta è stata pronunciata la parola-chiave “filosofo” che, tradotta alla lettera, significa: “amante della sapienza (di Sofia)”. Pitagora è senz’altro un filosofo che ha in sé anche le caratteristiche del profeta.

     Terminiamo dicendo che l’affresco de La Scuola di Atene, al punto in cui siamo arrivati, dopo aver studiato il primo quadro raffigurante il gruppo degli orfico-dionisiaci e il secondo quadro raffigurante il gruppo degli orfico-pitagorici, in un certo senso ci fa entrare nell’ottica natalizia perché subito dietro al gruppo dei pitagorici noi vediamo raffigurato un giovane di bianco vestito il quale, per il suo aspetto e per il modo in cui si pone, sembra un angelo, sembra che abbia perfino le ali e che stia per cantare come se fosse davanti alla mangiatoia di Betlemme: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra alle persone di buona volontà”.

     Non mancate all’ultima Lezione dell’anno 2008, non è una data qualunque: è il venticinquesimo Natale di questa esperienza di alfabetizzazione. Venticinque anni – l’età della gioventù – è l’età che potrebbe avere quel giovane vestito di bianco su cui abbiamo puntato l’attenzione: chi è questo giovane vestito di bianco da sembrare un angelo e che cosa rappresenta? Questo per dire che il miglior modo per celebrare è quello di continuare a studiare.

     La Scuola è qui…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 12, 2008