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SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE C’È L’ENIGMA DELLE OPERE DI NONNO DI PANOPOLI ...

Lezione N.: 
8

Prof. Giuseppe Nibbi       Lo sapienza di Socrate Platone Aristotele  2008     26-27-28  novembre 2008

SULLA SCIA DELLA SAPIENZA DI SOCRATE, PLATONE E ARISTOTELE

C’È L’ENIGMA DELLE OPERE DI NONNO DI PANOPOLI ...

     Siamo in viaggio con un obiettivo primario: quello di conoscere e di capire le parole-chiave e le idee-cardine che caratterizzano la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele. Per questo motivo otto settimane fa siamo partiti da quella che è stata chiamata: la via del rispetto della legge, che abbiamo individuato sull’Areopago di Atene. Socrate (vissuto fino al 399 a.C.), Platone (vissuto fino al 347 a.C.) e Aristotele (vissuto fino al 322 a.C.) sono tre significativi indicatori culturali che – come abbiamo potuto costatare negli itinerari precedenti – all’inizio del XVI secolo, del 1500, si trovano al centro del Pensiero intellettuale della cristianità (dell’identità culturale che ci è più prossima) e la centralità culturale di queste figure la si può osservare soprattutto nello straordinario affresco che s’intitola La Scuola di Atene che Raffaello ha dipinto – su mandato di papa Giulio II – dal 1508 al 1511.

     Per questo motivo – come ormai ben sappiamo – il nostro Percorso, in funzione della didattica della lettura e della scrittura, avanza su due corsie: la corsia (moderna) che corre nello spazio rinascimentale dell’affresco e la corsia (antica) che attraversa il territorio orfico dell’Ellade.  Abbiamo imparato che La Scuola di Atene di Raffaello è collocata in un tempio, infatti la scenografia dell’affresco rappresenta una basilica, e contemporaneamente i personaggi sono disposti sul palcoscenico di un teatro. Il tempio e il teatro sono due elementi orfici che si compenetrano e ne La Scuola di Atene il tempio (la basilica) e il teatro (il palcoscenico) s’inseriscono l’uno dentro l’altro come ad amplificare il fatto che la lettura di questo affresco deve cominciare proprio dalla descrizione di un rituale orfico-dionisiaco.

     Sappiamo che senza il movimento della sapienza poetica orfica e senza la tradizione dei riti dionisiaci – la scorsa settimana abbiamo studiato le linee guida di questi due apparati intellettuali che s’intersecano tra loro – non ci sarebbe stata la straordinaria cultura ellenica.

     Abbiamo appreso che nell’affresco intitolato La Scuola di Atene il primo quadro rappresenta un rito orfico-dionisiaco che si svolge intorno al basamento di una colonna dorica il cui fusto è rappresentato da un Libro: al rito partecipano quattro personaggi – un bambino, un vecchio, un giovane e un uomo maturo – che raffigurano le quattro età della vita. Il contenuto di questo primo quadro de La Scuola di Atene vuol significare che la cultura orfico-dionisiaca si manifesta attraverso una sapienza poetica (conservata in Biblioteca) che va studiata e che corrobora tutte le età della vita, e il Libro ideale, il Libro ipotetico che è stato dipinto qui, contiene in sé una serie di Libri reali da leggere, una serie di Libri concreti ai quali pensare, una serie di Libri materiali sui quali riflettere.

     Quali sono i testi che potrebbero essere contenuti nel Libro ideale, nel Libro ipotetico dipinto da Raffaello nel primo quadro de La Scuola di Atene? La scorsa settimana abbiamo fatto l’inventario delle ipotesi. Dalla copertina non si riesce a capire di che Libro si tratti, ma il bello – per l’intelletto – è poter fare delle ipotesi: l’azione dell’ipotizzare (immaginare, supporre, congetturare, prevedere, calcolare, valutare, postulare) è un buon esercizio per imparare ad investire in intelligenza. Abbiamo capito – soprattutto incontrando i personaggi che hanno progettato la realizzazione de La Scuola di Atene (Giulio II, Fedra Inghirami, Bramante, Raffaello) – che nel Libro ideale, nel Libro ipotetico tenuto appoggiato sul basamento della colonna dorica, potrebbe esserci contenuto il testo del De medicina animae di Hugone de Folieto e poi potrebbe esserci la raccolta ellenistica dei Frammenti Orfici e poi potrebbe anche esserci il testo degli Inni Orfici tradotto da Marsilio Ficino e potrebbe anche esserci il testo degli Oracoli Caldaici tradotto da Gemisto Pletone e naturalmente potrebbe esserci il testo delle Metamorfosi di Ovidio così come, per concludere la lista, potrebbe esserci il testo de Le Dionisiache di Nonno di Panopoli. Questo ultimo testo viene considerato l’ultimo canto di Dioniso, l’atto finale di una cultura morente, ma, il sentirlo citare tra gli oggetti culturali che emergono prepotentemente dal primo quadro de La Scuola di Atene significa che il testo de Le Dionisiache di Nonno di Panopoli non è solo un punto di arrivo ma, nel Rinascimento, diventa un punto di rilancio di una tradizione che è e che rimane ben presente nella società moderna e contemporanea.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Se non lo hai ancora fatto puoi cercare in biblioteca questi Libri che non sono facili da leggere e qualcuno non è detto che lo si possa trovare, però quelli disponibili li puoi toccare, osservare, sfogliare, annusare: i Libri sono anche degli oggetti, dei quali, poi, se ne può leggere anche qualche pagina, ed è così che – se si ha un obiettivo di studio - si comincia a fare ricerca filologica

     Ma la scorsa settimana di Nonno di Panopoli abbiamo solo detto che c’è un enigma contenuto nelle sue opere e abbiamo appena alluso alle sue opere.

     Di Nonno di Panopoli e delle sue opere (i codici di queste opere sono nella Biblioteca vaticana) noi non abbiamo ancora detto nulla sebbene, nell’ufficio di papa Giulio II, alla presenza del bibliotecario Fedra Inghirami, dell’architetto Bramante e del pittore Raffaello, se ne sia parlato molto.

     Un buon numero di voi conosce Nonno di Panopoli. Ma come si fa a non incontrarlo ancora e a non domandarsi: perché nell’ufficio di papa Giulio II, alla presenza del bibliotecario Fedra Inghirami, dell’architetto Bramante e del pittore Raffaello, si è parlato molto di Nonno di Panopoli e delle sue opere? Se ne è parlato, prima di tutto, perché sono state inventariate (e ne abbiamo fatto l’elenco) le opere rappresentative della tradizione orfico-dionisiaca in funzione della progettazione de La Scuola di Atene. Proprio facendo questo lavoro di ricerca Fedra Inghirami, che ha studiato, e tradotto in parte in latino, i codici delle opere di Nonno conservati nella Biblioteca vaticana, fa partecipi i suoi interlocutori della presenza di un enigma non facile da risolvere.

     La parola arcano, in riferimento alle opere di Nonno di Panopoli, la utilizza per la prima volta proprio Fedra Inghirami nel suo Epistolario. Giulio II capisce l’importanza de l’arcano contenuto nelle opere di Nonno di Panopoli e – con la guida di Fedra Inghirami – si rende conto che in questo enigma c’è anche la chiave che svela il dramma culturale che ha investito le intellettuali e gli intellettuali del V secolo di fronte alla definitiva presa del potere da parte del Cristianesimo su tutto il territorio dell’Ellenismo, con le relative contraddizioni che questa situazione ha comportato, dato che la dottrina del Cristianesimo è fondamentalmente orientata contro il potere.

     Per questo motivo si decide che, al posto del fusto della colonna dorica, ci debba essere un Libro enigmatico che raccolga idealmente tutti i testi più importanti che fanno riferimento alla tradizione orfico-dionisiaca che il Cristianesimo ha sottomesso ma che non è riuscito a soffocare perché senza la cultura orfico-dionisiaca non solo non ci sarebbe la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele ma non ci sarebbe neppure la dottrina del Cristianesimo e non esisterebbe la Cristianità.

     A questo punto è necessario – seguendo la lezione di Fedra Inghirami – capire in che cosa consista l’arcano (come lo chiama lui) presente nelle opere di Nonno di Panopoli.

     Ma prima di occuparci di questo tema delicato – se vi ricordate – ci dobbiamo recare ad un altro appuntamento. La tradizione orfico-dionisiaca – ormai lo sappiamo – è un dettaglio molto importante: senza la cultura orfico-dionisiaca non ci sarebbe la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele (ai quali ci stiamo avvicinando) ma non ci sarebbero neppure i personaggi dello straordinario romanzo intitolato Gargantua e Pantagruel scritto da François Rabelais con il quale abbiamo fatto conoscenza la scorsa settimana. Il testo del romanzo Gargantua e Pantagruel, di cui abbiamo letto un gustoso frammento, tanto per il contenuto quanto per la forma, è intessuto di cultura orfico-dionisiaca.

     Questo romanzo è formato da quattro libri pubblicati nella loro forma definitiva nel 1552, e c’è anche un quinto libro, pubblicato postumo, ma di dubbia autenticità: Rabelais ha trovato subito degli imitatori. Questo romanzo racconta le straordinarie avventure del gigante Gargantua, già mitico personaggio della letteratura popolare, e di suo figlio Pantagruel.

     Ma questo vasto racconto è anche un pretesto (la tradizione orfico-dionisiaca, di cui lo scrittore è impregnato, coltiva l’inquietudine), è anche un’opportunità per interrogarsi e  riflettere sul senso della vita e sul significato della comunicazione tanto di quella a livello interpersonale quanto di quella gestita dalle autorità che la usano per la gestione del potere garantendo – scrive caustico Rabelais – alle popolazioni di vivere nella tranquillità di una beata ignoranza (un argomento di grande attualità).

     Nel romanzo Gargantua e Pantagruel si possono incontrare – a questo proposito –delle straordinarie allegorie. All’inizio del suo romanzo – di cui si consiglia la lettura al ritmo di quattro pagine al giorno – Rabelais ci racconta la singolare nascita di Gargantua, uscito dall’orecchio di sua madre Gargamella: e si capisce subito che il linguaggio mitico viene trattato, attraverso la satira, con una comicità che stimola la riflessione. Gargamella mangia eccessivamente la trippa (il lampredotto) e ciò le provoca gravi disturbi intestinali per cui deve assumere un potente rimedio contro la dissenteria che provoca un contraccolpo nella placenta e, per via di questo soprassalto, il bambino è costretto a risalire nelle arterie e nelle vene fino a uscire dall’orecchio (nello stile dei parti di Zeus e anche dei Vangeli apocrifi).

     Tutto il racconto è contemporaneamente assurdo e conseguente così come succede quando il potere religioso e accademico vuole far credere agli ignoranti che i miti corrispondono alla verità storica facendo uso, a sproposito, dell’autorità delle sacre scritture e della mitologia.

LEGERE MULTUM….

François Rabelais, Gargantua e Pantagruel  Libro I, capitolo 1  (1552)

L’occasione e maniera onde Gargamella diede alla luce un bambino fu la seguente, e se non ci credete, che vi scappino le budella dal sedere! Le quali budella scapparono appunto a lei un pomeriggio del terzo giorno di febbraio, per aver mangiato troppo lampredotto, che è trippa di sanati. E sanati sono buoi giovani ingrassati alla greppia e in prati bisettìli. Prati bisettìli sono quelli dove si taglia l’erba due volte l’anno. Di questi buoi giovani ne avevan fatti ammazzare trecentosessantasettemila e quattordici, per essere salati il martedì grasso, onde averne a primavera carne di bue stagionata in abbondanza, per far commemorazione di salumi al principio del pranzo, ed entrar meglio nel bere.

Le trippe furono copiose, come potete immaginare, ed erano così ghiotte che tutti se ne leccavano le dita. Ma il vero diavolo a quattro stava nel fatto che non era possibile conservarle a lungo, perché sarebbero andate a male. Cosa giudicata sconveniente. Per cui si concluse che se le sbalafrerebbero subito, senza perderne un grammo. E a tale scopo invitarono i cittadini di molti paesi dei dintorni: tutti onesti bevitori, di buona compagnia e bravi a giocar col birillo. L’ottimo Grangola se ne faceva una festa, e dava ordini perché si viaggiasse a quintali. Diceva tuttavia alla moglie che ne mangiasse meno che poteva, visto che toccava il termine della sua gravidanza e che quella trippaglia non era cibo gran che raccomandabile. “Mostra gran voglia di masticar merda (diceva il bravuomo) chi mangia il sacco che la contiene”. Ma nonostante queste rimostranze lei ne mangiò sedici moggia, due staia e sei caraffe. O la bella materia fecale che doveva farle mucchio nella pancia! Dopo il desinare, andarono tutti in massa al Saliceto, e là, sull’erba folta, danzarono al suono di pifferi festosi e di flebili cornamuse, così allegramente che era una soddisfazione dell’altro mondo vederli farsela bene a quel modo.

Mentre facevano queste conversazioncine sul bere, Gargamella cominciò a sentirsi male di sotto, per cui Grangola si levò da sedere, e si mise a farle coraggio con bel modo, pensando che fossero i dolori del parto. E le diceva che, sdraiata là sull’erba com’era, come un bel cavallino, avrebbe presto fatto unghia nuova; e che dunque si facesse coraggio, per accogliere degnamente il suo bebé; e che, se pure il dolore le dava un po’ disturbo, sarebbe durato poco, mentre la gioia che doveva venire le avrebbe tolto presto ogni fastidio, al punto che non gliene sarebbe rimasto neppure il ricordo. “Prova ne sia,” aggiungeva, “la parola di Nostro Signore nel Vangelo, al capo XVI di Giovanni: La donna che è sul momento di partorire è in tristezza; ma quando ha fatto il bambino, non ha più ricordo alcuno di tale angoscia”. “Sì,” disse lei “parlate bene, e mi piace proprio sentir da voi queste parole del Vangelo, e sento che mi fa molto più bene che se fosse la vita di Santa Margherita o qualche altra di quelle bigotterie”.  “Su, su, cuoricino di coniglio,” continuava lui, “sbrigatevi fuori di questo, che subito dopo ne faremo un altro”.

“Eh,” fece lei, “comodo per voi, che siete uomini! Oh, mio Dio! mi farò forza, per farvi piacere ”.

“Su, su coraggio!” fece lui: “non state a pensarci, lasciate fare alla pariglia davanti! Io andrò a bere ancora un colpetto. E se nel frattempo vi capitasse qualcosa, io non m’allontano: fatemi un fischio, e son qui”.

Poco tempo dopo lei cominciò a sospirare, lamentarsi e gridare. E subito arrivarono un mucchio di brave donnette da tutte le parti, le quali, tastandola in basso, trovarono certe pelli che puzzavano forte, e pensavano che fosse il bambino; ma erano invece i budelli che le scappavano, per la mollificazione dell’intestino retto (quello che voi chiamate budello culare) per aver mangiato troppo lampredotto, come abbiamo già sopra ricordato.

Per cui una sporca vecchiaccia della compagnia, che aveva nome d’esser gran medicona, ed era venuta da presso San Ginù, sessant’anni prima, le fece bere uno stringitivo così tremendo, che tutti i suoi sfinteri ne furono talmente occlusi e rinserrati che forse a malapena avreste potuto allargarli coi denti: che è cosa da far spavento soltanto a pensarci; anche se è vero che quel tal diavolino che notava i pettegolezzi di quelle due comari alla messa di San Martino, si trovò a dover allungare appunto coi denti la sua pergamena.

Per tale inconveniente, allora, si rilasciarono nel basso ventre i cotiledoni della matrice: per via dei quali soprassaltò il bambino, e si cacciò nella vena cava; e risalendo attraverso il diaframma fino al di sopra delle spalle (dove la detta vena si biforca) prese di qui a mano manca, e andò a sortire dall’orecchia sinistra. E appena che fu nato, non gridò, come gli altri bambini: “Mee! Mee!” ma esclamava invece, ad alta voce: “Da bere! da bere! da bere!” come se invitasse tutti a bere con lui, tanto che fu sentito da tutto il paese di Beusse e di Bibaroi.

Io sospetto che voi non crediate molto a questa strana natività. Se non ci credete, non me ne fa niente; ma un uomo dabbene, un uom di giudizio, crede sempre a tutto quello che gli vien detto, specie se lo trova per iscritto. Non dice forse Salomone, in Proverbiorum XIV: “Innocens credit omni verbo (l’innocente crede a ogni parola)” etcetera? E San Paolo, nella prima ai Corinti XIII: “Charitas omnia credit (la carità tutto crede)”? E perché mai non dovreste crederlo? Perché, risponderete voi, non c’è nessuna parvenza di vero. Ma io vi dico che appunto per questa sola causa voi dovete crederlo con perfetta fede: non affermano forse i Sorbonisti (i baroni della Università) che “fede è argomento delle cose non parventi”? E poi è forse contro la nostra legge, la nostra fede, contro ragione, contro la Sacra Bibbia? Io per me non trovo nella Santa Bibbia niente che sia contro una cosa simile. Ma – direte voi – se la volontà di Dio fosse stata tale da non render possibile questo? Oh, ve ne prego, non abbiriccoccolatevi mai il cervello con questi vani pensieri: perché io vi dirò che nulla è impossibile a Dio, e, se lui così volesse, tutte le donne da ora in poi farebbero bambini per le orecchie. Dioniso non fu forse generato dalla coscia di Giove? Roccatagliata non nacque dal calcagno di sua madre? E Ammazzamosche dalla pantofola della sua balia? E Minerva non nacque dunque dal cervello di Giove, per via d’una orecchia? E Adone dalla scorza di un albero di Mirra? E Castore e Polluce dal guscio di un uovo, fatto e covato da Leda? E resterete ancor più meravigliati, e intontiti, se vi esponessi qui tutto quel capitolo di Plinio, nel quale parla dei partorimenti eccezionali e contro natura; e sì che io non sono nemmeno un bugiardo della sua forza. Leggete il libro settimo della sua Storia naturale, al capo III, e non state più a rompermi il cervello.

     A questo punto è necessario – seguendo la lezione di Fedra Inghirami e senza romperci il cervello – capire in che cosa consista l’enigma presente nelle opere di Nonno di Panopoli.

     Nella storia della Letteratura c’è un punto che le studiose e gli studiosi hanno definito l’ultimo canto di Dioniso. Questo punto può essere considerato come l’atto finale della cultura e della civiltà greca morente, ma è senz’altro – scrivono le studiose e gli studiosi – anche il punto di rilancio di una serie di modelli appartenenti alla cultura orfico-dionisiaca che rimangono ben presenti nel percorso intellettuale dell’età moderna e contemporanea: e ce ne siamo accorti, strada facendo, in questo nostro viaggio.

     L’ultimo canto di Dioniso, l’ultimo sussurro del canto del caprone, è rappresentato da un’opera colossale e dal misterioso autore che l’ha scritta. L’ultimo canto di Dioniso è legato – come abbiamo detto – ad uno dei più significativi enigmi dell’antichità.

     Uno dei più affascinanti enigmi dell’antichità – posto in età moderna proprio da Fedra Inghirami alla vigilia della composizione de La Scuola di Atene – è rappresentato dalle opere di Nonno di Panopoli. Di lui – di Nonno – non sappiamo nulla, eccetto il luogo di nascita: la città di Panopoli, in Egitto, un ricco centro urbano cresciuto nel delta del Nilo. Sulla data di nascita di Nonno vi sono, fra gli studiosi, diverse scuole di pensiero: oggi però, tutti accettano il fatto che Nonno è vissuto tra il V e il VI secolo d.C.. Questo scrittore ci ha lasciato due opere straordinarie, stupefacenti, tanto per il loro valore in quanto tali, quanto per il dibattito culturale che hanno scatenato. Delle due opere di Nonno una, come sappiamo, s’intitola Dionisiache (Dionysiakà), un poema epico in 48 canti – che è il numero della somma dei canti dell’Iliade e dell’Odissea – e l’altra opera di Nonno che ci è rimasta s’intitola  Metàbole kata Ioannin cioè Parafrasi del Vangelo di Giovanni.

     Che cos’è una metàbole o una parafrasi? Metàbole, in greco significa: trasferimento di un testo in un nuovo testo. Una metàbole o una parafrasi è la riscrittura di un testo con parole proprie, sviluppandolo e dilatandolo con commenti e interpretazioni. Nonno riscrive il testo del Vangelo secondo Giovanni, in versi esametri, commentandolo e interpretandolo concetto per concetto, e parola per parola. Ne viene fuori un’opera spropositata che sta quasi tutta ancora sui codici: ne è stata pubblicata solo una piccola parte, quella che Fedra Inghirami ha tradotto in latino dal greco. Questo formidabile scrittore – Nonno di Panopoli –  è stato spesso definito, il primo grande scrittore barocco, e c’è chi lo ha definito rococò. Lo stile barocco rococò è ricco d’intarsi, di abbellimenti, di sovrapposizioni decorative: e la scrittura di Nonno è altrettanto sovrabbondante, debordante, esorbitante, eccedente, traboccante (a questa scrittura si avvicina, in un certo senso, quella di Rabelais).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

C’è qualcosa di sovrabbondante, di debordante, di esorbitante, di eccedente, di traboccante che ti viene in mente in questo momento? 

Basta scrivere una frase, in proposito…

     Il poema Dionisiache (Dionysiakà) è scritto in epilli, che sono versi esametri in stile alessandrino, sono versi voluttuosi, sinuosi, sensuali, sovrabbondanti di aggettivi, dove i riferimenti culturali si sovrappongono l’uno all’altro in un continuo gioco decorativo, intarsiato, stupefacente.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Per avere un corrispettivo visivo tra la scrittura di Nonno di Panopoli e le immagini, le esperte e gli esperti consigliano una visita ai quadri di un pittore provenzale che si chiama Jean-Honoré Fragonard (1732-1806). L’arte di Fragonard rappresenta la fioritura dello stile rococò in Europa nella seconda metà del ‘700: i colori, la pennellata fanno di questo artista l’interprete di una pittura  traboccante, sensuale, sottilmente erotica e “dionisiaca”…

Cerca e osserva sull’enciclopedia, in biblioteca, o sulla rete le opere di Fragonard (L’altalena, Il giardino di Villa d’Este, Bagnanti) e se ti fa venire in mente qualcosa: scrivi quattro righe in proposito…

     Quest’opera, intitolata Dionisiache-Dionysiakà, racconta la storia del viaggio in India di Dioniso; durante questo viaggio – che è anche una spedizione militare e un pellegrinaggio – Dioniso narra tutte le tappe della sua leggenda, del suo mytos, del suo culto. N

     Noi, a questo proposito, ci siamo documentati la scorsa settimana sul mito di Dioniso per non essere impreparati di fronte ai temi che emergono nell’itinerario di questa sera. Voi sapete che il viaggio in India è un argomento tipico della cultura alessandrina, e compiere un viaggio in India, per le studentesse e gli studenti alessandrini, significava, dal II al VI secolo, risalire alle fonti della cultura universale, alla cultura dei Libri dei Veda (della Sapienza), che è la cultura dell’anima, dello spirito, del tornare a ricomporre l’unità dell’Essere. Il pellegrinaggio in India è un viaggio di formazione, è un viaggio culturale, un viaggio alla ricerca della quiete interiore.

     Le Dionisiache di Nonno di Panopoli sono una debordante apologia, un’esaltazione dei valori della paganità, che – tra il V e il VI secolo – dovrebbe giacère morente, in coma profondo: è appunto per la natura che ha questo testo che Giulio II ordina a Fedra Inghirami di non far avvicinare ai codici delle Dionisiache se non gli addetti ai lavori.

     Nel prologo de le Dionisiache Nonno scrive: La cultura di Dioniso, in questo secolo, si spalanca ai nostri occhi e si svela ai nostri sensi, come una prateria di narcisi fioriti. Scrive questa bella immagine anche se la cultura del paganesimo, nel V e nel VI secolo d.C. è stata ormai letteralmente sommersa dal Cristianesimo che si è soprapposto ai culti di Dioniso e a tutte le figure mitiche greche e a tutte le strutture pagane. Nel V e nel VI secolo d.C. la dottrina del Cristianesimo, è ormai dominante: la lunga marcia della cristianizzazione nel bacino del Mediterraneo (accompagnata da uno scontro violento all’interno del Cristianesimo, tra le varie anime del Cristianesimo stesso) è iniziata con il Concilio di Nicea del 325. In 200 anni, l’affermazione del Cristianesimo avviene tanto a occidente, su tutto il territorio di quello che era stato l’Impero romano d’occidente, quanto a oriente, sul territorio dell’Impero romano d’oriente, l’impero bizantino, che era rimasto in piedi, e che rimarrà in piedi ancora per un millennio fino al 1455.

     Abbiamo detto che le opere di Nonno di Panopoli costituiscono un enigma: uno degli arcani (come lo chiama Fedra Inghirami) più affascinanti dell’antichità che si ripercuote sull’età moderna e contemporanea. E allora, in che cosa consiste questo mistero?

     Le Dionisiache – questa è la prima domanda che ci dobbiamo fare e che si sono fatti gli addetti ai lavori (Fedra Inghirami, Bramante, Raffaello) de La Scuola di Atene nell’ufficio di Giulio II – presuppongono un autore pagano? Nonno di Panopoli è un intellettuale che vuole difendere e salvare il paganesimo morente, condannato per sempre al silenzio dall’affermazione del Cristianesimo? Nonno di Panopoli, con le Dionisiache, vuole difendere la cultura del paganesimo dall’egemonia dell’ideologia cristiana che si è ormai affermata nel bacino del Mediterraneo?

     Noi sappiamo che in questo momento storico esiste effettivamente (ma questo aspetto della nostra storia è stato rimosso e non se ne parla mai) una resistenza contro l’assalto che il Cristianesimo sta portando alla Filosofia greca. Sono soprattutto i Neoplatonici, le Scuole Neoplatoniche, che rivendicano la loro autonomia dal Cristianesimo, e rivendicano l’autonomia della Filosofia greca, dei valori e dei modelli della cultura greca che il Cristianesimo ha assorbito e ha fatto suoi. I Neoplatonici rivendicano la laicità dei valori morali della Filosofia greca: Nonno di Panopoli è un intellettuale neoplatonico che vuole difendere la Filosofia greca? Possiamo dare una risposta o possiamo solo (come hanno fatto gli addetti ai lavori de La Scuola di Atene nell’ufficio del papa) fare delle ipotesi? Anche noi possiamo solo fare delle ipotesi, ma la cultura – lo sapete – ha un carattere interlocutorio.

     Per i Neoplatonici, che difendono la Filosofia greca, il simbolo della resistenza è Atena. E chissà se è per alludere a questo fatto che ne La Scuola di Atene compare la figura di Atena in posizione dominante? Bisogna tenere conto del fatto che gli addetti ai lavori – compreso Giulio II – sono tutti simpatizzanti del Neoplatonismo risorgente in età moderna. La dea Atena è la dea del lavoro fecondo dei campi, della polis operosa, della giustizia, delle Arti, dello Stato, delle opere pubbliche, la dea dell’ulivo, insomma la dea della pace e della prosperità. La dea Atena diventa l’emblema e la figura depositaria di tutti i valori della cultura greca da difendere e da preservare che  sono: la curiosità intellettuale (Socrate), la conoscenza (Platone), la sapienza (Aristotele).

     Dioniso è considerato dagli intellettuali neoplatonici una figura troppo arcaica e troppo religiosa per essere utilizzata come emblema della cultura greca. E poi, la figura di Dioniso – un dio che muore e risorge e che predica la salvezza dell’anima – è già stata sistematicamente assorbita dalla figura di Cristo e, nel VI secolo, Cristo e Dioniso si assomigliano ormai inesorabilmente.

     Qui si pone un bel problema: che cosa dobbiamo pensare allora? Dobbiamo pensare quindi che se Nonno di Panopoli fosse un intellettuale neoplatonico, avrebbe scritto le Ateneidi piuttosto che le Dionisiache, ma intorno a Nonno si leva il mistero.

     Per i Neoplatonici è Atena il modello della Filosofia per eccellenza, ed è Atena il simbolo della laicità dei valori morali, della ricerca del Bene.

    Per il Neoplatonismo – come sappiamo – la ricerca del Bene è legata a un itinerario culturale, all’epistrophé epistrophe, che in greco significa viaggio intellettuale di formazione. La scelta di fare il Bene – secondo il Neoplatonismo – dipende dall’intelligenza, non da condizionamenti religiosi. La statua di Atena diventa l’emblema di questo modo di pensare, e diventa il simbolo dell’Accademia di Platone e poi della Scuola di Atene (da cui l’affresco della Stanza della Segnatura prende il nome), che ne è la continuazione. Plotino (un personaggio che incontreremo strada facendo) cita spesso Atena nelle Enneadi come simbolo della Filosofia. Atena (lo studio della Filosofia) – secondo il Neoplatonismo – accompagna la persona nel suo viaggio intellettuale perché possa imparare a scegliere il Bene. Scegliere di fare il Bene è una opzione di carattere intellettuale (non religioso).

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quale opera di Bene hai deciso di fare seguendo il richiamo dell’intelletto?

Scrivi: bastano due parole

     Questa riflessione che abbiamo fatto, in cui emerge la statua di Atena come simbolo dello studio della Filosofia, ha come punto di riferimento un sogno. Secondo la tradizione neoplatonica, Proclo di Costantinopoli ha fatto un sogno simbolico e premonitore. Chi è costui? Proclo di Costantinopoli (410-485) è l’esponente più significativo della Scuola neoplatonica ateniese (la Scuola di Atene,  da cui viene il titolo dell’affresco che campeggia nella Stanza della Segnatura). I suoi studi hanno avuto un largo influsso sul pensiero arabo, ebraico e cristiano, e Proclo, nella sua opera più importante intitolata Teologia Platonica (Marsilio Ficino conosce bene quest’opera), racconta di aver fatto un sogno simbolico, che rappresenta la metafora che descrive la fine di un’epoca.

     Proclo racconta di aver sognato – a Costantinopoli – una bellissima signora, che gli si presenta come la dea che presiede alla Filosofia, la quale lo esorta a studiare, e lo prega di recarsi subito ad Atene a mettere in salvo la sua statua che i Cristiani vogliono distruggere: Proclo va e di nascosto porta la statua di Atena in casa sua. Scrive Proclo nell’introduzione alla Teologia Platonica: «Mi apparve, in sogno, una bellissima signora, la quale mi disse: - Sono la dea che presiede alla Filosofia, vai subito ad Atene, metti in salvo la mia statua che i Cristiani vogliono distruggere! - Appena sveglio andai e portai la statua in casa mia». Noi non sappiamo se Proclo abbia fatto davvero questo sogno, sappiamo però che questo è l’atto simbolico della fine della civiltà greca, della Filosofia greca: nelle grandi città ormai il Cristianesimo sovrappone, ai simboli della cultura greca, i suoi simboli. Dopo questo atto simbolico ci sarà anche un atto giuridico che sanziona la fine della cultura greca: nell’anno 529 – cinquant’anni anni dopo il sogno di Proco – l’imperatore Giustiniano chiude la Scuola di Atene – l’ultimo grande centro della filosofia greca nel bacino del Mediterraneo – e i Neoplatonici si disperdono per il mondo, migrano verso est, nel territorio dell’Impero persiano, e portano con loro le opere di Platone e di Aristotele. Su quel territorio – dell’Impero persiano – nel secolo successivo, come conquistatori, arrivano gli Arabi, e gli intellettuali arabi cominciano a studiare con interesse, a conservare con cura e a tradurre le opere di Platone e di Aristotele e, intorno all’anno mille, le faranno conoscere queste opere  all’Occidente. Le opere di Platone e di Aristotele ritornano nel mondo latino attraverso la mediazione culturale degli Arabi: abbiamo già incontrato Averroè a Cordova qualche settimana fa. Nell’anno 529, quando l’imperatore Giustiniano chiude per decreto la Scuola di Atene, la figura della dea Atena diventa il simbolo della resistenza della cultura filosofica greca.

     Nonno di Panopoli è vissuto in questi anni – tra il V e il VI secolo – e certamente il suo pensiero risente di tutti questi avvenimenti, anche se Nonno non può essere considerato un intellettuale neoplatonico perché avrebbe privilegiato la figura di Atena piuttosto che il mito di Dioniso (i Neoplatonici privilegiano l’intelletto e tendono a screditare i miti), e allora: quale mistero si nasconde dietro al personaggio e alle opere di Nonno?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Qual è l’ultimo sogno simbolico (e un po’ premonitore) che – magari, come Proclo, ad occhi aperti – hai fatto? 

Scrivi quattro righe in proposito

     Io credo che anche il papa nel 1508 abbia fatto un sogno simbolico (magari ad occhi ben aperti) e comunque lo si sente (non nelle orecchie ma nel pensiero) con voce tonante, battendo il pugno sul tavolo, davanti agli addetti ai lavori, Giulio II, scandire queste parole: «Giustiniano, con un atto sconsiderato, ha chiuso l’Accademia platonica ateniese e noi la Scuola di Atene la riapriamo perché se non ci fosse stata, noi non saremmo qui, e questo problema, il problema della riabilitazione del Neoplatonismo – dichiara il papa –, va risolto una volta per tutte con un segno tangibile che faccia guardare ammirati in modo da smorzare la polemica e i nemici della Chiesa non ne approfittino, perché il nostro compito oggi – deve aver aggiunto Giulio II con meno enfasi – è quello di lasciare ai posteri l’idea che abbiamo voluto salvaguardare la dottrina di Cristo (l’autorità della Chiesa) e, nello stesso tempo, preservare la tradizione di Atena (il valore della Filosofia greca) e i posteri – e questo lo possiamo aggiungere con la fantasia –, fra cinquecento anni, se studieranno, capiranno». Fra cinquecento anni! E siccome sono proprio passati cinquecento anni, dal primo colpo di pennello che ha creato La Scuola di Atene nella Stanza della Segnatura, era logico pensare che un cenno, perlomeno dal mondo della cultura, si levasse per ricordare l’avvenimento, ma esiste in Italia un mondo della cultura? Perché esista un mondo della cultura è necessario contrastare l’immondo stato di ignoranza generalizzata (che è in crescita) con la promozione di Percorsi di alfabetizzazione culturale e funzionale. La migliore commemorazione che la Scuola – in particolare la Scuola pubblica degli Adulti – può fare è quella di promuovere lo studio, e allora, nel ricordare i cinquecento anni del progetto de La Scuola di Atene, riprendiamo il filo del ragionamento.

     A rendere enigmatica (o arcana) la situazione è il fatto che l’altra opera di Nonno di Panopoli, che s’intitola Parafrasi del Vangelo di Giovanni, presuppone, per l’argomento che affronta, un autore cristiano. Come nelle Dionisiache, Nonno, esalta Dioniso e la cultura pagana, così nella Parafrasi del Vangelo di Giovanni, Nonno esalta Gesù Cristo e la cultura cristiana. È chiaro che questa faccenda ci pone di fronte ad alcuni inquietanti interrogativi che, naturalmente, si sono posti anche gli addetti ai lavori de La Scuola di Atene: le studiose e gli studiosi di filologia non sono riusciti a capire quale delle due opere, Nonno, abbia scritto per prima.

     Che cosa è successo a Nonno di Panopoli, che cosa ha influenzato la sua mente? Quali interrogativi ci pone la sua vita e la sua opera? Chi è veramente Nonno di Panopoli? È un pagano che tiene accese le ultime luci della cultura greca ed esalta la paganità con il poema su Dioniso e poi si converte alla nuova fede, al Cristianesimo, che allora è già dominante, scrivendo la Parafrasi del Vangelo di Giovanni? Oppure, forse, avviene il contrario: Nonno è un cristiano che, ad un tratto, viene folgorato dalla paganità, e così dalla Parafrasi passa all’onda travolgente delle Dionisiache? Oppure si può presentare una terza ipotesi secondo la quale Nonno scrive nello stesso tempo le Dionisiache e la Parafrasi e con una mano disegna le avventure di Dioniso mentre con l’altra evoca il processo di Gesù. Nonno è un pagano che guarda al cristianesimo, oppure è un cristiano che guarda al paganesimo, o è un intellettuale laico che analizza entrambe le correnti, cercandone i tratti concomitanti? Ecco come ci si presenta l’enigma (o l’arcano) di Nonno di Panopoli e della sua opera: uno dei misteri più affascinanti della storia della cultura.

     Studiando le opere di Nonno – come hanno fatto le studiose e gli studiosi in questi secoli, a cominciare da Fedra Inghirami – si scopre che la sua mente è profondamente commossa tanto da Cristo quanto da Dioniso e, forse, non ha neppure bisogno di chiedersi se crede in entrambi, e perché scrive su di loro; il fatto è che nessun elemento (non abbiamo dati in proposito, né testimonianze), nessuna documentazione ci può aiutare a risolvere questo mistero. Rimane il testo delle sue opere e il suo stile, ridondante, come una valanga dilagante di parole: ma Nonno – e questo è l’unico indizio su cui si possa riflettere – è soprattutto un poeta che nasconde in sé un teologo.

     Che senso ha la figura stilistica che ci viene incontro nella scrittura di Nonno di Panopoli: la ridondanza, l’abbondanza, l’eccesso, l’esuberanza? Sono qualità dionisiache che lo Spirito del Cristianesimo ha fatto proprie, e in questa scelta stilistica troviamo l’intento teologico di Nonno, che non vuole definire un dio pagano o un dio cristiano, ma piuttosto un’idea di Dio. Nonno, come teologo – non importa se pagano o cristiano o laico – ci manda a dire, con la sua scrittura poetica, che bisogna avere fede nella ridondanza, nell’abbondanza, nell’eccesso: bisogna avere fiducia nell’esuberanza degli stimoli che ci spingono verso la conoscenza. Dio (Cristo o Dioniso che sia) – attraverso le manifestazioni del creato, della Natura, del cosmo – ci dona abbondanti stimoli, orientati verso la conoscenza, e bisogna imparare a riconoscerli. Per Nonno, la poesia – l’imparare ad usare le parole come strumento poetico – è un mezzo per far avvicinare l’intelletto all’esuberanza del creato, della Natura, del cosmo, e, di conseguenza, all’esuberanza salvifica di Dioniso e di Cristo. Non abbiamo bisogno di stimoli per avvicinarci alle cose materiali e al loro consumo, ma abbiamo bisogno di uno slancio, è necessaria una motivazione culturale per calcare, con l’intelligenza, la via del Bene, del Bello, del Buono e del Giusto.

     Se osserviamo i dettagli narrativi, ce n’è uno, che ha indirizzato tutte le studiose e gli studiosi, a seguire l’ipotesi che sembra più improbabile: quella di Nonno che scrive nello stesso momento – senza percepire alcuna frattura tra l’una e l’altra opera – le Dionisiache e la Parafrasi. Le due opere di Nonno, le Dionisiache e la Parafrasi del Vangelo di Giovanni, contengono un concetto-chiave (che molte e molti di voi conoscono ormai a memoria, e la memoria serve appunto per richiamare un concetto noto in modo da utilizzarlo per favorire l’apprendimento degli elementi di un nuovo contesto), un’idea che serve per capire in modo determinante quello che abbiamo detto, e che possiamo formulare in questi termini: ha un carattere divino ciò che stimola verso la conoscenza.  Nonno di Panopoli sintetizza questo concetto nella parola oistroς-oìstros, che, in greco, significa: il tafano (l’insetto dittero della classe dei Tabanidi che ci infastidisce sulle spiagge). Innumerevoli volte, nelle Dionisiache, lo scrittore ci mostra l’operare del tafano, che rappresenta l’immagine stessa di Dioniso e della sua presenza. Dioniso è come un tafano provocatore che stimola in continuazione, che c’infastidisce affinché non ci si lasci andare al torpore, alla noia, all’alienazione, all’assuefazione...

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La parola tafano fa venire in mente l’espressione: provare un senso di fastidio… Quando, in quale occasione, hai provato un senso di fastidio?

Scrivi quattro righe in proposito…

     Le Dionisiache sono un’opera dove abbondano le scene erotiche: queste scene sono una metafora della conoscenza perché l’educazione dei sensi, il controllo del desiderio, l’orientamento dell’energia sensuale, è propedeutica alla conoscenza.

     Bisogna ricordare che la figura di Dioniso, nelle Dionisiache, sta compiendo un viaggio in India ed è molto probabile che Nonno conosca la cultura del Kamasutra, un’opera molto famosa di Vatsyayana, uno scrittore vissuto intorno al IV secolo. Kamasutra – che significa il testo (sutra) della via dei sensi (kama) non è solo un compendio erotico che descrive posizioni e tecniche corporee, ma è un’opera complessa: è un romanzo d’amore ma è anche un trattato di sociologia e di antropologia culturale, è un poema etico (ha un carattere morale) perché è una guida all’erotismo in funzione della conoscenza e, infine, è un testo sacro perché far bene l’amore, costruire la comunione amorosa vicendevole, avvicina alla beatitudine divina e l’unione amorosa è un’immagine (la suprema metafora) della ricomposizione dell’unita nell’Essere.

     In questo senso le Dionisiache sono un’opera dove abbondano le scene erotiche. E le scene amorose nascono o contengono tutte il ronzio melodioso, quasi rassicurante, del tafano, ma questa musica prelude al colpo del pungiglione: inaspettato, doloroso, provocatorio, stimolante.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Quando il colpo del pungiglione ha lasciato un segno anche nella tua memoria?…

Scrivi quattro righe in proposito: la scrittura è un antidoto contro lo shock anafilattico…

     Una delle scene più sensuali è, senza dubbio, quella in cui Nonno racconta l’incontro amoroso tra Zeus e Semele in cui avviene il concepimento di Dioniso; noi conosciamo già questa narrazione mitica: l’abbiamo raccontata la scorsa settimana seguendo la versione di Ovidio da Le Metamorfosi.

     Leggiamo questa pagina delle Dionisiache – che abbiamo già letto in questi anni in altri Percorsi – per capire che cosa significa lo stile ridondante di Nonno e per incontrare l’Oistros Bròmio, il tafano fremente con il quale Dioniso si identifica fin dalla nascita.

LEGERE MULTUM….

Nonno di Panopoli, Le Dionisiache  Canto settimo  (V-VI sec.)

Allora Zeus abbandonò la stellata dimora del cielo per unirsi a Semele.

Del suo passaggio non restarono che tracce invisibili.

Con un primo balzo varcò tutti i sentieri del cielo;

con un secondo, come un battito d’ali o un pensiero, fu a Tebe.

I cancelli della reggia spontaneamente si aprirono per lasciarlo passare,

affinché, finalmente, nel nodo di un amoroso abbraccio da lei fosse stretto,

e lui, come il vento che stringe le vele, con forza Semele stringesse.

Sul letto il dio emetteva armoniosi muggiti di toro,

con in testa due corna potenti sul morbido corpo di uomo:

era l’immagine perfetta di Dioniso incoronato di spine e di alloro.

Ora assumeva l’aspetto di un irsuto leone, o di una nera pantera,

perché voleva generare un figlio campione di audaci visioni,

mandriano paziente di vellutate pantere, auriga spericolato di flessuosi leoni.

Oppure appariva nello slancio che possiede un giovane sposo

mentre s’avvolge le chiome tra spire di serpi e tralci di vite,

intrecciando i riccioli con foglie vermiglie, ornamento di Bacco.

In forma di serpente sinuoso strisciava, con le labbra umide e attente

baciava tenero e dolce la rosea nuca della giovane sposa accogliente,

s’insinuava nel petto e arrotolandosi sulla rotondità dei suoi seni sodi

sibilava un canto nuziale cospargendola di fatale, essenziale liquido miele,

dolce frutto delle api sciamanti, donando all’amante vibrante Semele,

come è vero il letale veleno delle vipere, un vero ritmico intenso piacere.

E Zeus rallentava, indugiava e allungava il tempo nel piacere d’amore

e come accanto al torchio della vendemmia ritrovandosi, quasi smarrito

nel profondo degli occhi di lei ormai feconda consapevole madre,

gridò: evohé evohé, generando un figlio che avrebbe amato quel grido.

Premeva il dio le labbra eccitate sulla bocca della fanciulla ridente,

facendola inebriare nell’abbraccio potente, cospargendola col nettare d’amore

perché concepisse un figlio, signore della nettàrea vendemmia

e come presagio di eventi futuri, levava in alto un grappolo,

oblio di tutti gli affanni, farmaco di molti malanni.

In realtà tutta la terra rideva, un vigneto fitto di foglie cresceva

e correva intorno al letto finalmente fecondato

e sulle pareti sbocciavano fiori di prato, stillanti rugiada oleosa e odorosa

per coronare dell’Oistros Bròmio, il tafano fremente, la nascita misteriosa.

Sul letto sgombro di nubi, Zeus fece echeggiare, con sentimento sincero,

dai più lontani e profondi recessi, gli inquietanti fragori del tuono,

preannunciando i timpani delle feste notturne di Dioniso a celebrarne il mistero

con il loro incessante, assordante, ritmico, ditirambico, orgasmico suono.

     Ma trasferiamoci ora in Palestina, sulla scia della Parafrasi del Vangelo di Giovanni, per capire come Nonno utilizzi la figura del tafano pungente per unire queste due affascinanti figure: Dioniso e Cristo. Non è forse anche Gesù Cristo lo stesso tafano pungente, fastidioso, che stimola a non arrendersi mai, fino alla fine, per superare le ipocrisie che si annidano nell’animo umano, per respingere le oscene ritualità che, spesso, caratterizzano il potere delle istituzioni tanto civili quanto religiose?

     Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

Nonno di Panopoli, Parafrasi del Vangelo di Giovanni  8  48-59  (V-VI sec d.C)

I suoi avversari risposero, e gli dissero: «Non diciamo bene noi, che sei un samaritano (uno straniero) e hai un demonio in corpo e sei pazzo?».

Rispose Gesù: «Io non ho un demonio in corpo, ma onoro il Padre mio, e voi mi disonorate. Ma io non cerco la mia gloria; vi è Uno che la cerca e che giudica. In verità vi dico: Se uno osserva la mia parola non vedrà la morte in eterno». Gli dissero (allora): «Ora sappiamo che hai davvero un demonio in corpo. Abramo è morto, come anche i Profeti, e tu dici: Chi osserva la mia parola non gusterà la morte in eterno. Sei tu più grande del nostro padre Abramo, il quale è morto? Ed anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere?». Rispose Gesù: «Se fossi io a glorificare me stesso, la mia gloria sarebbe nulla; c’è il Padre mio che mi glorifica, del quale voi dite: È il nostro Dio! e non lo conoscete, ma io lo conosco bene. E se dicessi di non conoscerlo, sarei come voi, un bugiardo; ma lo conosco, e osservo la sua parola. Abramo, nostro padre, ha esultato nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e ne gioì». Gli dissero allora: «Non hai ancora cinquant’anni, e hai veduto Abramo?» Rispose loro Gesù: «In verità vi dico: Prima che Abramo fosse, io sono». Allora presero delle pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose ed uscì dal Tempio.

Gli avversari accusano Gesù, e il testo del Vangelo di Giovanni dice: «Non è vero che sei un Samaritano (uno straniero) e hai un demonio in corpo e sei pazzo (óti daimónion écheis)? Ciò significa che si debba parafrasare: «e ora ti spinge il vagante tafano vendicatore (alàstoros oìstros) del demone Lyssa, la Pazzia».

     Nei due brani che abbiamo letto si trova il segno della costanza e della coerenza di Nonno: nelle due opere si comporta in modo equanime verso Dioniso e verso Cristo creando un legame culturale tra queste due figure con una significativa metafora intellettuale: questa metafora ha un precedente nella Storia del Pensiero, è una citazione che Nonno fa di una allegoria che già esiste?

     Nonno di Panopoli coltiva e utilizza, tanto nella storia di Dioniso quanto in quella di Cristo, la metafora del tafano, l’allegoria dell’oistros, l’immagine (e facciamo attenzione a questa parola) del dèmone che spinge all’ebbrezza, alla furia, al delirio, quindi, di conseguenza stimola allo studio, alla ricerca, all’illuminazione, alla conoscenza, alla salvezza. Abbiamo sottolineato la parola dèmoneche è uno dei concetti-cardine della sapienza di Socrate (e quando lo incontreremo approfondiremo questo tema): si presume che Nonno di Panopoli conosca i Dialoghi di Platone e, nel testo di uno dei Dialoghi di Platone troviamo un indizio molto interessante per noi che stiamo viaggiando sul sentiero che porta verso la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele.

     Il dialogo di Platone in questione s’intitola Eutifrone. La scena in cui si svolge questo dialogo è il portico del tribunale che si occupa dei processi riguardanti le cause connesse con le questioni religiose. L’epoca in cui questo dialogo è immaginato da Platone è il 399 a.C., l’anno del processo di Socrate. L’epoca di composizione di questo testo rientra nell’arco di tempo della giovinezza di Platone, prima della fondazione dell’Accademia, ma questo dialogo, che risulta ben strutturato, non deve essere una delle primissime opere di Platone anche se di solito viene messa per prima nel catalogo delle opere platoniche.

     I protagonisti di questo dialogo sono Socrate e Eutifrone. Eutifrone è un sacerdote della religione ufficiale ed è convinto di possedere la perfetta conoscenza di ciò che è santo e di ciò che è empio, ma non riesce, nella discussione con Socrate, se non a contraddirsi e a confondersi, mostrando di avere conoscenze tutt’altro che chiare. Pertanto la religione ufficiale che Eutifrone rappresenta non ha affatto un adeguato concetto di ciò che è santo: Una cosa non è santa – sostiene Socrate – perché piace agli dèi (i quali in quanto a condotta morale lasciano molto a desiderare) ma gli dèi devono amare una cosa perché è santa. Socrate ha superato la superficiale credenza (superstiziosa) sugli dèi, e ha coltivato una ben più alta visione (morale) della divinità: proprio quella concezione che vorrebbe insegnare agli Ateniesi e per la quale verrà processato e condannato.

     Ma noi vogliamo occuparci non della tematica di questo dialogo ma di un dettaglio funzionale alla riflessione che stiamo facendo: durante il dialogo ad un certo punto Socrate si sente dire: Ma come sei fastidioso (oìstros)! e la parola greca che Platone usa e che viene tradotta di solito con un aggettivo corrispondente, fastidioso, è oìstrosche è un sostantivo e che significa, prima di tutto, il tafano. E Socrate risponde: Sono (bròmion) uno che freme perché cerca di conoscere le cose e la traduzione è corretta ma, il termine che usa Platone è bròmionche letteralmente significa fremente. In definitiva Platone mette insieme queste due parole-chiave (oìstros bròmion) per far dire a Socrate: Io sono un (oìstros bròmion) un tafano fremente la stessa coppia di termini che riprende Nonno di Panopoli per definire le figure di Dioniso e di Cristo.

     È chiaro che noi ci domandiamo se Nonno di Panopoli ha tratto da qui la metafora che definisce Dioniso e Cristo dei tafani frementi? È molto probabile ma noi, con certezza, non lo possiamo sapere: fa parte del mistero, dell’arcano che circonda le opere di Nonno di Panopoli.

     Senza dubbio Nonno di Panopoli considera Socrate un personaggio in cui le figure di Dioniso e di Cristo s’incontrano – anche i Padri della Chiesa avvicinano la figura di Socrate alla figura di Cristo ma forse proprio per allontanare Dioniso – e nella Parafrasi del Vangelo di Giovanni Nonno fa un accenno al fatto che il processo e la sorte che subisce Socrate e il processo e la condanna che subisce Cristo hanno qualcosa in comune: Nonno,mediante il personaggio di Socrate (che secondo la tradizione assomiglia a Dioniso), vuole probabilmente far stare unito Dioniso, che  rischia di uscire per sempre di scena, a Cristo che ormai si erge vincitore.

     Nonno di Panopoli ci conduce – come avete capito – a riflettere dentro ad uno dei temi più affascinanti, enigmatici ed arcani della Storia del Pensiero Umano: il tema dei complessi e ambigui rapporti tra la tradizione orfico-dionisiaca e la dottrina del Cristianesimo.Omero, con l’Iliade e l’Odissea, rappresenta l’alba, Nonno di Panopoli con le Dionisiache rappresenta il tramonto della cultura greca.

     Ma sono ancora molte le domande che scaturiscono dalle riflessioni emerse in questo itinerario: perché, se Nonno è un intellettuale cristiano, sente il dovere di tornare a Dioniso? Perché sente il dovere di rimettere al centro la cultura dionisiaca, invece di nasconderla? Perché Nonno definisce Dioniso con gli stessi attributi ormai assunti da Gesù Cristo:  soter soter, il salvatore, dikaster dikaster, il giudice? E perché Nonno attribuisce anche a Gesù Cristo l’attributo più provocatorio di Dioniso: l’oìstros bròmion, il tafano fremente? Ammettiamo che Nonno sia un intellettuale cristiano: perché in questo momento storico (all’inizio dell’Alto Medioevo), pensa di far avvicinare la figura di Cristo alla figura di Dioniso, invece di affossare Dioniso una volta per tutte?

     Forse ricordate che, tra il V e il VI secolo, si pone pressante, nella Chiesa di Roma, il problema di cristianizzare la Storia, di riformare il calendario che continua a contare gli anni dalla fondazione di Roma anche se Roma oramai è caduta in disgrazia. Tra il V e il VI secolo, si pone pressante, nella Chiesa di Roma, la questione di far ripartire la Storia dalla nascita di Cristo, di spaccare definitivamente la storia in due: prima di Cristo e dopo Cristo. È probabile che questo tema, molto significativo, ci sfugga, o che non ci ricordiamo, come sia avvenuta questa complicata operazione culturale. Abbiamo introiettato una visione mitica del Cristianesimo, per cui siamo stati portati a pensare che, la notte di Natale, al canto degli angeli: la storia, come per magia, si spacchi in due. Il problema di riformare il calendario e di rifondare tutta la storia umana in senso cristiano si pone, nella Chiesa di Roma, cinque secoli dopo la nascita di Gesù. E anche questo avvenimento, nella storia della cristianesimo e nella storia della Chiesa, non è stato indolore, c’è stato uno scontro, lungo e violento, determinato dal quadro storico e politico di questo periodo, siamo all’inizio, abbiamo detto – dopo la caduta dell’Impero romano d’occidente – del così detto Alto Medioevo.

     Ebbene, che cosa c’entra Nonno di Panopoli con questa questione? Nonno di Panopoli potrebbe essere uno di quegli intellettuali cristiani che si schiera contro la cristianizzazione del tempo e della Storia. E che ripercussioni ha questa ipotesi con quello che stiamo studiando?

     Ora non c’è più tempo per affrontare questa questione che riguarda proprio il concetto del tempo: riprenderemo il filo del discorso la prossima settimana, e intanto, in questo momento, nell’ufficio del papa, Fedra Inghirami, davanti a Giulio II, al Bramante e a Raffaello, sta illustrando questa questione sorta nell’ambito dei numerosi problemi culturali che pone l’enigma di Nonno, perché una riflessione su questo argomento è certamente utile per la rappresentazione del tema del tempo ne La Scuola di Atene, e le considerazioni di Fedra Inghirami – dopo che lui le ha comunicate al papa e ai suoi compagni di studio – le possiamo utilizzare anche noi.

     Abbiamo iniziato questo itinerario con Gargantua e Pantagruel e lo terminiamo con questo romanzo che sarebbe piaciuto a Giulio II che non sopportava i parassiti. Leggiamo due pagine di un capitolo che propone una violentissima satira contro i frati, uno dei bersagli prediletti della polemica di François Rabelais che è stato frate pure lui e sembra conoscerne bene i vizi e i difetti. Le principali contestazioni che vengono mosse dallo scrittore ai monaci riguardano il loro vivere nell’ozio, la loro inutilità sociale e la loro natura di parassiti. Naturalmente non tutti i frati sono uguali e la critica di Rabelais non cade in generalizzazioni qualunquistiche, ma viene condotta soprattutto per mettere in luce positiva la figura di fra Giovanni, che “lavora e fatica, difende gli oppressi, conforta gli afflitti, aiuta i bisognosi”. Insomma, la satira di Rabelais non è mossa da pregiudizi moralistici, ma da una concezione aperta e cordiale dell’esistenza umana, in cui ognuno deve dare il proprio contributo e impegnarsi badando più alla sostanza delle cose che a sterili punti di principio e a vuoti formalismi.         Nella celebrazione del buon mangiare e del buon bere, che potrebbe essere scambiata per una manifestazione di ottuso materialismo, c’è in realtà l’apprezzamento per le cose piacevoli della vita e Rabelais – che ha letto con grande interesse Le conversazioni a tavola di Martin Lutero – contrappone un atteggiamento di spontanea e generosa umanità all’ipocrisia di tanti falsi asceti. Leggiamo:

LEGERE MULTUM….

François Rabelais, Gargantua e Pantagruel  (1552)

– Come è vero che son cristiano, – disse Eudemone, – mi par di sognare quando vedo un monaco così dabbene, che ci tiene tutti allegri a questo modo. E come accade allora che si cacciano i monaci da tutte le compagnie chiamandoli guastafeste, come le api cacciano i fuchi dai loro alveari? Ignavum fucos pecus, dice Virgilio, a presepibus arcent.

– È anche troppo vero – rispose Gargantua – che la tonaca e la cocolla attirano ogni sorta di obbrobrio, ingiurie e maledizioni dal mondo, così come quel vento, chiamato Cecias, attira le nubi. E la ragion perentoria è che essi inghiottono la merda del mondo, vale a dire i peccati, e come mangiamerda, sono ricacciati nelle lor tane, che sarebbero i loro conventi e monasteri, e separati da ogni civile consorzio, come stan separati i cessi nelle case. Ma se poi pensate al perché una scimmia in una famiglia sia sempre punzecchiata e schernita, capirete perché i monaci sono respinti da tutti, vecchi e giovani: la scimmia non fa guardia alla casa come il cane, non tira l’aratro come il bue, non produce né latte né lana come la pecora, non porta carichi come il cavallo: il suo mestiere è scacazzare e guastare dappertutto, e questo è il motivo per cui non riceve da tutti altro che scherni e busse. Similmente un monaco (voglio dire quei monaci fannulloni) non lavora la terra come il villano, non difende la patria come l’uomo di guerra, non guarisce i malati come il medico, non ammonisce né addottrina la gente come un buon predicatore evangelico o un pedagogo, non apporta cose necessarie comode al mondo come il mercante. Motivo per cui sono da tutti strapazzati e aborriti.

– Va bene, ma – disse Grangola – essi pregano Iddio per noi.

– Niente affatto – rispose Gargantua –. Vero è che molestano tutto il vicinato a forza di sbatacchiare le lor campane.

– Un momento! – disse il frate – una messa, un mattutino, un vespro ben scampanati sono già mezzi detti.

– Borbottano – proseguì Gargantua – una quantità di vite di santi e versetti, senza capirne nulla; snocciolano file di paternostri, lardellati di avemarie da non finir più, senza rendersene conto né pensarci, e questo io lo chiamo prendere in giro il Signore, e non pregare. Ma così li aiuti Iddio come essi pregano per noi, o non per paura di perdere la pagnotta e la zuppa! Tutti i veri cristiani, di qualsiasi condizione, in ogni luogo, in ogni tempo, pregano Iddio, e lo Spirito prega e intercede per loro, e Iddio li accoglie nella sua grazia. E così si comporta qui il nostro buon fra’ Giovanni; e giustamente tutti desiderano la sua compagnia. Non è bigotto, non è sbrindellato, è garbato, allegro, risoluto e di buona compagnia: lavora e fatica, difende gli oppressi, conforta gli afflitti, aiuta i bisognosi, e salva il chiuso del suo monastero.

– Io – disse il frate – faccio molto di più: perché mentre sbrigo in coro i nostri mattutini e le nostre ricorrenze, lavoro intanto a intrecciar corde di balestra, lucido frecce e dardi, fabbrico reti e lacci per prendere i conigli. Non sto mai un momento senza far niente. Ma olà, da bere! da bere qua! E porta anche il frutto: sono castagne del bosco di Estrocz, di quelle che van bene col vino nuovo, e vi faranno compositori di peti, perché voi non siete abituati al mosto. Io per me, Dio m’aiuti, bevo a tutti i fossi, come il cavallo di un esattore!

Ginnasta gli disse:

– Fra’ Giovanni, asciugatevi quel gocciolone che vi pende dal naso.

– Olà! – disse il frate – non sarò mica in pericolo di annegare, se ho già l’acqua fino al naso? Ma no, non c’è d’aver paura. E quare? Quia l’acqua può bene uscirne, ma non ci potrà mai entrare, è troppo ben calafatato di pàmpino: state tranquilli, amici, chi avesse gli stivali d’un tal cuoio, potrebbe andar tutto il giorno a pescar ostriche senza mai sentir l’umido.

– Ma perché – disse Gargantua – il nostro fra’ Giovanni ha un così bel naso?

– Perché – rispose Grangola – così ha voluto Iddio, il quale ci crea in tal forma e a tal scopo, secondo il suo divino arbitrio, come fa un vasaio con le sue brocche.

– Perché – disse Ponocrate – arrivò prima degli altri alla fiera dei nasi, e si prese il più bello e il più grande.

– Alto là! – disse il frate –. Secondo l’autentica filosofia fratesca, la vera ragione è che la mia nutrice aveva le tette morbide, e quando poppavo, il mio naso affondandovi come nel burro aveva tutta la libertà di crescere e levare come la pasta del pane nella madia. Le nutrici con le tette dure fanno i bambini camusi. Ma su, allegria! Ad formam nasi cognoscitur ad te levavi (dalla forma del naso si riconosce come sei stato allevato). No, non mangio mai dolci. Dài, paggio, alla bevanda! Idem, pei rosticcini!

     Sappiamo che senza il movimento della sapienza poetica orfica e senza la tradizione dei riti dionisiaci non ci sarebbe stata la straordinaria cultura ellenica, né la sapienza di Socrate, di Platone e di Aristotele, né La Scuola di Atene e neppure questo Percorso, e allora approfittatene finché c’è.

     Approfittiamo anche delle castagne e del vino nuovo (siamo in linea con la stagione) offerte da fra’ Giovanni, bisogna rifocillarsi perché il viaggio continua ed è ancora lungo e faticoso e speriamo anche istruttivo e (perché no?) divertente.

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Lezione del: 
Venerdì, Novembre 28, 2008